Il post contiene spoiler sul film C’è ancora domani di Paola Cortellesi.
C’è questa donna picchiata dal marito. Il cinema italiano non è in grado di mostrarci una donna realmente picchiata dal marito; per cui, nonostante l’omaggio al neorealismo, nel film di Cortellesi le botte sono a passi di danza. Questa donna, così infelice, ha una possibile via d’uscita: un suo ex fidanzato che la porterebbe via con sé. E lei si decide a prenderla, questa via d’uscita: e lo spettatore pregusta l’happy end. Ma ecco che avviene l’imprevisto, e la via d’uscita si richiude, e pare che non vi sia speranza. Ma giammai. “C’è ancora domani”, annuncia la protagonista. E lo spettatore immagina che domani, per chissà quale misterioso meccanismo – in fondo è la funzione di sceneggiatori e registi, escogitare misteriosi meccanismi – la nostra protagonista riuscirà e ricongiungersi al suo salvatore. Ma no. Domani è il giorno del voto. Del primo voto per le donne.
La via d’uscita per le donne, dice Cortellesi, non è romantica. Non è in un uomo che sostituisce un altro uomo, e può essere che non sia migliore di lui (come dimostra il fidanzato della figlia della protagonista). La via d’uscita è politica. E questo è un bel messaggio, senza alcun dubbio. E qui lo spettatore, spiazzato, applaude.
Sono stato qualche giorno fa in una scuola media per fare orientamento. Appena entrato, gli studenti sono scattati in piedi, e sono rimasti così, rigidi come soldatini, fino a quando ho fatto cenno loro di sedersi. Accorgendomi, peraltro, di aver probabilmente violato qualche tacito protocollo: probabilmente spettava alla docente dare il permesso di sedersi.
Al liceo – ma non in tutti – gli studenti non si alzano all’ingresso del docente. Quando vi arrivano, però, hanno interiorizzato dopo anni e anni di scuola una certa visione del docente: il piccolo caporale della cultura che ha il potere di farti scattare in piedi, di farti sedere, di dirti come devi stare seduto, quando puoi bere o andare in bagno, eccetera. Hanno interiorizzato una concezione onestamente militare della disciplina scolastica. E per molti questo è un bene. Per molti è esattamente questa l’educazione. Imparare quando ci si può alzare, quando si si può sedere, eccetera. Stare nelle regole. Rispettare l’autorità. Contenersi.
Naturalmente non condivido questa concezione dell’educazione. Ritengo che quello dell’educazione sia esattamente il movimento contrario: espandersi, piuttosto che stare in una forma precostituita. Sono convinto che non sia possibile nessuna educazione senza una relazione umana viva, autentica e profonda. E non è evidentemente possibile nessuna relazione viva, autentica e profonda in un contesto ispirato alla disciplina militare.
La Russia ha invaso l’Ucraina. Quelli di Potere al Popolo sono andati in piazza a protestare contro la Nato. Perché è evidente che quel brav’uomo di Putin – che solo un calunniatore come chi scrive può considerare fascista – è stato costretto, col cuore che gli piangeva, ad invadere l’Ucraina per ristabilire un po’ di giustizia internazionale.
Israele sta massacrando i palestinesi dopo il gravissimo attentato del 7 ottobre. Quelli di Potere al Popolo vanno in piazza a bruciare la bandiera di Israele e a protestare contro la Nato, che ci sta sempre bene. E Hamas? Niente, non pervenuta.
Nel primo caso quello che rimane della sinistra comunista in questo Paese appoggia un dittatore palesemente fascista. Nel secondo caso evita – è il meno che si possa dire – di condannare il fascismo di Hamas. Nel comunicato della manifestazione di ieri scrivono:
Stop all’invio di armi per la guerra in Ucraina; riconoscimento dello Stato Palestinese; revoca dell’accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele; via l’Italia dalla Nato; tagliare le spese militari per finanziare le spese sociali; stop al genocidio a Gaza.
Morta la meritocrazia, ritorna il merito. Si potrebbe sintetizzare così La rivoluzione del merito di Luca Ricolfi (Rizzoli, Milano 2023). La meritocrazia è, per Ricolfi, una ideologia, e come ogni ideologia ha i suoi limiti concettuali e le sue contraddizioni pratiche. Cosa c’è dietro il merito? Almeno tre fattori: l’ambiente socio-economico, la dotazione genetica e lo sforzo personale. Ora, è evidente che i primi due fattori non comportano alcun merito reale e derivano dalla semplice fortuna. Quanto al terzo, si può considerare una qualità non diversa dalle altre, e come le altre indipendente da noi. Alcuni hanno una grande forza di volontà, senza che averla si possa considerare ragione di merito (come non lo è essere belli o intelligenti). In una società organizzata secondo l’ideologia meritocratica ognuno riceve dalla società solo ciò che gli spetta in base ai suoi soli meriti; il problema però è come isolare questo merito individuale da fattori come le doti naturali e l’origine sociale. Per neutralizzare quest’ultima, ad esempio, bisognerebbe imporre un’altissima tassa di successione o, addirittura, togliere ai genitori la responsabilità dell’educazione dei figli affinché tutti, educati dallo Stato, abbiano lo stesso livello culturale di partenza. In altri termini, l’ideologia meritocratica o è irrealizzabile o è realizzabile in società dai netti caratteri distopici.
Per Ricolfi si può e si deve rinunciare alla ideologia del merito senza rinunciare al merito stesso. E si può fare – mossa singolare per un sociologo – ricorrendo al senso comune, per il quale il merito è legato soprattutto allo sforzo individuale. Si tratta dunque di intervenire affinché lo sforzo individuale dei capaci, benché poveri, possa consentire loro di emergere. Ricolfi pone l’enfasi su questo sostegno sociale al percorso di elevazione sociale del povero, più che sul contrasto al vantaggio di chi proviene da un ambiente sociale privilegiato, cosa che gli sembra condurre inevitabilmente alla distopia. Continue reading “La controrivoluzione del merito di Luca Ricolfi”
Per me, come per molti (Gandhi tra questi), Il Regno di Dio è in voi di Tolstoj è uno dei libri da portare con sé nelle diverse stagioni della vita, uno di quei libri che invecchiano con noi e che portano i segni di molteplici, spesso sofferte letture.
Invecchiata con me è la vecchia edizione Manca (1991), dalla copertina rossa e un Tolstoj accigliato in copertina, con all’interno il biglietto da visita di Ornella Pompeo Faracovi, che non è più tra noi (che è nella compresenza, direbbe Capitini). Mi pareva che non vi fossero a disposizione altre edizioni e per questo ho pensato di ordinare i miei appunti di (ri)lettura e farne una nuova edizione con mia introduzione. Mi sembrava urgente rimettere in circolazione in un periodo di grave crisi della nonviolenza un libro che è oggi più attuale che mai, per l’analisi implacabile, impietosa del sistema di dominio politico-religioso della Russia zarista, che non è troppo diverso dal sistema fascista della Russia di Putin.
Il libro è ora disponibile in cartaceo e digitale nell’ambito del mio progetto libertario endehors. Ho detto che credevo che l’ultima edizione fosse quella di Manca del ’91. Vedo che è uscita intanto anche una edizione, sia cartacea che elettronica, presso l’editore goWare, con introduzione di Stefano Garzonio e uno scritto di Giuliano Procacci. Scegliete l’edizione che preferite: ma leggetelo.
Per qualcuno è solo uno sgradevole ricordo d’infanzia. Per altri rappresenta ancora una minaccia, un tassello nel quadro depressivo delle feste comandate. Non so chi abbia inventato la tombola. Un nemico dell’umanità, immagino. Qualcuno che, infastidito da qualunque espressione di vivacità umana, si sia prefisso lo scopo di instaurare uno stato di placida noia, di quieta indifferenza, di apatico trasognamento; una esperienza priva anche della sfumatura mistica, o pseudo-mistica, del rosario.
Succede, a scuola, di accorgersi che si sta facendo – non ce la faccio a scrivere: giocando a – tombola. D’un colpo fissi lo sguardo su uno studente, poi sulla sua compagna di banco, ed ecco: l’espressione vuota della catatonia da tombola. Ma non è, dirà qualcuno, semplicemente la condizione normale a scuola? La scuola non è una disperante, accanita, pluriennale tombola?
Per quanto sia molto critico verso la scuola, non me la sento di dirlo. Non tutto è tombola. Accadono momenti di conoscenza, perfino a scuola. Accadono momenti di comunicazione profonda. Perfino di educazione comune. E tuttavia la tombola c’è. E tutto spinge verso di essa, a cominciare dalla folle asetticità – no: squallore – dell’ambiente, dal bianco dei muri, appena richiamato a qualche utilità dalla scritta “Giulia ti amo”. Continue reading “La tombola a scuola (e Manzoni)”
Malena ha pubblicato un libro – Pura. Il sesso come liberazione (Mondadori) – in cui racconta il percorso umano che l’ha portata da un piccolo paesino pugliese alla ribalta nazionale come pornostar. Il fatto che sia stata invitata a presentarlo a Manfredonia durante la prima edizione di un premio letterario ha suscitato reazioni sdegnate in quel paese cattolicissimo, tra le quali risaltano in particolare quelle del filosofo cattolico Michele Illiceto, che in un intervento dal titolo “Manfredonia, una città pornografica?” tra l’altro scrive:
E prego l’Amministrazione comunale di essere almeno coerente e onesta con se stessa. Il 31 agosto non andate dietro al sacro quadro della Madonna di Siponto, tutta pura e casta, e la cui purezza è tutt’altro rispetto a quella proposta dalla pornostar Malena.
In un intervento successivo Illiceto torna sulla ragioni filosofiche della sua dura presa di posizione, rispondendo alle obiezioni di un suo ex-studente. E lo fa ricorrendo a Kant, che per una curiosa svista definisce “agnostico”, e la cui etica considera pienamente laica. La questione dunque è: il modello di sessualità libera proposto da Malena nel suo libro è universalizzabile? La risposta per Illiceto è scontata: no. Perché? Se la risposta fosse sì, afferma, “allora, perché non insegnarla a scuola come materia di educazione sessuale, convinti che il sesso pornografico sia una forma di liberazione da tutti i tabù e i divieti.” Continue reading “Una città pornografica”
Vuol dire porsi la domanda, in primo luogo. E vuol dire porsela insieme: ai propri studenti e ai propri colleghi. Cosa facciamo tutti, chiusi in un’aula, un giorno dopo l’altro? Perché veniamo qui? Perché stare in un’aula è meglio che star fuori a fare altro? La scuola è immediatamente percepita come una cosa buona. Dove non c’è si esige che vi sia. Dove c’è delinquenza, dove c’è mafia, si propone di fare più scuola. “La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”, diceva Gesualdo Bufalino. La scuola è un bene attraverso il quale ci si propone di combattere tutti o quasi i mali sociali. Quando si mette piede in un’aula scolastica le cose appaiono in tutt’altra luce. Non c’è un mondo in ansiosa attesa della redenzione attraverso l’istruzione. C’è invece spesso un mondo che si ribella all’istruzione, rifiuta il ruolo del docente e non riconosce l’istituzione. Ed è quello che accade nelle aree cosiddette a rischio, nelle periferie, nei luoghi in cui si fanno più manifeste, e dolorose, le contraddizioni di una società nella quale le disuguaglianze sono venute crescendo negli anni, e non per qualche fatalità, ma per una precisa scelta politica. Ma queste, certo, sono situazioni estreme. La normalità è un’altra. La normalità è trovare classi nelle quali gli studenti sono scolarizzati: riconoscono l’importanza della scuola, dello studio, dell’affermazione sociale, e dunque il ruolo del docente. Il quale però, se è appena attento, si accorgerà che l’istituzione piega e comprime spesso in quella condizione che Tolstoj chiamava “stato scolastico dell’anima” o, nella migliore delle ipotesi, fa adagiare lo studente in una sorta di meccanicismo che lo porta, da bravo operaio, a fare tutto ciò che il sistema richiede per conquistarsi la paga del voto. Insomma: insegnare vuol dire fare i conti con la mancanza di senso. È evidente che la scuola, nonostante le aspettative che la società ancora ripone in essa, è una istituzione in crisi. Ma non lo è per qualche deviazione sociale che ci ha portati a non riconoscere più le buone cose di un tempo, come l’autorità del docente e il valore dello studio. Lo è perché è una istituzione che sconta antiche fragilità strutturali: prima fra tutte quella che le viene dall’essere fondata su relazioni verticali, e dunque inautentiche. Insegnare con qualche consapevolezza vuol dire, oggi, sapersi fermare. Rendersi conto che il nonsenso, non tematizzato, cresce giorno dopo giorno e sfocia in un malessere sempre più profondo e sempre più difficile da affrontare. Un malessere che vediamo sui volti e nei corpi dei nostri studenti, ma che aleggia anche nelle sale docenti, si insinua nei discorsi preconfezionati tra colleghi, sboccia in un sospiro improvviso, eppure da tutti immediatamente compreso. Come in una relazione malata è importante fermarsi a parlare della relazione, così a scuola è importante oggi fare metascuola: ragionare – ripeto: con gli studenti e i docenti; meglio ancora se tutti insieme – sulla scuola. Pensarla nuovamente insieme. Re-istituirla.
Nell’estate del 2014 qualcuno ebbe l’infelice idea di postare su YouTube un video girato nella caserma “Bandini” di Siena, nel quale i parà della Folgore cantavano un certo inno che fa, tra l’altro, “Bombe a mano e carezze col pugnal”, esibendosi anche nel saluto romano. Libero riportava così la notizia:
Si sono ritrovati fuori dall’orario di servizio all’interno del piazzale della caserma “Bandini” di Siena, e si sono messi a cantare l’inno fascista “Se non ci conoscete“ con tanto di saluto romano facendosi riprendere da un telefonino. Ovviamente il video è finito su YouTube e poi è stato condiviso centinaia di volte sui social network provocando una marea di polemiche. Tanto che la bravata dei trenta Parà della Folgore è diventata un caso. Un caso sul quale lo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano ha aperto un’inchiesta interna che arriverà poi alla Procura Militare o civile. Alcuni passi del testo cantato: “Bandiere rosse per pulirsi il culo”, “botte in quantità”, “bombe a man e carezze col pugnal” e sul finale il saluto “A noi!”. Tutti chiari riferimenti al Ventennio che non sono sfuggiti ai vertici militari che non sono disposti a passare sopra.
Ho sentito da allora, a Siena, attentissime esegesi di quell’inno, in cui mi è capitato di imbattermi anche in contesti ben diversi da una caserma; esegesi che dicevano che no, quell’inno non ha nulla di fascista, si tratta solo di una virile esaltazione dello spirito di corpo, o qualcosa del genere. Esegesi che devono aver avuto qualche efficacia, se cinque anni dopo, il 21 marzo 2019, il sindaco De Mossi ha ritenuto opportuno, anzi doveroso concedere ai parà della Folgore la cittadinanza onoraria di Siena. In quella occasione l’assessore alla sicurezza dichiarò:
Siete a rappresentare un’eccellenza dell’esercito italiano; un esempio da seguire per le giovani generazioni, per i valori e i comportamenti che trasmettete. La Folgore ha al primo posto il senso del dovere, il servizio, servire l’Italia, sempre tenendo presente lo spirito di corpo, l’essere comunità.
Evidentemente quella canzoncina non era nemmeno una bravata, come scriveva Libero. Perché forse anche una semplice bravata avrebbe suggerito di evitare un passo importante come la concessione della cittadinanza onoraria. Continue reading “La Folgore e lo spirito di corpo”
La scuola è una istituzione: che vuol dire, tra l’altro, un ambiente in cui si entra e si trova una routine già pronta. I docenti insegnano, gli studenti studiano. Nessuno mette in discussione come si insegna e come si studia.
Questa proposta, rivolta alla mia quarta del prossimo anno, prevede che all’inizio dell’anno scolastico ci si fermi per decidere insieme cosa studiare, come farlo e come valutare. Che si progetti insieme il lavoro, stabilendo insieme metodi, contenuti, pratiche.
Questa è una bozza. Ogni contributo critico è ben accetto.
Consideriamo le due affermazioni. Partiamo dalla seconda: la libertà di espressione non deve mai essere usata come una scusa per disprezzare gli altri? Potrei essere d’accordo, ma non sono sicuro che papa Francesco abbia il diritto di fare una simile affermazione. L’istituzione di cui è il capo gode della massima libertà d’espressione, che usa per offendere e disprezzare una molteplicità di soggetti. Io convivo da tredici anni con una donna, che è anche la madre di mio figlio. Di noi il Catechismo della Chiesa di cui papa Francesco è capo dice quanto segue (par. 2390):
Si ha una libera unione quando l’uomo e la donna rifiutano di dare una forma giuridica e pubblica a un legame che implica l’intimità sessuale. L’espressione è fallace: che senso può avere una unione in cui le persone non si impegnano l’una nei confronti dell’altra, e manifestano in tal modo una mancanza di fiducia nell’altro, in se stessi o nell’avvenire? L’espressione abbraccia situazioni diverse: concubinato, rifiuto del matrimonio come tale, incapacità di legarsi con impegni a lungo termine. Tutte queste situazioni costituiscono un’offesa alla dignità del matrimonio; distruggono l’idea stessa della famiglia; indeboliscono il senso della fedeltà. Sono contrarie alla legge morale: l’atto sessuale deve avere posto esclusivamente nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un peccato grave ed esclude dalla comunione sacramentale.
Dunque per quest’uomo e l’istituzione che rappresenta io e la mia compagna siamo ancora, nel 2023, concubini (nel 1956 i coniugi Bellandi denunciarono il vescovo di Prato per averli definiti “pubblici peccatori e concubini”, dal momento che si erano sposati solo in Comune; il vescovo fu assolto), peccatori gravi, contrari alla legge morale. Non solo, per la Chiesa di cui papa Francesco è capo non costituiamo una vera famiglia e non abbiamo fiducia l’uno nell’altra e la nostra vita insieme rappresenta perfino una offesa alla famiglia. Non occorre sottolineare quanto tutto ciò sia offensivo e calunnioso. Ma non pretendo che la Chiesa cancelli questa parole. Credo nella libertà di espressione, con pochissimi limiti (razzismo, apologia del fascismo e poco altro).
Veniamo alla prima affermazione. Qualsiasi libro considerato sacro deve essere rispettato per rispetto dei suoi credenti. Questo vuol dire che i libri non sono tutti uguali e non sono tutti ugualmente degni di rispetto. I dialoghi di Platone, ad esempio, contano meno della Bibbia, perché non sono religiosi ed hanno solo lettori, non credenti. Il valore di un libro non è dato dal suo contenuto, ma dal suo status religioso. Ma questo vuol dire in generale attribuire all’esperienza religiosa un valore e un diritto al rispetto superiori riguardo ad altre esperienze. Se si considera giusta questa affermazione un credente potrà bruciare le opere di Voltaire o di Meslier (o magari di Onfray), mentre un non credente non potrà bruciare la Bibbia; perché le opere dell’ateismo e del libero pensiero hanno solo lettori, mentre i testi sacri hanno credenti. Continue reading “Bruciare i libri sacri”
Prendete il manuale di filosofia. Apritelo. Toccate la carta. Saggiatene la consistenza. Si chiama grammatura. Ora fate una ricerca su quella carta. Che tipo di carta è, dove viene prodotta e come e quanto guadagnano gli operai che la producono.
Tornate al libro di testo. Guardate nel colophon dove è stato stampato. Non sapete cos’è un colophon? Ve lo dico io. Dopo però chiamate la tipografia e chiedete come viene stampato il libro. Le tecniche, i diversi compiti e quanto guadagnano gli operai.
Poi tornate al libro. Vedete che c’è un editore. Cercate informazioni sull’editore. Poi contattatelo. Chiedete come funziona il lavoro di un editore, chi fa cosa e quanto guadagna.
Come tutti i docenti in questo periodo sono alle prese, oltre che con il complesso lavoro di valutazione finale, con la compilazione di un bel po’ di documenti, prime fra tutti le relazioni finali riguardanti il lavoro svolto con gli studenti. Documenti importanti, che servono a valutare il proprio lavoro, ad interrogarsi su cosa ha funzionato e cosa no, e su come si può migliorare, ma che per lo più vengono stilati seguendo modelli che richiedono il ricorso a crocette, mentre le parti testuali vengono risolte ricorrendo a formule più o meno stereotipate – più o meno copia-incollate – in puro didattichese.
Tra le altre carte quest’anno ho dovuto occuparmi di quelle relative alla mia attività di tutor di una docente immessa in ruolo. Ho osservato alcune sue lezioni, lei ha seguito le mie, e qualche lezione l’abbiamo fatta insieme. Alla fine ho scritto una relazione il più possibile onesta. Ma con il Signor Miur naturalmente non è possibile cavarsela così a buon mercato. Ed ecco dunque la meravigliosa scheda di osservazione approntata dal Ministero. Dieci pagine di crocette per ogni singola osservazione. Dieci pagine di crocette che, a volerle compilare in modo onesto, manderebbero in crisi chiunque. Perché, per cominciare con le Informazioni di contesto, cos’è uno studente straniero? Da cosa distinguo uno studente straniero da uno italiano? Lo studente filippino adottato da una famiglia italiana è straniero o italiano? La studentessa dalla pelle scura, ma nata in Italia, è straniera o italiana? E soprattutto: perché me lo chiedi? Perché dovrebbe avere qualsiasi rilevanza? Perché accomunare gli studenti stranieri agli studenti disabili?
Una persona ferisce con un coltello – un’arma bianca, scrive un articolo che riprende l’italiano disarmante dei rapporti di polizia – un’altra persona. Ferite non gravi, roba da codice giallo. Una non notizia. Diventa notizia perché la persona ferita è una professoressa e l’aggressore è uno studente. E non diventa solo una notizia. Diventa una notizia in base alla quale è possibile trarre conclusioni generali sugli studenti di oggi, le loro famiglie e chissà quanto altro.
Il ministro si è affrettato a dire che nelle scuole serve lo psicologo. Una delle cose di cui fatico a capacitarmi è la fiducia che un Paese sfiduciato come il nostro ha ancora negli psicologi. Non ci fidiamo dei politici, non ci fidiamo dei docenti, non ci fidiamo dei preti, ma siamo assolutamente certi che persone che spesso si sono formate su concezioni non meno fantasiose di quelle che si insegnano in seminario possano risolvere tutto: sistemare la maglia strappata della nostra società, mettere a posto i cocci della nostra identità, ripescare la voglia di vivere dal baratro delle nostre quotidianità. Ed ecco dunque uno di loro – uno psicanalista!- dichiarare immancabilmente a Repubblica che “Siamo al corto circuito tra una scuola sempre più fragile e una famiglia che giustifica tutto”. Nell’occhiello si può leggere il corollario di questo luminoso teorema: “L’incapacità dei nostri ragazzi di elaborare le sconfitte può sfociare nella violenza”.
Un tweet che con ogni probabilità non sarà rimosso, nonostante le molte prevedibili richiese. Perché le offese che vengono rimosse, su Twitter come su altri social, riguardano soprattutto (cito dal form di segnalazione di Twitter alla voce Attacchi per via della sua identità): “Offese, utilizzo intenzionale di un genere incorretto, stereotipi razziali o sessisti, incitamento di terzi a molestare oppure immagini d’odio”. Riguardano, cioè, soprattutto l’identità sessuale e razziale.
La morte è l’esperienza più nostra, più propria. O meglio: non la morte in sé, sulla quale in fondo aveva ragione Epicuro: quando c’è, noi non ci siamo. Ma la mortalità. L’esperienza di avere la morte come orizzonte vicino. Colui che sa di essere condannato a morte vive una esperienza che lo separa in modo irrimediabile da chiunque altro. Non è un caso che per filosofi come Michelstaedter e Heidegger quella esperienza sia la porta d’accesso alla autenticità.
I miei studenti di terza si sono classificati secondi alla finale nazionale del torneo “Dire e contraddire” del Consiglio Nazionale Forense. Un torneo di Debate nel quale si trattava di sostenere una tesi contro l’avversario, indipendentemente dal fatto di ritenerla vera o falsa.
Ho scritto qui cosa penso del Debate, e non tornerò sul tema. Qualcosa voglio dire, però, sul tema di discussione della finale. Si trattava di essere a favore o contrari riguardo alla seguente affermazione di Nelson Mandela:
L’uomo audace non è colui che non ha paura, ma quello che vince la paura.
Ai miei studenti toccava il compito ingrato di essere contrari a questa affermazione. Ingrato, perché è ben evidente che la paura è una cosa negativa, una passione triste, e che vincerla è gran cosa. E c’è tutto un esercito di grandi uomini e di grandi donne da chiamare come testimoni: lo stesso Mandela, Falcone e Borsellino, Franca Viola: eccetera.
Siamo tutti d’accordo che vincere la paura sia una gran cosa. Ma l’audacia? Bisogna vincere la paura nella direzione dell’audacia? Cos’è l’audacia? Audere è compiere un’azione azzardata, con una sfumatura di tracotanza, di hybris. È un termine che appartiene al linguaggio militare; anzi: alla retorica militare. Memento audere sempre è motto dannunziano, e l’acronimo era un omaggio al motoscafo armato silurante (MAS). È con la retorica dell’audacia, dell’osare, dell’impresa azzardata ma eroica che da secoli si mandano i soldati a morire in nome di una causa più grande. E certo, bisogna vincere la paura. Dove non arriva la retorica, funzionano le droghe, di cui s’è fatto largo uso durante la seconda guerra mondiale.
Dopo aver letto il mio post precedente un amico mi ha chiesto su quale base si possano credere cose simili. Come sappiamo che il fondo della realtà è l’Uno? Come sappiamo che dietro il manifestarsi delle cose c’è la Natura? E come sappiamo che dietro il nostro io c’è lo Spirito?
Il Samkhya, il più antico sistema filosofico indiano, risponde che lo sappiamo attraverso la conoscenza analitica del reale. Il testo fondante della scuola, il Samkhyakarika di Ishvarakrishna, si sofferma sul valore dell’inferenza, che insieme alla testimonianza dei sensi e alla rivelazione degna di fede di consente di conoscere l’essenza della realtà. Non sono sicuro però della solidità di tutti i passaggi logici – così come non sono sicuro della solidità dei passaggi logici che portano Platone ad affermare l’esistenza dell’Idea come realtà iperurania. Continue reading “Cosa resta della Conoscenza”
L0027331 MS Indic 37, Isa upanisad. Credit: Wellcome Library, London. Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0
Quand’ero adolescente raggiunsi la Conoscenza. Bastano poche parole per dirla. Noi non siamo il nostro io e la nostra mente, così come non siamo il nostro corpo. C’è un fondo, un al di là di quello che crediamo di essere, che è la nostra natura autentica. Attingere questo al di là è lo scopo della vita. E questo al di là è, al tempo stesso, il fondo dell’essere, che potremmo chiamare Dio. E questo fondo è Uno. La profonda unità di tutto. Limai una medaglietta, vi scrissi “Tutto è uno” e me la misi al collo. Non avevo altro da sapere.
Giunsi a questa Conoscenza dopo aver letto un po’ di testi di filosofia indiana. Stabilirmi, almeno con l’immaginazione, in questo altrove da me mi dava un senso di liberazione che rendeva quasi tollerabile il tempo sprecato a vegetare tra i banchi. Ma, anche, mi isolava terribilmente. Perché io ero quello che sapeva, gli altri vagavano nell’ignoranza. Mi rese, insomma, insopportabilmente arrogante.
Questo blog esiste ormai da molti anni ed è riuscito nel tempo a mantenere un numero di visitatori meravigliosamente basso: in media meno di dieci al giorno. Uno di questi sparuti visitatori qualche giorno fa mi ha fatto notare che il mio blog non è più quello di una volta: troppe cose tecniche e poca poesia. Il nostro lettore è deluso, e questo vuol dire che probabilmente il numero di visitatori diminuirà ulteriormente. Attendo con ansia il giorno in cui il contatore dei visitatori sarà stabile sullo zero. E il mio blog avrà raggiunto la sua entelechia.
Intanto, forte di questa esperienza, sento di poter offrire una guida minima alla creazione di un blog di insuccesso. Continue reading “Come fare un blog di insuccesso”
Non ho mai amato andare dal barbiere. Vuol dire stare davanti a uno specchio per molto tempo, e per me gli specchi sono una tortura. Da ragazzino attenuavo l’ansia andando da Franco, il barbiere all’angolo, che era quasi uno di famiglia. E quasi uno di famiglia era Adolfo, il suo garzone di bottega. Abitava proprio di fronte a casa mia ed eravamo cresciuti insieme.
Adolfo è morto a vent’anni. La sua fidanzatina gli riferì un giorno che un tale l’aveva infastidita. Lui fissò un appuntamento con il tale e, come chiedeva la cultura del luogo, si presero a botte. Fu colpito da un pugno in un occhio. Perse i sensi. Morì qualche ora dopo in ospedale. Per quello che ne so sua madre – sono passati decenni – veste ancora di nero.
A Siena una sentenza che i giornali definiscono storica ha assolto ventisette contradaioli per la rissa in piazza alla fine del Palio di agosto del 2015; altri tre contradaioli sono stati condannati a multe dai seicento euro in giù. Non è possibile conoscere la motivazione della sentenza, che sarà depositata tra novanta giorni. Ma intanto i senesi – o meglio: i contradaioli – esultano. Sicuri che quella sentenza avalli il loro teorema: quelle in piazza durante il palio non sono volgari risse, ma nobilissimi fronteggiamenti, che fanno parte della cultura e dell’identità senese, e che come tali sono incensurabili; e processare dei contradaioli che si picchiano vuol dire, pertanto, attaccare Siena. Continue reading “Siena e i fronteggiamenti”
Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.
Scrive Cognetti:
Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)
La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).
Peppe Sini replica al mio La nonviolenza si è fermata, su “MicroMega”, protestando. Nel mio articolo ho scritto che lui, Sini, nell’intervento che ho preso in esame e da cui sono partito per ragionare della nonviolenza italiana, “evita accuratamente di parlare di Putin”. No, protesta Sini, questo non è vero. Perché già nella terza riga ha scritto che occorre “continuare a denunciare la criminale follia di chi la guerra ha scatenato”. Il problema è, appunto, che parla di chi la guerra ha scatenato, ma non fa il nome di Putin. Come se solo nominarlo fosse difficile. Mentre poco dopo dice:
Con l’azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di mettere il veto ad ogni iniziativa della Nato, l’organizzazione terrorista e stragista di cui i nostri paesi tragicamente fanno parte: paralizzare immediatamente i criminali della Nato occorre, e successivamente procedere allo scioglimento della scellerata organizzazione.
La Nato dunque è scellerata, terrorista e stragista. Perché mai un lettore non dovrebbe pensare che è questa organizzazione criminale, nell’analisi di Sini, ad aver scatenato la guerra?
Su MicroMega intervengo ancora sulle posizioni della nonviolenza italiana di fronte alla guerra in Ucraina. E mi chiedo intanto che fare della nonviolenza. Che fare, cioè, di oltre vent’anni di studi e, forse, di passione.
La mia porta d’accesso a ciò che chiamiamo nonviolenza è stato Aldo Capitini. Era l’inizio degli anni Novanta. Trovai per la prima volta il suo nome in un numero di una rivista dedicato agli irregolari della filosofia italiana in cui cercavo un articolo su Giuseppe Rensi. Filosoficamente, mi pare che Capitini cominci in effetti dove finisce Rensi. Il filosofo genovese giunge al dramma del contrasto tra la nostra urgenza morale e l’evidenza di un mondo che non è che atomi e vuoto; di qui la semplice constatazione del suo Testamento filosofico (“Atomi e vuoto e il Divino in me”), ma anche l’ipotesi azzardata della Morale come pazzia: se c’è qualcosa là fuori oltre agli atomi e al vuoto, allora la mia urgenza morale non sarà stata follia. Una conclusione che mi sembrò – e mi sembra – un passo indietro rispetto alla posizione, atea eppure spirituale, delle Lettere spirituali: posizione di attraversamento dell’ego, che è la costante del pensiero di Rensi. Capitini risolve quel contrasto nell’orizzonte di una filosofia pratica. Non è tutto atomi e vuoto. C’è dell’altro: c’è la compresenza, un mondo in cui ogni vita resta, in eterna, affratellata ad ogni altra vita. Ma – è qui l’originalità di Capitini, ma anche ciò che l’ha condannato all’incomprensione – questo mondo propriamente non esiste. Non è tra le cose verificabili, semplicemente presenti; non è una realtà metafisica, un mondo al di sopra del nostro in cui credere; e non è nemmeno una dimensione futura, un Regno che certamente si realizzerà. È il mondo al quale qui e ora apparteniamo con la scelta morale di non uccidere, anzi con l’atto rivoluzionario di ribellarci alla logica stessa del reale, che è quella della distruzione universale.
La bizzarra – no: disgustosa – uscita del Dalai Lama, che chiede a un bambino di succhiargli la lingua dopo averlo baciato, può apparire come l’evidente manifestazione del decadimento mentale di un uomo in età particolarmente avanzata o la dimostrazione che una certa corruzione morale esiste anche nel buddhismo, che da noi, chissà perché, gode di buona stampa. Non così per i fedeli italiani, che essendo dei convertiti hanno, dei convertiti, lo zelo e il fanatismo (ah, Papini!). Uno di questi spiegava su un social che il Dalai Lama, bontà sua, è come un bambino, e quel gesto va dunque considerato nulla più che un gioco infantile. Infantile: e dunque innocente. Forse perfino poetico.
M’è tornato in mente, leggendo questa libera interpretazione, un passo del Vangelo di Sri Ramakrishna:
I segni di chi ha visto Dio sono questi: Il suo comportamento è come quello di un bambino. A volte appare come uno spirito impuro. (Il Vangelo di Sri Ramakrishna, Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 122.)
Il nostro Dalai Lama, benché privo di Dio, non sarà per caso uno di questi santi folli, di questi uomini che, avendo oltrepassato l’io, si sono lasciati alle spalle la distinzione tra il bene e il male? Può essere. Ma a farne le spese è stato un bambino, e questo, per noi che siamo al di qua, è un male.
Su MicroMega Emilio Carnevali, docente di economia alla Northumbria University, ha avviato una discussione sulla necessità di introdurre in tutte le scuole superiori italiane l’insegnamento di Lineamenti di economia e finanza quale strumento indispensabile per esercitare una vera cittadinanza democratica. Carlo Scognamiglio è intervenuto presentando alcune perplessità. Sostenendo pienamente la proposta di Carnevali, io invece ho ragionato un po’ sulle resistenza verso una simile proposta, che va ricondotta, mi pare, a tre limiti culturali della scuola italiana: l’opposizione tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico; la contrapposizione ulteriore, legata alla prima, tra saperi disinteressati e saperi pratici, in quanto tali inferiori; e la contrapposizione, quasi religiosa, tra la scuola e il mondo. Questi tre pregiudizi rendono improbabile una apertura della scuola italiana a un campo del sapere che appare al tempo stesso tecnico-scientifico, pratico e mondano.
Il De Rerum Natura di Lucrezio tradotto da Milo De Angelis (Mondadori, Milano 2022), uno dei maggiori poeti italiani, era da tempo nell’elenco dei libri da leggere. È arrivato ora il suo tempo, insieme alla traduzione dei primi quattro libri del poema di Roberto Herlitzka (La nave di Tesero, Milano 2019). Quest’ultima è un’operazione singolare: un Lucrezio non solo tradotto in endecasillabi (come nella classica traduzione di Alessandro Marchetti), ma reso con un linguaggio anacronistico, bisognoso a sua volte, si direbbe, di traduzione. Per averne un saggio:
Ora io debbo precorrere a quella
che fingne altrui percossa in tal dettame
anzi che da ’l mio vero ti disvella. (I, 502-504)
La traduzione di De Angelis è agli antipodi. La sua lingua è chiarissima, elegante, piana. Lucrezio è reso leggibile come capita in poche altre edizioni italiane. Ma appare una traduzione più in prosa che in poesia. I versi sono talmente lunghi, da costringere il povero impaginatore della Mondadori a fare salti mortali con la crenatura. Continue reading “Due libri di Milo De Angelis”
“La scuola è antifascista”, certo. Ma orienta le donne verso alcuni indirizzi e i poveri verso altri, e ritiene che alcuni saperi siano più importanti di altri. E questa è l’eredità del fascismo.
Qualche settimana fa in una mia classe abbiamo fatto un seminario sulla libertà. Cos’è la libertà? Cosa vuol dire essere liberi? Abbiamo cominciato con molte certezze, ci siamo lasciati con tanti dubbi. La libertà di movimento, ad esempio, è una libertà fondamentale, e non si può considerare libera una persona cui sia negata. Ma in un regime chi è più libero, chi ha libertà di movimento perché si adegua o chi finisce in galera perché combatte il regime? Chi era più libero, Gramsci in carcere o uno dei tanti italiani che avevano la tessera del PNF per necessità familiare? È una domanda retorica. Meno retorica è un’altra domanda. La libertà di fare del male è o non è una libertà? Va difesa? Sì può negare la libertà per garantire la sicurezza? Ma poi, alla fine, siamo in grado di dare davvero una definizione di libertà?
Ancora una volta si preleva il dna ad una ragazza rom nell’ambito delle indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone. Sulla base di un inaccettabile pregiudizio.
Denisa e Denise sono due nomi molto simili. Questa è un’evidenza. I Rom rubano i bambini. Anche questa è un’evidenza. Sulla base di queste due evidenze gli inquirenti che indagano sulla scomparsa di Denise Pipitone stanno seguendo da anni la pista rom.
Nel 2021 venne sottoposta al test del dna una ragazza rom di nome, appunto, Denisa, che viveva in un campo in Calabria. Il risultato fu negativo. Ora hanno scovato un’altra Denisa, questa volta in un campo di Roma, e l’hanno ugualmente sottoposta a test del dna. I cui risultati sono in grado di anticipare con assoluta certezza: negativi.
Un anno dopo l’inizio della guerra in Ucraina sono evidenti la catastrofe della Russia e la bancarotta del pacifismo.
Un anno di guerra contro l’Ucraina. Trecentosessantacinque giorni di stragi, distruzioni, sequestri di bambini ed altre atrocità. Un anno insanguinato per l’Europa e il mondo. Più di un secolo indietro per la Russia. Perché il danno che criminali come Putin e Kirill stanno facendo alla Russia è di gran lunga maggiore del danno che stanno facendo all’Ucraina.
Più di cento anni indietro. L’impressione è che la Russia, non riuscendo a fare i conti con il suo passato comunista, abbia deciso semplicemente di rimuoverlo. E di tornare, dunque, a quello che c’era prima. Seguendo il dibattito attuale in Russia – che ha, soprattutto nelle televisioni, tratti di vera e propria follia di massa – l’impressione è di ritrovarsi catapultati nella Russia di Dostoevskij. E di sentir parlare il suo idiota, quel principe Myskin che affermava: ’Bisogna che il nostro Cristo risplenda a difesa contro l’Occidente, un Cristo che noi abbiamo conservato e che loro non conoscono!” Il Cristianesimo ortodosso, la santità e la purezza della Russia contrapposti spiritualmente alla corruzione che viene dall’Occidente. Una spiritualità che naturalmente è destinata a degenerare nella più atroce violenza. Continue reading “Un anno di guerra”