Cedimenti mistici

Per gli studiosi di sinistra di Leopardi – primo fra tutti Luporini – è fondamentale dimostrare che il Recanatese non ha mai avuto alcun cedimento mistico. Sull’ultimo verso dell’Infinito De Sanctis si sbagliava – eh, succede anche ai migliori. E del resto c’è la Ginestra. Come può aver avuto cedimenti mistici uno che ha una visione così bella, e così attiva, così politica dell’umanità?

Con ogni probabilità la prima testimonianza storica di una politica dell’umanità (in due sensi: un imperatore che fa una politica umanitaria e un imperatore che considera l’umanità intera) sono gli editti di Ashoka. Dietro i quali c’è il cedimento mistico buddhista.

Acosmalgia

Lo stato d’animo più frequente e significativo, con il passare degli anni, mi sembra che non abbia, stranamente, un nome specifico. Molti con gli anni diventano nostalgici. Provano un dolore particolare che viene loro dal desiderio di una situazione lontana nel tempo. Io non sono propriamente nostalgico. Se qualcuno mi offrisse una macchina del tempo per tornare al 1984, al 1999, al 2010 rifiuterei senz’altro. Non c’è nulla di bello che mi aspetti nel mio passato. E tuttavia ho un passato. Ho vissuto il 1984, il 1999 e il 2010. Ho attraversato tempi diversi, ma soprattutto mondi diversi. Ho fatto parte di mondi che ora non esistono più. Mondi che erano da un lato la mia rete di relazioni – ad esempio i miei compagni di scuola – e dall’altra il contesto storico e culturale: la musica, l’arte, la televisione, la moda eccetera. Al tempo stesso, io ero altro da quello che sono ora. C’era un altro me che viveva in un altro mondo. Un me e un mondo estranei al mio me di adesso e al mondo in cui vivo; e tuttavia un mondo che è stato il mio, e un io che sono stato io.

Secondo la tradizione il Buddha insieme al Risveglio ottenne il ricordo delle vite precedenti. E se il Risveglio è gioia, non riesco a figurarmi questo ricordo di aver vissuto altre vite se non come questo genere di stordimento. E di fatto si tratta di questo: abbiamo vissuto, nella nostra vita, altre vite; siamo stati, in questa stessa vita, altre persone. E questa consapevolezza getta un’ombra sulla nostra stessa vita attuale. 

Non la sofferenza per un luogo al quale vorremmo tornare. La sofferenza sottile – e lo stordimento – che nasce dall’essere in qualche modo legati a mondi che non sono più i nostri, a identità che abbiamo attraversato; la consapevolezza di non poter mettere radici in nulla, meno che mai in noi stessi, perché questo stesso io che sta scrivendo è un luogo di passaggio, e presto morirà per incarnarsi ancora in un altro io, in un altro mondo – in questa stessa vita. Chiamo acosmalgia il dolore che dà questo passare da un mondo all’altro, da un io all’altro, in questa stessa vita. E mi pare che dopo una certa età diventi la condizione principale. Il tono di fondo, quando cessano per qualche istante la seduzione delle cose e il fastidio degli altri.

16 marzo, lunedì

Cercando aria, luce e colori, mi sono spinto questa mattina con il mio cane per i colli senesi, sui quali la primavera, indifferente alla nostra angoscia, sta cominciando a celebrare la sua festa. Nessuno per strada; solo, di là dai cancelli, due uomini impegnati nella potatura degli ulivi. “Taglia più in basso, lì” le uniche parole sentite. Per il resto il silenzio morbido e gentile dei colli. E i rospi.
Questo è il periodo della mattanza dei rospi. S’azzardano sull’asfalto e vengono falciati da un mostro di acciaio che nulla sa di loro. Restano lì, un ammasso di sangue e carne, fino a quando i raggi del sole non cominciano la loro operazione alchemica. In capo a qualche giorno, di loro non resta resta una sagoma di grigia e rinsecchita; qualche giorno ancora, e svanisce anche la forma – la tragica persistenza di una parvenza di vita, perfino di volontà.
Mi hanno seguito per tutta la mia esplorazione dei colli, queste cose, fino a quando ho ceduto al loro invito alla riflessione. Sì, non siamo forse anche noi così? Possiamo davvero ritenerci diversi da un rospo, nell’economia dell’universo? Non siamo fatti fuori anche noi, da un momento all’altro? E resta di noi qualcosa di diverso, nonostante la premura dei superstiti? Continue reading “16 marzo, lunedì”

La vita oltre la morte

C’è vita dopo la morte?, mi chiedi.
Certo. Quando tu sarai morto, tutto continuerà ad andare esattamente come prima: ci saranno fiori in primavera e neve d’inverno, si costruiranno ponti e muri, si verseranno molte lacrime e ci saranno molte risate.
Ma io non ci sarò, non sarà la mia vita, dici.
Esatto. Non sarà la tua vita: ma sarà vita. La vita oltre la tua vita. La vita oltre te. E tu vincerai la morte, se vivrai fin da adesso in quella vita che non è la tua vita. In quella vita che non è te.

Rumi, Freud e Neruda

Il Mathnawi di Rumi si apre con la storia di un re che acquista una giovane schiava di cui è innamorato. La ragazza però si ammala, e per guarirla il re chiama i migliori medici: ma nulla. Prega allora Dio, che in sogno gli annuncia che l’indomani arriverà un medico speciale, mandato da lui. E l’uomo arriva, visita la schiava e dichiara che tutte le cure sono state inutili, per una ragione particolare:

بی‌‌خبر بودند از حال درون ** أستعیذ الله مما یفترون‌‌
Non conoscevano lo stato interno. Io cerco rifugio in Dio contro ciò che essi inventano. [Traduzione qui ed oltre di Gabriele Mandel; testo persiano qui.]

E questo medico speciale, diverso dagli altri, comincia la sua cura. Chiede al re di lasciarlo solo con la ragazza, poi la fa parlare, tenendole il polso. La fa parlare della sua nascita, della sua famiglia, della sua città. Il suo obiettivo è cercare la spina nel suo cuore:

خار در دل گر بدیدی هر خسی ** دست کی بودی غمان را بر کسی‌‌
Se ogni misero essere potesse vedere la spina nel cuore, quando mai i dolori riuscirebbero a trionfare sulla gente?

Le tiene il polso per una ragione: quando, nel corso del suo racconto, la ragazza avrà trovato la spina, l’origine del suo dolore, il medico lo capirà dal fremere del suo polso.

Il resto del racconto ha un senso mistico ed esoterico, ma in questo poema, composto una cinquantina d’anni prima della Divina Commedia, troviamo l’intuizione della terapia psicoanalitica. E un verso, ancora, che alle nostre orecchie suona parecchio familiare:

شاد باش و فارغ و ایمن که من ** آن کنم با تو که باران با چمن‌‌
Sta’ felice e spensierata, non temere di nulla, poiché io farò per te quello che la pioggia fa per il prato.

E’ il Neruda di Juegas todos los dias:

Quiero hacer contigo lo que la primavera hace con los cerezos.
Voglio fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Quello che il medico divino fa con la schiava – quello che la pioggia fa al prato – appare ai nostri occhi terribilmente crudele. Ma Rumi avverte:

تو قیاس از خویش می‌‌گیری و لیک ** دور دور افتاده‌‌ای بنگر تو نیک‌‌
Tu giudichi in base a te stesso; ma sei ben lontano. Riflettici bene!

Ci sono primavere dolorose, e ciliegi che, al momento della fioritura, sembrano feriti a morte.

7 ottobre, sabato

Le accarezzavo le orecchie e la testa. Negli ultimi cinque anni della mia vita accarezzarle le orecchie e la testa è stato il modo per ancorarmi a qualcosa di buono, di dolce, di bello. Accarezzarle le orecchie e la testa mentre lei chiudeva gli occhi per godersi quel momento. Ma questa notte non c’era nulla di dolce, né di bello. Solo l’oscena ingiustizia di assistere alla sua agonia senza poter far nulla. Vederla andare, senza saperla davvero accompagnare. Perché quando le accarezzavo la testa lei era già altrove. Strappava alla morte ogni respiro, lottando con tutta sé stessa. Finché voler vivere non è stato più sufficiente.
Si muore. Lo so. Sabbe sankhara anicca. Me lo ripeto mille volte al giorno. Ho sentito morire molte persone, e molte mi erano care. Ma mai una morte mi è sembrata così ingiusta, così inaccettabile.
La morte di un cane. Sì. Un semplice cane. Soltanto un cane. Ma negli occhi di quel cane – negli occhi di Happy – c’era tutto il dolore, la dignità, la pazienza, la compassione dell’umanità offesa.

27 giugno, martedì

Gli atti vitali sono terribili. Mangiare, uccidere, scopare. Ma il più terribile di tutti è dormire. Ora ci sono, ora non ci sono più. Io per me stesso non sono una sicurezza. Il mio essere è intermittente. Il mio essere è inaffidabile. Il mio essere ha un vuoto al centro.
Questa intermittenza dell’io è il grande tabù del pensiero, ciò che è sconveniente da pensare, ciò di cui non bisogna parlare (לָמָּה תָמוּת, בְּלֹא עִתֶּךָ.). Dove sei, chi sei, cosa sei quando non ci sei? è la domanda fondamentale.
E’ solo attraverso il nihilum, dice Nishitani, che si giunge al vuoto.

24 giugno, sabato

Penseremmo di avere un corpo, se il nostro corpo scomparisse nel nulla per sette, otto, nove ore al giorno? Penseremmo addirittura di essere un corpo? No, dirai. Anche perché siamo abituati ad identificarci non con il corpo, ma con quella che una volta si chiamava anima: l’io, la coscienza. Ma la coscienza, ecco, è esattamente quella cosa che scompare per sette, otto, nove ore al giorno. Possiamo dire di avere una coscienza? O addirittura di essere una coscienza?

20 giugno, martedì

Mi siedo a gambe incrociate sul trifoglio, chiudo gli occhi per meditare, ma giusto qualche minuto, poi smetto perché ho voglia di guardare il prato e gli alberi e l’asino e le capre. Un’ape, poi un’altra, poi un’altra ancora, sui fiori di trifoglio. Il pavone mi passa accanto, attraversa un rigagnolo, si avvia verso la sua casetta di legno – placido.
Un idillio perfetto, infranto da un bassotto senza nome – lo chiameremo Scibbolet – che forse spaventato dal verso del pavone scappa sulla strada sterrata. Una ragazza bionda lo guarda, non sa se inseguirlo, poi compaiono due donne e lei dice che è lì, Scibbolet si è avviato da quella parte. Le due donne corrono e dopo qualche minuto tornano con Scibbolet in braccio. Si torna all’idillio. Una quindicina di bambini di quattro o cinque anni si stendono sull’erba, con i loro costumini, poi cominciano a giocare. Si lanciano l’un l’altro palloncini ripieni di acqua. Sono felici, molti ricorderanno questo come uno dei giorni più belli della loro infanzia.
E’ perfetto, penso.
Mi correggo: sarebbe perfetto se io non ci fossi.

8 marzo, mercoledì

Per qualche ora ho provato a rientrare in Facebook. Nel giro di pochi minuti sono stato risucchiato in un vortice di imbecillità.
Mi è finita sotto mano la foto di Capitini alla marcia della pace, con il cartello “Unità con tutti per sempre”. No, Aldo. Il tuo paradiso è il mio inferno. Alla larga da tutti, per sempre. E piuttosto: unità con il Ciò. तत्त्वमसि.

25 agosto, giovedì

Siedo sul balcone. Davanti ho la valle, di là dalla valle il paese. Quasi tutte le case sono spente, qualcuna ancora s’aggrappa all’ultima luce. Non un solo cane abbaia, nulla parla. Dietro le case il cielo. Due stelle verticali, una rosseggia, l’altra è fredda. Altre stelle sparse a caso. Respirano, ansimano.
Mentre la cagna che vive con noi raspava nei cespugli, prima, ho pensato a me vecchio. Alla vita che ti fa man mano più solo, più sopravvissuto. E poi uccide anche te.
Guardo le stelle  con il peso di questa condanna: della solitudine, della morte. Sento la mano fredda della notte che mi attraversa da parte a parte, e so che vivere è lasciarsi abitare dal nulla.
Quando anche questa casa non sarà più, avrò dentro questo balcone sul cielo, sulle stelle, sul nulla.

1 gennaio, venerdì

Il primo obiettivo del 2016 era raggiungere piazza del campo in tempo per la mezzanotte. Ci siamo fatti di corsa via Camollia e via Banchi di sopra, con una bottiglia di spumante e due bicchieri. Meno cinque, quattro, tre. L’uno è arrivato che eravamo a palazzo Tolomei. Niente. Siamo riusciti a mettere piede a piazza del campo che il 2016 era già vecchio di tre o quattro minuti. La piazza era gremita come nel giorno del palio, e sul palco un gruppo pugliese suonava la tarantella. La tarantella: quella musica che è bella per un minuto, due minuti: e poi induce stati di coscienza alterata. Fortunatamente dopo un po’ hanno smesso: trovarmi in una folla di persone in stato di coscienza alterata è uno dei miei incubi (trovarmi in una folla in generale, a dire il vero). 

A mezzanotte e mezza è cominciata la silent disco. Comincio il 2016 sapendo cos’è una silent disco. Funziona che ti ficchi nel carnaio, se non ti schiacciano riesci a raggiungere uno stand dove lasci un tuo documento, poi ti rificchi nel carnaio e se non ti schiacciano riesci a raggiungere un secondo stand dove paghi quindici euro e ti danno una cuffia. Ti metti la cuffia nelle orecchie, ti rificchi nel carnaio e ti trovi un posto in cui puoi ballare senza morire schiacciato. Con la tua cuffia. Tu e la tua musica. E così gli altri. Tutti ballano con la loro cuffia: e chi guarda non sente nulla.

Provo a far notare alla mia dolcissima metà che la musica è sempre stata quella cosa che uno suona ed altri ascoltano insieme, ed ascoltando insieme si sentono insieme, e questa cosa che ognuno ascolta la sua musica è… non mi viene un aggettivo: ma è la notte di capodanno, e non si può far filosofia. Guardo dunque la scena, che sta tra The Walking Dead e The Leftovers, meditando di cambiare specie. E raggiungendo il mio primo, meraviglioso risultato del 2016: fare tappezzeria a piazza del campo.

27 dicembre, domenica

Lui. Loro. Io? Lui: si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere. Si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere: e chiede l’elemosina. Ha un bicchiere in mano, e allunga la mano verso i passanti, cercando di non cadere. Orribilmente deforme. Loro: loro passano, orribilmente euformi, e ridono e parlano e guardano le bancarelle di Natale e le vetrine dei negozi e il grande albero di Natale in fondo al corso, davanti alla villa comunale. Loro vanno: è la loro natura, quella di andare. Io? Io guardo lui e loro. Ed ho voglia di piangere. Lui è una delle comparse della vita. Uno di quelli che conosci, ci sono da sempre, ma non sapresti dire il loro nome: ma ci sono, li conosci, fanno parte della tua vita. Aveva una forma, una volta. Era un essere umano. Parlava poco, per quello che ricordo: ma era un essere umano. Cosa lo ha ridotto così? Che è successo? Quando s’è perso, e come? E perché nessuno lo guarda? Perché nessuno ha voglia di piangere? 
Era da tanto che il Natale non era così bello, dicono. Così luminoso, così festoso. Così.

25 ottobre, domenica

Alla sinagoga di Pitigliano una signora è incredula: ma davvero il marito dovrà indossare quello strano cappellino per entrare? ma che cosa inaudita! Le spiego che non c’è nulla di particolarmente strano: nella sinagoga gli uomini mettono la kippah, come nelle moschee le donne mettono il velo. Ah, ma io in moschea non ci andrò di certo, dice la signora.
All’ingresso del ghetto ci sono due soldati con il mitra spianato. Il ghetto di Pitigliano lo chiamano “la piccola Gerusalemme”, ed in effetti sembra di stare a Gerusalemme. Anche se qui gli ebrei rimasti si contano con le dita delle mani.

24 ottobre, sabato

Milano, zona duomo. Un senegalese vende quei libretti che prendevo spesso a Bari, davanti alla Feltrinelli. Gli chiedo di farmi dare uno sguardo per vedere se c’è qualcosa che non ho. Ne prendo tre: venti euro. Il ragazzo è entusiasta dell’affare. Ti regalo dei braccialetti, dice. No, dico, lascia stare. Sì, dai, dice. Ti do un braccialetto per ogni figlio che hai. Quanti figli hai? Nessun figlio. Ah: e si rattrista per un attimo, come se gli avessi confessato di avere una grave malattia. Poi riconquista il sorriso, mi regala comunque tre braccialetti colorati e mi ringrazia quasi l’avessi salvato da morte certa.
Trenta passi più in là scopro che uno dei libri ha una pagina stampata e una no. Per un attimo penso che sarebbe bello scrivere le pagine non stampate. Un attimo dopo concludo che sarebbe ancora un’attività con un telos: havel havalim.
Alla stazione, seduto di fronte alla Feltrinelli, improvvisamente mi sembrano tutti morti. Paura. Angoscia. Liberazione.

Fame

Prendete due uomini, o due donne, o un uomo e una donna. Affamati. E tra loro del cibo, che basta per sfamare soltanto uno dei due. Dubito che esista una qualsiasi dottrina o teoria filosofica o morale, o religione, in grado di impedire che questi due si ammazzino per togliere il cibo all’altro.
Il bene e la morale nascono una volta che si è placata la fame; la virtù esiste solo per le bestie sazie.
Con il capitalismo succedono due cose. Una parte di umanità – l’occidente capitalista – sazia la fame. Di qui il diffondersi di ideali umanitari, dei diritti umani, delle religioni che, sanguinarie fino ad ieri, ora predicano la pace e l’amore. Dall’altra, il capitalismo ha bisogno di una fame infinita. Soddisfatti i bisogni primari, naturali e necessari, bisogna alimentare quelli naturali e non necessari e, ancora, quelli né naturali né necessari. Bisogna che si sia sempre nel bisogno; e per soddisfare questi bisogni non bastano il pane e l’acqua, né il caviale e lo champagne. Occorrono il petrolio, e il coltan, eccetera. Di qui, ancora, la violenza: una violenza ancora più feroce, ma nascosta dietro il palinsesto dei diritti umani e dell’etica dell’amore. L’uomo e la donna del capitalismo sono le uniche bestie che restano feroci anche quando hanno saziato la fame del corpo: perché una fame più profonda, e che nulla può soddisfare, e che richiede sacrifici infiniti, li divora.

3 gennaio, sabato

Nell’autobus. Due ragazzine sui vent’anni, sedute di fronte ad una vecchia. Una delle due le rivolge la parola: “Signora, che bella quella sciarpa”. La signora ha una sciarpa orribile con tutti i colori dell’arcobaleno. “Ah, grazie”. “Dove l’ha comprata?”. “Al mercato del mercoledì”. E cominciano la conversazione. Che strano, penso: una ragazzina parla con una vecchia. Perché? Ipotizzo: magari vuol fare pratica dell’italiano (ha un marcato accento inglese). Poi mi correggo: ma certo, sarà dei mormoni, sta cercando nuovi adepti. Ma no – dice una parte di me o un altro io in me o un ha-shatan interiore – sei troppo cinico e vedi il male ovunque. Metto a tacere il foro interiore, che comincia ad essere affollato, concentrandomi su due ragazze ed una bambina che parlano albanese. Cerco di capire cosa si dicono, ma la mia conoscenza dell’albanese non è granché. Riconosco solo il bukur che la bambina ripete più volte. Bukur: bello. Guardo un po’ fuori dal finestrino la campagna senese. Già, bello. Bukur, shumë bukur. Finché, per quel singolare meccanismo che ci porta a fare attenzione alle cose per noi significative anche quando stiamo pensando ad altro, colgo l’espressione “chiesa mormone”. La ragazza ha scoperto le carte, e sta spiegando alla vecchina che la loro chiesa si trova in un certo posto, dopo averle lasciato degli opuscoli.
Giunge la loro fermata. Le due ragazze (solo ora vedo che hanno sul petto un tesserino della chiesa) mandano baci alla vecchina ed escono in fretta, con l’espressione di chi ha appena compiuto una rapina. La vecchia, fino ad un attimo prima sorridente, ha ora il viso stanco. Sembra affranta, per un attimo ho l’impressione che stia per avere un attacco di panico. Si toglie il cappello di lana, respira. Tutto torna normale. Normale.
Normale: che qualcuno rivolga la parola ad un estraneo solo per usarlo; questo, nella nostra società, è normale. Rivolgere la parola ad un estraneo solo per parlare con lui, senza alcun altro fine, penso, sarebbe una cosa davvero rivoluzionaria. Chiedere della sciarpa, e dei figli, e di tutto quanto il resto, solo per conoscere, per stringere legami, per gettare ponti oltre le mura del nostro io. Ma, ecco, se lo facessimo, pure useremmo l’altro: ci servirebbe per fare la rivoluzione. E il mondo torna a sembrarmi un groviglio, mentre salto giù dall’autobus e mi avvio verso casa.

Una teoria

“Prof, ma ce l’ha una teoria?”, mi chiede Lahcen. Non è la prima volta che me lo chiede. La prima volta ho tergiversato, e così vorrei fare anche ora: ma lui insiste. “Ce l’ha o no?”. “E’ complesso”, provo a dire. “Non so se riuscirei a spiegarti adesso”. Ma lui insiste. E allora azzardo. “Tu al mattino ti svegli e per tutta la giornata vivi in una certa realtà. Ecco, la mia teoria dice che c’è un’altra realtà; o meglio, che tu potresti vedere la realtà in un modo del tutto diverso. E che in questo modo del tutto diverso c’è pace”. Lo guardo, convinto che non ci abbia capito nulla. Ma lui mi assicura: “Sì, prof, ho capito”. Chissà.

17 ottobre, venerdì

Le strade erano insignificanti, spesso brutte. Ma ognuna di quelle strade era impastata di me. Ogni volta che attraversavo ognuna di quelle strade, mi aggiungevo al mio passato. Sulla via della stazione ero accompagnato, ad esempio, da un ragazzino che andava alla libreria Nuova Minerva ad acquistare la sua prima copia del “De Rerum Natura” di Lucrezio. Ed ero lui, e no: e non lo ero essendolo.
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un’ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c’è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l’ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.

Da un’altra parte

Ho ottenuto il trasferimento a Siena. Da settembre si ricomincia da un’altra parte.
Ci sono due tipi di persone che, in genere, vanno via da Foggia: quelli che lo fanno per necessità e quelli che lo fanno per scelta. I primi sono per lo più proletari e vanno via per lavoro: e partono con profonda nostalgia, e pensano ogni giorno a come tornare; ed in genere tornano, dopo qualche anno, e si sentono felici di essere tornati in quella che non ha mai smesso di essere la propria casa. Quelli che partono per scelta sono per lo più figli della buona borghesia, e vanno via per studiare, e non provano per la città che disprezzo e vergogna; e se tornano, lo fanno con il senso di sconfitta di chi non è riuscito a realizzarsi in posti migliori.
Poi ci sono quelli che vanno via per tristezza.
Molti anni fa discutevo di Foggia con un’amica, oggi affermata scrittrice a Roma, in una circolare (il bus cittadino). Parlavamo di questo: andare o restare. Lei, che studiava a Milano, diceva di Foggia tutto il male possibile; io difendevo le ragioni del restare qui, nonostante tutto. Un ragazzino ci ascoltava, attento. La sua fermata arrivò a Candelaro, uno dei quartieri più infelici di una città infelice. Prima di scendere ci lanciò uno sguardo intenso, poi sorrise e disse: “Comunque Foggia è forte”. Lo disse in italiano, perché noi stavamo parlando in italiano – ma si capiva che la frase avrebbe acquistato il suo senso pieno solo in dialetto.
Per molto tempo ho pensato allo sguardo, al sorriso, alle parole di quel ragazzino. Ho pensato che sì, Foggia è forte: più forte della mafia che la soffoca, più forte della politica che la umilia, più forte della povertà, dell’ignoranza, della cialtronaggine che la consumano. E’ forte, pensavo, di una forza difficile da comprendere, forse misteriosa, certo sfuggente. Ed ho cercato di farmi forte di questa forza. Consideravo Foggia come un bambino fragile, malato, che però ce la farà, perché vuole vivere con tutto sé stesso: e che bisogna aiutare con tutte le cure possibili perché quel suo telos, che è bene, non sia travolto e spento dal male. Oggi penso di non poter fare nulla per quel bambino, e che anzi il prendermene cura o il semplice preoccuparmi per lui finirebbero per uccidere anche me e chi mi sta accanto.
Molti anni fa un anziano stava in un bar. Era il suo compleanno, stava festeggiando con gli amici. Nulla di che: un caffè, qualche pasticcino. Davanti al bar ci fu un agguato mafioso; l’anziano fu colpito da una pallottola vagante: e morì. Il sindaco – che era un fascista, e nell’indifferenza di tutti aveva fatto costruire due enormi fasci nella piazza principale della città – si disse indignato, ed annunciò una grande manifestazione pubblica di protesta. Che non ci fu mai. Mai.
Imparai allora due cose, ampiamente confermate da quello che è successo poi. La prima è che Foggia è una città in cui puoi morire per caso, per una pallottola vagante. La seconda è che questo, a Foggia, è naturale: rientra nell’ordine delle cose che un foggiano è disposto ad accettare senza inquietarsi troppo.
La mafia a Foggia si chiama società. Non è un caso.
Amo Foggia profondamente. L’amo come si ama la città in cui si è nati, in cui vivono le persone che si amano, in cui ci si è innamorati. Ma è un amore ferito, ormai: e rischia di incancrenire, e diventare qualcosa di peggio dell’odio. E’ l’amore disperato, angosciato, doloroso che si prova per una donna che ci ha traditi: e che – lo sappiamo – lo farà ancora, e ancora, e ancora.
I ragazzi dello Scurìa dicono che le città sono di chi le ama. Hanno ragione, anche se sui manifesti elettorali qualche mese fa si leggevano cose non troppo diverse. Hanno ragione: le città sono di chi le ama. Anzi: di chi sa amarle. Come le donne. Non basta amarle, o volerle amare. Bisogna saperle amare, essere in grado di renderle felici, ed essere felici con loro. Un amore ferito non serve a nessuno: né a loro (le città e le donne), né a noi.

9 maggio, venerdì

Aprile ci ha traditi, con le sue nuvole il suo freddo le sue piogge, ma a maggio l’aula non ci trattiene. Ci troviamo un posto nell’erba, in un angolo all’ombra. L’erba è stata tagliata da poco, c’è un buon odore di camomilla. Seminario maieutico. Il cerchio è imperfetto, perché qualcuna non se la sente di sedersi nell’erba, ha paura di sporcarsi i jeans o di essere presa d’assalto dagli insetti o dalle lucertole; ma va bene anche così. Il tema è: quali sono le nostre paure? Lo hanno scelto loro. E vengono fuori una ad una, le nostre paure: di morire, di soffrire, ma anche di fare del male agli altri; ed ancora: di deludere o di non essere all’altezza delle situazioni. La nostra fragilità, messa lì sul prato, appoggiata sull’erba tagliata da poco, sulla terra odorosa di camomilla, quasi non fa paura. Cosa possiamo fare?, chiedo. Ma la risposta è già lì. Quello che possiamo fare lo stiamo già facendo. 

24 aprile, venerdì

Poco fa, mentre Happy faceva i suoi bisogni, un ragazzino sulla bici all’amico: “Io lo conosco, salsiccia”.
Quando avevo tredici o quattordici anni conoscevo un tale che chiamavano salsiccia. Aveva un po’ la faccia da fesso, e per questo lo chiamavano salsiccia. Poi crebbe, e il fatto di avere la faccia da fesso ed essere chiamato salsiccia cominciò a fargli male. Si fece crescere i capelli, ma restava la faccia da fesso. Allora divenne metallaro, con le borchie e tutto il resto. Ma continuavano disperatamente a chiamarlo salsiccia. Allora cominciò a fare a botte con chi lo chiamava salsiccia. Non so com’è andata a finire, ma secondo me lo chiamano ancora salsiccia.
Anche Giuseppe – il mio compagno di banco alle superiori – aveva la faccia un po’ così. Non proprio da fesso: da ragioniere, ecco. Un ragioniere un po’ furbo, con una nuance maliziosa nel ripiegarsi del labbro, ma pur sempre un ragioniere. Ma lui si pensava altro. Era anche lui metallaro, e pensava di essere la reincarnazione di Jimi Hendrix, poiché era nato lo stesso giorno della sua morte. Lo chiamavamo Napoleone, perché era basso, credo. Non gli faceva piacere. Lo faceva soffrire, anzi, la distanza tra quello che voleva essere e quello che era. Tra la sua Selbstdarstellung di musicista rock e la sua quotidianità di ragazzino con la faccia da ragioniere destinato ad un impiego alla Posta. Tra gli assoli di Jimi hendrix e quello che usciva dalla sua chitarra prototipo bianca.
Giuseppe ha risolto la distanza gettandosi dal balcone di casa sua. Se fosse ancora vivo, credo che lo chiamerebbero ancora Napoleone.
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe. 

Venerdì, 31 gennaio

Ieri una collega mi ha chiesto come mai sono stato in malattia. Le ho detto del mal di schiena. “Alla nostra età succede”, ha detto. Alla nostra età. La sua, la mia. C’è un’età che ora è anche la mia nella quale succede di star male per il mal di schiena. E succedono tante altre cose.
Ma queste cose – ed è questo l’essenziale – succedono al di fuori. Nel corpo, ma al di fuori. Nel corpo, ma al margine di qualcosa che resta identico, immutato: che si rifiuta di appartenere alla nuova età, semplicemente perché non ha a che fare con altro che con questo-presente-qui, che non è più giovane o più vecchio di alcun altro presente.
“Ogni istante del tempo può essere denominato ‘monade di eternità'”, dice Nishitani.

31 ottobre, giovedì

“Questa è la scuola”, dice la ragazza nigeriana al figlio. Si chiama Destiny, il bambino. Avrà un anno, sta cominciando a parlare, e guarda il mondo con occhi grandi. L’autobus è fermo davanti alla scuola elementare, imbottigliato nel traffico. “Questa è la scuola. Quando ti fai grande tu vai a scuola. La scuola è buona”, dice la ragazza nigeriana al figlio.
Cinque minuti dopo sono davanti alla scuola in cui insegno. I ragazzi sono tutti nel piazzale, anche se è tempo di entrare. Non entrano. E’ sciopero.
Faccio per entrare. Una delle due porte è sbarrata dalla saracinesca. “Che succede?”, chiedo. “Ci buttano le uova”. Dentro il fetore di uova marce è insopportabile.
Ci buttano le uova.
La scuola è buona.

25 settembre, mercoledì

Al collo. Ho portato per molto tempo una medaglietta d’argento con il simbolo del Kalachakra, alternandola con una moneta da cinquanta leke, un piccolo Buddha di legno, un pendente nepalese con gli occhi del Buddha. Adesso ho un cerchietto di giada. Un buco. Che rappresenta? che significa?. Un buco, nulla di più, nulla di meno. Un buco: l’alfa e l’omega, l’origine e la fine. Da un buco veniamo, in un buco finiremo.  Ma: mi figuro che ci sia anche un buco in cui ficcarsi per svignarsela. Lo strappo nella tela attraverso il quale l’attore si sottrae alla storia. Un buco: l’assenza, il no, la sottrazione. La via di fuga.

Albania: (foto)appunti di viaggio

Tirana
Tirana sta al confine tra oriente ed occidente, tra tradizione e modernità, tra povertà e ricchezza. E’, diresti, una donna che veste abiti lussuosi su una biancheria che ha troppi segni d’usura. E’ la metafora che ti viene in mente quando osservi i tavolini all’aperto degli infiniti locali del centro – elegantissimi, tutti dotati di connessione wifi gratuita – e, alzando appena lo sguardo, constati che sono sovrastati da palazzi fatiscenti, con i mattoni a vista ed un groviglio di cavi elettrici e telefonici. Se la povertà continua a mordere, la ricchezza è comunque a un passo: il sogno della modernità sembra farsi realtà nelle molte costruzioni ardite, come la Sky Tower, un palazzo di quindici piani che termina con una cupola in vetro che ruota su sé stessa ed ospita l’immancabile bar.
Simbolo delle diverse anime della città e della loro capacità di coesistere è piazza Skanderbeg. Fino a non molto tempo fa era un enorme spazio vuoto, buono per le parate militari del regime comunista; oggi si è riempita di giardini.

Piazza Skanderbeg
Intorno alla piazza lo sguardo abbraccia il museo storico, con il murale frontale (qui), la torre dell’orologio, la moschea, la statua di Skanderbeg, la cattedrale ortodossa. Le due costruzioni religiose – la moschea e la cattedrale ortodossa – sono simmetriche per forma e grandezza, quasi ad esprimere il rispetto reciproco tra islam e cristianesimo. La cattedrale cristiana è una costruzione recente (di fatto è ancora in costruzione), offerta dallo Stato alla comunità cristiana quale risarcimento per la vecchia cattedrale distrutta dal regime comunista.

La cattedrale ortodossa

La moschea Et’hem Bey, risalente invece alla fine del Settecento, è un ambiente molto raccolto, suggestivo, anche se uno sguardo attento ai dettagli (che so, l’orologio da tre soldi appeso alla parete a far da supporto all’orologio a pendolo) coglie una certa trascuratezza. E’ talmente piccolo, l’interno, che ci si sente a disagio come turisti con la fotocamera: ma lo sguardo del custode che pregusta qualche monetina all’uscita è incoraggiante.

La moschea Et’hem Bey

Gli albanesi, quando non sono atei o indifferenti alla religione, sono per lo più musulmani. Eppure le due figure simboliche del paese appartengono al cristianesimo: Madre Teresa (a Nënë Tereza è intitolato l’aeroporto di Tirana) e Skanderbeg, l’atleta della cristianità. Se chiedi ad un albanese conto di questa contraddizione, ti risponde ricordando le parole del poeta Pashko Vasa: Feja e shqiptarit është shqiptaria (la religione degli albanesi è l’albanesità). Skanderbeg, il cristiano che ha combattuto gli ottomani, è stato però anche e soprattutto il difensore della libertà e dell’indipendenza del paese contro l’invasore. Su Madre Teresa non mi esprimo.

Oggi bisognerebbe aggiornare il verso di Vasa ed aggiungere alla albanesità l’italianità. A Tirana, ma anche nelle città più interne, l’Italia è ovunque. Non c’è strada che non abbia negozi con insegne italiane. L’aggettivo italiano, aggiunto a qualsiasi cosa, sembra darle più consistenza: un negozio di materiale elettrico italiano è diverso da un semplice negozio di materiale elettrico. L’Albania è rimasto l’unico posto al mondo, forse, in cui italiano è ancora sinonimo di buon gusto, creatività, eleganza: qualità. Ed anche, purtroppo, l’unico posto al mondo in cui si continua ad ascoltare Toto Cutugno.
Per un peppino – così i tiranesi chiamano con affettuoso sfottò gli italiani, ironizzando sulla nostra scarsa fantasia nella scelta dei nomi – l’Albania è un po’ come casa propria: in tutti i ristoranti o quasi c’è un menu italiano (con predilezione per la cucina emiliana), se si vuole una pizza si va in una piceri, e se si parla in italiano quasi sempre si è compresi da qualcuno che, se non è stato in Italia, ha guardato tanta televisione italiana da imparare la lingua. E però direi di non approfittarne, ché la cucina albanese è ottima, ed il salep può sostituire alla perfezione il cappuccino, così come il byrek non farà sentire troppo la nostalgia della pizza.
Tirana è attraversata dal fiume Lana, la cui acqua non è propriamente di sorgente. E’ qui che è possibile apprezzare maggiormente l’opera dell’ex sindaco ed attuale capo del governo, Edi Rama. Fino a qualche anno fa le sponde del fiume erano occupate interamente da costruzioni abusive e chioschi, che sono stati completamente eliminati. Oggi il fiume, con le sue sponde verdi ed alberate, offre una vista gradevole, anche se l’acqua continua ad essere non propriamente di sorgente. Resta solo, sui ponti che lo attraversano, qualche bancarella di libri usati. In una di questa ho trovato, tra i tanti dell’ex dittatore Enver Hoxha, un libro in italiano intitolato L’eurocomunismo è anticomunismo (Tirana 1980). La tesi è chiara fin dal titolo: Hoxha attacca l’eurocomunismo – principale obiettivo polemico è lo spagnolo Carrillo, ma ce n’è anche per il nostro Berlinguer – accusandolo di essere una teoria borghese e reazionaria. “L’epoca delle rivoluzioni proletarie – scriveva – è appena cominciata. L’avvento del socialismo rappresenta una necessità storica che deriva dallo sviluppo oggettivo della società. Ciò è inevitabile. Le controrivoluzioni avvenute finora, come pure gli ostacoli che sorgono, possono prolungare un po’ l’esistenza al vecchio sistema sfruttatore, ma non hanno la forza di impedire la marcia della società umana verso il suo futuro socialista” (pp. 6-7). Quando si dice essere profetici.
Quest’uomo che tuonava contro la borghesia e l’imborghesimento dei partiti comunisti occidentali dalla sua villa con piscina nel centro di Tirana ha lasciato il più grande monumento alla paranoia: le migliaia e migliaia di rifugi antiatomici che avrebbero dovuto difendere il popolo albanese dai nemici. Li vedi affiorare ovunque: sugli argini del Lana, nei parchi e nei giardini, nelle campagne. Smantellarli costerebbe troppo, e così gli albanesi l’hanno presa con filosofia: nei negozi di souvenir i bunker in miniatura con la scritta “Albania” sono gli oggetti più presenti, dopo le immagini di Skanderbeg e di Madre Teresa.
La tonalità emotiva dominante, a Tirana, sembra essere un certo fiducioso ottimismo, quella Weltanschauung meridionale che vale più di tante filosofie. Ska problem: non c’è problema. Che vuol dire, certo, che non è il caso di vedere il diavolo più brutto di quel che è, ma anche che i problemi, quando ci sono, possono essere risolti grazie alla meridionale e mediterranea arte di arrangiarsi. Si trova sempre un modo, non è il caso di drammatizzare. Meno ottimisti sono i marginali della città: gli jevg ed i rom. I primi, confusi spesso con i rom, sono ashkali, un popolo presente nei Balcani fin dall’antichità e proveniente probabilmente dall’Egitto. Più scuri di pelle dei rom, parlano correntemente l’albanese e costituiscono un sottoproletariato urbano dedito per lo più ai servizi di pulizia. Peggiore la condizione dei rom. Ho visto famiglie rom letteralmente buttate sul marciapiede davanti al terreno da cui il proprietario le aveva cacciate, mentre altri vivono in casupole di lamiera.
Monte Dajti
Il mali (monte) Dajti con i suoi mille e seicento metri d’altezza è il posto migliore per osservare Tirana dall’alto – ma lo sguardo spazia, se il tempo lo permette, fino alla costa. Ci si arriva con una funivia costruita dagli austriaci ed inaugurata nel 2005. Il viaggio dura circa venti minuti e permette di ammirare i vasti boschi di faggi che circondano Tirana. Arrivati sulla cima si è accolti dalla Dajti Tower, una delle costruzioni avveniristiche che tanto piacciono ai tiranesi. Se si ha il buon senso di ignorarla, si può salire ancora, accompagnati da un pulmino, al ristorante Veranda, che mantiene quello che promette il nome: si mangia letteralmente immersi nel panorama.

Panorama dal ristorante Veranda


Kruja

Se la religione degli albanesi è l’albanesità, Kruja è per l’Albania quel che il Vaticano è per i cattolici o la Mecca per i musulmani. Qui è nato nel 1405 Giorgio Castriota Skanderbeg, e del castello di Kruja, risalente al quinto secolo dopo Cristo, ha fatto il centro della resistenza cristiana all’invasione ottomana.
Oggi il castello è sede del Museo Storico Nazionale e del Museo Etnografico. Le sue sale sono ricoperte da affreschi che raccontano le varie fasi della resistenza agli ottomani; in quella centrale sono conservate copie dell’elmo e della spada dell’eroe. L’elmo di Skanderbeg è sormontato da un paio di corna di capra. Secondo la leggenda, l’eroe durante una battaglia mandò contro i nemici un esercito di capre, cui aveva legato delle fiaccole: con il favore della notte agli ottomani sembrarono soldati albanesi. (L’elmo caprino è oggi il simbolo di Kastrati, la principale compagnia petrolifera del paese.)

La sala centrale del castello di Kruja

Di grande fascino è il bazar di Kruja (qui e qui). Un tempo impressionava i viaggiatori per la sua grandezza; quasi scomparso nel corso del Novecento, è stato riportato in vita negli anni sessanta dal regime di Hoxha. Oggi consiste in un solo vicolo lastricato in pietra sui cui due lati si affacciano botteghe artigianali affollate di vestiti tradizionali, tappeti, strumenti musicali e l’immancabile qeleshe, il tipico cappello albanese in lana di pecora. In una bottega una donna sta lavorando ad un tappeto. Con squisita cortesia, per nulla infastidita dalle nostre fotocamere, ci spiega che impiega circa una settimana per finire un tappeto che poi venderà per l’equivalente di 35 euro.

Uscendo dal bazar sento l’inconfondibile dialetto pugliese. Sono turisti che vengono da Trani. Vengono qui da anni, dicono, perché costa poco ed è bello, anche se Saranda – la località di mare del sud – è ormai diventata troppo affollata.
Petrela
La fortezza di Petrela, a una trentina di chilometri da Tirana, è un altro dei luoghi chiave della resistenza all’invasione ottomana. Costruita su una roccia, ci si arriva arrampicandosi su una scalinata ripida, sconsigliata agli anziani e se si hanno bambini al seguito. Man mano che si sale, la vista inquadra la valle del fiume Erzen: uno spettacolo che da solo vale la salita. In cima si potrà riprendere fiato in un bar ricavato in una stanzetta in cima al castello che sembra appartenere ad un’altra epoca.

Vista da Petrela

Verso il lago Ohrid
Petrela è sulla strada che da Tirana porta ad Elbasan, la città scelta dal regime per la creazione delle più grandi industrie del paese. Finito il comunismo, le industrie hanno smesso di funzionare, ma è rimasto l’inquinamento, con il suo portato di tumori e malformazioni. Ci fermiamo pochi minuti – giusto il tempo di ammirare le mura del castello – e proseguiamo verso il lago Orhid. La strada si inoltra tra montagne e boschi fittissimi, costeggiando il fiume Shkumbini. Presso una fonte una bambina vende della frutta. A Tirana sono stato positivamente colpito dalla attenzione ai bambini: librerie, biblioteche, teatri per bambini, e strutture per loro in quasi tutti i curatissimi parchi pubblici. Fuori da Tirana, nell’Albania rurale, il lavoro dei bambini sembra invece essere diffuso.
Per i tiranesi la gente di questa zona è un po’ sempliciotta. Un tempo i campi qui erano pieni di marijuana. I contadini non ne sapevano niente, si limitavano a piantare i semi che ricevevano, convinti che si trattasse di un’erba medicinale.
Ci ferma la polizia stradale. “Hai i fari spenti”. “Chiedo scusa, mi sono fermato a comprare dei fagioli ed ho dimenticato di riaccenderli”. E lui, ridendo: “Che ti facciano bene”. (“Che ti faccia bene” è un augurio ricorrente in Albania.)
Dopo circa due ore e mezzo di viaggio giungiamo al lago Ohrid, confine naturale tra l’Albania e la Macedonia. Costeggiandolo, oltre agli immancabili bunker, si è colpiti da cartelli che indicano la vendita del Koran. Non si tratta del Corano, ma di un tipo di trota che si trova solo nel lago Ohrid, e che alcuni bambini reclamizzano facendola oscillare appesa ad un gancio. Sul lago Ohrid si affaccia Pogradec, patria di Lasgush Poradeci, uno dei maggiori poeti albanesi contemporanei. Il lago di Ohrid ha i suoi lidi, anche se piuttosto rudimentali, ma la nostra destinazione è un’altra: il punto in cui dal lago sorge il Drin. Qui le acque calme del fiume, popolate di cigni ed anatre e circondate da una natura quasi intatta, creano un ambiente di grande suggestione.

Sul fiume Drin

Korça
La cattedrale ortodossa

Korça! Ah, Korça! Devo confessare che questa cittadina, a sud del lago Ohrid e poco distante dal confine greco, mi ha rapito. Non ho avuto modo, purtroppo, di visitarla con calma, ma quel poco che ho visto mi ha fatto nascere il proposito di tornarci. Non ho visto il bazar, conosciuto come bazar delle serenate (tutta la città è nota per la tradizione delle serenate), che a quanto pare ha perso anch’esso lo splendore di un tempo, e che ci si propone di restaurare. Ho attraversato, invece, la strada lastricata con il caratteristico ciottolato (kalldrëm) che conduce alla cattedrale, attorniata da suggestivi edifici che rivelano le molteplici influenze culturali ed architettoniche che hanno formato l’identità di quella che molti chiamano la Parigi dei Balcani (qui e qui). A metà strada ci si imbatte anche in quella che è stata la prima scuola albanese, e che oggi ospita il Museo dell’educazione. Per una triste ironia della sorte, proprio davanti alla scuola ci fermano due piccoli mendicanti per chiedere l’elemosina. Hanno con sé una scatola di cartone con un gattino nero appena nato. Non lo vendono, lo tengono per suscitare la curiosità dei passanti. Diamo loro qualche lek, e ci ringraziano augurandoci di “fare milioni”. Sulle prima non capiamo: la pronuncia del posto è particolare. Alla fine della strada c’è un monumento che ricorda i caduti nella lotta contro l’impero ottomano. Alle sue spalle la meravigliosa cattedrale ortodossa. E’ una costruzione recente – è stata costruita nel 1992 nel luogo in cui sorgeva la cattedrale di San Giorgio, distrutta dal regime comunista negli anni Sessanta -, ma ha tutto il fascino delle chiese cariche di secoli.

Lasciando la città abbiamo ancora modo di apprezzare un enorme parco cittadino. Nel quale di tanto in tanto spunta l’inevitabile bunker.

Tutte le foto del post, comprese quelle linkate, sono di Antonio Vigilante. Nel caso volessi utilizzarle ti prego di rispettare la licenza di questo blog. Altre foto sono sulla mia pagina Flickr.

25.8.2013

Etty Hillesum: estratti dal Diario

Etty Hillesum

Il Diario che Etty Hillesum ha tenuto dal 1941 al 1943, prima di finire i suoi giorni ad Auschwitz, non è soltanto uno straordinario documento storico sul periodo più buio della storia contemporanea, ma appartiene a pieno titolo alla storia della mistica. E come tutti i testi di mistica autentica, esso provoca qualche disagio al credente, che ne è al tempo stesso attratto e respinto. Attratto, perché si tratta del diario di una ragazza che affronta con animo sereno, perfino felice, la tragedia dell’Olocausto grazie alla forza che le dà Dio: e quale testimonianza migliore del potere della fede? Respinto, perché quella di Hillesum non è fede nel senso comune del termine, né il Dio di cui parla è quello che si prega nelle chiese. Etty Hillesum spiega con grande chiarezza che il suo Dio non è altro che “la parte più profonda” di sé stessa. Non un altro-da-sé, ma la parte più nobile di sé. Come per ogni mistico, non si tratta di rendere culto ad un Ente o a una Persona, ma di essere, di realizzare Dio. C’è un fondo dell’anima in cui l’io-non-più-io diventa Dio.
In termini buddhistici, si dirà che c’è in ognuno la natura-Buddha (tathāgata-garbha), la possibilità di diventare un Buddha, ossia un essere libero dalla sofferenza e capace di amore e compassione. E’ questa consapevolezza che consente ad Hillesum di amare anche i nazisti: “disseppellire Dio” nel nemico vuol dire aiutarlo a ritrovare in sé questa natura luminosa, che nessuna brutalità potrà soffocare fino al punto da renderla irraggiungibile.
I passi che seguono sono tratti dall’edizione integrale del Diario (Adelphi, Milano 1996).

Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero. Questo non significa essere indulgenti nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. É una malattia dell’anima.

***
Penso che lo farò comunque: «mi guarderò dentro» per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sich versenken, «sprofondare in se stessi». Si può anche chiamare meditazione; ma questa parola mi dà ancora i brividi. E del resto, perché no? Una quieta mezz’ora dentro me stessa. Non è sufficiente muovere braccia, gambe e tutti gli altri muscoli nel bagno, ogni mattina. Un essere umano è corpo e spirito. E una mezz’ora di esercizi combinata con una mezz’ora di «meditazione» può creare una base di serenità e concentrazione per tutto il giorno. Non è però una cosa semplice, quella stille Stunde, «ora quieta»; bisogna impararla. Prima è necessario spazzare via dall’interno tutte le insignificanti preoccupazioni, i detriti. In fin dei conti, persino in una testolina così piccola c’è sempre una montagna di distrazioni irrilevanti. É vero che ci sono anche sentimenti e pensieri edificanti, ma il ciarpame è sempre presente. Sia questo, dunque, lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista. Così che qualcosa di «Dio» possa entrare in te, come c’è qualcosa di «Dio» nella Nona di Beethoven.
E anche qualcosa dell’«Amore», ma non quella sorta di amore di lusso in cui ti crogioli di buon grado per una mezz’ora, orgogliosa dei tuoi sentimenti elevati, bensì amore che puoi applicare alle piccole cose quotidiane.
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Sono presuntuosa nel dire che possiedo troppo amore per darlo a una persona sola? L’idea che per tutta la vita si debba amare sempre e soltanto una persona mi sembra così infantile. Può impoverire e inaridire parecchio.
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Riassumendo, vorrei in realtà dire questo: la barbarie nazista fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell’odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla melma.
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In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che presta ascolto alla parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.
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Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa. Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini.
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Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo.
M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé.
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Sono molto stanca.
Sono in grado di sopportare questo tempo presente, lo capisco persino un poco.
Se sopravviverò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi.
Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile.
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Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi.
Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: Ma quel che vuoi tu richiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse? Ho risposto: Ma a quel che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra èra cristiana, senza contare le molte migliaia di anni in cui esisteva già un’umanità – e che cosa pensi del risultato, se la domanda è lecita? E con la solita passione, anche se cominciavo a trovarmi noiosa perché finisco sempre per ripetere le stesse cose, ho detto: E’ proprio l’unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale.
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Per formularlo ora in modo molto crudo – il che farà probabilmente male alla mia penna stilografica: se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura, e per puro interesse nei confronti dell’umanità: Mio Dio, ragazzo, che cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni?
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Passiamo ad altro; oggi ho imparato una cosa importante: dovunque ci troveremo, dobbiamo esserci con tutto il nostro cuore. Se il cuore è altrove, non saremo capaci di dare abbastanza alla comunità a cui apparteniamo e quella comunità ne diventerà più povera. Che si tratti di impiegate carrieriste o Dio sa cosa, bisogna esserci con tutto il cuore e si potrà trovare qualcosa anche in loro.
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Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questo è poca cosa, se paragonato a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente.
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Mi sento responsabile per quel grande e bel sentimento della vita che mi porto dentro, devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore.
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Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò «Dio», e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, «lavorando a noi stessi», allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze.
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Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppur provare a esprimerlo in una parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio.
Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua: «riposare in se stessi», e forse sarebbe anche la definizione più completa di come io sento la vita: io riposo in me stessa. E questo «me stessa», la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo «Dio».
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Credo sinceramente che potrei esserlo, potrei anche dare un po’ di forza alla vita degli altri ed essere davvero felice, perché anche l’autentica felicità è un traguardo: essere davvero felice dentro, accettare il mondo di Dio e goderne senza voltare le spalle a tutta la sofferenza che vi regna. E’ una così triste orda, l’umanità oggi: tanto poco felice di vivere, nel vero senso della parola, e tanto poco radiosa. Un cumulo di piccoli complessi e preoccupazioni triviali, basse invidie, matrimoni infelici e figli malriusciti, ecc. Eppure, anche se abiti in un sottotetto e mangi solo pane secco, vale comunque la pena di vivere. E sebbene questi tempi rendano difficile l’esistenza, impedendoci di vivere appieno, non dovremmo comunque farne una tragedia o lasciare che tutto vada tristemente in malora. Anche questo fa parte della vita e non si può stabilire se la rovina debba colpire me o un’altra persona, ma non bisogna prendersi troppo sul serio nemmeno in tal caso.
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Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo «Dio».
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Nella mia vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio.
Oggi, mentre passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio.
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Cammino accanto agli uomini come se fossero piantagioni e osservo quant’è cresciuta la pianta dell’umanità.

8 agosto, giovedì

A conti fatti, non è il dolore. Il dolore è un momento – e il più delle volte non è nemmeno dolore, e poi il corpo ha le sue stranezze, basta poco per immaginare che questo braccio non sia il mio braccio, per sentire che questo braccio non è il mio braccio. Altra cosa è l’umiliazione, la resa: abdicare alla dignità. Sentire che qualcosa è cambiato, che non sei più quello di prima: che è cominciato per te un processo di cosificazione. E che se li lasci fare, presto sarai radicalmente altro. Sei in balìa d’altri, la tua forza di volontà è quasi una bestemmia per l’ordine medico-salvifico. Che tu possa dire no, è cosa non prevista. Tu hai da essere un corpo che non si ribella. Materia docile. Paziente: null’altro che paziente.
Altra cosa è l’umiliazione, la resa. Non è la periferia, ma il centro di te. Non puoi rinunciare alla tua dignità senza rinunciare a te stesso. E forse qui c’è la prova decisiva: rinunciare alla stessa dignità per rinunciare a sé; affidarsi davvero all’ordine medico-salvifico quale passaggio oscuro verso l’illuminazione. Abbandonarsi all’anestesia sperando di non risvegliarsi più in questo corpo, con questo nome. In un corpo, con un nome.