Per l’epicureo Lucrezio se non ci fosse una lievissima declinazione degli atomi non sarebbe comprensibile la nostra libertà: il fatto che non siamo spinti semplicemente dal mondo, cose tra cose, ma possiamo esprimere una nostra volontà, per quam progredimur quo ducit quemque voluptas (II, 258). Siamo esseri liberi perché andiamo dove ci conduce il desiderio. E la contraddizione sembra evidente. Il desiderio non è quella forza che ci conduce contro la nostra volontà verso quella schiavitù, quella follia erotica che lo stesso Lucrezio ha descritto in modo indimenticabile nel quarto libro del De Rerum Natura?
Ma Lucrezio è chiaro:
Nec Ueneris fructu caret is qui vitat amorem,
sed potius quae sunt sine poena commoda sumit. (IV, 1073-1074)
L’amore e il sesso sono due cose diverse. Il sesso è piacere, l’amore una follia. Si può, si deve godere del sesso senza la degenerazione dell’amore. È possibile sempre godere liberamente dei piaceri della Natura. E la libertà consiste proprio in questo: nel sottrarsi ad altri piaceri, che causano invece schiavitù. Il desiderio che ci distrugge non è quello legato alla Natura, ma quello che viene dalla Società. Ed è per questo che Lucrezio è oltre Schopenhauer. Le nostre sofferenze non provengono da una Volontà naturale che ci usa per perpetuare sé stessa, ricorrendo al piacere sessuale. La sofferenza che tutti proviamo è invece il risultato dell’azione su di noi della Società, che ci spinge a ricercare costantemente piaceri non naturali né necessari, il cui conseguimento non dà alcuna soddisfazione reale, e che ci riduce in quella condizione infelice, anzi tragica che il poeta latino tratteggia all’inizio del secondo libro. In questo senso il desiderio e il piacere hanno un carattere di liberazione: riaffermando la Natura contro la Cultura, il corpo contro la società.