In anteprima un ricordo di Gianfranco Zavalloni che uscirà nel prossimo numero di Educazione Democratica (gennaio 2013).
Gianfranco Zavalloni, scomparso a soli cinquantaquattro anni per un male incurabile lo scorso mese di agosto, è stato uno dei più validi educatori del nostro paese. Dirigente scolastico, ma soprattutto maestro di scuola materna; e ancora: disegnatore, calligrafo, attore, creatore di burattini, animatore dell’Ecoistituto di Cesena, straordinario sperimentatore delle vie di una educazione nonviolenta, ecologica, creativa. Mentre la scuola si avvia a diventare digitale (pur con le solite contraddizioni del nostro paese: si montano le lavagne elettroniche in aule fatiscenti, in edifici che spesso non rispettano i più elementari criteri di sicurezza), Zavalloni ha praticato e teorizzato una scuola analogica: lenta, non competitiva, alla riscoperta della manualità e del contatto con la terra.
In una comunicazione mandata ad un convegno al quale non aveva potuto partecipare raccontava così, con la sua straordinaria umanità, la sua malattia:
Amo le fiabe, amo i burattini. Nei 33 anni di esperienza da educatore, maestro e dirigente scolastico la passione per fiabe e burattini è stata una costante. E anche oggi, dall’alto di un boccascena del teatro dei burattini, se chiedessi a bimbi e bimbe qual è la storia che desiderano vedere, il 99% delle risposte (ne sono sicuro) sarebbe «Cappuccetto Rosso!!». Evidentemente c’è qualcosa di universale. C’è un momento della fiaba (nella mia versione burattinesca) che mi affascina particolarmente. È il momento in cui il lupo, dopo aver divorato la nonna e cappuccetto rosso, si concede un meritato riposo. A quel punto il cacciatore, dopo aver aperto la pancia al lupo e fatte uscire le malcapitate, con l’aiuto dei bambini riempie di sassi la pancia del lupo per poi ricucirla. Al risveglio il lupo, con la pancia appesantita dai sassi, viene investito dal vociare dei bambini che gli evidenziano la realtà: la pancia è piena di sassi. Ma lui non crede a queste «frottole» e pensa che sia una semplice indigestione, pesantezza di carne umana, ingerita voracemente senza masticare.
Ebbene quel lupo, il 18 ottobre scorso, improvvisamente, ero io. Pensando ad una possibile indigestione, dopo una notte passata con un doloroso mal di pancia, mi sono recato ad uno dei pronto soccorso di Belo Horizonte. E dopo diverse ore, con la pancia piena d’acqua per favorire l’esame, mi sono sottoposto ad una ecografia. L’esito è stato immediato: qui ci sono un po’ di sassi da togliere, ha sentenziato il medico chirurgo. Così, come il lupo contesta i bimbi e le bimbe rispondendo loro «…non è vero, non è vero, state scherzando, mi prendete in giro!!», così anch’io non volevo crederci. E dentro di me pensavo: «si sono sbagliati, la diagnosi è inesatta!». Ma la realtà a volte è cruda. Dopo poco più di un mese, il 2 dicembre, sono entrato (come il lupo poi entra nel pozzo per bere) in una sala operatoria dell’Ospedale S. Orsola di Bologna. Tre chirurghi e una schiera di collaboratori hanno lavorato per 9 ore e mezza per togliere dalla mia pancia tutti i sassi grossi (un rene, il surrene, una enorme massa tumorale, un trombo formatosi nella vena cava…). Sono restati tanti piccoli sassolini sparsi qua e là. Ma questa è già la storia di Pollicino oppure quella di Hansel e Gretel.
La morte è uno dei temi de La pedagogia della lumaca, l’opera più importante di Zavalloni: ed è una cosa che può sorprendere, in un libro che è una esaltazione della gioia di educare, che viene dalla gioia di vivere, solo se non si considerano le sue origini contadine, anzi il suo esser rimasto fino alla fine un uomo della campagna. Per la civiltà contadina la morte non è una minaccia da allontanare per affermare la vita, ma è un momento della vita stessa, fa parte della natura e dei suoi cicli. Zavalloni ricordava con approvazione la proposta di Hundertwasser, il grande pittore, architetto ed ecologista austriaco, di seppellire i defunti sotto ad un albero, che crescendo si nutra di essi, facendoli vivere in sé. E’ l’unica sepoltura che rispetta fino in fondo la legge della natura, che vuole che tutti gli esseri siano alimenti per altre vite.
Non so se la sua sepoltura sia avvenuta in questo modo; mi sembra improbabile. Ma in molti modi chi non è più può continuare ad essere nutrimento. Nel caso di Zavalloni, restano le sue opere, il suo esempio, le sue molteplici iniziative. L’albero è stato piantato, ed è saldo.
Oltre alle origini contadine, hanno contribuito a formare l’uomo e l’educatore Zavalloni le assidue letture della giovinezza. Accanto a don Milani troviamo gli anarchici Bernardi e Ivan Illich e il discepolo di Gandhi Lanza del Vasto, oltre a Fromm, a Schumacher ed al giornalista e scrittore Massimo Fini. Su tutti però prevale ancora un anarchico: l’urbanista Carlo Doglio, vicino al movimento di Comunità di Olivetti ma anche a Danilo Dolci. Doglio è per Zavalloni un maestro in senso pieno: è stato non solo il suo docente di Pianificazione territoriale a Bologna, ma anche il relatore della sua tesi. Alla fine di una commossa rievocazione, Zavalloni scrive: “E’ vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti” (Zavalloni 2010a, 106).
La strada sulla quale si è inoltrato l’educatore Zavalloni è, come accennato, una strada che va in direzione opposta a quella percorsa oggi dai più. Un piccolo sentiero di campagna, si direbbe, poco praticato ma pieno di sorprese per chi vi si inoltra. E’ il sentiero di una pedagogia consapevole delle molte violenze che possono essere giustificate in nome dell’educazione. L’elogio della lentezza non è un vezzo, ma nasce dal semplice rispetto dei soggetti, che è in fondamento stesso dell’educazione. In educazione non è possibile correre e rispettare al contempo la personalità degli educandi; correre vuol dire fare pessima educazione, o non fare affatto educazione. Ma noi siamo in una civiltà della corsa. Non dovrà l’educazione adeguarsi? Se si concepisce l’educazione come semplice socializzazione, portare l’educando allo stato attuale della società, senz’altro. Ma gli scopi dell’educazione sono, per Zavalloni, più complessi. L’educazione è, anche, riflessione critica sulla società e ricerca di una società migliore, come spiegava don Milani ai giudici. Non è possibile, oggi più che mai, fare educazione senza fermarsi a riflettere sulla società attuale, senza chiedersi dove ci sta portando la strada che abbiamo imboccato con la rivoluzione industriale. Zavalloni è tra quelli che ritengono che sia necessaria una svolta, che la civiltà industriale e capitalistica, con la sua ansia produttivistica, ci abbia condotti in un vicolo cieco, dal quale sarà possibile uscire soltanto ripensando criticamente i fondamenti culturali e psicologici del mondo attuale.
La scuola può muoversi tra due poli: quello del soggetto e quello del sistema. Può, cioè, occuparsi dello sviluppo delle persone che le sono affidate, lavorare perché crescano in più dimensioni in un ambiente sereno, oppure preoccuparsi di adattarli a vivere in società, facendo accettare loro i valori dominanti, affinché la società stessa mantenersi salda e perpetuarsi. In teoria, la scuola italiana (ed occidentale) non sceglie uno dei due poli, ma rispetta entrambe le istanze: è una scuola al tempo stesso per la persona e per il sistema, che educa alla formazione piena della personalità ma non trascura la socializzazione e l’inserimento nel mondo del lavoro. In realtà, in una società capitalistica è semplicemente impossibile tenere insieme le due cose. Occuparsi in modo reale, e non solo retorico, dello sviluppo personale, vuol dire giungere a mettere in discussione l’assetto sociale e soprattutto economico. Non è difficile accorgersi che la scuola italiana ha scelto di fatto il polo della società. E’ una scuola che educa al capitalismo, vale a dire all’individualismo, alla competizione, alla quantificazione, alla considerazione della stessa cultura ed educazione come una merce da spendere sul mercato. Non si spiegherebbero altrimenti cose che sembrano far parte in modo naturale della scuola, e che invece sono il risultato di una scelta. Tale è, ad esempio, il voto, che fin dalla scuola primaria separa i bambini gli uni dagli altri, li divide in bravi e meno bravi e li contrappone, in una sorta di insensata gara educativa. Tale è lo stesso setting dell’aula, con i banchi separati in file parallele, in modo che gli studenti possano comunicare tra di loro il meno possibile.
Da dirigente scolastico, Zavalloni è stato un uomo inserito in questo sistema. Ma ha anche mostrato come è possibile aprirlo dall’interno, inserire in esso logiche nuove, approfittando di ogni spiraglio. Così per i voti. Dal momento in cui vengono introdotto i voti, osserva, accadono due cose: i bambini fanno le cose non più per piacere, ma per il voto, e nasce la competizione. Ma non è proprio possibile abolirli? La sua risposta è sì. Non si parla, in fondo, di scuola dell’autononomia? E a cosa serve, l’autonomia, se non a fare scelte autonome, anche coraggiose? E’ ben possibile, nella scuola dell’obbligo, “provare strategie di cooperazione didattica e di tutoraggio che possono far scomparire, ad esempio, il fenomeno della concorrenza e della competizione” (Zavalloni 2010a, 67). Un cambiamento che richiederebbe anche la scomparsa di termini ed espressioni che sono entrati nel linguaggio scolastico provenendo dal mondo dell’economia, come quello di “profitto scolastico”. Cosa vuol dire studiare “con profitto”? Perché non si parla, piuttosto, di “piacere scolastico”? Non avrebbe più senso? Fin dalla scuola primaria i bambini sono, nella percezione dei loro insegnanti, dei piccoli risparmiatori che da subito devono cominciare ad accumulare, per godere poi da adulti di un discreto capitale. Se si considera poi la prassi di assegnare compiti a casa, viene da pensare che questo percorso di accumulo capitalistico dello pseudo-sapere scolastico e del riconoscimento sociale debba essere anche, per scelta deliberata, un percorso ad ostacoli: come se si cercasse di rendere la vita dello studente il più possibile spiacevole e dura, al fine di eliminare del tutto il piacere ed il desiderio. Per Zavalloni i compiti andrebbero aboliti durante le vacanza (e ai suoi maestri manda una lettera che suona come avvertimento: se si ostineranno a dar compiti agli studenti, sappiano che ci sono “alcuni lavori che possiamo fare benissimo insieme nel periodo delle vacanze pasquali”: Zavalloni 2010a, 85), ma soprattutto vanno ripensati. Gli esercizi ripetitivi possono essere fatti in classe (lì dove, occorre notare, lo studente potrà essere seguito – come è giusto che sia – dall’insegnante, senza che nello svolgimento dei compiti pesi dunque il fatto di avere genitori con la laurea o con la licenza elementare); per casa, si possono assegnare attività interessanti, piacevoli e soprattutto creative, che lo studente faccia senza avvertire alcun peso. Quanto al setting dell’aula, come dirigente scolastico Zavalloni aveva richiesto banchi e sedie rispettosi al tempo stesso degli studenti e della natura. E dunque: sedie e banchi ergonomici in legno massello, con i banchi progettati in modo da poter essere uniti per formare un tavolo unico. Poiché banchi e sedie simili non erano in commercio, sono stati appositamente progettati e prodotti da una azienda locale: un esempio di come sia possibile ripensare la scuola dal basso anche strutturalmente, invece di rassegnarsi all’insensato setting tradizionale.
La scuola capitalistica è la scuola della classe borghese. E’, notava Zavalloni, la scuola nella quale i figli dei contadini si vergognano di essere tali, e cercano di nascondere la loro origine. Lo stesso si potrebbe dire dei figli degli operai. Lo studente modello, quello che otterrà più facilmente il “profitto scolastico”, è il figlio del libero professionista, dell’avvocato o dell’ingegnere: ancora il Pierino di cui parlava don Milani. A scuola si studia: non si lavora. Bisogna usare la testa per diventare intellettuali, non le mani. L’agricoltura e l’artigianato non hanno, per chi ha pensato la nostra scuola pubblica, alcun valore formativo. Alla scuola primaria si potranno usare le mani per fare “lavoretti”, ma lavori veri e propri no. Lavorare il legno, lavorare la creta, lavorare la terra: tutto ciò è troppo concreto, troppo materiale per la scuola italiana.
Il contadino-educatore Zavalloni è stato tra gli ispiratori del progetto degli orti di pace, espressione che ribalta quella di orti di guerra, gli orti improvvisati che si diffusero nelle città durante la guerra per rispondere ai bisogni alimentari della popolazione. La diffusione della scuola di massa, in Italia, ha coinciso con la fine della civiltà contadina e l’avvio di un processo di omologazione culturale che ha progressivamente smussato le differenze culturali tra classi sociali, imponendo il modello borghese. Oggi non esiste più, in Italia, qualcosa come una “cultura contadina”. Chi ancora vive del lavoro con la terra quasi se ne vergogna. Zavalloni ricorda che quando, entrando in una classe, chiedeva quanti studenti erano figli di contadini, si alzavano pochissime mani; quando poi raccontava di essere lui stesso figlio di contadini, e spiegava l’importanza del mondo agricolo, le mani alzate aumentavano (Zavalloni 2010b, 11). Il progetto, che intende portare nelle scuole gli orti ed il lavoro della terra, dimostra come l’innovazione nella scuola non debba passare necessariamente attraverso la tecnologia. Lavorare la terra, per dei bambini di città, vuol dire recuperare abilità manuali, sviluppare l’osservazione, fare esperienze utili anche per la crescita delle conoscenze e della riflessione. Ma soprattutto, notava Zavalloni, significa “attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di capacità previsionali” (Zavalloni 2010b, 24). Vuol dire imparare a fermarsi e ad aspettare: in una parola, a rispettare. E forse nulla è più urgente da imparare, per i bambini e per gli adulti che insegnano ai bambini.
Mi hanno sempre colpito molto i disegni di Zavalloni. Sono, a ben vedere, i disegni che potrebbe fare un bambino con la consapevolezza tecnica di un adulto. Nei disegni c’è tutta la spiritualità di Zavalloni, il suo amore per le cose essenziali, la sua fantasia, la poesia, l’amore per l’infanzia – anzi, la capacità di vivere, di stare nell’infanzia anche nell’età adulta. Ogni educazione autentica è al tempo stesso un educarsi; ogni rapporto educativo è bidirezionale e reciproco. Chi educa viene educato nell’atto stesso di educare. Questa verità semplice – che molti negano quasi con sdegno, perché mette in discussione i rapporti di dominio in campo educativo – è stata vissuta quotidianamente da Zavalloni ed era, probabilmente, il suo segreto. Educava i bambini, ma al tempo stesso era a scuola da loro: e questo gli ha permesso di non smarrire mai il rapporto con la poesia, la bellezza e la verità.
Bibliografia
Zavalloni G. (2010a), La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna. Seconda edizione.
Zavalloni G. (2010b), A scuola dai contadini, in Aa. Vv., Orti di pace. Il lavoro della terra come via educativa, a cura di G. Zavalloni, EMI, Bologna 2010.