Il poliziotto e l’insegnante

All’età di diciotto anni ho fatto il concorso in Polizia. Ricordo un viaggio in treno di notte, nel corridoio, una mattina al foro romano e un pomeriggio all’hotel Ergife a mettere crocette su un foglio – mi si chiedeva tra l’altro, ricordo, cos’è l’echidna – cercando di non addormentarmi. Lo superai. E per qualche giorno, dunque, mi chiesi se quella non fosse la mia via. Una uscita assolutamente onorevole per uno della mia classe sociale; e del resto il mio professore di musica a lungo aveva cercato di convincermi a lasciare la scuola, evidentemente così poco efficace con me, per fare il poliziotto, un lavoro che, in difetto di qualità intellettuali, avrebbe potuto mettere a buon frutto le mie qualità fisiche.

Decisi di no, alla fine. Avevo cominciato l’università e i primi due esami erano andati molto bene. Forse qualche qualità intellettuale c’era.

Ho ripensato a quel bivio in questi giorni. Alcuni studenti manganellati dai poliziotti in una manifestazione pacifica. Una cosa che ha indignato tutti gli insegnanti. E nei comunicati delle scuole emerge una certa visione della scuola come alternativa radicale alla violenza: il luogo in cui ci si educa al dialogo, alla nonviolenza, al confronto costruttivo, ai valori democratici: eccetera.

Ora, sarà per colpa di quel bivio, ma mi capita spesso di pensare che io e il poliziotto che avrei potuto essere procediamo in parallelo, se non proprio fianco a fianco. È colpa anche, a dire il vero, di Althusser e della sua teoria degli Apparati Ideologici di Stato. Mi capita di chiedermi se, oltre a lavorare entrambi per lo Stato, non si faccia entrambi, in fondo, la stessa cosa: difendere, puntellare, giustificare lo stato di cose esistente. L’assetto sociale, le stratificazioni di classe, le differenze di status, le intermittenze del riconoscimento. Per dirla con Galtung, che è venuto a mancare qualche giorno fa: la violenza strutturale. E, per aggiungere Galtung ad Althusser, siamo sicuri di non avere a che fare, in quanto insegnanti, con quella violenza culturale che giustifica e fonda sia la violenza strutturale che quella fisica?

Il poliziotto e l’insegnante sono entrambi al servizio della salus. Il primo la serve nella forma della sicurezza pubblica, il secondo in quella della salvezza individuale. C’è sicurezza pubblica se nulla giunge a inquietare l’assetto sociale ed economico: se il godimento della proprietà privata, ad esempio, non è turbato dalla figura inquietante del ladro; ma può essere che il poliziotto debba anche intervenire per manganellare qualche operaio che rivendica in modo un po’ troppo insistente i suoi diritti di lavoratore. Quanto alla salvezza scolastica – salvato è a scuola lo studente cui è stata evitata la bocciatura –, essa consiste nell’acquisizione del pensiero critico. E il pensiero critico consiste, a sua volta, nell’acquisizione di un insieme di gusti più o meno intellettuali, di abiti linguistici, di stili di vita e di consumo che consentono allo studente di acquisire lo status che la società riconosce alle persone che hanno un titolo di studio – o hanno l’aria di averne uno.

La violenza del poliziotto è visibile, evidente, e dunque suscita indignazione. La violenza del professore è simbolica: introiettata, accettata fino al punto da scomparire. Quando entro in classe trovo venticinque persone che sono chiuse in una stanza in un edificio dal quale non possono uscire di propria volontà. E non hanno nemmeno, senza chiedere permesso, la libertà di uscire da quella stanza. Così come non hanno la libertà di star seduti, in quella stanza, nel modo che ritengono più comodo. Eccetera. Tutto ciò è vissuto come normale, al punto che se fai osservare loro che normale non è ti guardano stupiti.

Questa è la repressione di base, la struttura detentiva fondamentale della scuola. Sulla quale si innestano, stante il carattere asimmetrico della relazione, continue violenze, alcune sottili ad altre più evidenti – alcune che lasciano una disagio ineffabile, altre che fanno semplicemente piangere lacrime amare. E queste piccole violenze quotidiane si iscrivono in, e sono al servizio di, una violenza più grande, che è la riduzione della cultura a strumento di selezione sociale – il costringere qualsiasi testo alla funzione deformata, caricaturale e, appunto, violenta del pretesto.

Qualche giorno fa una delle mie migliori studentesse mi ha confessato di avere intenzione di lasciare la scuola. Le ho parlato nel corridoio, perché la scuola italiana non prevede un luogo e un tempo in cui un insegnante possa parlare individualmente con lo studente – il ricevimento periodico è con i genitori. Mi sono reso conto, parlando con lei, di non avere troppe ragioni. Avrei potuto dirle che la cultura è un valore. Ma lei lo sa bene: legge e studia molto, ben al di là degli obblighi scolastici. Avrei potuto, dovuto dirle che uno studio che avvenga al di fuori della scuola non è davvero solido. Ma ne sono persuaso? No. A scuola si studia per il voto e, una volta ottenuto il voto, per lo più si cancella tutto ciò che è stato maldigerito. Avevo un unico argomento più o meno solido: senza un titolo di studio si precluderà la possibilità di fare molti lavori, di raggiungere una soddisfacente condizione economica e uno status corrispondente. Ma questo vuol dire ammettere che la cultura scolastica (i docenti usano l’aggettivo scolastico, riferito all’apprendimento, in modo negativo: “L’esposizione è stata scolastica”, e dunque il voto all’esame di stato non sarà granché) non è che uno strumento vuoto – nulla più di un pretesto, appunto – per operare una selezione sociale.

Foto di Michael Dziedzic su Unsplash

Author: Antonio Vigilante

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