Cent’anni di Arturo Paoli

Frontespizio di Ancora cercate ancora, con dedica
Oggi Arturo Paoli compie cent’anni.
In un’altra Italia, sarebbe festeggiato come uno dei più grandi uomini della nazione. Nell’Italia che abbiamo è una antica quercia solitaria, che parla con voce ferma ma sottile solo ai pochi che hanno voglia di ascoltarla.
Una delle cose che mi interessano da un po’ è la possibilità di incontro tra credenti ed atei. Mi pare che questo incontro sia possibile in due dimensioni, che non so come e quanto siano conciliabili: la mistica e la prassi. La mistica, poiché Dio può essere una consolazione dell’io, il sostegno e puntello metafisico del soggetto – e il mistico e l’ateo possono procedere insieme verso il “Dio prima di Dio”. La prassi, perché anche l’ateo può riconoscere quel Dio-nei-poveri che Vivekananda e Gandhi chiamavano Daridranarayana. Fratel Arturo è uno di quei pensatori religiosi con i quali un ateo può dialogare sulla base della prassi. In Camminando s’apre cammino (Cittadella,  Assisi 1994) afferma che la divisione dei cristiani sta nel pensare Cristo “attraverso la filosofia dell’essere o attraverso la filosofia della prassi” (p. 52). E cosa significhi pensarlo attraverso la filosofia della prassi è presto detto: 
Prima di parlare di pace e di unione, esci, amico, e osserva attentamente se sulla tua porta è scritto: – Qui non c’è posto per i poveri -, perché se è così, il discorso è falsificato non dall’intenzione, ma dalla scelta. Ci scandalizzano i politici imbroglioni, ma l’imbroglio di noi cristiani può essere più sottile perché va alla radice della coscienza. Se chiedi a un religioso chi è Cristo, magari ti risponde con un’eloquenza fantastica; se gli chiedi che cosa fa il Cristo oggi nel mondo, nella storia, potrebbe balbettare come un bambino. (ivi, p. 61)

Etsi Deus daretur?

Il messaggio di papa Benedetto XVI ai partecipanti al Cortile dei gentili, in Portogallo, ha un interessante punto di contatto con il pensiero di Aldo Capitini, che vorrei segnalare.
Scrive papa Ratzinger:

La morte della persona amata è, per chi l’ama, l’evento più assurdo che si possa immaginare: lei è incondizionatamente degna di vivere, è buono e bello che esista (l’essere, il bene, il bello, come direbbe un metafisico, si equivalgono trascendentalmente). Parimenti, la morte di questa stessa persona appare, agli occhi di chi non ama, come un evento naturale, logico (non assurdo). Chi ha ragione? Colui che ama («la morte di questa persona è assurda») o colui che non ama («la morte di questa persona è logica»)?

Per Capitini, esiste un atto di unità-amore, nel quale Dio stesso si manifesta dall’intimo. In questo atto d’amore, l’altro mi appare come dotato di un valore infinito. Poi però giunge la morte ad annullare quella persona. Come può essere che chi ha valore assoluto venga ridotto a nulla? In effetti, a chi ama la morte della persona amata appare assurda. Per Capitini, è fondamentale tener fermo questo punto: rifiutarsi di considerare accettabile la morte di chi amiamo.
Vediamo come continua Ratzinger:

La prima posizione è difendibile solo se ogni persona è amata da un Potere infinito; e questo è il motivo per cui è stato necessario appellarsi a Dio. Di fatto, chi ama non vuole che la persona amata muoia; e, se potesse, lo impedirebbe sempre. Se potesse… L’amore finito è impotente; l’Amore infinito è onnipotente. Ebbene, è questa la certezza che la Chiesa annuncia: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Sì! Dio ama ogni persona che, perciò, è incondizionatamente degna di vivere. «Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell’amore del Padre, manifesta come l’uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita». (Enciclica Evangelium vitae, n. 25).

Qui ha la massima rilevanza quel solo. E’ davvero così? Possiamo considerare assurda la morte della persona amata solo se pensiamo che esista un Dio che è Potere infinito? Sembrerebbe di sì, ad un primo sguardo. Ma è una soluzione che Capitini rifiuta, perché pensare Dio come un tale Potere vuol dire, se si vuole essere conseguenti, attribuire a Dio l’origine stessa del male: ossia fare di Dio stesso la ragione per cui la persona amata muore.
Se Dio è l’Origine, a Lui va attribuito lo stesso male. Non serve a molto introdurre la figura dell’ha-Shatan, poiché le cose sono due: o l’ha-Shatan è dall’origine, ed all’ora Dio non è Origine unica, né è assoluto, ma è parte di una Diade originaria; oppure Dio è origine anche del male, anche dell’ha-Shatan.
Per Capitini, occorre invece pensare Dio – quel Dio che chiama compresenza (per la quale, precisa, “si può anche non parlare di Dio”) – come anti-origine. Il pensiero teologico occidentale ha sempre messo Dio all’inizio del cosmo, come causa. Capitini compie lo sforzo, assolutamente originale (ma nella stessa direzione procede anche, benché in modo più oscuro e travagliato, Ferdinando Tartaglia), di pensare Dio dall’altra parte, mettendolo non all’inizio, ma alla fine – non come origine, ma come telos.
Afferma ancora Ratzinger:
È necessario riaprire le finestre, vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra, e imparare a usare tutto ciò in modo giusto. Di fatto, il valore della vita diventa evidente solo se Dio esiste. Perciò, sarebbe bello se i non credenti volessero vivere «come se Dio esistesse». Sebbene non abbiano la forza per credere, dovrebbero vivere in base a questa ipotesi; in caso contrario, il mondo non funziona. Ci sono tanti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto, se Dio non sarà posto al centro, se Dio non diventerà di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita.
Il ragionamento di Ratzinger in questo passo è il rovesciamento esatto del pensiero di Dietrich Bonhoeffer. Per il grande teologo tedesco, i credenti sono chiamati a vivere come se Dio non ci fosse: “Davanti a Dio e con Dio, viviamo senza Dio”, scrive in Resistenza e resa. E denuncia, nella stessa opera, il Dio-Tappabuchi della tradizione cristiana: il Dio che fa funzionare il mondo. Un tale Dio Tappabuchi, che fa funzionare il mondo, è esattamente il Dio di Ratzinger. Un Tappabuchi talmente efficiente, che vorrebbe che vi facessero ricorso anche gli atei. Dimenticando che l’ateismo ha come ragione principale proprio la constatazione che le falle restano tali, e non basta Dio a tapparle.
Ma torniamo a Capitini. Il suo pensiero può essere interpretato, per molti versi, come un tentativo laico di interpretare il mondo etsi Deus daretur, come se Dio ci fosse; come se, cioè, la morte non fosse l’ultima verità sugli esseri. E tuttavia Capitini rifiuta tutto l’impianto della religione tradizionale: e rifiuta Dio stesso, concepito come Potere infinito. Il Dio di cui parla è un Dio che è tutto nell’atto di amore, che sta dalla parte dell’intimo; che non è sostantivo, ma avverbio: è l’infinitamente con cui amiamo. Vivere come se Dio ci fosse vuol dire ostinarsi ad amare, ostinarsi a rifiutare la morte come ultima verità, senza tuttavia credere in alcun potere trascendente che salva; e sperare, con la forza dell’amore, che il mondo possa aprirsi, che possano aprirsi crepe nella sua struttura violenza, e che in queste crepe possa insinuarsi qualcosa di nuovo.
E’, questo, un vivere etsi Deus daretur, ed al tempo stesso etsi Deus non daretur. Rifiutando qualsiasi Potere trascendente, che dia senso e valore dall’altro alla nostra vita, ma non rinunciando ad approfondire le ragioni metafisiche (praticamente metafisiche) ed escatologiche dell’amore.

Gianfranco Zavalloni, maestro

In anteprima un ricordo di Gianfranco Zavalloni che uscirà nel prossimo numero di Educazione Democratica (gennaio 2013).

Gianfranco Zavalloni, scomparso a soli cinquantaquattro anni per un male incurabile lo scorso mese di agosto, è stato uno dei più validi educatori del nostro paese. Dirigente scolastico, ma soprattutto maestro di scuola materna; e ancora: disegnatore, calligrafo, attore, creatore di burattini, animatore dell’Ecoistituto di Cesena, straordinario sperimentatore delle vie di una educazione nonviolenta, ecologica, creativa. Mentre la scuola si avvia a diventare digitale (pur con le solite contraddizioni del nostro paese: si montano le lavagne elettroniche in aule fatiscenti, in edifici che spesso non rispettano i più elementari criteri di sicurezza), Zavalloni ha praticato e teorizzato una scuola analogica: lenta, non competitiva, alla riscoperta della manualità e del contatto con la terra.

In una comunicazione mandata ad un convegno al quale non aveva potuto partecipare raccontava così, con la sua straordinaria umanità, la sua malattia:

Amo le fiabe, amo i burattini. Nei 33 anni di esperienza da educatore, maestro e dirigente scolastico la passione per fiabe e burattini è stata una costante. E anche oggi, dall’alto di un boccascena del teatro dei burattini, se chiedessi a bimbi e bimbe qual è la storia che desiderano vedere, il 99% delle risposte (ne sono sicuro) sarebbe «Cappuccetto Rosso!!». Evidentemente c’è qualcosa di universale. C’è un momento della fiaba (nella mia versione burattinesca) che mi affascina particolarmente. È il momento in cui il lupo, dopo aver divorato la nonna e cappuccetto rosso, si concede un meritato riposo. A quel punto il cacciatore, dopo aver aperto la pancia al lupo e fatte uscire le malcapitate, con l’aiuto dei bambini riempie di sassi la pancia del lupo per poi ricucirla. Al risveglio il lupo, con la pancia appesantita dai sassi, viene investito dal vociare dei bambini che gli evidenziano la realtà: la pancia è piena di sassi. Ma lui non crede a queste «frottole» e pensa che sia una semplice indigestione, pesantezza di carne umana, ingerita voracemente senza masticare.
Ebbene quel lupo, il 18 ottobre scorso, improvvisamente, ero io. Pensando ad una possibile indigestione, dopo una notte passata con un doloroso mal di pancia, mi sono recato ad uno dei pronto soccorso di Belo Horizonte. E dopo diverse ore, con la pancia piena d’acqua per favorire l’esame, mi sono sottoposto ad una ecografia. L’esito è stato immediato: qui ci sono un po’ di sassi da togliere, ha sentenziato il medico chirurgo. Così, come il lupo contesta i bimbi e le bimbe rispondendo loro «…non è vero, non è vero, state scherzando, mi prendete in giro!!», così anch’io non volevo crederci. E dentro di me pensavo: «si sono sbagliati, la diagnosi è inesatta!». Ma la realtà a volte è cruda. Dopo poco più di un mese, il 2 dicembre, sono entrato (come il lupo poi entra nel pozzo per bere) in una sala operatoria dell’Ospedale S. Orsola di Bologna. Tre chirurghi e una schiera di collaboratori hanno lavorato per 9 ore e mezza per togliere dalla mia pancia tutti i sassi grossi (un rene, il surrene, una enorme massa tumorale, un trombo formatosi nella vena cava…). Sono restati tanti piccoli sassolini sparsi qua e là. Ma questa è già la storia di Pollicino oppure quella di Hansel e Gretel.

La morte è uno dei temi de La pedagogia della lumaca, l’opera più importante di Zavalloni: ed è una cosa che può sorprendere, in un libro che è una esaltazione della gioia di educare, che viene dalla gioia di vivere, solo se non si considerano le sue origini contadine, anzi il suo esser rimasto fino alla fine un uomo della campagna. Per la civiltà contadina la morte non è una minaccia da allontanare per affermare la vita, ma è un momento della vita stessa, fa parte della natura e dei suoi cicli. Zavalloni ricordava con approvazione la proposta di Hundertwasser, il grande pittore, architetto ed ecologista austriaco, di seppellire i defunti sotto ad un albero, che crescendo si nutra di essi, facendoli vivere in sé. E’ l’unica sepoltura che rispetta fino in fondo la legge della natura, che vuole che tutti gli esseri siano alimenti per altre vite.

Non so se la sua sepoltura sia avvenuta in questo modo; mi sembra improbabile. Ma in molti modi chi non è più può continuare ad essere nutrimento. Nel caso di Zavalloni, restano le sue opere, il suo esempio, le sue molteplici iniziative. L’albero è stato piantato, ed è saldo.

Oltre alle origini contadine, hanno contribuito a formare l’uomo e l’educatore Zavalloni le assidue letture della giovinezza. Accanto a don Milani troviamo gli anarchici Bernardi e Ivan Illich e il discepolo di Gandhi Lanza del Vasto, oltre a Fromm, a Schumacher ed al giornalista e scrittore Massimo Fini. Su tutti però prevale ancora un anarchico: l’urbanista Carlo Doglio, vicino al movimento di Comunità di Olivetti ma anche a Danilo Dolci. Doglio è per Zavalloni un maestro in senso pieno: è stato non solo il suo docente di Pianificazione territoriale a Bologna, ma anche il relatore della sua tesi. Alla fine di una commossa rievocazione, Zavalloni scrive: “E’ vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti” (Zavalloni 2010a, 106).

La strada sulla quale si è inoltrato l’educatore Zavalloni è, come accennato, una strada che va in direzione opposta a quella percorsa oggi dai più. Un piccolo sentiero di campagna, si direbbe, poco praticato ma pieno di sorprese per chi vi si inoltra. E’ il sentiero di una pedagogia consapevole delle molte violenze che possono essere giustificate in nome dell’educazione. L’elogio della lentezza non è un vezzo, ma nasce dal semplice rispetto dei soggetti, che è in fondamento stesso dell’educazione. In educazione non è possibile correre e rispettare al contempo la personalità degli educandi; correre vuol dire fare pessima educazione, o non fare affatto educazione. Ma noi siamo in una civiltà della corsa. Non dovrà l’educazione adeguarsi? Se si concepisce l’educazione come semplice socializzazione, portare l’educando allo stato attuale della società, senz’altro. Ma gli scopi dell’educazione sono, per Zavalloni, più complessi. L’educazione è, anche, riflessione critica sulla società e ricerca di una società migliore, come spiegava don Milani ai giudici. Non è possibile, oggi più che mai, fare educazione senza fermarsi a riflettere sulla società attuale, senza chiedersi dove ci sta portando la strada che abbiamo imboccato con la rivoluzione industriale. Zavalloni è tra quelli che ritengono che sia necessaria una svolta, che la civiltà industriale e capitalistica, con la sua ansia produttivistica, ci abbia condotti in un vicolo cieco, dal quale sarà possibile uscire soltanto ripensando criticamente i fondamenti culturali e psicologici del mondo attuale.

La scuola può muoversi tra due poli: quello del soggetto e quello del sistema. Può, cioè, occuparsi dello sviluppo delle persone che le sono affidate, lavorare perché crescano in più dimensioni in un ambiente sereno, oppure preoccuparsi di adattarli a vivere in società, facendo accettare loro i valori dominanti, affinché la società stessa mantenersi salda e perpetuarsi. In teoria, la scuola italiana (ed occidentale) non sceglie uno dei due poli, ma rispetta entrambe le istanze: è una scuola al tempo stesso per la persona e per il sistema, che educa alla formazione piena della personalità ma non trascura la socializzazione e l’inserimento nel mondo del lavoro. In realtà, in una società capitalistica è semplicemente impossibile tenere insieme le due cose. Occuparsi in modo reale, e non solo retorico, dello sviluppo personale, vuol dire giungere a mettere in discussione l’assetto sociale e soprattutto economico. Non è difficile accorgersi che la scuola italiana ha scelto di fatto il polo della società. E’ una scuola che educa al capitalismo, vale a dire all’individualismo, alla competizione, alla quantificazione, alla considerazione della stessa cultura ed educazione come una merce da spendere sul mercato. Non si spiegherebbero altrimenti cose che sembrano far parte in modo naturale della scuola, e che invece sono il risultato di una scelta. Tale è, ad esempio, il voto, che fin dalla scuola primaria separa i bambini gli uni dagli altri, li divide in bravi e meno bravi e li contrappone, in una sorta di insensata gara educativa. Tale è lo stesso setting dell’aula, con i banchi separati in file parallele, in modo che gli studenti possano comunicare tra di loro il meno possibile.

Da dirigente scolastico, Zavalloni è stato un uomo inserito in questo sistema. Ma ha anche mostrato come è possibile aprirlo dall’interno, inserire in esso logiche nuove, approfittando di ogni spiraglio. Così per i voti. Dal momento in cui vengono introdotto i voti, osserva, accadono due cose: i bambini fanno le cose non più per piacere, ma per il voto, e nasce la competizione. Ma non è proprio possibile abolirli? La sua risposta è sì. Non si parla, in fondo, di scuola dell’autononomia? E a cosa serve, l’autonomia, se non a fare scelte autonome, anche coraggiose? E’ ben possibile, nella scuola dell’obbligo, “provare strategie di cooperazione didattica e di tutoraggio che possono far scomparire, ad esempio, il fenomeno della concorrenza e della competizione” (Zavalloni 2010a, 67). Un cambiamento che richiederebbe anche la scomparsa di termini ed espressioni che sono entrati nel linguaggio scolastico provenendo dal mondo dell’economia, come quello di “profitto scolastico”. Cosa vuol dire studiare “con profitto”? Perché non si parla, piuttosto, di “piacere scolastico”? Non avrebbe più senso? Fin dalla scuola primaria i bambini sono, nella percezione dei loro insegnanti, dei piccoli risparmiatori che da subito devono cominciare ad accumulare, per godere poi da adulti di un discreto capitale. Se si considera poi la prassi di assegnare compiti a casa, viene da pensare che questo percorso di accumulo capitalistico dello pseudo-sapere scolastico e del riconoscimento sociale debba essere anche, per scelta deliberata, un percorso ad ostacoli: come se si cercasse di rendere la vita dello studente il più possibile spiacevole e dura, al fine di eliminare del tutto il piacere ed il desiderio. Per Zavalloni i compiti andrebbero aboliti durante le vacanza (e ai suoi maestri manda una lettera che suona come avvertimento: se si ostineranno a dar compiti agli studenti, sappiano che ci sono “alcuni lavori che possiamo fare benissimo insieme nel periodo delle vacanze pasquali”: Zavalloni 2010a, 85), ma soprattutto vanno ripensati. Gli esercizi ripetitivi possono essere fatti in classe (lì dove, occorre notare, lo studente potrà essere seguito – come è giusto che sia – dall’insegnante, senza che nello svolgimento dei compiti pesi dunque il fatto di avere genitori con la laurea o con la licenza elementare); per casa, si possono assegnare attività interessanti, piacevoli e soprattutto creative, che lo studente faccia senza avvertire alcun peso. Quanto al setting dell’aula, come dirigente scolastico Zavalloni aveva richiesto banchi e sedie rispettosi al tempo stesso degli studenti e della natura. E dunque: sedie e banchi ergonomici in legno massello, con i banchi progettati in modo da poter essere uniti per formare un tavolo unico. Poiché banchi e sedie simili non erano in commercio, sono stati appositamente progettati e prodotti da una azienda locale: un esempio di come sia possibile ripensare la scuola dal basso anche strutturalmente, invece di rassegnarsi all’insensato setting tradizionale.

La scuola capitalistica è la scuola della classe borghese. E’, notava Zavalloni, la scuola nella quale i figli dei contadini si vergognano di essere tali, e cercano di nascondere la loro origine. Lo stesso si potrebbe dire dei figli degli operai. Lo studente modello, quello che otterrà più facilmente il “profitto scolastico”, è il figlio del libero professionista, dell’avvocato o dell’ingegnere: ancora il Pierino di cui parlava don Milani. A scuola si studia: non si lavora. Bisogna usare la testa per diventare intellettuali, non le mani. L’agricoltura e l’artigianato non hanno, per chi ha pensato la nostra scuola pubblica, alcun valore formativo. Alla scuola primaria si potranno usare le mani per fare “lavoretti”, ma lavori veri e propri no. Lavorare il legno, lavorare la creta, lavorare la terra: tutto ciò è troppo concreto, troppo materiale per la scuola italiana.

Il contadino-educatore Zavalloni è stato tra gli ispiratori del progetto degli orti di pace, espressione che ribalta quella di orti di guerra, gli orti improvvisati che si diffusero nelle città durante la guerra per rispondere ai bisogni alimentari della popolazione. La diffusione della scuola di massa, in Italia, ha coinciso con la fine della civiltà contadina e l’avvio di un processo di omologazione culturale che ha progressivamente smussato le differenze culturali tra classi sociali, imponendo il modello borghese. Oggi non esiste più, in Italia, qualcosa come una “cultura contadina”. Chi ancora vive del lavoro con la terra quasi se ne vergogna. Zavalloni ricorda che quando, entrando in una classe, chiedeva quanti studenti erano figli di contadini, si alzavano pochissime mani; quando poi raccontava di essere lui stesso figlio di contadini, e spiegava l’importanza del mondo agricolo, le mani alzate aumentavano (Zavalloni 2010b, 11). Il progetto, che intende portare nelle scuole gli orti ed il lavoro della terra, dimostra come l’innovazione nella scuola non debba passare necessariamente attraverso la tecnologia. Lavorare la terra, per dei bambini di città, vuol dire recuperare abilità manuali, sviluppare l’osservazione, fare esperienze utili anche per la crescita delle conoscenze e della riflessione. Ma soprattutto, notava Zavalloni, significa “attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di capacità previsionali” (Zavalloni 2010b, 24). Vuol dire imparare a fermarsi e ad aspettare: in una parola, a rispettare. E forse nulla è più urgente da imparare, per i bambini e per gli adulti che insegnano ai bambini.

Mi hanno sempre colpito molto i disegni di Zavalloni. Sono, a ben vedere, i disegni che potrebbe fare un bambino con la consapevolezza tecnica di un adulto. Nei disegni c’è tutta la spiritualità di Zavalloni, il suo amore per le cose essenziali, la sua fantasia, la poesia, l’amore per l’infanzia – anzi, la capacità di vivere, di stare nell’infanzia anche nell’età adulta. Ogni educazione autentica è al tempo stesso un educarsi; ogni rapporto educativo è bidirezionale e reciproco. Chi educa viene educato nell’atto stesso di educare. Questa verità semplice – che molti negano quasi con sdegno, perché mette in discussione i rapporti di dominio in campo educativo – è stata vissuta quotidianamente da Zavalloni ed era, probabilmente, il suo segreto. Educava i bambini, ma al tempo stesso era a scuola da loro: e questo gli ha permesso di non smarrire mai il rapporto con la poesia, la bellezza e la verità.

Bibliografia

Zavalloni G. (2010a), La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna. Seconda edizione.
Zavalloni G. (2010b), A scuola dai contadini, in Aa. Vv., Orti di pace. Il lavoro della terra come via educativa, a cura di G. Zavalloni, EMI, Bologna 2010.

L’altro nell’io

IL PROBLEMA di Shinran: come è possibile, attraverso la pratica dell’io, sradicare l’illusione dell’io? Come può un io salvarsi dall’io?

La soluzione di Shinran è nell’abbandono ad Amida. E’ Amida che compie l’opera, è la forza dall’esterno che irrompe ed opera la conversione. La pratica lascia il posto alla fede.

Ma è, questa, una soluzione? Se l’io è io, e null’altro che io, sono possibili atti che non siano egoistici? Non sarà anche il voto ad Amida un atto egoistico? Può l’io affidarsi all’altro, restando io?

Il passo ulteriore è quello di considerare l’irrompere dell’altro assolutamente indipendente da qualsiasi atto dell’io, sia esso di carattere gnostico o devozionale. Dio, o Buddha Amida, o la Realtà irrompe oltre i limiti dell’io, lo apre, lo spacca: e lo salva. La salvezza è indipendente da qualsiasi atto; la grazia non ha a che fare con i meriti. All’uomo non resta nulla da fare. Anche porsi in attesa è un atto paradossale: può realmente un io porsi in attesa dell’irruzione che lo sgomina? Una tale attesa non può essere che insincera, se ogni atto dell’io è necessariamente egoistico.

Ma c’è un’altra possibilità, ed è quella di considerare diversamente l’io. Forse l’io non persegue solo scopi egoistici; forse c’è anche, nell’io, qualcosa d’altro, una luce nascosta nel buio, una urgenza che chiede altro; un elemento spirituale che spinge l’io oltre l’io. C’è, forse, una morte che abbraccia la vita dell’io, o una vita che abbraccia la morte che è l’io. E’ questo altro dall’io che è nell’io che si manifesta nella malinconia improvvisa, nel senso di spaesamento, nella disperazione, nel senso di disgrazia da cui nessuno, credo, è immune; e, forse, ha a che fare con il dolore che sempre accompagna la bellezza.

Due forme

DUE forme di dolore, due forme di gioia.

Il piccolo dolore e la piccola gioia appartengono all’io: sono la frustrazione per le aspirazioni insoddisfatte o la gioia per le aspirazioni realizzate. In entrambi i casi l’io è chiuso in sé, ferito e rancoroso o soddisfatto e pieno di vigore.

Il grande dolore e la grande gioia spingono l’io verso il suo oltre. Nel grande dolore non è questa o quella aspirazione che viene frustrata, ma è la vita stessa, nella sua totalità, che si mostra impossibile. L’io vacilla, tutte le certezze che ci trattengono nel regno dei nomi e delle forme si fanno evanescenti: manca letteralmente la terra sotto ai piedi. Si brancola nel buio, persi nell’indistinto. Il mondo si fa sogno ed incubo, le cose intangibili, l’altro distante ed ostile. Non c’è via, non c’è salvezza. Tutto trema ed è pronto a disfarsi.

E’ quando questo disfacimento giunge a compimento che il grande dolore si apre alla grande gioia. Nella quale, pure, resta una traccia del dolore da cui proviene, del nulla da cui scaturisce e che l’informa di sé. E’ una gioia ebbra, materiata di lacrime e di abbandono, che ha la durezza del distacco e della decisione: un attimo prima di spegnersi nella pace.

Il paradigma dell’imbuto e il paradigma della situazione

Un paradigma ben consolidato in campo educativo è quello dell’imbuto. Che se ne sia consapevoli o meno, si pensa che il compito di chi educa sia quello di selezionare, tra i comportamenti dell’educando, gli unici che sono degni di restare, e di far in modo che gli altri scompaiano. All’inizio c’è un soggetto con una molteplicità di modi di essere, alla fine c’è un soggetto che è adatto ad entrare in società, che si è lasciato alle spalle ogni sgradevolezza. Tra l’inizio e la fine – tra la bocca larga dell’imbuto e la sua uscita stretta – c’è l’azione di modellamento dell’educazione, la cui essenza è quella di vietare alcune cose e di permetterne altre.

A causa della diffusione del paradigma dell’inbuto la situazione educativa è spesso, per chi la vive, una situazione di malessere. Nei posti in cui si fa intenzionalmente educazione – nelle scuole e nelle famiglie, prima di tutto – si sta più male che bene.

Alcuni degli scrittori maggiori del Novecento hanno demitizzato la famiglia, mettendo a nudo quel groviglio di ostilità, incomprensioni, ossessioni, piccineria borghese, violenza che è la quotidianità di molte famiglie; alcuni dei maggiori pedagogisti del secolo hanno invece demitizzato la scuola, evidenziando le dinamiche di dominio, la passivizzazione, le logiche di classe, la mancanza di vera conoscenza e di creatività. Il malessere degli studenti si esprime in forme diverse, ma ugualmente eclatanti: dai dolori psicosomatici dei bambini più piccoli fino agli atti vandalici degli adolescenti.
E’ diffusa la convinzione che questo star male, che paradossalmente caratterizza i luoghi dell’educazione, sia tuttavia necessario in vista del bene futuro. La convinzione da cui muove questo studio si situa esattamente all’opposto. La situazione educativa è tale, come vedremo, solo se consente al soggetto di sperimentare una forma di benessere e di pienezza; ogni situazione di disagio e malessere è diseducativa.
Il paradigma dell’imbuto porta in primo piano domande come: quando è lecito dire di no ai propri figli? Cosa bisogna consentire e cosa vietare? E’ il problema di come far sì che l’educando, una volta entrato nell’imbuto, si riduca progressivamente fino ad uscire dall’altra parte ed a riversarsi nel recipiente della società. Molti genitori sinceramente preoccupati dell’educazione dei loro figli pensano che sia importante saper dire di no, evitare di assecondarli costantemente e di non frustrarli, saper porre loro limiti e divieti. Quello educativo è il rapporto tra un soggetto che va limitato ed un altro che deve limitarlo; e questa limitazione, questa progressiva selezione dei comportamenti è l’educazione.
Non è difficile accorgersi che il paradigma dell’imbuto è fondato sul disconoscimento di quello che il bambino è. L’educazione è erudizione nel suo senso peggiore. Il bambino è rude, rozzo, incivile, e l’educazione è dirozzamento, raffinamento, eliminazione delle scorie e del superfluo. Il processo è unidirezionale: l’educatore non ha nulla da imparare dal bambino, è al di qua del suo mondo, è un rappresentante della società e delle sue richieste. La socializzazione è il fine dell’educazione secondo il paradigma dell’imbuto; la scolarizzazione uno dei suoi mezzi più efficaci. Scolarizzare vuol dire adattare un soggetto alle richieste di una istituzione totale. Abituato al movimento libero ed alla libera parola, a scuola il bambino impara a stare seduto per cinque ore ed a parlare solo quando vuole l’insegnante; il suo dare del tu a tutti lascia il posto ad un rispettoso lei, offerto a chi rappresenta l’autorità pedagogica; la possibilità di seguire i propri interessi cede il passo allo studio imposto di cose che gli risultano per lo più indifferenti. Il paradigma dell’imbuto giustifica qualsiasi situazione in vista del risultato finale. Esso impedisce di porsi altre domande, che dovrebbero invece essere al centro della riflessione dell’educazione. Il genitore che si chiede: quando e come devo dire di no a mio figlio?, potrebbe e dovrebbe invece chiedersi: quali cose belle posso fare insieme a mio figlio? E’ tutto qui il passaggio dal paradigma dell’imbuto al paradigma della situazione. L’insegnante che programma la propria azione educativa, che mette per iscritto che tipo di persona vuole che i suoi studenti diventino, potrebbe e dovrebbe riflettere invece su quale tipo di situazione vuole che vi sia nella classe. Quanta serenità c’è a scuola? Quanta gioia? Quanta curiosità? Quanta creatività? Quanta ricerca? La scuola è un luogo in cui si sta con piacere, in cui gli studenti vorrebbero andare anche se non fossero costretti? Fare in modo che lo sia dovrebbe essere l’unica preoccupazione degli insegnanti, e l’analisi della situazione e la riflessione su come cambiarla dovrebbe prendere il posto dell’astratta programmazione.
Secondo il paradigma dell’imbuto l’educazione è una questione di contrazione, di selezione, di limitazione. Secondo il paradigma della situazione, al contrario, l’educazione ha a che fare con l’espansione, con l’ampiamento dell’esperienza: è vita nel senso più pieno. L’educazione, scriveva Dewey ne Il mio credo pedagogico, «è vita, e non preparazione alla vita». La vita è ciò che accade qui ed ora; la vita è situazione. In quali situazioni la vita si esprime nella sua pienezza? E’ questo il problema educativo fondamentale. Le situazioni nelle quali la vita è piena sono le situazioni nelle quali l’educazione accade; ed educare non è altro che creare le condizioni perché si realizzino queste situazioni.

[Da uno studio in preparazione.]

Dio che non è

SE gli uomini conoscessero Dio, ne avrebbero orrore. Lo maledirebbero, cercherebbero di nascondersi dal suo sguardo, custodirebbero le parole per impedire la loro caduta nello spazio in cui Dio accade. Perché Dio è la morte, la negazione, la mancanza, l’assenza. Dio è un segnale di oltrepassamento: ovunque tu sia, non sei in Dio; e Dio è il non-essere che ti dice che ovunque tu sia, non sei.

Non c’è ateismo che nello stare; ovunque uno sia in pace con sé stesso, Dio non è. Quando la guerra comincia, il Dio che non è nientifica e libera, l’abisso si spalanca, la parola si spacca, nome e forma cedono all’ignoto. Non c’è più un qui, un quando; non c’è ateismo né fede. Solo Dio, che non è.

Essere dentro (o dietro) di sé

Ognuno avverte di subire violenza ogni volta che viene costretto a fare qualcosa contro la sua volontà, viene privato della propria libertà ed oppresso da circostanze esteriori. Se si è sfortunati, queste situazioni si verificano quotidianamente per molte ore. Per alcuni il lavoro non è altro che questo: fare per diverse ore al giorno cose che non vorremmo fare; il lavoro è, cioè, non un fattore di crescita e di realizzazione personale, ma una vera e propria maledizione.

Il tempo lasciato libero dal lavoro è per molti il tempo della distrazione, del divertissement in senso pascaliano. Si guarda la televisione, si va al bar, si parla con gli amici: ci si rilassa. E si sta bene, indubbiamente. Dobbiamo dunque considerare il divertimento una situazione educativa?

In ogni situazione educativa le persone sperimentano una situazione di pienezza, di vita intensa. Non ogni star bene, tuttavia, è una situazione educativa. E’ opportuno distinguere lo star bene dall’essere bene. Delle persone che passino la serata a bere e divertirsi in un locale indubbiamente stanno bene, si divertono e passano il loro tempo nel modo che desiderano. Non si può dire tuttavia che bere e divertirsi in un locale sia una situazione educativa e di pace, perché queste attività restano alla superficie, non toccano realmente l’interiorità e la relazionalità. Un gruppo di amici che comunichino in modo attento su temi importanti è cosa diversa. In questo caso si va a fondo: ognuno può constatare che il benessere che si prova è diverso; non riguarda la situazione passeggera, contingente, ma ha conseguenze durevoli su sé stessi: riguarda, cioè, l’essere, e non lo stare.

Quella in cui siamo è una civiltà dello star bene. Si cerca di evitare il disagio, la sofferenza, il brutto, il negativo. Tutto ciò non scaturisce tuttavia da una forte opzione in favore della vita; al contrario: lo stesso rifiuto del negativo finisce per avere un risvolto necrofilo. Il negativo, che non va idealizzato come un una certa retorica cattolica, riesce tuttavia a metterci profondamente in contatto con noi stessi, ci costringe a porci le domande fondamentali, a considerare la nostra finitezza, a ragionare su ciò che ci oltrepassa (e non necessariamente in senso religioso). Il negativo non può essere semplicemente rimosso. Quando ciò accade, non si ha l’affermazione della vita, ma il suo evitamento. Vivere in modo intenso vuol dire avere a che fare col negativo, con la morte. La poesia e la letteratura hanno tematizzato più volte il nesso inscindibile tra sesso e morte, tra l’affermazione vitale e la negazione dell’essere. Rimosso il negativo, resta una vita che si svolge alla superficie del sé, correlato soggettivo del sistema dei consumi. Il soggetto è un estraneo a sé stesso: lavora, si diverte, ama costantemente fuori di sé, in modo automatico, con una identità tenuta insieme artificialmente, priva di verifica. Indossa l’io come un abito, senza nemmeno più accorgersi che sotto c’è dell’altro.

L’urto del negativo ci costringe a fare i conti con la nostra identità fittizia. Chi sono io? Chi sono davvero? Esiste davvero qualcosa come un io? C’è una unità oltre il fluire dei pensieri, delle impressioni, dei sentimenti? E che legame c’è tra ciò che considero interno e ciò che mi pare esterno? Che rapporto c’è tra le cose e la mia coscienza? Quali sono i confini della mia coscienza? C’è un retroscena dell’io?

Porsi queste domande vuol dire entrare nel campo della spiritualità. Se l’etica riguarda il rapporto con l’altro e la religione il rapporto con Dio, la spiritualità è la dimensione del rapporto con noi stessi. E’ una cosa scomoda, la spiritualità; che infastidisce. L’inizio della spiritualità è un sentimento molto forte di angoscia, l’impressione disperante di aver smarrito ogni certezza, il senso di essere niente – e che niente sia tutta la vita. Un documento interessante della crisi che segna l’ingresso nel campo della spiritualità è la Confessione di Tolstoj. Lo scrittore vi racconta il periodo di smarrimento che lo conduce alla soglia del suicidio. C’era una inquietudine di fondo, che tenta di coprire dedicandosi alla scrittura, all’educazione dei figli dei contadini, all’attività di giudice popolare, ma presto queste attività non riescono più a distrarlo, e torna ad emergere prepotente la domanda sul senso della vita: «Cosa risulterà da ciò che faccio oggi, da ciò che farò domani e da tutta la mia vita?» (1). E’ la stessa domanda del libro di Qohelet (1, 3): «Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?». Il problema è quello della morte, della finitezza. Qualunque cosa si faccia, la morte si presenta come l’orizzonte ultimo, nullificante. Se la morte c’è, non c’è azione che abbia valore e senso, ogni cosa appare vana, e la vita scivola via inconsistente. Il suicidio appare l’unica tragica via d’uscita, il modo paradossale per dare consistenza ad una vita vuota. L’alternativa è, per Tolstoj, una fede sui generis, che più che la devozione ad un essere divino implica una visione radicalmente differente della vita.

Nel 1882, in un post-scriptum alla Confessione, racconta una sogno che a suo dire sintetizza tutta la vicenda della sua crisi e della sua conversione. Lo scrittore è coricato su un giaciglio fatto di cinghie, sospeso nel vuoto. Alcune cinghie si staccano ed si trova a penzolare pericolosamente, con il rischio di scivolare ed annientarsi nell’abisso. Ad un certo punto però smette di guardare in basso e guarda il cielo, l’abisso speculare che è sopra di lui. Tutte le cincghie cedono, tranne una, eppure lo scrittore si sente saldo nella sua posizione, non ha più paura di cadere. La situazione è diventata anc he più precaria, ma è cambiato il punto di vista: non più verso il basso, ma verso l’alto.

Il negativo ed il positivo in questa immagine onirica si implicano a vicenda. E’ solo in quanto sospeso sull’abisso, che Tolstoj può avvertirsi appeso al cielo. La precarietà e la disperazione sono la condizione della solidità e della gioia. Chi non rischia di cadere non può sollevarsi. Cosa vuol dire sollevarsi? Non c’è una risposta univoca a questa domanda. Per alcuni, può essere l’incontro con il Dio di una tradizione religiosa; per altri, come lo stesso Tolstoj, la conquista di una visione assiologica della vita; per altri ancora, un sentiero che porta verso il non dicibile, lì dove le parole non servono; ed altro ancora. Si tratta di percorsi personali, che vanno oltre le distinzioni correnti tra fede ed ateismo (esiste anche una spiritualità ateistica).
La spiritualità sembra dunque una faccenda personale, un sentiero che ognuno di noi deve percorrere in solitudine. E’ così solo in parte. E’ vero che alcune delle esperienze che predispongono alla spiritualità (la malattia, la perdita di una persona cara, la solitudine eccetera) semplicemente accadono, ed è anche vero che, una volta accadute, attivano processi di riflessione e di ricerca del tutto sono personali. Questi processi autoeducativi possono tuttavia procedere con difficoltà ed arrestarsi se non c’è nel soggetto una abitudine alla riflessione ed alla ricerca, che è compito dell’educazione favorire. Così come spetta all’educazioen contrastare la tendenza, propria della civiltà dei consumi, alla superficialità ed alla distrazione.

In una situazione educativa le persone stanno insieme in un modo che le riporta intensamente a sé stesse. E’ quanto accade ogni volta che si discute in gruppo, con la serietà e la calma necessaria, di temi esistenziali. Lo studio della filosofia e quello della religione – quest’ultimo con una prospettiva ampia e comparativa, ed al di fuori di ogni confessionalismo – possono favorire questa trattazione comune di temi esistenziali, a condizione che siano affrontati al di là di ogni nozionismo, affrontando possibilmente i testi stessi e discutendoli insieme. Poiché siamo in una società che rigetta il negativo, l’avvio di una attività di questo genere, soprattutto con i più giovani, sarà tutt’altro che facile; prevarranno il fastidio, l’impressione di fare qualcosa di insolito, forse anche la paura. Superata questa difficoltà iniziale, ci si abituerà progressivamente all’intensità di questi confronti, che rispondono ad un bisogno reale di consistere, di andare a fondo nella propria vita.
Un’altra possibilità è quella del silenzio. Stare insieme in silenzio, creare uno spazio comune aperto al silenzio, custodirlo, e in questo spazio muoversi in modo nuovo: anche questa è una esperienza densa di significato, che manca del tutto nelle nostre scuole, nelle quali, quando si fa silenzio, è solo per lasciare spazio alla parola del docente. Il silenzio è, se non altro, una igiene necessaria in un tempo in cui la parola, il suono, il rumore invadono, seducono, fanno violenza.

V’è poi la meditazione. Del tutto sconosciute ai sistemi educativi occidentali, alcune tecniche di meditazione – come la meditazione buddhista vipassana – possono essere adoperate in una prospettiva laica, perché non comportano l’adesione ad alcuna visione religiosa, e consistono in una serie di pratiche che favoriscono il contatto con sé stessi. Il meditante si concentra sul respiro, poi sulle posizioni del suo corpo, sulle sensazioni, sugli stati mentali. Il fine è quello della presenza mentale, che vuol dire compiere ogni azione, comprese quelle più insignificanti, essendo pienamente presenti, concentrati, attenti; una vera e propria arte del vivere intensamente, scoprendo un significato nuovo nella propria quotidianità. Una volta conquistata questa prospettiva, ogni azione diventa spirituale, poiché compiuta con la piena presenza di sé stessi ed a sé stessi. E’ bene ribadire che la via della spiritualità attraversa il negativo per giungere al positivo. C’è una possibilità di vita più piena e vera, che va scoperta.
E’ per questo che stare in una situazione spirituale, se può suscitare imbarazzo iniziale, è una esperienza di essere bene.

Note

(1) L. Tolstoj, La confessione, tr. it., Studio Editoriale, Milano 2000, p.34.

[Da uno studio in preparazione]

Il libro e l’opera: nota sull’editoria elettronica

LEGGO in questo post su Penna Blu una lista di pro e contro del libro cartaceo e di quello elettronico. Possiedo un ebook reader da circa un anno e mezzo:  se dovessi fare una mia lista, i pro del libro elettronico sarebbero molti di più dei contro, e il confronto tra ebook e libro cartaceo andrebbe tutto a favore del primo. Probabilmente perché sono quasi del tutto insensibile al fascino della carta stampata, all’odore del libro eccetera; mentre mi pare che l’ebook essenzializzi, per così dire, il libro; o meglio: che liberi l’opera dal libro. L’opera è il libro inteso dal punto di vista ideale, il libro è la concretizzazione, la materializzazione dell’opera. La Divina Commedia può avere mille aspetti diversi, a seconda delle diverse edizioni, dei diversi libri in cui si concretizza: può essere rilegata o in brossura, di carta pregiata o scadente, con illustrazioni o meno. Ora, le cose sono due: o il libro influenza l’opera, oppure no.

Cioè: o il modo concreto in cui un’opera si presenta nelle nostre mani, sotto i nostri occhi, influenza il nostro modo di avvicinarla e di goderla, oppure ciò non accade. I sostenitori del piacere della carta stampata dovrebbero rispondere a questa domanda. E’ evidente che, se la veste tipografica di un’opera è inessenziale, perché quando leggiamo ci immergiamo nell’opera e il libro passa in secondo piano fin quasi a scomparire, allora è indifferente leggere un libro di carta o un libro elettronico. Se invece la veste tipografica è essenziale, e influisce sul piacere della lettura, bisognerebbe allora preoccuparsi della crescente sciatteria dei libri cartacei, sempre più spesso pubblicati con carta scadente, con una stampa approssimativa, con una rilegatura fragile: eccetera. Mi aspetterei dunque che gli oppositori del libro elettronico fossero, al tempo stesso, oppositori della pessima tipografia; che chiedessero non solo libri di carta, ma bei libri di carta, rispettosi del piacere della lettura.

Personalmente ritengo che un’opera sia quasi del tutto indifferente al suo supporto concreto, e che una volta iniziata la lettura restino solo le parole. Con alcune eccezioni, naturalmente: i libri illustrati non sono proprio la stessa cosa, in formato elettronico; e così, forse, le poesie.

Ci sono poi due particolarità del libro elettronico che me lo fanno apprezzare particolarmente.

Tutti modifichiamo in qualche modo i libri che leggiamo. Li annotiamo, evidenziamo, logoriamo; ma a volte cerchiamo anche di migliorarli: rivestiamo la copertina, soccorriamo la rilegatura quando si mostra fragile, se siamo capaci li rileghiamo perfino. Aldo Capitini, se non ricordo male, aveva l’abitudine di far riallestire in legatoria i libri cui teneva particolarmente, in modo da introdurre pagine bianche che poi avrebbe usato per le sue annotazioni. Il libro cartaceo diventava così interattivo. Ora, questa interattività, che si può ottenere nel libro cartaceo con difficoltà ed in modo parziale, è facile e totale nel caso di libro elettronico. Un ebook si può sottolineare, evidenziare, annotare come un libro di carta, ma se ho un minimo di competenze posso fare di più. Se sono un tipografo, non posso comunque cambiare la struttura tipografica di un libro di carta; non posso correggere errori di impaginazione o cambiare il font. Nel caso di un ebook, posso farlo. Utilizzando un programma come Sigil, posso intervenire sul testo in modo anche radicale. Posso ad esempio decidere di allineare a sinistra un testo giustificato, posso  cambiare il colore dei titoli, posso anche correggere eventuali errori. Ma soprattutto posso intervenire sull’opera stessa. Posso fare, in modo infinitamente più semplice, quello che faceva Capitini con i libri di carta: posso inserire i miei appunti nel testo, e fare in modo che diventino parte integrante dell’opera. Le note, che nei libri cartacei sono a margine, entrano ora nel testo; e non è difficile immaginare la possibilità di opere aperte e di riscritture collettive, di annotazioni collaborative di un testo. Insomma: l’ebook è, più del libro di carta, un libro aperto. Posso metterci le mani in modo molto più disinvolto che con il libro di carta.

La seconda particolarità è legata alla prima. Per fare un libro di carta occorrono degli specialisti. Si può imparare da soli ad impaginare usando un programma come InDesign, e diventare così bravi da impaginarsi da sé il proprio libro; ma se si vuole un libro di carta bisogna rivolgersi poi ad un tipografo; ad un editore, se lo si vuole vendere. La cosa ha un costo: per l’editore, ma molto spesso anche per l’autore, cui l’editore chiede un contributo per la pubblicazione del libro. In molti casi l’opera così pubblicata non arriva mai sul mercato: l’autore paga l’editore e riceve in cambio qualche scatola con le copie del suo libro, che regalerà ad amici e parenti. Nel caso in cui l’editore, più onesto, mettesse realmente in distribuzione il libro, lo stesso resterebbe relegato in un angolo, inevitabilmente schiacciato dalle proposte dei grandi editori.

Ora, l’editoria elettronica introduce delle novità interessanti. La prima è l’autopubblicazione. Un autore può acquisire senza troppi sforzi la capacità di creare da sé il proprio libro in formato elettronico e può distribuirlo attraverso la rete. Se il suo obiettivo è farsi leggere, lo raggiungerà molto più facilmente in questo modo, che pubblicando a proprie spese con un piccolo o medio editore. Magari l’ebook non gli verrà perfetto, ma del resto anche grandi editori pubblicano ebook imperfetti, e lo stesso si può dire dei libri di carta (mi è capitato ultimamente tra le mani un libro della Guerini e Associati, non proprio l’ultima casa editrice, con grossolani errori di impaginazione). La seconda novità è la possibilità, su questo campo, di sfidare le grandi case editrici. Un grande editore può pubblicare un libro a prezzi molto più bassi di un piccolo o medio editore; può giovarsi di una distribuzione capillare, che ha un costo che i piccoli editori non possono permettersi; può promuovere il suo libro con una pubblicità martellante. Con i libri elettronici le cose vanno diversamente. Un piccolo editore, magari nativo digitale, può pubblicare un ebook a prezzi anche più bassi di quelli dei grandi editori, e può distribuirlo e venderlo attraverso la rete. Si dirà: ma venderà comunque poco, mentre i grandi editori venderanno molto grazie alla pubblicità. Non è detto. La rete è uno spazio che non del tutto penetrabile dalle logiche commerciali. Il passaparola, la reti sociali, i network di lettori hanno nella rete un maggiore della pubblicità e della promozione commerciale; un libro elettronico, se vale, può emergere e trovare i suoi lettori. Gli esempi non mancano.

Libro elettronico vuol dire, dunque, libertà di pubblicazione; e la libertà di pubblicazione è una delle declinazioni della libertà. L’obiezione, naturalmente, è: se ognuno pubblica quello che vuole, ci sarà un calo generale della qualità di ciò che si pubblica. La risposta è che ognuno già ora pubblica quello che vuole, regalando qualche migliaia di euro a qualche piccolo editore; e che anche non pochi editori medi e grandi sono disponibili a pubblicare quasi tutto, dietro adeguato compenso (soprattutto nel campo della saggistica). Nel sistema artificiale del mercato dei libri (di carta) un saggio acquista immediata rispettabilità se pubblicato da un editore noto (ad esempio nei concorsi universitari), anche se l’autore ha pagato per pubblicarlo. Nel sistema nato dall’incontro tra lo spazio dialogico della rete e l’editoria elettronica – sistema che sta nascendo, e che rappresenta forse la più grande rivoluzione culturale degli ultimi anni – un libro conta per le discussioni cui dà vita (nel caso di un saggio) o per le emozioni che suscita nei lettori (nel caso di un romanzo), non per la fama dell’editore o la sua azione di promozione.

Per una scuola maieutica

ALL’INIZIO degli anni Settanta Danilo Dolci maturò il progetto di creare un centro educativo che impiegasse la metodologia della maieutica reciproca, già sperimentata con successo come strumento per lo sviluppo comunitario. Il progetto non era particolarmente audace per chi, con la sola forza della maieutica e della protesta nonviolenta, era riuscito tra l’altro a creare una diga, quella sullo Jato, sottraendo alla mafia il controllo dell’acqua. Doveva essere, il centro educativo, una struttura progettata maieuticamente, vale a dire ascoltando le aspirazioni di bambini e ragazzi, padri e madri, educatori della zona. Nasce così il centro educativo di Mirto, in una bellissima posizione collinare che consente di vedere il mare, come richiesto soprattutto dai bambini. Ma le difficoltà non sono poche.

Per la mancanza di fondi si riesce a costruire solo una parte dell’edificio progettato, e ciò consente una sperimentazione limitata ai bambini più piccoli, mentre le cattive condizioni della strada di accesso al Centro costringono perfino alla chiusura per assicurare l’incolumità dei bambini. La sperimentazione procede comunque per qualche anno, con esiti interessantissimi, grazie anche alla collaborazione di pedagogisti come Paulo Freire e Bogdan Suchodolski, finché si decide di chiedere che il centro venga riconosciuto come scuola statale sperimentale. Il riconoscimento arriva nell”83, ma per Mirto è l’inizio di una rapida normalizzazione, che renderà sempre più labile l’impronta del suo fondatore e la presenza del metodo maieutico.

Negli anni successivi Dolci si è impegnato in una attività capillare per la diffusione del metodo maieutico presso le scuole: ha incontrato centinaia di docenti, mostrando loro la possibilità di fare scuola in modo diverso, di aprire uno spazio comunicativo autentico pur nel contesto scolastico. La sua visione della scuola statale è così duramente critica, da far pensare all’analisi di descolarizzatori come Illich e Reimer. La scuola non comunica realmente, ma si limita a trasmettere nozioni; è fatta di rapporti unidirezionali, e perciò inautentici; non educa ad esercitare creativamente il potere, ma abitua al conformismo ed all’ipocrisia. Questa visione così critica è però accompagnata dalla fiducia nella possibilità di cambiare il sistema scolastico introducendo in esso il germe della maieutica reciproca.

A distanza di quasi quindici anni dalla sua scomparsa (Dolci è morto nel ’97), sembra che ben poco sia rimasto di questa speranza di trasfigurazione, di cambiamento dall’interno della scuola. Stiamo vivendo una stagione di ulteriore chiusura dell’istituzione scolastica. Mentre vengono tagliati i fondi e si moltiplicano le classi «pollaio», nelle quali un vero lavoro educativo è sostanzialmente impossibile (a danno degli studenti più fragili, che hanno bisogno di maggiore attenzione), molti docenti si abbarbicano alla routine della loro professione, alla cara vecchia scuola fatta di lezioni frontali, interrogazioni, voti e note disciplinari. È per questo che si accoglie con particolare piacere l’uscita di un libro come Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci di Francesco Cappello (EMI, Bologna 2011; con prefazione di Johan Galtung). Cappello, che è stato amico e collaboratore di Dolci ed è un insegnante di scuola secondaria, è la persona più indicata per mostrare in modo non accademico le possibilità reali della maieutica reciproca nella scuola di oggi.

La maieutica reciproca, è bene ricordarlo, è un metodo per la ricerca comune della verità. Si tratta, di fatto, di una cosa semplicissima: si mettono le sedie in cerchio e si discute insieme – di questioni filosofiche ed esistenziali o dei problemi concretissimi della comunità di cui si fa parte. È maieutica reciproca, poiché in questa circolarità comunicativa la verità vien fuori dal contributo di tutti: ognuno aiuta gli altri, ognuno è maieuta. In un seminario maieutico si impara a cercare insieme, a comunicare in modo aperto, ad essere creativi, a scoprire dimensioni di sé normalmente soffocate, e anche ad avere potere, poiché attraverso la parola si prende coscienza della propria dignità e della possibilità di difenderla attraverso la lotta comune.

Gli usi possibili della maieutica nel contesto scolastico sono disparati. È possibile usarla per tentare qualcosa di radicalmente diverso dal lavoro didattico, per aprire parentesi nella normale vita scolastica, oppure per fare quella che potremmo chiamare meta-scuola, ossia per discutere della scuola stessa, delle modalità relazionali, di quello che c’è e di quello che si vorrebbe, dei voti eccetera. Si può usare la maieutica per discutere in classe gli episodi che normalmente vengono sanzionati con note disciplinari, i casi di violenza e di discriminazione o il cosiddetto bullismo. Possono usare la maietica i docenti, per crescere professionalmente confrontando le proprie esperienze e mettendo in comune le proprie ansie. È possibile, ancora, tenere seminari maieutici di docenti e genitori, per migliorare la comunicazione e trovare intese educative. Ma si può usare la maieutica anche in sostituzione della lezione, per affrontare in modo non trasmissivo gli stessi argomenti del programma. Il lavoro di Cappello mostra le possibilità della maieutica in varie direzioni. Da gran tempo i pedagogisti hanno evidenziato che un apprendimento per scoperta ha un valore di gran lunga maggiore dello studio libresco. Le cose che sono state scoperte restano nel tempo, come conquiste individuali, diventano saperi consilidati, mentre l’apprendimento libresco, poco significativo e spesso finalizzato al voto, è fragile e non resta nel tempo (a meno che non vi sia un interesse molto forte dello studente per quei temi). Il primo dei seminari riportati da Cappello nel suo libro riguarda una questione connessa alla didattica della matematica: «cercare i pro e i contro relativamente alla scelta di installare un impianto a gas su un’autovettura alimentata a benzina». Come si vede, si tratta di una questione pratica e concreta. «Questo genere di problemi – nota Cappello – entusiasma gli studenti. Valorizza la matematica come strumento per pensare e come ausilio importante nella valutazione delle scelte possibili. Contribuisce a motivarne l’apprendimento» (p. 57). La discussione porta ad utilizzare in modo assolutamente naturale, e con la partecipazione di tutti, strumenti matematici anche piuttosto raffinati. Vien da pensare, leggendo la trascrizione della discussione, alle appassionate discussioni che si tennero a Mirto proprio sulla didattica della matematica, che avevano per protagonisti personalità come Lucio Lombardo Radice, grande matematico ed amico e collaboratore di Dolci, e James Bruni, un docente di matematica all’università di New York che, lasciata la cattedra universitaria, si era messo ad insegnare matematica a dei bambini di otto anni, e ci era riuscito portandoli in strada e mettendosi a registrare i dati delle automobili che passavano. Interessante è anche un seminario maieutico sui rifiuti solidi urbani, che è scaturito dallo studio della legge di conservazione della massa e dell’energia e che a sua volta è stato seguito dalla visita all’inceneritore più vicino. Un momento di meta-scuola è un seminario tenuto durante una assemblea scolastica per discutere dell’assemblea stessa. Come è noto, le assemblee studentesche, introdotte con i Decreti Delegati del ’74 quale importante strumento di democratizzazione dell’istituzione scolastica, sino in crisi da diversi anni: gli studenti sembrano non essere in grado di gestire uno spazio libero di discussione, che spesso degenera nella confusione più totale, quando non viene semplicemente disertato. Chi lavora nella scuola sa che questa situazione ha cause diverse, alcune anche molto lontane, e che non è estranea ad essa l’importanza che ha la televisione per i ragazzi. Quando si tenta di tenere dei dibattiti in classe, succede spesso che la discussione si faccia presto esageratamente animata, con fazioni contrapposte. Non occorre molto per comprendere che si tratta della riproposizione degli scontri che caratterizzano alcune trasmissioni televisive particolarmente apprezzate dai più giovani. Di qui l’importanza di discutere dell’assemblea stessa, di metacomunicare per smontare i modelli televisivi e ritrovare una comunicazione autentica.

Sono evidenti le potenzialità del metodo della maieutica reciproca. La diagnosi di Danilo Dolci è esatta: la società è malata di rapporti sbagliati. La scuola, il luogo in cui si prepara la società di domani, vive anch’essa di rapporti sbagliati: unidirezionali, trasmissivi, poco creativi. Sono evidenti a scuola tanto il malessere degli studenti, che si esprime in modo silenzioso nell’abbandono scolastico ed in modo eclatante nella violenza, nel conflitto, negli atti di devastazione delle strutture scolastiche, quanto quello dei docenti, che si manifesta con la frustrazione, l’apatia, l’insofferenza, fino al burnout vero e proprio. La scuola è un luogo in cui si sta male, ed in cui è possibile stare bene, con alcune semplici mosse. La prima è: comunicare. Comunicare realmente, in modo aperto, sincero. Dolci ha capito una cosa fondamentale, che era chiara anche a Carl Rogers: che è fondamentale, per la nostra salute, comunicare in modo autentico con gli altri, accettandoli e sentendoci accettati da loro. Questa accettazione è non facile a scuola, l’istituzione che giudica e classifica, che promuove e boccia, così come non è facile comunicare in modo orizzontale e franco in una istituzione in cui la libertà dei rapporti umani è subordinata alle necessità della discplinina e dell’ordine. Dolci distinguere l’istituzione dalla struttura, considerando la prima come la sclerotizzazione della seconda. Una struttura è fatta di rapporti vivi, creativi, dinamici, mentre nell’istituzione prevalgono le norme fisse ed i ruoli stabiliti. La maieutica reciproca tenta l’opera di trasformare la scuola-istituzione in scuola-struttura, di immettere in essa creatività, franchezza, apertura comunicativa, di conquistare la gioia che viene dal comunicare autentico e dalla scoperta comune del sapere.

L’impresa non è facile, ma nemmeno impossibile, ed il libro di Francesco Cappello lo dimostra. Le opinioni degli studenti dopo i seminari maieutici confermano la positività dell’esperimento. Tutti concordano nel rilevare che il metodo maieutico rende possibile una partecipazione più attiva, superando la noia della lezione frontale e trasmissiva; alcuni notano che così sono maggiromente stimolati a pensare con la propria testa, ad essere creativi e propositivi; qualcuno apprezza il metodo perché gli consente di esprimere le proprie opinioni senza essere giudicato, ed è libero anche di sbagliare. Ma l’esito maggiormente degno di nota riguarda probabilmente i cambiamenti nella relazione. Nel cerchio maieutico è trascesa la struttura competitiva della scuola. C’è all’inizio l’ansia di prendere la parola davanti agli altri, ma presto viene superata dalla serenità del setting comunicativo, che consente a tutti di sentirsi accettati. Questa conquista della parola in un contesto nel quale a parlare è sempre il docente – e lo studente parla solo se interrogato – è il contributo più rilevante della maieutica alla trasformazione della scuola.

La scuola italiana (e non solo) sta attraversando una profonda crisi. Secondo una analisi tanto diffusa quanto superficiale, essa è in crisi perché i giovani non hanno più voglia di studiare. Bisognerebbe invece interrogarsi sulla profonda inadeguatezza di un sistema scolastico che ancora si affida senza riserve alle modalità trasmissive, ad una concezione depositaria del sapere, ad una strutturazione gerarchica ed autoritaria dei rapporti umani. Non è difficile scorgere dietro l’apatia e la disaffezione di molti studenti una protesta muta contro un sistema inautentico, che nulla offre di vivo né sul piano umano né sul piano conoscitivo. È facile verificare l’improvviso attivarsi di quegli stessi studenti, quando si passa dalla lezione frontale a forme più aperte di lavoro didattico; e spesso gli ultimi, quelli che sembrano irrecuperabili, persi alla scuola, diventano i più attivi e partecipi.

L’interesse non manca, a scuola, quando si fanno cose che hanno una significatività intrinseca; quando si fa esperienza in modo autentico, e non libresco; quando ci comunica davvero, e non dietro la maschera del ruolo e dello status. La maieutica reciproca di Dolci può essere una delle vie per ridare senso al lavoro scolastico, per riscoprire la gioia di fare scuola strutturandosi come una comunità impegnata nella ricerca della verità. C’è da sperare che il libro di Cappello venga letto da molti docenti, e che sia l’occasione decisiva per riprendere a distanza di anni il filo dell’eredità di Danilo Dolci, che si era assottigliato fin quasi a spezzarsi.