Potere, autorità e autorialità

Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Scrive Cognetti:

Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)

La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).

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L’educazione finanziaria

Su MicroMega Emilio Carnevali, docente di economia alla Northumbria University, ha avviato una discussione sulla necessità di introdurre in tutte le scuole superiori italiane l’insegnamento di Lineamenti di economia e finanza quale strumento indispensabile per esercitare una vera cittadinanza democratica. Carlo Scognamiglio è intervenuto presentando alcune perplessità. Sostenendo pienamente la proposta di Carnevali, io invece ho ragionato un po’ sulle resistenza verso una simile proposta, che va ricondotta, mi pare, a tre limiti culturali della scuola italiana: l’opposizione tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico; la contrapposizione ulteriore, legata alla prima, tra saperi disinteressati e saperi pratici, in quanto tali inferiori; e la contrapposizione, quasi religiosa, tra la scuola e il mondo. Questi tre pregiudizi rendono improbabile una apertura della scuola italiana a un campo del sapere che appare al tempo stesso tecnico-scientifico, pratico e mondano.

La scuola è antifascista?

“La scuola è antifascista”, certo. Ma orienta le donne verso alcuni indirizzi e i poveri verso altri, e ritiene che alcuni saperi siano più importanti di altri. E questa è l’eredità del fascismo.

Qualche settimana fa in una mia classe abbiamo fatto un seminario sulla libertà. Cos’è la libertà? Cosa vuol dire essere liberi? Abbiamo cominciato con molte certezze, ci siamo lasciati con tanti dubbi. La libertà di movimento, ad esempio, è una libertà fondamentale, e non si può considerare libera una persona cui sia negata. Ma in un regime chi è più libero, chi ha libertà di movimento perché si adegua o chi finisce in galera perché combatte il regime? Chi era più libero, Gramsci in carcere o uno dei tanti italiani che avevano la tessera del PNF per necessità familiare? È una domanda retorica. Meno retorica è un’altra domanda. La libertà di fare del male è o non è una libertà? Va difesa? Sì può negare la libertà per garantire la sicurezza? Ma poi, alla fine, siamo in grado di dare davvero una definizione di libertà?

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La scuola italiana nello specchio di quella americana

Sarebbe bello se sulla porta di ogni aula scolastica ci fosse scritto “Qui nessuno viene lasciato indietro”. Mi sembra una sintesi di quello che deve – e che può, mi piace sperare – essere una scuola perfino più efficace dell’I care di Barbiana. Purtroppo non basta una formula suggestiva per trasformare realmente la scuola. No Child Left Behind (Nessun bambino lasciato indietro) è, come è noto, il nome dell’atto del 2001 dell’amministrazione Bush jr con il compiuto dichiarato, appunto, di conciliare uguali opportunità ed elevati standard scolastici. E che invece, come mostra Andrea Mariuzzo nel recente e utilissimo Scuola e politica negli Stati Uniti 1980-2020 (Morcelliana, Brescia 2022), di bambini ne ha lasciati indietro parecchi. E, come è facile immaginare, a restare indietro sono stati quelli socialmente fragili.

L’atto del 2001 è stato l’esito di un lungo dibattito, stimolato in modo decisivo dal rapporto del Congresso A Nation at Risk, che nel 1983 evidenziava la mediocrità del sistema scolastico statunitense e in particolare il calo costante delle competenze di base degli studenti. Nell’analisi conservatrice un simile disastro era la conseguenza della concezione progressista, deweyana della scuola, che aveva favorito le competenze sociali a discapito di quelle disciplinari. Per rimediare occorreva imporre alle scuole un nucleo di competenze comuni, accertate periodicamente con dei test, e legare lo stipendio dei docenti ai risultati dei loro studenti. Ed è questa la logica sottostante all’atto del 2001.

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Entriamo nel merito

Con ogni probabilità nessuno, nella storia del pensiero mondiale, ha affermato il principio del merito con più convinzione del filosofo cinese Mozi. “Nell’amministrare il governo, — si legge nell’opera a lui attribuita — gli antichi re-saggi collocavano in alto le persone moralmente eccellenti ed esaltavano i virtuosi. Se capace, anche un contadino o un artigiano sarebbe stato assunto con un alto rango, remunerato con emolumenti liberali, incaricato di importanti incarichi e autorizzato a emanare ordini definitivi” (Mozi, The Mozi. A complete translation , translated and annotated by Ian Johnston, The Chinese University of Hong Kong, Hong Kong 2010, 8). La meritocrazia era la via sicura per ottenere uno Stato solido, in grado di favorire il bene del popolo, mentre erano ben evidenti i mali derivanti dalla logica del nepotismo e dalla concentrazione del potere e della ricchezza in clan ristretti.

Poiché il nostro Paese ha un evidente problema di potere e ricchezze concentrati in clan ristretti, vien voglia di aderire entusiasticamente al pensiero di Mozi e di nutrire belle speranze per la nuova denominazione del Ministero dell’istruzione voluta dal governo Meloni: Ministero dell’istruzione e del merito. Finalmente nel nostro Paese i poveri, se meritevoli, potranno andare al potere o, se preferiscono, diventare ricchi. Sistematicamente.

Ma le cose non stanno proprio così.

Cos’è il merito a scuola? È senz’altro meritevole uno studente che, appunto, studia. E poi rispetta le regole. È educato e composto. Non crea problemi disciplinari. Fa quello che la scuola gli chiede di fare. Impara? È lecito dubitarne. Chi insegna sa che purtroppo non è scontato che aver preso un buon voto significhi aver imparato davvero. Cosa che è facile constatare provando a chiedere a qualsiasi studente di successo di parlare di un argomento a caso dell’anno precedente. Si scopre, spesso, che le differenze tra chi aveva i voti più alti e chi era perfino insufficiente sono minime.

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Docenti: differenziare, non gerarchizzare

“È finalmente giunta nel mondo della scuola un’innovazione che rompe l’egualitarismo”, leggo nell’incipit di quello che, a mia conoscenza, è l’unico articolo che discuta seriamente l’idea del docente esperto.[1] Ed è un incipit tristissimo per chi, come me, crede che l’uguaglianza sia un valore importante, se non il più importante di tutti. Di mali la scuola ne ha infiniti, ma l’egualitarismo è davvero l’ultimo. Mi piacerebbe poter dire che le scuole italiane sono meravigliose comunità di eguali, impegnate nell’impresa solidale di istruire ed educare, ma mentirei. Non c’è alcuna reale comunità, salvo poche lodevoli eccezioni. Più che al comunismo anarchico, le scuole fanno pensare all’individualismo libertario: ogni docente è una monade, chiuso nella sua classe, nella sua disciplina e nel suo metodo. Ma anche con questi limiti, mi terrei stretta questa orizzontalità. Che non è nemmeno completa, perché ci sono comunque docenti che hanno la certezza di esserci anche il prossimo anno ed altri che non sanno invece dove saranno, così come permane una certa percezione inferiorizzante dei docenti di sostegno.

Un docente non ha prospettive di carriera. Avrà aumenti di stipendio solo in base all’anzianità. E questo è un male, si dice. E può essere. Ma non è il male peggiore.

Il male peggiore è che tutti i docenti facciano le stesse cose, come se la scuola non avesse bisogno di valorizzare competenze specifiche. Molti docenti hanno un dottorato di ricerca. Un titolo di studio che certifica una competenza di altissimo livello, che però alla scuola non interessa. A nessuno è venuto nemmeno in mente di prendere in considerazione il possesso del dottorato, per selezionare i docenti esperti. Mi piace pensare ad una scuola che consenta a chi ha un dottorato di dedicarsi alla ricerca insieme all’insegnamento. Oggi essa è rigorosamente riservata all’Università. Chiunque, con attitudine, passione e competenze adeguate a far ricerca, non riesca a entrare nel mondo universitario, è condannato al dilettantismo. La scuola trasmette il sapere, non lo crea. È un errore madornale. Ed è l’errore da cui scaturisce quel tanfo di stantio della cultura scolastica.

Più che i docenti esperti, ci servono i docenti ricercatori, cui la scuola dia il tempo e l’agio di studiare, insieme ed oltre l’insegnamento, in sinergia con le Università ed altri enti di ricerca. Ma abbiamo bisogno anche di docenti che facciano ricerca nella didattica della loro disciplina e che si documentino, studino, sperimentino nell’interesse della scuola.

Abbiamo bisogno, ancora, di docenti che sappiano leggere il territorio, che abbiano le competenze per comprendere dove nasce un insuccesso scolastico, quali sinergie attivare per affrontare una povertà educativa, come aprire la scuola alla comunità.

E poi abbiamo bisogno di competenze manageriali: il middle management di cui si parla tanto. Docenti che collaborano con i dirigenti nella gestione quotidiana della scuola, occupandosi di faccende per lo più noiosissime, ma senza le quali la scuola non funzionerebbe.

Abbiamo bisogno, più di qualsiasi altra cosa, di pensare le scuole come sistemi di apprendimento e autoformazione per i docenti, contesti di sviluppo umano e professionale. La carriera del docente esperto è ridicola ed umiliante non solo perché alla fine di un percorso ad ostacoli il vincitore riceverà un obolo piuttosto misero, ma perché sarà diventato esperto grazie ad anni di dedizione ai corsi indicati dal Miur. Ed è senz’altro curiosa l’idea di un lavoratore che diventa esperto non grazie al suo lavoro, nel suo contesto, gettandosi mente e corpo nella sua fatica quotidiana, ma per la semplice dedizione all’arte di star seduto a un banco, vita natural durante.

[1] P. Fasce, Introdurre il docente esperto è il minimo che si possa fare per ridare vita alla scuola, in “Linkiesta”, 9 agosto 2022, url: https://www.linkiesta.it/2022/08/docente-esperto-scuola-italia/

Scuola e lavoro: per un dialogo

Invitato dall’amico comune Carlo Ridolfi, scrivo alcuni punti per avviare un dialogo pubblico con Christian Raimo.

Appena si è diffusa la notizia della morte di Giuseppe Lenoci, il sedicenne morto durante uno strage, Raimo ha scritto sul suo profilo: “L’alternanza scuola lavoro va abolita.” Vorrei spiegare per quali ragioni ritengo che l’alternanza non vada abolita (anche se di fatto il Pcto già non è più alternanza). Sono costretto però, per evitare ogni equivoco, a fare il giro lungo, con una premessa politica e una premessa pedagogica.

a) Premessa politica

Sono figlio di un operaio, cresciuto in una delle città italiane più difficili e povere. Sono cresciuto in una casa – un basso – di due stanze. La prima faceva da cucina e camera da letto per noi figli, e conteneva anche il bagno; l’altra era la camera da letto dei miei genitori. Questo era il livello di vita che il mio paese garantiva alla famiglia di un lavoratore. Il mio status personale era corrispondente. Era, cioè, pari a zero. Ho scoperto presto che chiunque avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa. Un docente, ad esempio, avrebbe potuto tranquillamente insultarmi, senza ragione, davanti a tutti. Nessuno avrebbe vendicato il torto subito.

Crescendo ho sviluppato una rabbia molto forte nei confronti di una società così diseguale. Rabbia che si è espressa, negli anni dell’adolescenza, con posizioni di estrema sinistra che non escludevano, in via di principio, il ricorso alla violenza per cambiare lo stato di cose. Dopo il 1989 sono approdato gradualmente, e non senza inquietudini, ad un anarchismo nonviolento o, se si preferisce, a una visione anarchica della nonviolenza. Decisivo è stato, per me, lo studio approfondito del pensiero di Aldo Capitini. Se dovessi sintetizzare in modo estremo la mia posizione politica attuale, direi questo: penso che si debba lavorare per costruire l’uguaglianza sociale combattendo l’autoritarismo e la concezione gerarchica dei rapporti sociali, con la cultura che la regge e giustifica; e ritengo che questo lavoro vada fatto nei contesti sociali concreti. Il lavoro politico, per come lo concepisco, non ha nulla a che fare con i partiti politici e con la scelta di presunti rappresentanti del popolo attraverso le elezioni.

b) Premessa pedagogica

La mia visione dell’educazione è la conseguenza di quanto detto sulla politica. L’educazione che pratichiamo nelle famiglie e nelle scuole è malata di asimmetria, e dunque di autoritarismo e di violenza. Penso che sarebbe buona cosa passare, sul piano terminologico, dalla pedagogia alla sinagogia, parola con la quale indico l’idea di un _educarsi insieme_ simmetrico, antiautoritario, centrato sulla ricerca comune dei valori. Da anni cerco insieme ad amici di lavorare ad una pedagogia antiautoritaria, critica, nonviolenta, che però non ceda ai miti facili di certa educazione naturale, come anche a quelli dell’homeschooling. L’ho fatto con la rivista Educazione Democratica, di cui sono stato direttore scientifico, e lo faccio ora come membro della Comunità di ricerca della rivista Educazione Aperta.

In sintesi: non sono un neoliberista. Ed occorre precisarlo, perché quando si assumono posizioni non allineate su temi come l’alternanza scuola-lavoro o le competenze, capita di essere accusati di esserlo.

Veniamo dunque all’alternanza. Come è noto, è stata introdotta dalla legge 107, la legge della Buona scuola di Renzi. L’impressione è che dietro l’opposizione all’alternanza da parte di molti amici che pure condividono, almeno in parte, la mia visione politica ed educativa, ci sia questo ragionamento: Renzi è un neoliberista, l’alternanza è stata introdotta da Renzi, dunque l’alternanza è una cosa neoliberista. Il mio ragionamento è stato diverso. Sono un pedagogista, e mi sono formato sulla pedagogia progressista: da Rousseau ad Illich, diciamo. Tutta la pedagogia moderna progressista considera il lavoro manuale parte essenziale del percorso formativo. Molti anni fa – era il 2006 – in un libretto, mi divertii ad immaginare una scuola improbabile. Scrivevo, tra l’altro:

La scuola che abbiamo, borghese, in fondo ancora classista, di corto respiro, è il risultato di un sistema che ha tracciato un solco profondissimo tra il mondo delle professioni intellettuali e quello delle professioni manuali. Anche l’ultimo studente liceale sa di essere migliore dell’apprendista falegname (vittima, il più delle volte, del lavoro nero e dello sfruttamento minorile). Lui, lo studente liceale, non imparerà mai a scuola a piantare un chiodo, a tagliare una lastra, a lavorare l’orto. Nella mia scuola improbabile tutti, figli di operai e figli di ingegneri, devono apprendere un’arte manuale in un laboratorio di falegnameria, di ceramica, di elettronica o altro. Non è solo per favorire una società in cui risulti ridimensionato lo iato tra professioni manuali ed intellettuali, con la stratificazione sociale che ne consegue; è anche per l’irrinunciabile valore formativo del lavoro.

Quasi venti anni dopo, di fronte ad una legge che introduceva una qualche forma di lavoro nella scuola, avrei dovuto rimangiarmi quello che avevo scritto, sostenere che no, il lavoro a scuola è una cosa priva di qualsiasi valore formativo, perché Renzi non mi piace. Mi sono chiesto invece in concreto quali cosa, come docente, mi avrebbe consentito di fare l’alternanza.

Una breve sintesi delle esperienze di alternanza nella mia scuola include un lavoro presso le residenze per anziani di Siena, durante il quale le mie studentesse (uso il femminile sovraesteso) hanno raccolto le loro storie di vita, che poi sono state trascritte e che hanno preso forma in un libro che purtroppo non è stato pubblicato. Altre studentesse sono state presso le scuole della città e della provincia, analizzando le dinamiche comunicative in un contesto educativo. Alcune sono state impegnate presso l’Unione ciechi, ed hanno lavorato a creare audiolibri per le persone non vedenti. Altre ancora le abbiamo mandate presso una associazione che pratica l’ippoterapia con le persone disabili.

L’alternanza è stata per noi anche l’occasione per sperimentare, insieme all’Indire e alla Cgil, il Service Learning. Si tratta di una pratica diffusa il tutto il mondo, anche nella sua versione sudamericana, l’Aprendizaje y Servicio Solidario. I riferimenti pedagogici sono John Dewey e Paulo Freire; ancora pedagogia progressista. Detto in breve, si tratta di questo: impegnare le studentesse in qualche attività in favore della comunità, e farlo utilizzando in modo organico lo studio disciplinare. Per fare un esempio: un liceo linguistico che organizza un corso di alfabetizzazione per migranti. Nel Service Learning si supera la chiusura della scuola al mondo esterno, che è uno dei suoi mali più evidenti, e si fa educazione civica reale: educazione all’impegno sociale.

Nel frattempo infuriava sui giornali la polemica. Il tema era, più o meno, questo: è giusto mandare gli studenti a preparare i panini al McDonald’s? Non so se davvero qualche Liceo delle Scienze Umane, qualche Liceo Classico, qualche Liceo Artistico o Scientifico o Istituto tecnico abbiano mandato le proprie studentesse a preparare i panini al McDonald’s. Se lo ha fatto, bastava chiedere conto di questa scelta educativa. E invece no: si è usato quel fatto, reale o presunto, per attaccare il nostro lavoro.

Si dirà: ma no, nessuna studentessa del Classico o dello Scientifico è mai stata mandata a fare i panini. Ci sono andate quelle del Professionale. E la questione, qui, diventa un’altra. Spero che si possa convenire però su un punto: nelle scuole non professionalizzanti l’alternanza scuola-lavoro ha permesso (parlo al passato perché, ripeto, il Pcto è un’altra cosa) di fare esperienze significative e che hanno arricchito la formazione, anche politica, degli studenti.

Veniamo dunque ai percorsi professionali. Ho insegnato in Istituti professionali prima della Buona scuola renziana. C’erano stage, ma non importava a nessuno. Tutti lo consideravano normale. In molti abbiamo letto il ben reportage di Annalisa Camilli su L’essenziale (Morire di scuola e di lavoro a 18 anni, 29 gennaio 2020) su Lorenzo Parelli, morto durante uno stage in fabbrica. Camilli ricostruisce il contesto: un paese in provincia di Udine, al centro di un distretto industriale. “I ragazzi da queste parti cominciano a lavorare presto, subito dopo il diploma, a 16 o 17 anni”, scrive. E della giovane vittima e di un suo amico, dice: “Erano contenti di lavorare, ne avevano parlato”. A un giovane che, in una zona in cui si trova facilmente lavoro appena usciti da un centro di formazione professionale, bisogna dire che no, non deve farlo; che deve andare a scuola, studiare letteratura, storia e filosofia, e rimandare il lavoro.

Io insegno Filosofia e Scienze Umane. Amo le mie discipline. Visceralmente. Penso che studiarle renda persone migliori. Ma non ho la presunzione di sentirmi migliore di nessuno, né considero persone mancate coloro che non le hanno studiate. Né, ancora, penso che la cultura passi necessariamente dalla scuola. Per dirla tutta, mi preoccupa molto anche il vuoto che spesso c’è dietro una formazione scolastica. In un contesto in cui quello che conta è il voto, la cultura diventa un mezzo, non un fine. E spesso è un mezzo che viene tolto di mezzo — mi si passi il bisticcio — appena non serve più.

Ma consideriamo l’ipotesi dell’abolizione degli stage nei percorsi professionalizzanti. Si tratterebbe di eliminare gli Istituti professionali e il Centri di formazione professionale: null’altro. Perché chiaramente non avrebbe alcun senso, in questi percorsi, fare scuola senza alcuna pratica. Che succederebbe? Semplicemente, ci sarebbe lavoro senza scuola. Chi vuole lavorare, se non ha una scuola che lo prepari al lavoro, va direttamente in azienda o in fabbrica. Lo scenario realistico, se si chiudessero tutti i percorsi professionalizzanti, non sarebbe quello di una liceizzazione generale, ma lo spostamento della formazione dalla scuola o dai centri di formazione alle aziende. E questo vuol dire una cosa concreta: vuol dire che se a scuola c’era la possibilità, tra le altre cose, di studiare anche italiano e storia, ora ci sarà _solo_ il lavoro. Si continuerà a morire — se non si lavorerà seriamente sulla sicurezza sul lavoro: perché quello è il problema. Ma mancherebbe anche altro. Perché la scuola può essere anche — non lo è, temo: ma può esserlo — il luogo in cui è possibile formare alla coscienza dei propri diritti di lavoratore. L’esperienza del lavoro, filtrata dalla scuola, può diventare consapevole e critica. Eliminare questi percorsi significa gettare nelle mani delle aziende dei lavoratori assolutamente sprovveduti, abbandonati nelle mani di un mercato del lavoro spietato, pronti alle forme peggiori di sfruttamento.


Christian Raimo

1. Io sono figlio di un operaio che in trentott’anni nella stessa azienda e diventato quadro e poi dirigente e di un’insegnante, mentre i miei nonni sono contadini, donne delle pulizie e operaie. La mia emancipazione sociale è stata tutta o quasi determinata dalla scuola pubblica e dalla università pubblica. Anche per questo per la scuola democratica pubblica, oggi sotto attacco in molti modi, è un baluardo da difendere. 

2. Mi sembra che abbiamo una concezione diversa di cosa sia lavoro. Per me lavoro si può definire tale se si paga, altrimenti è volontariato, militanza, servizio, attivismo. E solo a partire da questa premessa chiaramente le nostre ispirazioni possono concordare, da Daniel Goens a John Dewey alle varie forme del socialismo e dell’anarchismo. 

3. Nessuno studente è mai andato a friggere le patatine da McDonald’s. McDonald’s dal 2016 prende circa 10mila studenti in Italia e gli dà due compiti essenzialmente: gli servono da focus group e fanno promozione aziendale. Questo è molto più utile all’azienda, le permette di fare selezione a costo zero, marketing gratuito, e brandwashing, e di impedire che si sviluppi una cultura del lavoro e una coscienza di classe. 

4. Io non penso che la formazione professionale non debba esserci, ma penso che debba essere il più possibile a carico delle aziende, che sono state inondate di miliardi per fare questo. Penso che la maggior parte della formazione professionale è appunto una formazione da operai, non certo da manager né su come funzionano i processi di produzione o rudimenti di economia aziendale. 

5. Come si sa, la novità più significativa che vuole introdurre Patrizio Bianchi sono gli Its. Gli istituti tecnici superiori. Ossia percorsi professionalizzanti post superiori in modo da selezionare e formare, di nuovo in modo gratuito per le aziende, lavoratori adatti al mercato del lavoro territoriale, il più possibile disponibile just-in time. L’idea che fonda gli Its è che la pedagogia e la didattica la facciano scuole e aziende insieme, con la prevalenza delle aziende. 

6. Il lavoro, il lavoro minorile non pagato oltre che un’ingiustizia plateale determina ovviamente un effetto di dumping, di desindacalizzazione degli altri lavoratori


Antonio Vigilante

La scuola emancipa?

“La mia emancipazione sociale è stata tutta o quasi determinata dalla scuola pubblica e dalla università pubblica. Anche per questo per la scuola democratica pubblica, oggi sotto attacco in molti modi, è un baluardo da difendere”, scrive Raimo.

La scuola che emancipa. La scuola pubblica che emancipa. Sul concetto di scuola pubblica rimando a quanto ho scritto su uno degli ultimi numeri de Gli Asini. Ritengo che la scuola italiana sia sempre meno pubblica: perché sempre più chiusa in sé stessa e sempre meno in grado di dialogare con le comunità. Che la scuola italiana non emancipi, Raimo lo sa meglio di me. Le differenze sociali in Italia sono determinanti per la riuscita scolastica. Quelli che arrivano alla laurea hanno per lo più alle spalle genitori laureati. Le percentuali di riuscita scolastica per quelli che provengono da famiglie culturalmente povere sono scarsissime.

Perché la scuola non riesce a funzionare con questi studenti? Perché il rapporto educativo funziona se c’è riconoscimento reciproco. E il riconoscimento reciproco è possibile solo se c’è riconoscimento culturale. Se la mia cultura, quella scolastica, è quella giusta, e la tua cultura – che include, poniamo, il dialetto – è quella sbagliata, un abito che devi dismettere, nessuna relazione educativa è possibile. Lo studente cui si chiede di deporre il suo abito culturale per trovarsi nudo in un ambiente ostile — perché la scuola è un ambiente umanamente freddo e ostile — semplicemente scappa via.

Ma che vuol dire poi emancipare? È emancipato il laureato in lettere costretto a una vita di contratti precari e malpagati nell’editoria o a una supplenza breve? L’Italia è un paese che ha un bassissimo numero di laureati, ai quali non riesce a dare un lavoro decente.

E che vuol dire, poi, emancipare? La vita diventa una sorta di concorso su larga scala, una specie di serie televisiva coreana con alcuni che vengono a galla mentre altri restano sul fondo. Gli emancipati e i dannati. Io vorrei che la scuola lavorasse, capitinianamente, per tutti: non per emancipare alcuni. Vorrei una scuola che lavorasse per dare dignità e valore a tutti i lavori, sia intellettuali che manuali, perché la società ha bisogno sia degli uni che degli altri. Ma una scuola solo intellettuale fa il contrario: educa tacitamente al disprezzo dell’operaio e dell’artigiano.

Cos’è lavoro?

Scrive Raimo: “Per me lavoro si può definire tale se si paga, altrimenti è volontariato, militanza, servizio, attivismo”. E in effetti gran parte delle polemiche contro l’alternanza nascono da una fallacia definitoria. Cos’è lavoro? Solo quello che si paga? Sono le sei di mattino, ho appena fatto colazione e ora sto scrivendo questa replica a Raimo. Cos’è questo? Lavoro? In un certo senso sì. Nel linguaggio comune usiamo la parola lavoro per indicare qualsiasi cosa che richieda impegno. Quando scrivo un libro, io _lavoro_, anche se i miei libri vendono cinque copie, e non ci guadagno nulla. Quindi no, che il lavoro si possa definire tale solo se si paga è concettualmente sbagliato. Anche quello che gli studenti fanno a scuola è lavoro; ed è, spesso, un lavoro durissimo.

Il decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77, articolo 2, afferma che le finalità dell’alternanza sono:

1. attuare modalità di apprendimento flessibili e equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica;
2. arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro;
3. favorire l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali;
4. realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile che consenta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 2, nei processi formativi;
5. correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio.

Il lavoro, qui, è “esperienza pratica”; e la società civile conta quanto il mondo del lavoro. Ci sono tutti i margini, nella legge, per declinare l’alternanza scuola-lavoro come formazione alla cittadinanza con la metodologia del Service Learning. Per impegnare, cioè, gli studenti in percorsi di partecipazione attiva, politica, alla vita sociale, in rapporto con le associazioni del territorio. Si è preferito appiattire l’alternanza su un presunto sfruttamento, affossando una delle più grandi occasioni di formazione _politica_ dei nostri studenti.

Il MacDonald’s

Nessuno costringe nessuna scuola a mandare gli studenti al McDonald’s. I percorsi sono stabiliti dalle singole scuole. Se si ritiene che l’esperienza al McDonald’s non sia formativa, basta non mandare gli studenti. La palla è alle scuole. Ripeto: la legge consente infiniti percorsi di alternanza altamente formativi anche sul piano politico e civile. Si è preso la briga, Raimo, di documentarsi su cosa hanno fatto le scuole, nei percorsi di alternanza? Davvero vogliamo discutere di alternanza riducendola al McDonald’s?

La formazione professionale

” Io non penso che la formazione professionale non debba esserci, ma penso che debba essere il più possibile a carico delle aziende, che sono state inondate di miliardi per fare questo”, scrive Raimo. Questa è una pessima uscita. Soprattutto contraddittoria. Da un lato si afferma il valore della scuola come luogo di emancipazione, dall’altro si afferma che la formazione al lavoro dovrebbe essere sottratta alle scuole e affidata senz’altro alle aziende. Uno dei sensi profondi dell’alternanza – o degli stage – è quello di formare una cultura dei diritti del lavoratore. Per far questo, occorre che l’esperienza nel mondo del lavoro avvenga in un contesto in cui possa essere analizzata in modo critico. Lasciare alle aziende, senza alcun rapporto con la scuola, la formazione lavorativa, vuol dire lasciare loro mano libera nella formazione di lavoratori perfettamente adattati alle richieste, alle esigenze, agli abusi del mondo del lavoro.

Nell’immagine: L’officina della scuola di Barbiana. Fonte: Fondazione don Lorenzo Milani.

La pedagogia dell’evitamento

Molti anni fa entrai in una sala molto affollata per seguire una conferenza sull’educazione. Una volta — stava dicendo il conferenziere — un bambino a scuola poteva essere definito turbolento; oggi lo stesso bambino sarebbe definito iperattivo. E tra turbolento e iperattivo, spiegava, c’è una differenza enorme. La turbolenza è un problema pedagogico. L’iperattività diventa, invece, un disturbo.

Il conferenziere si chiamava Alain Goussot, e della questione avremmo discusso più volte, negli anni a venire. Mi sembrava che nella sua critica della medicalizzazione in atto nelle scuole ci fosse il rischio di non riconoscere problemi reali, che richiedono una personalizzazione della didattica, nella quale non riuscivo a non vedere una importante passo avanti della scuola italiana. A distanza di molti anni — e quando ormai non è più possibile, purtroppo, discuterne con lui — devo riconoscere che aveva molte ragioni.

Si è fatta strada in questi anni nelle scuole, fino a diventare dominante e incontrastata, quella che chiamerei pedagogia dell’evitamento. La famiglia comunica alla scuola che lo studente ha un disturbo certificato. E alla luce di quella certificazione, succede sempre più spesso che, sostenuta dallo specialista, chieda ai docenti di non far fare alla figlia o al figlio ciò che ha a che fare con il suo disturbo. Si va al di là delle misure dispensative e compensative, che pure sono diventate ormai un meccanismo pedagogicamente idiota (spesso si tratta solo di compilare un modulo barrando alcune caselle; ogni tipologia di disturbo ha le sue caselle). Mi è capitato di dover discutere in un consiglio di classe la richiesta, sostenuta da uno specialista, di esentare uno studente con un ritardo mentale dalla scrittura, dal momento che scriveva con grandi difficoltà. Questo studente, di quindici anni, aveva la scrittura di un bambino di otto anni; se la scuola avesse smesso di chiedergli di scrivere, avrebbe perso del tutto la capacità di scrivere. I genitori di una studentessa a disagio con le verifiche orali in classe chiedono che la figlia sia del tutto esentata dal parlare davanti ai compagni. In che modo potrà affrontare gli esami universitari? Come farà l’esame di laurea? A fronte di un disagio — spesso si tratta di questo, più che di un disturbo — la scuola può rinunciare a lavorare su competenze che sono fondamentali? È doveroso riconoscere a uno studente dislessico il diritto di scrivere usando il computer, ma siamo sicuri di aiutare uno studente con sindrome di Asperger badando ad evitare con la massima cura qualsiasi cosa che possa infastidire un soggetto con sindrome di Asperger? I nostri cervelli sono in costante adattamento all’ambiente. Un ambiente privo di qualsiasi sfida, che venga modellato sullo stato attuale di un cervello e non gli richieda nessun cambiamento, nessuno sforzo, è un ambiente che non favorisce, ma ostacola la sua crescita.

La rivendicazione delle famiglie è quella del successo scolastico. Che è sacrosanta. Il problema è che si confonde il successo con il voto. Se si chiede a uno studente di fare solo quello che sa fare, sicuramente i voti saranno alti. Ma lo scopo della scuola non è quello di mettere voti alti; è quello di far crescere gli studenti. E sappiamo che il nostro cervello cresce facendo cose difficili. Affrontando compiti che hanno un livello di sfida ottimale. Uscendo, per così dire, dalla nostra comfort zone mentale. L’impressione, invece, è che dopo la certificazione il lavoro dei consigli di classe consista proprio nel creare intorno allo studente una comfort zone tanto rassicurante quanto pericolosa.

È anche, mi sembra, un modo per venir meno alle proprie responsabilità educative e didattiche. Dispensare e compensare sono cose facili, con le quali mettiamo a posto la nostra inquieta coscienza di docenti senza troppi problemi. Siamo davvero convinti che una mappa concettuale, una calcolatrice, una interrogazione programmata possano aiutare qualcuno a crescere? Siamo sicuri che bastino i consolidati automatismi che portano all’elaborazione del Piano Didattico Personalizzato? Di fatto, manca nelle scuole il momento dell’elaborazione pedagogica e didattica. I docenti sono per lo più esecutori: prendono atto delle richieste contenute nella certificazione. Lo studente è esentato da…; si chiede alla scuola di… Ma la scuola è una comunità di professionisti dell’educazione. Cercare le mediazioni adeguate, una volta preso atto delle difficoltà dello studente, è un suo dovere. E non basta barrare qualche casella per assolverlo.

Il fatto che manchi ordinariamente nelle scuola la figura del pedagogista di Istituto, e che nessuno ne avverta la necessità, è un indice significativo della scarsa disponibilità delle scuole ad inoltrarsi nella via lunga della effettiva valorizzazione di ciascuno studente, oltre la scorciatoia dell’evitamento.

Pubblicato su Comune-info.

La scuola difficile

Ho raccolto gli articoli sulla scuola pubblicati negli ultimi anni – dal 2015 – prevalentemente su Gli Stati Generali in un ebook intitolato La scuola difficile, disponibile su tutte le librerie on-line al costo di 3.99 euro (Amazon, IBS, Kobo) .

Di seguito la Premessa.


Raccolgo in questo libro gli articoli sulla scuola che ho scritto nell’arco degli ultimi sei anni, prevalentemente su Gli Stati Generali, nella speranza che il ragionamento sulla scuola che essi tentano, ricondotto ad una qualche unità in una raccolta, possa contribuire, sia pure in misura minima, alla riflessione sulla scuola che abbiamo e su quella che vorremmo o dovremmo creare.

Lo intitolo La scuola difficile, riprendendo il titolo di uno degli articoli, per diverse ragioni.

In primo luogo, quella del titolo è la difficoltà della nostra scuola. È convinzione diffusa che la scuola italiana sia diventata facile, leggera, che abbia perso il rigore e la serietà di una volta. I miei studenti che passano un periodo di studi all’estero sono invece concordi nel percepire la nostra scuola come più difficile. E purtroppo questa maggiore difficoltà non comporta una maggiore serietà o una migliore preparazione. La scuola è più difficile semplicemente perché meno coinvolgente, più noiosa e pesante.

In secondo luogo, la difficoltà è quella della scuola che vorrei e che ritengo necessaria. E anche qui, in due sensi. Il primo è quello che provo a spiegare nell’articolo da cui ho ripreso il titolo (cap. 31). Possiamo fare una scuola più seria non rendendo più pesante il lavoro degli studenti, ma impegnandoci in un lavoro più complesso della routine lezione-compiti-interrogazione, tanto rassicurante (in fondo si è sempre fatto così) quanto evidentemente fallimentare. Ma questa scuola è difficile — ed è il secondo senso — anche perché qualsiasi tentativo di scardinare quell’impianto incontra resistenze fortissime, e spesso condanna all’isolamento ed all’incomprensione.

In questi sei anni si sono succeduti cinque governi: il governo Renzi (fino al dicembre 2016), il governo Gentiloni, il primo e il secondo governo Conte e l’attuale governo Draghi. Sono stati, soprattutto, gli anni della pandemia, che ha sconvolto in modi prima inimmaginabili il nostro modo di vivere e di fare scuola. Sono gli anni in cui la digitalizzazione delle scuole, promossa dal governo Renzi, ha avuto una accelerazione forzata dalla chiusura delle scuole, con la conseguente necessità di passare alla didattica a distanza. I docenti sono stati costretti a reinventarsi, a cercare vie alternative per raggiungere gli studenti, a sperimentare forme diverse di insegnamento. E, inevitabilmente, a riflettere su cosa è scuola e cosa no. La sospensione del setting tradizionale — tradizionalissimo, in Italia — è una occasione storica per interrogarsi sulle alternative. Sono convinto che questo sia il momento migliore per provare a ripensare la scuola. Il momento del ritorno alla normalità, che dev’essere il momento in cui si cerca qualcosa di più, e di meglio, di quella normalità. E tuttavia sono troppo disincantato per non ritenere più plausibile lo scenario tranquillizzante del semplice ritorno alla scuola di prima. Perché, appunto, una scuola altra è difficile.

Alcuni degli articoli qui raccolti hanno un carattere più teorico e presentano, con i limiti di un articolo giornalistico, la mia idea di scuola e di educazione, mentre altri sono più legati alla contingenza, a questo o quella notizia o fatto particolare. Trattandosi di una raccolta di articoli, e non di un saggio unitario, non sono infrequenti le ripetizioni di alcuni temi (ad esempio l’importanza del Service Learning o dell’abolizione dei compiti a casa).

L’idea di scuola che è al fondo di queste analisi è semplice e si può sintetizzare in poche parole: costituire la classe come una comunità in dialogo, passare dalla trasmissione alla ricerca comune, aprire la scuola al territorio e re-istituirla (si veda l’ultimo intervento, uscito su Gli Asini di Goffredo Fofi), formare gli studenti all’impegno, pensare il proprio lavoro di docenti nell’ottica della giustizia sociale, fare educazione, e non solo istruzione, e farla sia cogliendo l’aspetto valoriale dei contenuti culturali (il valore della bellezza nella poesia, nella letteratura, nell’arte; il valore della verità nella filosofia e nella storia; il valore della giustizia nel diritto, e così via), sia curando la relazione con gli studenti, che può essere via per la crescita reciproca solo se è autentica e viva, e non mortificata da quella verticalità burocratico-amministrativa che genera assurdità pedagogiche come la nota in condotta.

Quanto qui scritto è il risultato, anche, del confronto — dialogo ma anche, a volte, scontro — con molte persone, alle quali sono grato. Nominarle tutte sarebbe cosa lunga. Loro sanno. Per approfondire l’idea di scuola qui presentata si può leggere il libro Alternativa nella scuola pubblica. Quindici tesi in dialogo (Ledizioni, Milano 2018) scritto con Fabrizio Gambassi ed esito anch’esso di un lavoro comune fatto con colleghi, studenti e genitori.

Valutare e valorizzare

“Ogni inizio contiene una magia”, scriveva Hermann Hesse nel Gioco delle perle di vetro. Ed è una affermazione che per me vale soprattutto per quel nuovo inizio che è il primo giorno di scuola. Che è il momento in cui maggiormente mi fermo a domandarmi — a ri-domandarmi — perché insegno: e cosa vuol dire insegnare. Quando prendo una classe nuova, passo i primi giorni a interrogarmi sulla questione con gli studenti.

Lo scorso anno l’ho chiuso come commissario interno all’esame di Stato. Una esperienza che è l’esatto contrario del primo giorno di scuola. Se questo ha la freschezza degli inizi e la fragranza della possibilità di cambiamento, l’esame di Stato ha la tristezza atroce del giudizio finale con i vincitori e in vinti; il momento nel quale l’istituzione celebra la sua istituzionale ottusità.

Ho passato l’estate a cercare di riprendermi moralmente dagli esami. E a riflettere, ancora e ancora. In particolare, dopo aver passato giorni a chiudere esistenze e storie in un numeretto, a domandarmi cos’è valutare.

La questione della valutazione comprende tre aspetti.

Il primo è quello della selezione lavorativa. Qualunque idea di scuola si abbia, non si può negare che il suo compito sia anche quello di formare persone che occuperanno un certo posto nella società, ed è importante che abbiano sufficiente motivazione e preparazione per farlo. In genere si fa attenzione al secondo aspetto; per me il primo è anche più importante. Preferisco che nel campo sociale, ad esempio, lavori uno studente fortemente motivato anche se non preparatissimo piuttosto che uno con una preparazione approfondita ma privo di empatia.

Il secondo aspetto è quello che potremmo chiamare dell’adempimento disciplinare. A scuola si insegnano diverse discipline. Ogni disciplina ha i suoi argomenti e i suoi obiettivi da raggiungere. Si valuta lo studente in base al raggiungimento di questi obiettivi. Questi due primi aspetti sono legati in modo problematico. La scuola ritiene che valutare l’adempimento disciplinare dello studente serva al contempo a selezionare buoni lavoratori. Il mondo del lavoro non la pensa proprio così, e chiede a gran voce che il modo di insegnare e di valutare cambi, lasciando più spazio alle competenze. La scuola reagisce stizzita, affermando che il suo compito è formare la persona, e non selezionare lavoratori.

Il terzo aspetto è quello della valorizzazione. Lo studente è un futuro lavoratore ed uno che deve apprendere diverse discipline, ma è anche e soprattutto una persona che sta crescendo, e che in questo percorso difficile va aiutato a tirare fuori il meglio di sé, e prima ancora ad apprezzare quello di buono che già ha in sé.

Ritengo che questo terzo aspetto sia quello più importante. Se ripenso al mio percorso educativo e scolastico, mi accorgo del fatto che avrei avuto bisogno soprattutto di questo, da parte della scuola. Non sono stato uno studente facile, perché non facile era il mio contesto. Studiavo molto, ma per conto mio; solo raramente le lezioni scolastiche intercettavano i miei interessi. Al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in tre materie. Una di queste era la lingua francese, che ho sempre amato moltissimo. Un’altra era arte. La mia prima scelta, per le superiori, ero stato i Liceo Artistico. Mi piaceva molto disegnare, ed ero anche piuttosto bravo. È evidente che dietro quelle insufficienze c’era qualcos’altro.

Alle superiori ho incontrato per lo più docenti che mi disprezzavano. Qualcuno di loro cercava anche di convincermi ad abbandonare la scuola. Il professore di musica riteneva che se avessi lasciato avrei potuto poi a diciott’anni fare il concorso in polizia — l’ho poi fatto davvero, superandolo anche — , mentre quello di matematica pensava, chissà perché, a una carriera da fotomodello. Quello che loro vedevano era uno studente che non studiava. Che non studiava quello che loro gli dicevano di studiare. E che per giunta aveva in classe un atteggiamento provocatorio; che al docente che gli chiedeva se stesse seguendo la lezione rispondeva con sincerità: no. E che per questo veniva invitato ad accomodarsi fuori dall’aula.

Poi è arrivato il professor Abbatangelo. Un vecchio professore di pedagogia, che evidentemente vedeva quello che agli altri sfuggiva. Non studiavo pedagogia. Va bene. Cosa studiavo? All’epoca ero immerso nello studio della filosofia indiana: la Bhagavadgita e il Vedanta. Se lo fece bastare. Mi interrogò sulla filosofia indiana, presi un gran bel voto. E cominciai a studiare pedagogia.

Che era successo? Era successo che il professor Abbatangelo mi aveva visto. Aveva visto, per la precisione, due cose. In primo luogo, me fuori dall’aula: i miei interessi, le mie domande. E poi aveva visto il mio altro. Non quello che ero, ma quello che potevo essere.

Chi insegna, chi educa, dovrebbe avere uno sguardo fertile. Dovrebbe guardare l’altro con occhi che fanno nascere cose, che scorgono le possibilità, che individuano i semi. Diseducatore è chi getta sull’altro uno sguardo che pietrifica. (“Studente con scarsa intelligenza”, aveva annotato sul suo registro la mia professoressa di latino. E questo nonostante il latino fosse praticamente l’unica disciplina nella quale avevo voti alti.)

Mi piace pensare alla scuola come il luogo in cui docenti, dirigenti, collaboratori scolastici siano sinergicamente impegnati a valorizzare gli studenti. Di fatto, questo avviene poco. E non solo perché la scuola è una istituzione che non riesce ancora a liberarsi dalle sue origini autoritarie e l’umiliazione dello studente, in forme aperte o subdole, è ancora pratica diffusa, ma soprattutto perché qualsiasi forma di riconoscimento avviene nell’alveo delle discipline. Quello che conta, alla fine, è che lo studente studi italiano, matematica e filosofia. Se lo fa è bravo, se non lo fa, non è bravo. Tutto qui. Un docente sensibile potrà incoraggiare lo studente in difficoltà, valorizzare i suoi punti di forza, sostenere la sua autostima, ma sempre nel cerchio della disciplina.

Cosa c’è che non va? Non è giusto che sia così? No, non lo è, e vediamo perché.

Lo studente X è arrivato in Italia da due anni. Prima di giungere da noi ha vissuto per diversi anni in un altro paese europeo. Conosce bene quattro lingue: la lingua madre, l’italiano, la lingua del paese in cui è vissuto e una quarta lingua che ha studiato nel suo paese natale. Ha una ricchezza linguistica che nessun altro studente ha nella sua classe. Ma non ama l’inglese. Se la cava male. Per la scuola, lo studente X è linguisticamente insufficiente. Ma non è così.

Consideriamo un altro caso. Questa volta mi permetto un ricordo. Anni fa uno studente russo di una mia prima giunse in ritardo alla prima ora. Per scherzo gli dissi che non potevo fare a meno di punirlo: avrebbe dovuto recitarmi una poesia russa a scelta. Lui ne fu felice, e cominciò a declamare dei versi di Puškin. Avrei scoperto poi che aveva una conoscenza molto approfondita della letteratura russa, ossia di una parte significativa della cultura mitteleuropea.

La scuola guarda gli studenti attraverso i suoi occhiali, che sono quelli disciplinari. Tutto ciò che non rientra in una delle discipline previste dall’indirizzo, semplicemente non esiste. La valutazione è il risultato della somma dei diversi sguardi disciplinari sullo studente. Il risultato è che la scuola è miope. E gli studenti lo sanno; una buona parte del loro malessere viene da qui. La scuola non li vede, se non nella misura in cui loro si scolarizzano. Se prendono la forma che la scuola richiede per guardarli. Uno studente figlio di genitori stranieri, ad esempio, non è in alcun modo invogliato dalla scuola a mantenere un contatto con le sue radici culturali. Le lingue e le culture nigeriana, o albanese, o romena non rientrano nel piano degli studi, e dunque non esistono. Sono una faccenda privata dello studente e della sua famiglia. L’integrazione dello studente straniero si riduce a organizzare corsi di italiano come L2; un processo unidirezionale, che non prevede alcuno scambio culturale, e dunque nessun riconoscimento reciproco.

Il tutto è più della somma delle parti. Difficile valutare uno studente procedendo per addizione, ma soprattutto difficile valorizzarlo in questo modo. Alla scuola manca una figura che segua, ascolti, guardi lo studente al di là delle discipline. Un tutor — la parola mi piace poco, ma non è questo il punto — che affianchi i docenti nella valutazione, offrendo una conoscenza più ampia che nasce anche dal confronto con la famiglia e dalla considerazione del contesto culturale. O forse manca semplicemente il coraggio di ripensarsi come una istituzione realmente educativa.

Insegnare è una stronzata?

Consentitemi di scusarmi subito per il titolo inelegante. E di spiegare. La parola stronzata traduce l’inglese bullshit; chiedendomi se l’insegnamento sia una stronzata mi riferisco alla analisi fatta dall’antropologo David Graeber dei bullshit jobs [1]: i lavori-stronzata, appunto. Chi fa un lavoro-stronzata — nell’edizione italiana del libro di Graeber si traduce pudicamente “lavori del cavolo” — se ne accorge, non c’è bisogno che giunga un antropologo a dirglielo: perché la prima caratteristica di un lavoro-stronzata è che il lavoratore torna a casa, la sera, e sente di non aver dato nessun contributo alla società. È evidente che il lavoro dello spazzino, dell’idraulico, dell’operaio, del benzinaio non sono stronzate. Ognuno di loro può essere sicuro di aver dato il suo piccolo contributo alla società, anche se la società non sembra riconoscerlo granché. In molti altri casi non è così facile raggiungere questa sicurezza. Graeber si sofferma sulla figura dei barracaselle (box tickers), “quei dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire a un’organizzazione di affremare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo”. Un barracaselle è una persona che compila schede, stila rapporti, riempie carte che nessuno userà mai, che sono nulla più che adempimenti formali.

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La laicità c’entra

Poiché il tema è caldo, mi aspettavo non poche critiche al mio articolo sulla vaccinazione dei docenti uscito sul Tirreno di domenica. Ma non mi aspettavo che ad essere criticato fosse l’uso della parola laicità nella seguente frase: “La scuola dev’essere un presidio di razionalità, di laicità, di pensiero scientifico e di responsabilità sociale”. A qualcuno è sembrato fuori luogo, segno del mio essere monotematico.

Come è noto, la parola laico (da laos, popolo) indica in senso stretto coloro che non sono sacerdoti: per cui anche un cattolico, se non ha preso i voti, è laico. In senso più ampio è laico chiunque rivendichi la libertà della sfera pubblica dalla religione. Che non vuol dire essere antireligiosi: la scuola di Barbiana era molto più laica della scuola pubblica del tempo (ed anche di quella attuale, a dire il vero), pur essendo ospitata in una canonica.

Le nostre scuole sono oggi frequentate da studenti che provengono da mondi culturali diversissimi. C’è lo studente cattolico, quello evangelico, quello ortodosso, quello ateo, quello ebreo e quello musulmano. Ad ognuna di queste identità posso associare uno o più volti, una o più storie. Ora, che fare di questa diversità? E’ un problema enorme, la cui soluzione non pare facile. C’è chi dice che noi siamo cattolici, è questa la nostra identità e tradizione, ed occorre che chi è diverso si adegui. E’ questa la logica che giustifica il crocifisso alle pareti delle aule scolastiche e l’insegnamento confessionale della sola religione cattolica, sia pure opzionale. E’ una logica difettosa per diverse ragioni. La prima è che ignora un principio semplice: una democrazia non si riconosce per l’applicazione del principio di maggioranza, ma per il rispetto delle minoranze. La seconda è che ignora la nostra storia: perché la storia italiana ed europea non è la storia del cristianesimo e del cattolicesimo, ma è la storia di cattolici, evangelici, valdesi, ebrei, atei, massoni, liberi pensatori, e così via. E certo ritenere che uno studente ebreo sia meno italiano di uno studente cattolico è inaccettabile, così come lo è pensare che lo sia uno studente ateo. La terza è che ignora un principio pedagogico elementare: che non puoi educare nessuno se non rispetti la sua identità. Se gli dai il messaggio, implicito o esplicito, che la sua religione o la sua irreligione sono sbagliati.

Tenere i crocifissi alle pareti, insegnare religione cattolica agli studenti cattolici ed offrire qualche volta un insegnamento alternativo a coloro che non sono cattolici — dico qualche volta perché l’attivazione dell’Attività Alternativa è più eccezione che regola nella scuola italiana — è il modo migliore per far sì che questa diversità diventi chiusura e conflitto. Il compito della scuola non può essere quello di comunicare ad alcuni il loro essere dalla parte della ragione, della storia, della tradizione, e ad altri il loro essere ospiti, tollerati: diversi. Se ha ancora qualche senso, la scuola pubblica lo ha in quanto luogo in cui si costruisce il dialogo. In cui si insegna che non importa quanto potente e influente è il gruppo di cui fai parte, quanto convinto sei delle tue idee: quello che conta è che tu sappia argomentare le tue ragioni e stare in una situazione di dialogo. Una scuola laica è il luogo in cui tutti sono invitati ad argomentare in modo rigoroso, ad essere intellettualmente onesti, a dialogare con l’altro senza scorciatoie e scorrettezze: che si parli di Dio, di omosessualità, di politica o di vaccini.

Lo spettacolo indegno cui stiamo assistendo in questi giorni è il risultato, anche, di troppa pessima scuola. Di una scuola centrata sull’acquisizione individuale di contenuti culturali e non sul confronto razionale, dialettico, argomentativo. La scuola dell’interrogazione, non del comune interrogarsi. Una scuola che non ha mai contrastato la convinzione che sia sufficiente chiudersi in una identità per avere ragione. La scuola da cui sono uscite persone che si inquietano — o si indignano — al solo sentir parlare di laicità.

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L’autorità scolastica

E’ diffusa anche a sinistra, presso educatori che si richiamano ad esempio alla tradizione dell’attivismo freinetiano, la convinzione che l’autorità sia una componente inevitabile dell’educazione, e che si tratti piuttosto di esercitarla nei corretti limiti o con la giusta prospettiva. Il corollario di questa convinzione è che una relazione educativa è inevitabilmente una relazione asimmetrica.

Mi pare che si possano distinguere due forme di autorità in campo educativo. La prima è quella che chiamerei autorità personale. E’ un tipo di autorità che posa in primo luogo su atteggiamenti personali: alzare la voce, ad esempio, esprimere comandi, assumere nella relazione, per dirla con Pat Patfoort, la posizione Maggiore, costringendo l’altro nella posizione minore. La seconda è l’autorità burocratica. In questo caso la persona investita di autorità non ha bisogno di ricorrere a modalità relazionali particolari. Esercita la sua autorità attraverso atti burocratici. Non ha bisogno di alzare la voce o battere il pugno sul tavolo. Di fronte a un qualsiasi atto scorretto dello studente, potrà scrivere una nota sul registro. Se l’atto sarà grave, potrà chiedere di convocare il Consiglio di classe, che ai sensi del regolamento prenderà provvedimenti. Tutta la procedura avviene attraverso atti scritti.

Ora, al di là delle apparenze, la seconda forma di autorità è più violenta della prima. Nel primo caso esiste una relazione, anche se asimmetrica. Esiste una possibilità di confronto, e dunque di resistenza. Nel secondo caso la relazione scompare e tutto si sposta sul piano neutro della razionalità burocratica. Nel primo caso c’è una relazione burrascosa, nel secondo una procedura.

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La scuola che verrà

Gli studenti sono i grandi assenti nel dibattito pubblico sulla scuola. Parlano tutti, di scuola; anche, e soprattutto, quelli che mai hanno insegnato: psicologi, pedagogisti, politologi, politici, politicanti. Non sorprende: l’accesso al discorso pubblico è legato allo status sociale, e se gli insegnanti hanno uno status sociale basso – per cui quello che dice un docente con vent’anni di esperienza conta meno dell’ultima uscita d’un Galli della Loggia – gli studenti (e questo è uno dei problemi della nostra società) non esistono quasi, come soggetti degni di parola. Per questo non si può non accogliere con favore le 95 tesi del collettivo studentesco torinese Rinascimento Studentesco per ripensare la scuola italiana post-pandemia.
Considerare gli studenti come interlocutori validi vuol dire anche non far loro sconti. Per questo comincerò l’analisi delle loro tesi con qualche considerazione critica. Cominciando dal numero delle tesi. Comprendo la suggestione di Lutero, ma elencare 95 tesi significa mettere insieme in modo confuso quello che è importante e quello che lo è meno e soprattutto dare l’impressione che si sia aggiunta proposta a proposta, più che discutere e cercare insieme un profilo coerente, sia dal punto di vista pedagogico che dal punto di vista politico. Qualche tesi è banale, qualche altra enuncia principi astratti più che formulare proposte, qualche tesi non è nemmeno una tesi (la 59: perché non metterla alla fine?). La tesi 93 – “Intensificare i controlli su tutti i congedi di cui usufruisce il personale scolastico (malattia, malattia del bambino ecc.)” –  asseconda la penosa retorica dei docenti fannulloni, ignorando che dopo la riforma Brunetta il docente nei primi dieci giorni di malattia ha lo stipendio decurtato da ogni trattamento economico accessorio. [read more]

Nell’impossibilità di discutere tutte le tesi – occorrerebbe scrivere un libro – prenderò in considerazione quelle che mi sembrano più interessanti ed urgenti. Cominciando dalla prima – “Studenti più coinvolti nelle decisioni scolastiche (più studenti nei Consigli di Istituto)” – e dalla terza: “Una scuola più democratica e luogo di dibattito (garantire il diritto di assemblea, di classe e d’istituto)”. Il fatto che queste richieste siano in cima alle 95 tesi deve far riflettere. Si tratta, in effetti, di uno dei problemi più gravi della scuola italiana: la passivizzazione degli studenti. Che rivendicano, in questo caso, il diritto di assemblea garantito dalla legge. Ma devo osservare amaramente, da docente, che il rispetto rigoroso di questo diritto – e mi sorprenderei se qualche scuola non lo rispettasse – non è affatto garanzia di democrazia: ciò che emerge dalle assemblee può essere bellamente ignorato da chi di fatto gestisce la scuola. Il punto è che lo studente non è considerato, a scuola, un interlocutore, il membro di una comunità democratica, un legittimo portatore di interessi e punti di vista, ma, a seconda delle concezioni della scuola, un paziente da curare o un cliente da soddisfare. Ed è da qui che bisognerebbe partire, secondo la mia idea di scuola. È ridicola una scuola che voglia educare alla democrazia, alla partecipazione e all’impegno sociale senza coinvolgere costantemente gli studenti nella stessa pratica scolastica. Non si tratta di rafforzare la componente studentesca negli organismi decisionali – che in realtà si stanno sempre più svuotando di senso – ma di lavorare affinché la scuola sia una comunità in dialogo, ed in dialogo principalmente su sé stessa: una comunità di docenti e studenti che ragionano su cosa vuol dire fare scuola, cultura, educazione.
Democratizzare in questo modo la scuola è anche il miglior modo di fare educazione civica. L’altro aspetto centrale per una formazione politica degli studenti è ben colto dalla tesi 19: “La scuola dev’essere luogo d’incontro e formazione tra associazioni, obiettivi e cittadini della zona”, cui si collega la tesi 58: “Introdurre a scuola la storia del volontariato in Italia e nel mondo, spronando gli studenti all’attivismo sin da piccoli, piuttosto che occupare il tempo con programmi spesso troppo lunghi”. Si può fare a dire il vero di più, e di meglio, introducendo in Italia il Service Learning, come già si sta facendo da qualche anno in alcune scuole. È una pratica che va oltre il volontariato, perché porta gli studenti a impegnarsi nella loro comunità mettendo in pratica quello che studiano in classe. Studio e impegno civile sono legati in modo organico, in un processo nel quale è essenziale il protagonismo progettuale degli studenti.
I Patti educativi di comunità, introdotti lo scorso anno, possono essere uno strumento importante per superare la chiusura della scuola al territorio e integrare la comunità educativa scolastica nella più ampia comunità cittadina. Ma mi sembra importante insistere su questo: prima di aprirsi alla comunità esterna la comunità scolastica deve costituirsi, appunto, come comunità. E non c’è comunità se non si mette in comune qualcosa. Non c’è comunità senza relazione autentica. Mi spiace non trovare nelle tesi quello che a mio avviso è il punto fondamentale: la relazione. A scuola le relazioni sono per lo più inautentiche, ipocrite, mediate dalla norma più che tese alla ricerca comune. Un conflitto viene risolto con il ricorso a un testo scritto in un registro burocratico: la nota. E anche i dirigenti, ormai manager aziendali, comunicano trincerandosi dietro un gergo giuridico-burocratico, che diffonde dall’alto una grande freddezza umana. E no, non si può fare quella cosa calda, viva, palpitante che è l’educazione, in un contesto in cui le relazioni umane sono rapporti tra superiore e subordinato (anticipazione di quello che sarà poi il mondo del lavoro).
Da docente, mi sarei aspettato una più radicale messa in discussione delle pratiche didattiche correnti. Ma la tesi 35 centra il punto: “Disposizione delle classi più inclusiva e coinvolgente possibile, allontanarsi dalla ‘retta’ per andare verso il ‘cerchio’”. Non è solo una questione di setting (che a dire il vero è tutt’altro che marginale, e condiziona fortemente il lavoro didattico ed educativo). Passare dalla unidirezionalità (dal trasmettere, direbbe Dolci) alla circolarità vuol dire andare all’essenza dell’insegnamento. Non può essere, l’insegnamento, il semplice trasferimento di contenuti culturali dall’insegnante allo studente. Se quest’ultimo dev’essere studente, e non semplicemente alunno o allievo, occorre che quei contenuti culturali siano discussi, analizzati, criticati; e cercati insieme, più che semplicemente consegnati, con l’aiuto del manuale. Da docente, so quanto è gratificante parlare per un’ora davanti a una classe ammirata dal tuo sapere. Ma non serve agli studenti. Ogni parola di troppo del docente è una parola sottratta allo studente.
Un ultimo punto sul quale mi sembra importante soffermarsi è quello della laicità. La tesi 71 afferma: “Eliminare completamente l’insegnamento della religione cattolica: la scuola deve essere laica per tutti, il credo religioso fa parte della cultura familiare e in famiglia deve restare”. Se questa tesi sembra negare qualsiasi insegnamento della religione, la tesi 55 afferma: “Essendo l’Italia, secondo la Costituzione, uno Stato laico, anche la scuola deve esserlo sia dal punto di vista teorico (insegnamento della storia delle religioni) sia dal punto di vista pratico (eliminazione dei crocifissi dalle scuole)”.
Naturalmente hanno ragione. L’insegnamento confessionale della religione cattolica è assurdo. Assurdo è che si assumano dei docenti pagati dallo Stato ma scelti dalla Curia. Scandalosa e inaccettabile è la presenza del crocifisso in aule scolastiche che accolgono ormai studenti di ogni religione. Ma c’è un problema meno vistoso, ma non meno grave, ed è la totale chiusura della nostra scuola a qualsiasi cultura che sia diversa da quella europea ed occidentale. L’insegnamento della filosofia ripercorre tutta la storia della filosofia occidentale, rifiutandosi sdegnosamente di considerare vera filosofia quella cinese o quella indiana, quello della storia è la cronaca dei diversi imperi europei con un’appendice sulla storia americana, quello della letteratura riempie lo studente di ammirazione per la grandezza dell’Iliade e dell’Eneide, evitando accuratamente di rivelargli l’esistenza del Mahabharata. E lo studente esce dalla scuola – e poi dall’Università – con la certezza incrollabile che non esista civiltà al di fuori dell’Europa. Incapace, di fatto, di comprendere un mondo globalizzato, nel quale l’Europa diventa sempre più periferia.

Articolo pubblicato su Comune, 31 marzo 2021.[/read]

E se la scuola neoliberista
fosse quella tradizionale?

L’edizione del 27 marzo di The Guardian ha in prima pagina una notizia che sembra venir fuori da un episodio di Black Mirror. Teleperformance, società leader mondiale nel settore dei call center – 380.000 dipendenti in trentaquattro nazioni – monitorerà i suoi dipendenti attraverso particolari webcam che riveleranno eventuali infrazioni nel lavoro domestico. Il lavoratore che avrà bisogno di una breve pausa, ad esempio per andare in bagno, dovrà segnalarlo utilizzando una apposita app.(1)

Se non sarà efficacemente contrastata, questa sorveglianza totalitaria diventerà una delle caratteristiche del lavoro nell’epoca del capitalismo della sorveglianza. La riduzione del lavoratore a strumento digitalmente manovrato fa sistema con la costante manipolazione resa possibile dai big data, che penetrano dove anche il più efficiente dei regimi totalitari era costretto ad arrestarsi: l’immaginario, il desiderio, le aspirazioni, il mondo di dentro. Che è invece ora costantemente esposto, analizzato, profilato e sfruttato commercialmente.

Leggendo la notizia ripensavo a una cosa letta in un gruppo di insegnanti qualche giorno fa. Un insegnante spiegava come monitorare in tempo reale il lavoro degli studenti su Google Classroom, che con Microsoft Office 365 è, grazie a un discutibilissimo sostegno ministeriale, la piattaforma di gran lunga più usata per la didattica a distanza. Controllare gli studenti sembra essere l’ossessione dei docenti che insegnano a distanza. Controllarli mentre seguono le lezioni, controllarli mentre fanno i compiti, controllarli durante le verifiche.

Ciò che appare come una evidente e grave violazione dei diritti umani quando si tratta di lavoratori, è invece normale se riguarda quei lavoratori particolari che sono gli studenti. Il controllo, che la DaD rende più difficile, è una delle caratteristiche principali della condizione scolastica. Essere a scuola vuol dire essere controllato. Stare costantemente sotto lo sguardo del docente, dover in ogni istante adattare il proprio comportamento ai codici scolastici fino ad interiorizzarli e diventare uno studente scolarizzato. La scuola è rimasta una istituzione panottica. L’aula non ha angoli bui, zone d’ombra nelle quali ci si possa rifugiare. Per respirare occorre andare altrove, approfittare dei pochi minuti in cui è concesso andare in bagno.
Sappiamo che non è possibile preservare quella cosa fragile che è la dignità umana senza qualche paravento, qualcosa che ci sottragga all’esposizione, all’invadenza dello sguardo. Dignità umana è il diritto di non essere visti, di non restare nudi, di non dire e di non dirsi. È diritto di sottrarsi. Un luogo interamente illuminato, interamente esposto, è un luogo violento e disumano.

Si ritiene che la scuola debba rappresentare il luogo nel quale, formando la persona a contatto con i più alti valori culturali, è possibile contrastare le tendenze disumanizzanti del neoliberismo. È per questo che molti si sono opposti sdegnosamente all’alternanza scuola-lavoro. Pareva un cedimento della scuola, che dev’essere otium, tempo dedicato alla pura e disinteressata cura di sé, alle esigenze del mercato del lavoro. Sfuggiva, e sfugge, che c’è invece piena continuità tra la scuola tradizionale e il mondo del lavoro come lo desidera il neoliberismo.

Definisco scuola tradizionale la scuola ancora in gran parte prevalente nel nostro Paese: la scuola centrata sulla lezione, sul manuale, sullo studio autonomo e sulla valutazione individuale. Il setting corrispondente a questa scuola è quello dei banchi in fila che mettono capo alla cattedra del docente.

In questa scuola ogni studente è intento a perseguire il proprio profitto individuale. Per farlo, il modo più sicuro è attenersi in tutto e per tutto alle indicazioni del docente, lasciarsi guidare da lui sulla via del sapere. E piegarsi al suo sguardo: accettare di essere costantemente osservati e prendere la forma che l’occhio desidera che si assuma.

È frequente, quando si parla di scuola, che si ricorra a quella che io chiamo la reductio ad Hayekum. Come è noto, la reductio ad Hitlerum consiste nel mettere a tacere l’avversario sostenendo che le sue tesi erano sostenute da Hitler o conducono a qualche tesi sostenuta da Hitler. La reductio ad Hayekum (da Friedrich von Hayek, uno dei maggiori teorici del liberismo) ne è la versione aggiornata: si insinua che una tesi, una proposta, una riforma siano animati dallo spirito del neoliberismo. È questa l’accusa con la quale si è letta, come detto, l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, che pure ha consentito in Italia, ad esempio, la prima sperimentazione del Service Learning, ossia di una metodologia che forma alla cittadinanza e all’impegno civile. Più in generale, è la fallacia con la quale si attacca qualsiasi ipotesi di cambiamento della scuola italiana, che muove sempre da qualche losco proposito di neoliberalizzazione. Sfugge che la scuola così com’è, con il suo impianto tradizionale, tradizionalissimo, è pressoché perfetta per un ambiente di lavoro neoliberista. Manca giusto l’attitudine al lavoro di gruppo, ma a quello si rimedia. La scuola in compenso consegna al mondo del lavoro uno studente che per anni è stato abituato a lasciarsi osservare costantemente e a cedere alle richieste dell’ambiente per ottenere la gratificazione individuale del voto. E non si comprende per quale miracolo questo studente perfettamente scolarizzato dovrebbe diventare poi un lavoratore in grado di far valere i propri diritti e di rivendicare la propria dignità umana.

(1) P. Walker, Call centre staff face being watched working at home, “The Guardian”, 27 marzo 2021.

Articolo pubblicato su Comune il 27 marzo 2021.

La solitudine della scuola

Sono grato a Paolo Fasce per la sua replica al mio articolo sul tempo della scuola. Gli sono grato anche – soprattutto – perché mi offre l’opportunità di tornare sul punto fondamentale di quell’articolo, che nella ricezione sembra essere invece rimasto sullo sfondo. Non replicherò a quello che scrive punto per punto, per pietà verso il lettore (già così questo articolo sarà, temo, troppo lungo). Continuerò un attimo la mia “difesa d’ufficio” dei docenti, per andare poi al punto.
Scrive Fasce che la DaD è “troppo spesso l’apoteosi” della scuola che chiama Spiego, Studi, Interrogo, Dimentichi (SSID). Come ho scritto, non sono un sostenitore entusiasta della DaD, e qui stesso sono intervenuto per denunciare la follia di certe derive. Ma non credo che essa abbia fatto diventare alcuni, per magia, dei pessimi insegnanti. Chi faceva la scuola SSID in classe ha continuato a farla, pessimamente, in DaD. Per gli altri, la DaD è stata occasione per sperimentare e riflettere ancora una volta su cosa vuol dire fare questo mestiere. Per me scuola è comunità, ed è la comunità che ho cercato di portare in DaD. Con l’aiuto di uno strumento come Moodle, pensato per la didattica, che però non mi è stato più possibile usare dopo che il Miur ha vergognosamente sostenuto le piattaforme proprietarie di Google e Microsoft. Mi piacerebbe poter dire che ci siamo inventati una nuova didattica con l’aiuto del Ministero; nel mio caso almeno, è più aderente alla realtà l’affermazione che lo abbiamo fatto nonostante il Ministero.[read more]

Paolo Fasce mi accusa di ingenuità, perché do valore ai voti dei docenti, affermando che non si può prescindere dai risultati degli scrutini del primo quadrimestre per ragionare di tempo perso o meno. (E tra parentesi: non ho affermato che nessuno può giudicare il lavoro dei docenti; ho sostenuto e sostengo che solo i docenti del Consiglio di classe e nessun altro al posto loro – certo non i politici – possono attribuire voti agli studenti.) I suoi argomenti sono due: 1) i voti sono riferiti ad una classe, e dunque ad un contesto particolare, e dunque non hanno un valore assoluto; 2) i docenti attribuiscono sufficienze o insufficienze secondo la personale convenienza.
Il secondo (presunto) argomento è semplicemente una calunnia, e come tale non merita di essere preso in considerazione, perché discuterlo significa dargli la dignità di un argomento, che evidentemente non ha. Mi limito ad osservare che ingenuo appare lo stesso Fasce: come può pensare che i docenti che alla fine del primo quadrimestre falsano i voti per non dover lavorare a giugno, a giugno poi possano trasformarsi in professionisti sinceramente preoccupati dei loro studenti e attivamente impegnati in attività didattiche in loro favore? Il primo argomento merita un ragionamento. Insegno da ventitré anni; ho insegnato alle medie, in diversi istituti professionali in un istituto tecnico, al liceo, al sud ed al centro. Ho una percezione abbastanza ampia della realtà scolastica. E sì, posso confermare che un 8 in un certo contesto non ha lo stesso valore di un 8 in un contesto diverso. A dire il vero, uno stesso voto può avere un contenuto diverso anche in due indirizzi dello stesso liceo. Mi sfugge però cosa questo c’entri con il prolungamento dell’anno scolastico. La disomogeneità è un problema strutturale del nostro sistema scolastico e richiede un intervento ugualmente strutturale, non certo l’eccezionale apertura delle scuole a giugno.
Il contesto era il vero tema del mio articolo. Permettetemi di tornarvi su. Nel modo più concreto possibile: raccontando, cioè, una storia. B. era un ragazzone alto più di un metro ed ottanta. All’improvviso cominciò a deperire sotto i nostri occhi. Tememmo qualche malattia, poi scoprimmo che semplicemente non mangiava. E toccava a noi portargli qualcosa da casa, perché mangiasse almeno a scuola. Che era successo? Qualche mese prima ero stato a casa sua per consegnarli un computer che eravamo riusciti a recuperare in qualche modo (dismesso da un docente; l’appello agli enti ed imprese locali affinché ci aiutassero a procurare computer usati ai nostri studenti più poveri cadde nel vuoto). Viveva in una baracca, con la sorellina, la madre e il padre. Il padre era disoccupato. Mi era sembrato un uomo in gamba, pieno di iniziative, che soffriva molto per la sua condizione di impotenza economica. Bene: il padre di B. ora era in galera. Tentato omicidio. Un lavoro su commissione della mafia per racimolare qualche soldo. Lo Stato aveva messo in prigione il padre di B. senza chiedersi come avrebbero fatto la moglie (una donna con disturbi mentali) ed i figli a mangiare. Abbandonandoli a loro stessi. Lo Stato avrebbe potuto investire qualche migliaio di euro per dare un lavoro a quell’uomo; ha preferito sprecare più di centomila euro all’anno, per non so quanti anni, per tenerlo in galera. Uno spreco assurdo, per me incomprensibile. Siamo un Paese impoverito dalla spaventosa evasione fiscale, e continuamo quotidianamente a gettar via soldi per tenere la gente in galera, mentre tutto ciò che potrebbe prevenire la galera è trascurato.
In questa situazione, in questi contesti, si chiede alla scuola di intervenire. Di fare il miracolo. Ma i miracoli non esistono. Buona parte del discorso pubblico sull’educazione è basato su affermazioni e frasi fatte dal sapore romantico. “Nessun bambino è perso se ha un insegnante che crede in lui”. Cose così. E sarebbe bello se le cose fossero così semplici. Ma la realtà è molto più complessa. Potrei riformulare: qualsiasi insegnante è perso se non ha una comunità che crede in lui. E: che lavora con lui. Non posso lavorare con B. se lo Stato lo affama. Se i servizi sociali lo abbandonano. Se non esistono politiche per combattere la disuguaglianza. Se nessun governo costringe i ricchi a pagare le tasse. Se diamo per scontati la povertà, il degrado, l’abbandono di intere comunità.
C’è qualcosa di molto più serio della differenza tra un 8 dato ai Parioli e un 8 dato a Scampia. C’è la vergognosa differenza di possibilità tra chi ha la fortuna di nascere in un contesto ricco e chi invece si trova fin dalla nascita a combattere con infiniti ostacoli, con forze che deformano e disumanizzano. Quello che intendevo dire con il mio articolo è che un discorso sugli studenti che “restano indietro” è ipocrita (“No Child Left Behind” era lo slogan della politica scolastica del repubblicano Bush, lo stesso le cui politiche hanno accresciuto il divario sociale ed economico negli Stati Uniti) senza una considerazione più ampia sui rapporti tra scuola e società. La scuola, lo ripeto, non fa miracoli, se è isolata. Se davvero interessa affrontare il problema di chi resta indietro – e sarei felicissimo se il governo se lo ponesse – allora occorre lavorare seriamente (e cioè: investendo soldi, molti soldi) per creare un solido sostegno sociale al lavoro degli insegnanti. Non c’è buona pedagogia senza buona economia. E non c’è buona economia senza lotta seria, non retorica, alla disuguaglianza. Tenere le scuole aperte a giugno, in mancanza di questo impegno più ampio, e strutturale, è nulla più che un’uscita populista.

Gli Stati Generali, 13 febbraio 2021.[/read]

Il tempo della scuola

Aprire le scuole a giugno, perché si è perso troppo tempo. Con questo proposito, che riprende una proposta diffusa da tempo dal gruppo Condorcet, Mario Draghi si presenta al mondo della scuola. Vorrei spiegare per quali ragioni questa proposta, che sembra nascere da una reale preoccupazione per il bene dei nostri studenti, rivela invece inconsapevolezza pedagogica e disprezzo per i docenti.
Per la scuola italiana questo è il periodo in cui si attua un primo bilancio dell’anno scolastico. Gli scrutini del primo quadrimestre sono stati appena conclusi, è possibile verificare se ci sono stati e quanto sono stati importanti i danni della didattica a distanza. Ora, un ragionamento serio sulla scuola partirebbe da qui. E’ stato fatto un lavoro e i risultati di questo lavoro sono stati valutati. Cosa è emerso dalle valutazioni? Quanti studenti sono rimasti indietro? Quante sono, nelle diverse scuole, le insufficienze? Dire che si è perso tempo, senza considerare questo dato, significa parlare del nulla. Se si è perso tempo o meno possono dirlo solo i docenti, gli unici che hanno il diritto di valutare i risultati del loro lavoro. Nel mio caso, ad esempio, in quattro delle cinque classi che mi sono state affidate sono rimaste alla fine del quadrimestre rarissime insufficienze. In una, invece, le insufficienze sono molte, ma ci sono anche almeno tre studenti che con la didattica a distanza sono migliorati sensibilmente. Il bilancio è nel complesso tutt’altro che allarmante.[read more]

Dichiarando che si è perso tempo, e che questo tempo bisogna recuperarlo, si manca di rispetto ai docenti in due modi. In primo luogo, considerando nulla il lavoro, spesso enorme, che è stato fatto in questi mesi di didattica a distanza. In secondo luogo – e in modo più grave – considerando nulle le loro valutazioni. I sette, gli otto, i nove messi in questi mesi non valgono niente. Si stabilisce dall’alto che sono invece delle insufficienze. Nulla vale la valutazione del docente, nulla vale il lavoro fatto da lui e dallo studente per giungere a quel risultato. Mesi di lavoro vengono nullificati dall’alto. Senza nulla sapere, senza nulla vedere. Così. Insegno da più di vent’anni, credo di poter dire che nessuno ha mai mancato di rispetto in questo modo a noi docenti. Ed ho l’impressione che non si tornerà indietro.Dicevo dell’inconsapevolezza pedagogica. Non è un grande argomento, perché in questo paese la pedagogia è circondata da disprezzo unanime, e dire di qualcuno che è pedagogicamente incompetente è quasi fargli un complimento, ma qualche considerazione vorrei farla comunque, da pedagogista e da docente.
Per dieci anni ho insegnato in un Liceo che aveva gravissimi problemi di abbandono scolastico, in particolare al biennio. Ragazzine – era un Liceo delle Scienze Umane – che venivano a scuola perché costrette dall’obbligo scolastico, e avevano spesso alle spalle famiglie che dicevano loro che lo studio e la scuola non servono a nulla. Le provammo tutte per affrontare il problema, con esiti frustranti. Ma una cosa comprendemmo: che aumentare il tempo scuola non funziona. Tenere a scuola più tempo ragazzine che la scuola non l’amavano sortiva un solo risultato: aumentare la nausea e il rifiuto. Bisognava piuttosto cambiare la qualità della scuola.
La didattica a distanza funziona con gli studenti motivati. Che nel mio caso sono la grande maggioranza. Credo anche di poter dire che sul piano strettamente cognitivo hanno anche acquistato qualcosa (se non altro molte competenze digitali); ciò che si è perso è sul piano umano e relazionale.
Il problema riguarda gli studenti con difficoltà. Ora, le difficoltà possono essere di due tipi: problemi cognitivo-relazionali e problemi di motivazione. Ho notato, e lo hanno notato anche molti miei colleghi, che i primi spesso traggono vantaggio dalla DaD. Perché, ad esempio, si fa al computer, e il computer è uno strumento che uno studente con disturbi di apprendimento è abituato ad usare più dei suoi compagni. O perché lo spostamento dell’aula nella dimensione virtuale blocca alcune dinamiche violente che rendevano frustrante per qualche altro studente l’esperienza scolastica. Il problema è grave invece per chi ha problemi di motivazione. Lo studente che a scuola frequentava saltuariamente, e in classe era assente, o si perdeva nei corridoi dopo aver chiesto di andare in bagno, a distanza lo perdi del tutto. Non si collega, o se si collega sta facendo chissà cosa.
Questi studenti rischiano di perdersi con la DaD. Ma aprire le scuole in estate per recuperarli significa non aver capito granché del problema. Bisogna che uno studente sia molto motivato per frequentate a giugno, in presenza, la scuola che non ha voluto frequentare a novembre comodamente collegato da casa sua. Bisogna, cioè, che abbia come prerequisito proprio ciò la cui mancanza ha causato il problema che si pretende di risolvere. La scuola si considera da sempre una istituzione salvifica. Chi sfugge ad essa è perso. Extra scholam nulla salus. Fare più scuola, aumentare la quantità dell’offerta, non può che essere un bene. Se fosse meno autoreferenziale, la scuola capirebbe invece di aver bisogno di un vasto sostegno sociale, senza il quale è inefficace nei contesti più difficili, lì dove la scuola non è un valore condiviso. Più che tenere aperte le scuole d’estate, bisognerebbe parlare di sostenere seriamente l’educazione di strada, il volontariato educativo, i gruppi che fanno da ponte tra la scuola e la famiglia nei quartieri difficili. E magari ragionare di qualità e non di quantità della scuola. Perché la scuola che facciamo da sempre è una scuola che piace solo a chi crede nello studio. La didattica a distanza ha i suoi limiti, e non mi schiererò certo tra i suoi sostenitori entusiasti (nemmeno, però, con i fanatici della presenza), ma ha avuto il merito indubbio di costringere i docenti italiani a riflettere sul loro lavoro. Cosa vuol dire davvero insegnare? Cosa è essenziale, cosa accessorio? Come apprendono gli studenti? Cosa vuol dire valutare? Cosa valutare? Tutte queste domande, cui credevamo di aver dato una risposta una volta per tutte, sono tornate a galla, e abbiamo dovuto trovare nuove risposte. Quello che è da fare, ora, è ripartire da queste domande. Può essere che mi sbagli, ma mi pare che mai in passato docenti, studenti, genitori siano stati costretti a riflettere sulla scuola, avendo l’esperienza concreta di una alternativa. Chiudere questa esperienza offrendo a tutti una dose supplementare di scuola tradizionale significa sprecare una occasione storica per ripensare davvero la scuola italiana. Significa davvero perdere tempo nel senso non del kronos, il tempo cronologico, ma del kairos, il tempo propizio, nel quale cose nuove possono accadere.


Gli Stati Generali, 9 febbraio 2021.
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Solidarietà al maestro
Giampiero Monaca

In visita a Shantiniketan, la meravigliosa scuola immersa nella natura creata dal poeta premio Nobel Rabindranath Tagore, un insegnante rimase sorpreso da una scena per lui insolita e tale da suscitare indignazione: uno dei bambini della scuola era salito su un albero e si era messo a leggere un libro. “Dovetti spiegargli – scrive Tagore – che la fanciullezza è l’unico periodo della vita in cui l’uomo civilizzato può esercitare la sua libertà di scelta tra i rami di una pianta e la sua sedia nella stanza da disegno; dovrei privare il ragazzo di questo privilegio perché il, come adulto, ne sono escluso?”[1]
Nella scuola italiana di oggi la risposta alla domanda di Tagore è senz’altro sì. Dobbiamo negare ai bambini il privilegio di salire sull’albero perché noi adulti ne siamo esclusi. Possiamo regalargli giocattoli costosi e tecnologici fin dalla più tenera età, anche se non ne ha bisogno; possiamo comprargli tutto il cibo spazzatura che desidera; possiamo consentirgli di passare la giornata alternando lo schermo del televisore con quello di uno smartphone; possiamo riconoscergli la libertà di accedere ai social network in età sempre più precoce. Ma non possiamo concedergli alcuna libertà di movimento reale. Non nella città: potrà uscire solo se accompagnato, sorvegliato, gestito da qualcuno. Nessuna esplorazione autonoma della città gli è consentita. Meno ancora fuori nella natura. Tutto è dannatamente pericoloso. Ovunque il mondo è pieno di insidie, e noi vogliamo tenere i bambini al sicuro.[read more]

Chi avesse dubbi può considerare quello che è successo al maestro Giampiero Monaca. Che è uno dei maestri più creativi che abbia il nostro Paese, di quella creatività fatta di coraggio che porta a tentare vie nuove. Nel suo caso, vie che conducono anche nella natura. Il progetto Bimbisvegli, realizzato da Giampiero Monaca a Serravalle d’Asti, è una delle realtà più innovative della scuola italiana. Al maestro Monaca è riuscita una impresa che sembrava quasi impossibile: realizzare una scuola nuova, sperimentale, creativa non in una scuola privata, necessariamente elitaria, ma lavorando nella scuola pubblica e statale. Chiunque, come chi scrive, cerci di introdurre nella scuola statale cambiamenti anche molto meno significativi, sa a quali veti, sospetti, ostilità si va incontro. Giampiero Monaca sembrava avercela fatta, anche grazie al sostegno delle famiglie, contagiato dall’entusiasmo e dalla felicità dei loro figli. Ieri invece la notizia: il maestro Monaca è stato sospeso dall’insegnamento per un giorno. Ad accusarlo una foto pubblicata su un social network: bambini arrampicati sugli alberi! Come l’accigliato insegnante di Tagore, la ex dirigente della scuola di Monaca s’è allarmata. Bambini sugli alberi? La cosa è evidentemente innaturale, antipedagogica. E’ naturale che i bambini stiano seduti ai loro banchi. Zitti. Immobili.
Un paese in cui la foto di bambini seduti e zitti non crea alcun problema, in cui non crea nessun problema nemmeno la foto di centinaia di bambini che nella scuola statale e laica accolgono festanti un vescovo agitando le bandierine (succede anche questo, in Italia), ma in cui allarma la foto di un bambino su un albero, è un paese che dovrebbe rivedere le idee correnti su cos’è l’infanzia e cos’è l’educazione. Un altro grande maestro, Gianfranco Zavalloni, denunciava l’uso distorto che si fa della sicurezza nella scuola italiana. Da principio sacrosanto, è diventato uno strumento per troncare sul nascere qualsiasi ipotesi di cambiamento. Perfino una cosa banale come un cambiamento nella disposizione dei banchi dell’aula viene negata in nome della sicurezza. Pare che sicura sia solo la scuola ipertradizionale, quella con le cattedre e i banchi, quella chiusa al mondo esterno. Quella nella quale lo studente non corre alcun rischio di incontrare la vita.
Soldarietà al maestro Giampiero Monaca, ai suoi studenti, alle loro famiglie. E l’invito a continuare nella strada che è giusta, che è poi la strada della migliore pedagogia italiana.

[1] R. Tagore, Il mondo della personalità, Guanda, Modena 1993, p. 103.

Gli Stati Generali, 6 febbraio 2021.[/read]

La DaD e gli aguzzini
dell’apprendimento

All’inizio non volevo crederci. Un docente, pensavo, non giungerà mai ad umiliare uno studente fino a questo punto. Mi sembrava che fosse una leggenda metropolitana o qualcosa del genere. Poi hanno cominciato a parlarmene persone a me vicine. E con riferimenti precisi: in quella tale scuola, quel tale docente. Che interroga a distanza, e per essere certo che lo studente non legga da qualche bigliettino sistemato sul monitor, lo interroga bendato. So che per gli studenti l’interrogazione è sempre motivo di un’ansia che a volte li blocca, ma solo sforzandomi posso immaginare come possa sentirsi uno studente bendato davanti al monitor del suo computer: come se si trattasse, più che di una verifica dell’apprendimento – e l’apprendimento è una cosa che mi ostino ad associare alla gioia – di un interrogatorio dei servizi segreti.
Ci sono varianti più creative, ma non meno umilianti. C’è il docente che chiede di mostrarsi in webcam mentre si posiziona il quaderno della disciplina a terra e poi di fare l’interrogazione con gli occhi al soffitto – la benda evidentemente pareva brutale, mentre gli occhi al cielo rientrano in una più accettabile iconografia religiosa – e c’è il Consiglio di classe che medita di chiedere agli studenti di piazzare una seconda webcam alle loro spalle, in modo da avere il controllo completo (una cosa, mi dicono, che fanno anche certe università).[read more]

Il controllo completo. E’ quello che i docenti hanno, o cercano di avere, in classe. E’ questa l’istituzione che abbiamo ricevuto dal passato. Una istituzione che ha molte affinità con il carcere, il manicomio, il convento. Un’istituzione disciplinare centrata sul controllo. Sono cambiate, nel frattempo, le concezioni pedagogiche. Si è scoperto l’ovvio: che l’apprendimento ha a che fare con l’interesse, con l’attività, con il piacere. Ma sono scoperte che sono finite sullo sfondo, quelle cose che studi all’università e poi dimentichi quando cominci a insegnare. In primo piano è rimasto l’impanto disciplinare, ortopedico, panottico della scuola. Osservare, sorvegliare, modellare.
La Didattica a Distanza rischia di mettere in crisi questo sistema, e questo può essere il bene che può venire da ciò che con ogni evidenza è un male. Perché l’insegnamento richiede una relazione viva, e dietro un monitor è davvero difficile. E tuttavia la scomparsa di quel setting scolastico che abbiamo ricevuto da una tradizione violenta e che non abbiamo mai avuto il coraggio di abbandonare apre qualche nuova possibilità. A scuola, per dire, è normale che uno studente chieda il permesso per andare in bagno. Si vorrebbe fare educazione civica, ma nelle scuole italiane non si riesce ad ottenere nemmeno – e nemmeno nei Licei – questa cosa minima: che gli studenti abbiano la libertà e la responsabilità di gestire da sé le andate in bagno. Anche ragazzi maggiorenni devono sottoporsi alla richiesta umiliante; e i docenti si riducono a gestire il traffico verso il gabinetto. Ma quando la richiesta viene da uno studente che è dietro un monitor, quando, cioè, uno studente ti chiede il permesso di andare in bagno a casa sua, il carattere surreale della richiesta non sfugge neppure al più ottuso sostenitore del conservatorismo didattico.
Valutare è il momento più delicato dell’insegnamento. I docenti hanno, evidentemente, la convinzione che questa cosa così delicata si faccia ottimamente, in classe. E che sia invece difficile a distanza: di qui le follie di cui s’è detto. Io questa certezza non l’ho mai avuta. Le interrogazioni mi lasciano da sempre l’amaro in bocca. Sono consapevole della estrema difficoltà di distinguere, in questo modo, l’apprendimento reale dalla simulazione di apprendimento. Uno studente può parlare per un quarto d’ora, a raffica, e tuttavia non aver imparato nulla. Anzi: più parla a raffica, più è probabile che non abbia imparato nulla.
Sto correggendo ora il compito di psicologia che ho dato in prima. Abbiamo studiato la percezione. Ho chiesto loro di realizzare una videolezione sull’argomento. I primi lavori che ho visto mi sembrano bellissimi. E quando ho chiesto loro se hanno incontrato difficoltà, diversi mi hanno risposto che non è stato facile, ma si sono divertiti. In terza, dove insegno filosofia, ho chiesto di scrivere dei dialoghi filosofici (tra Gorgia e Parmenide e tra Ippia e Trasimaco) e di riflettere sul relativismo di Protagora. Anche in questo caso ho letto cose molto creative, tra cui un dialogo a suon di rap. In un’altra terza stiamo studiando l’antropologia della parentela. Quando sarà il momento della verifica, chiederò di intervistare degli anziani a proposito del loro matrimonio. Valutare a distanza si può, se si abbandonano le modalità valutative usate in presenza. E oserei dire che si valuta anche meglio: perché vengono in primo piano capacità e competenze – prima fra tutte la creatività – che la didattica in presenza normalmente trascura.

Una cosa, intanto, dev’essere chiara. Se un docente non è in grado di adattare la valutazione alla didattica a distanza, è un problema suo. Non ha il diritto di scaricare la sua incompetenza pedagogica e didattica sugli studenti. Bendare uno studente o chiedergli di guardare il soffitto vuol dire umiliarlo e mancargli di rispetto; e, a ben vedere, significa anche umiliare sé stessi, ridursi da educatori a miserabili aguzzini dell’apprendimento.

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La laicità, la scuola e l’Islam

La brutale uccisione di Samuel Paty, il docente francese colpevole di aver mostrato le vignette di Carlie Hebdo durante una lezione sulla libertà d’espressione, mi ha colpito profondamente. Mi ha colpito perché sono un docente, perché sono laico, e perché negli stessi giorni ho tenuto nella mia terza una lezione sulla libertà d’espressione. Mi spiace che quella tragedia, che tanto sta facendo discutere in Francia, da noi non susciti grande interesse, e al tempo stesso ne sono un po’ sollevato, perché il livello del dibattito pubblico nel nostro Paese è infimo, e non ci sarebbe da aspettarsi molto di diverso dalla più becera islamofobia.
Confesso di essere stato tentato anch’io dalla rabbia. Di aver pensato che noi laici abbiamo conquistato la libertà di parola con il sangue di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini. E che è insufficiente ripetere fino alla nausea che “l’Islam è pace”, se poi si decapita qualcuno in nome di Allah. Ma è, appunto, una tentazione, e se cedere ad alcune tentazioni può essere cosa buona e giusta, cedere a questa tentazione è un errore grave.[read more]

Come docente italiano, e docente laico, una tragedia simile mi spinge a riflettere sull’istituzione di cui, con disagio sempre crescente, faccio parte. Io insegno filosofia e scienze umane. Insegno a studenti italiani, albanesi, romeni, nordafricani, centrafricani, sudamericani. Insegno la filosofia europea, perché così si vuole nel nostro Paese. E insegno le scienze umane dal punto di vista occidentale. Insegnando antropologia, faccio anche lezioni di antropologia della religione. E dal momento che non credo troppo nella scuola lezione-libro-interrogazione, cerco di far in modo che gli studenti incontrino dal vivo la diversità religiosa. Li porto, ad esempio, alla locale sinagoga, dove apprendono la storia, le vicende e le usanze della piccola comunità ebraica della città. Mi piacerebbe che potessero anche incontrare l’imam, perché nella città ci sono molti musulmani, e musulmani sono anche diversi studenti, e credo che sia importantissimo conoscere un punto di vista sull’Islam diverso da quello superficiale ed esterno dei mass-media. Ora so che no, non si può fare. L’imam a scuola spaventa. Se lo proponi, ti senti dire che la proposta dev’essere approvata dal Consiglio d’Istituto. E lì basta un genitore islamofobo per bloccare tutto. Questo in un Paese in cui non è infrequente che il vescovo locale faccia visita a questa o quella scuola in pompa magna, accolto da una folla di bambini festanti.
Provo a mettermi nei panni di uno studente musulmano. Sappiamo che il profilo dello studente attentatore è simile in diversi Paesi (ne parla Francesco “Bifo” Berardi in Heroes, Baldini e Castoldi): ragazzi che vivono un forte senso di esclusione, che alimenta un sentimento di rivalsa. Nelle nostre scuole l’Islam è il convitato di pietra. Compare sporadicamente, come una presenza imbarazzante; raramente c’è modo di parlarne in modo aperto, con la competenza necessaria. Uno studente musulmano (non solo lui, a dire il vero) sente di appartenere non tanto a una sottocultura, quanto a una controcultura. È lì che la società lo colloca. Finisce per lo più per vergognarsi di essere musulmano, abbracciando con un senso di liberazione i valori dominanti (e con le comprensibili, dolorose fratture con la sua famiglia); ma può succedere anche il contrario: che si chiuda nella sua identità, che faccia proprio lo sguardo dell’altro e diventi ciò che si crede che lui sia. Che reagisca al rifiuto generale della società nei confronti della sua cultura con un uguale rifiuto che, in particolari condizioni, può esplodere con violenza. Inclusività è una delle parole chiave della scuola italiana. Non c’è documento scolastico – non c’è pezzettino di quella scuola di carta che si sovrappone ormai alla scuola reale – che non la piazzi nei punti strategici. Ma la scuola italiana è davvero inclusiva? Culturalmente no, non lo è. Lo studente straniero non è il portatore di una diversità che bisogna conoscere e valorizzare. Non è una finestra su mondi altri (e la scuola cos’è, se non aprire finestre su mondi altri?). È segnato dalla negatività. È quello che non sa la lingua. Non quello che sa una lingua diversa – a volte ne sa diverse – che si può provare ad imparare insieme. È quello cui bisogna insegnare la lingua. E di fatto in questo consistono la maggior parte degli interventi in favore degli studenti stranieri. Si fa un corso di italiano L2, e finisce lì. E no, non può finire lì.
Da laico, amo poco l’Islam, come anche il cristianesimo e in generale le religioni. Penso che si vivrebbe molto meglio senza. Da cittadino, penso che le religioni comunque ci sono, ed è un diritto sacrosanto poter seguire la propria religione. E mi dispiace che tanti musulmani debbano pregare in luoghi di fortuna (nella mia città una sorta di garage). Da docente, penso che la scuola debba fare tutto il possibile per far sentire riconosciuti e rispettati gli studenti musulmani, come anche gli studenti portatori di qualsiasi alterità (comprese le diversità di classe sociale, di cui nessuno più si occupa). E mi pare che la scuola italiana lo stia facendo poco e male.

Gli Stati Generali[/read]

Gli illeciti della didattica a distanza

La chiusura improvvisa lo scorso marzo ha costretto le scuole a inventarsi dal nulla o quasi la didattica a distanza; e comprensibilmente sono stati scelti, anche grazie a un discutibilissimo endorsement ministeriale, gli strumenti più familiari e in qualche modo rassicuranti: Google Classroom e Microsoft Office 365. Si sperava che l’avvio del nuovo anno scolastico consentisse una riflessione più attenta sugli strumenti e le modalità della didattica a distanza, ma pare invece che sia cambiato poco: la maggior parte delle scuole continua ad affidarsi ai servizi Google e Microsoft.
La ragione addotta è spesso che questi servizi garantiscono la privacy degli studenti. In realtà usarli non è solo inopportuno, ma costituisce attualmente, dopo la sentenza Schrems II della Corte Europea di Giustizia, un illecito proprio per ragioni di privacy. Gli Stati Uniti si riservano per legge il diritto di accedere ai dati dei cittadini di qualunque Paese, se sono gestiti da una azienda statunitense, anche se i dati risiedono fisicamente su server situati al di fuori degli Stati Uniti. In sostanza tutti i dati dei nostri studenti, come di qualsiasi altro cittadino italiano ed europeo, gestiti da Google e da Microsoft, possono essere usati liberamente da un governo esterno all’Unione Europea. È appena il caso di ricordare che Trump ha cercato di bloccare la cinese Tik Tok negli Stati Uniti per ragioni di sicurezza nazionale.[read more]

La sentenza della Corte Europea di Giustizia, del 19 luglio scorso, dichiara che “le persone i cui dati personali sono trasferiti verso un Paese terzo sulla base di clausole tipo di protezione dei dati devono godere di un livello di protezione sostanzialmente equivalente a quello garantito all’interno dell’Unione da detto regolamento, letto alla luce della Carta [la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, NdR]”, cosa che non avviene con aziende statunitensi come Google e Microsoft, dal momento che “le limitazioni della protezione dei dati personali che risultano dalla normativa interna degli Stati Uniti in materia di accesso e di utilizzo, da parte delle autorità statunitensi, di siffatti dati trasferiti dall’Unione verso tale Paese terzo […] non sono inquadrate in modo da rispondere a requisiti sostanzialmente equivalenti a quelli richiesti, nel diritto dell’Unione, dal principio di proporzionalità, giacché i programmi di sorveglianza fondati sulla suddetta normativa non si limitano a quanto strettamente necessario” [1].
In sostanza, far usare ai nostri studenti le piattaforme Google e Microsoft significa esporli a un uso dei loro dati personali che viola i loro diritti di cittadini dell’Unione Europea. E a poco vale il consenso sulla privacy richiesto alle famiglie. Quali possibilità hanno? Se non dessero il consenso alla privacy, che dev’essere libero, i loro figli non potrebbero accedere alla didattica a distanza, ossia non potrebbero fruire del diritto all’istruzione. Il consenso non è dunque affatto libero. E un consenso non libero non ha alcun valore.
La gravità della situazione che si è venuta a creare può essere illustrata con un paragone. Immaginiamo che lo studente Tizio faccia per entrare a scuola ma venga fermato in portineria. Non può entrare a scuola se non ha la tessera. E non una tessera di ingresso rilasciata dalla scuola. No: occorre la tessera del negozio X, dell’ipermercato Y o dell’azienda Z. Senza avere la tessera di qualcuna di queste imprese private lo studente non può accedere alla scuola, ossia al diritto all’istruzione. È esattamente quello che accade quando si chiede allo studente, per accedere alla classe virtuale (che può anche sostituire del tutto, come sappiamo, la classe fisica), di avere un account Microsoft o Google, ossia di aziende commerciali private. Un assurdo che sarebbe comprensibile, forse perfino accettabile, se le scuole non avessero alternative. Ma le alternative ci sono. Ci sono strumenti gratuiti, liberi, con codice aperto, validi esattamente quanto quelli delle multinazionali, e che anzi risultano anche più efficaci, perché pensati appositamente per la didattica (si pensi a Moodle, usato dalle università in tutto il mondo e snobbato dalle scuole) . Servizi che bisognerebbe usare non solo per il rispetto dovuto agli studenti ed alla loro privacy, ma anche perché fare didattica a distanza, con gli strumenti tecnologici, non può non significare anche educare ad un uso consapevole ed attento della rete, dei servizi informatici e dei software.

[1] Corte di giustizia dell’Unione europea, Comunicato stampa n.91/20, Lussemburgo, 16 luglio 2020, url: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-07/cp200091it.pdf Nell’immagine: l’Edu Day di Microsoft. Fonte: https://www.mvservice.it
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Il santo, la strega e l’angelo della storia

Se andate in Piazza del Campo, a Siena, fermatevi un attimo proprio davanti al Palazzo Pubblico. Guardate a terra. Una mattonella ricorda il luogo esatto in cui San Bernardino vi predicò, nel 1427. Possiamo rivivere la scena grazie ad un quadro di Sano di Pietro, nel quale stranamente non c’è molta gente ad ascoltare il santo, anche se sappiamo che la sua predicazione fu un grande evento, e fu scelta Piazza del Campo perché nessuna chiesa avrebbe potuto contenere la gente accorsa. Il santo è su un pulpito in legno; gli ascoltatori, inginocchiati – i maschi rigorosamente separati dalle femmine da un telone rosso – non sono più di qualche decina. Nel quadro di Sano di Pietro San Bernardino mostra agli ascoltatori il trigramma raffigurato su una tavola di legno, come era solito fare durante le sue prediche (e un trigramma, lavoro dell’orafo senese Tuccio di Sano, fa bella mostra di sé anche sulla facciata del Palazzo Pubblico). Ma sappiamo anche cosa disse, in quelle prediche, grazie al lavoro umile di un cimatore di panni, Benedetto di Bartolomeo, che usò per trascrivere con grande fedeltà le prediche del santo un misterioso metodo di scrittura rapida su tavolette di cera di sua invenzione.[read more]

È il 21 settembre. Domenica. Il santo parla dei peccati capitali. La superbia, la lussuria, l’avarizia. Il discorso – lungo, pesante, violento, come si conviene a una predica – si fissa presto sul Diavolo. E su coloro che, con l’aiuto del Diavolo, praticano incantesimi. Che fare con loro? Il santo non ha dubbi: “Non vi so meglio dire: ‘al fuoco, al fuoco, al fuoco’. Oimmè! O non sapete voi quello che si fece a Roma mentre che io vi predicai? O non potrei fare che così si facesse anco qui? Doh, facciamo un poco d’oncenso a Domenedio qui a Siena!” [1] Quali imprese aveva compiuto a Roma il santo? Lo dice lui stesso: “E come io ebbi predicato, furono acusate una moltitudine di streghe e di incantatori.” [2] Aveva chiesto morte ed aveva ottenuto morte. Ora a Siena chiede lo stesso. Chiede che si uccida in suo nome, per la maggior gloria di Dio. Chiede che si brucino degli esseri umani per fare un po’ di incenso a Dio.
Lasciamo Piazza del Campo e spostiamoci in Porta Camollia. È la porta più suggestiva di Siena, con quella scritta – “Cor magis tibi Siena pandit”: Siena ti apre un cuore più grande – che piacerebbe leggere sulla porta di ingresso di qualsiasi città. Siamo nel 1540. È l’8 giugno. Al prato di Camollia viene condotta una donna. Viene strangolata, poi il suo corpo è dato alle fiamme. La donna si chama Lucia di Pienza, ed è stata condannata a morte per stregoneria, con l’accusa di aver “guasto” molti bambini e di essersi accoppiata più volte con il Diavolo. Due mesi più tardi vengono impiccate e bruciate altre quattro donne, con la stessa accusa. [3] Donne che diventano incenso per Dio. I sacrifici umani del cristianesimo.
Siamo in tempi in cui si abbattono le statue – e se non è possibile abbatterle, si imbrattano. Mi dispiacerebbe se qualcuno ora imbrattasse quella mattonella, che ricorda un santo, ma anche un uomo che chiede di uccidere delle persone (per lo più donne) in onore di Dio. Mi piacerebbe piuttosto che ci fosse in Camollia una targa per ricordare la povera Lucia di Pienza. O una mattonella piccola, poco invadente, che avvisi il turista non troppo distratto del punto in cui, in Piazza del Campo, tredici ebrei furono bruciati vivi da una banda inneggiante alla Madonna. Era il 28 giugno del 1799. Ma mi piacerebbe, soprattutto, che ci fosse una diversa sensibilità storica, in particolare a scuola.
Historein in greco significa investigare, esaminare, osservare. Mi pare di poter dire: considerare la complessità delle cose. Provare a dipanare l’intrico delle faccende umane, senza però semplificare mai, ugualmente attenti alle luci ed alle ombre. La storia che abbiamo incontrato sui banchi di scuola, e che continuano a incontrare i nostri studenti, è molto lontana da questa ermeneutica della complessità. È la storia dei grandi uomini e dei grandi eventi: battaglie, trattati, regni ed imperi, re e regine.
È nota l’interpretazione che Walter Benjamin ha dato del quadro di Paul Klee Angelus Novus nelle sue Tesi di filosofia della storia. L’angelo di Klee è, per lui, l’angelo della storia. “Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta” [4]. Sarei insincero se dicessi di aver compreso questo passo, ma avverto il fascino dell’immagine. Se dovessi figurarmi un angelo della storia, le sue fattezze richiamerebbero però quelle dell’Angelo caduto: il Diavolo. E il suo sguardo si fermerebbe sulla povera Lucia di Pienza, probabilmente colpevole di nulla, e su Giulio Cesare Vanini, come lei strangolato e dato alle fiamme con l’accusa di ateismo, e su Anania e Saffira, e su Ipazia, e sugli albigesi massacrati a Béziers, e sui neri ridotti in schiavitù, e sui poveri sempre umiliati, sfruttati, massacrati, e su David Lazzaretti, stroncato dagli spari dei carabinieri, Rocco Girasole, ucciso dalla polizia mentre reclamava pacificamente pane e lavoro, eccetera. Il suo sguardo compassionevole considererebbe le moltitudini schiacciate dal procedere violento della storia, di cui lui, l’Anti-Dio, l’Angelo caduto, è il simbolo. Perché se si considera quella cosa che chiamiamo storia – che sta appena nascendo: ha qualche migliaio di anni, appena un attimo nella vita di una specie vivente – la cosa che più colpisce è la violenza cieca che la percorre. E lo studio della storia mi sembra un esercizio di pietà umana. È lo studio, l’indagine, la pratica dell’attenzione che, in quel quadro terribile, coglie ciò che è costretto fuori dalla scena, ascolta le voci ridotte al silenzio – come quelle delle streghe, che affiorano qua e là nei documenti dei processi – e ricostruisce la molteplicità delle vie, la pluralità delle tradizioni alle quali apparteniamo. Questa pratica di pietà, di giustizia e di attenzione è il lavoro urgente che spetta alle scuole, ben oltre il rituale ormai stucchevole delle giornate della memoria o del ricordo.

Note
[1] Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, a cura di Carlo Delcorno, Rusconi, Milano 1989, vol. II, pp. 1006-1007.
[2] Ivi, p. 1007.
[3] D. Corsi, Diaboliche maledette e disperate. Le donne nei processi per stregoneria (secoli XIV-XVI), Firenze University Press, Firenze 2013, p. 83.
[4] W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1961, p. 80.

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Lettera a una studentessa delusa dalla scuola

Cara *, gli esami di Stato non sono andati come speravi ed ora ti senti delusa, amareggiata, arrabbiata. Hai l’impressione che l’impegno di anni non sia servito a nulla e che la scuola ti abbia ingannata. Hai ragione, e comprendo perfettamente la tua rabbia. Non ti scrivo per cercare di lenirla, ma per continuare il discorso di questi cinque anni: e cercare insieme qualche conclusione.
Ragioniamo di esami. Li amo poco, come amo poco tutto ciò che serve a creare gerarchie, vincitori e vinti, primi secondi e terzi. Io sono per i giochi a somma positiva, quelli nei quali vincono tutti. E così penso un po’ la scuola. Io metto sul tavolo quello che so, tu quello che sai tu. Io quello che penso, tu quello che pensi tu. E ragioniamo insieme, cerchiamo insieme, scaviamo insieme. Ci arricchiamo insieme. Ma questo non basta. La scuola ha bisogno di classificare – in alcune scuole gli studenti vengono addirittura divisi in tre fasce: i bravi, quelli così così, i pessimi.
In questi giorni di esami mi è sembrato un po’ di essere un giudice di uno di quei talent show che vanno di moda. Lo studente si esibisce, noi lo premiamo o lo penalizziamo. Ho detto si esibisce. Perché di questo si tratta: una esibizione. Noi docenti siamo sempre molto critici verso gli spettacoli televisivi, è sottocultura, robaccia popolare contro cui la scuola deve resistere. E forse è vero. Ma ci sfugge che la logica della scuola, quale si mostra negli esami, è la stessa di certi penosissimi concorsi televisivi.[read more]

In un concorso di bellezza non vince la più bella (e chi può dire, del resto, cos’è davvero la bellezza?) Vince quella che incontra meglio i canoni estetici correnti. Canoni che io non condivido affatto. Mi piacciono molto quei visi femminili che hanno qualcosa di irregolare, e mi fa molta rabbia che alcune donne sentano di dover correggere certi tratti distintivi della loro bellezza ricorrendo al chirurgo estetico. Ora, la scuola non funziona diversamente. Lo studente che ne esce vincitore non necessariamente è il migliore. È semplicemente lo studente che incontra i canoni culturali della scuola. Ma, ecco, questi canoni sono perfino più discutibili dei canoni di bellezza dominanti. Noi docenti ci consideriamo i depositari dell’unico sapere legittimo ed ostentiamo disinteresse verso qualsiasi manifestazione culturale che non abbia il sigillo dell’ufficialità. I docenti di italiano sono sempre prodighi di consigli sui libri da leggere, ma Wattpad no, non lo leggono. Wattpad è spazzatura: può forse un docente perdere tempo a leggere il diario di una quindicenne? Fuori dalla scuola, però, le cose vanno diversamente. Scolastico, fuori dalla scuola, è un aggettivo che non qualifica granché. Se scrivi nel tuo curriculum che hai una conoscenza scolastica dell’inglese non fai una bella figura. Scolastico, dice il dizionario Treccani, vuol dire “elementare e meccanico, legato a schemi rigidi e convenzionali, privo o scarso di rielaborazione critica e poco personale”. Ecco, ci siamo. Non so ad esempio quante volte, durante questi esami di Stato, ho sentito dire che Schopenhauer è un filosofo irrazionalista. Ma davvero? Solo perché dice che al fondo della realtà non c’è una Ragione? Ma allora siamo tutti irrazionalisti. Allora lo era anche Darwin, per dire. La scuola procede così. Mette etichette ovunque, e pensa che questo etichettamento sia il sapere.
Questo modo di procedere meccanico, schematico, misero è parte significativa del canone scolastico. Un tale pseudo-sapere dev’essere presentato poi in un certo modo. Se qualcuno mi chiedesse di parlare, che so, di Platone, io avrei bisogno di qualche tempo per raccogliere le idee. Platone lo conosco bene, credo, ma i discorsi non si improvvisano. Uno studente no, non può raccogliere le idee. Deve partire subito e non deve mai fermarsi. Deve andare dritto come un treno. Questo pseudo-discorso viene premiato con i voti più alti. Voti che premiano la simulazione del sapere, non il sapere.
C’è poi l’aspetto umano. Quello che si chiede allo studente di essere. Sono anni che durante gli scrutini discuto il voto di condotta. Immancabilmente i voti più alti vanno agli studenti più silenziosi. Che stanno lì buoni buoni. Questo si chiede in fondo a uno studente. Di star lì zitto. Mentre io metterei il massimo a uno studente che mi contesta. Perché è vivo, e perché contestare è una delle cose che vorrei che la scuola insegnasse.
Vedi cosa premia un voto alto agli esami di Stato. Il fatto che lo studente – che, sia chiaro, può essere brillantissimo – incontra il canone culturale della scuola. Che è un canone che può, che deve essere discusso.
E dunque: è legittima la tua rabbia, ma procedi oltre. Comprendi che in primo luogo stai riconoscendo l’autorità di qualcuno su di te. Riconosci a noi il diritto di dirti quanto vali, quanto è solida la tua cultura, quanto reale è la tua passione. Ma al punto in cui sei non devi riconoscere nessuna autorità al di fuori di te stessa. Una volta questi esami si chiamavano esami di maturità. E la maturità consiste un questo. Siii fiera, sicura, orgogliosa di te stessa. In secondo luogo, discuti la scuola. Discuti il suo canone culturale, la sua miseria relazionale, i suoi rituali ridicoli. Discuti un sistema vecchio, stanco, che non ha mai davvero saputo rinnovarsi. Una chiesa il cui Dio è morto da un pezzo, ma che ancora si crede l’unica via di salvezza. E discuti me, prete ateo, che da quella chiesa non sa staccarsi. Perché? Perché a volte i volti si incontrano perfino lì. Ed è l’unica cosa che conta.

Gli Stati Generali, 24 giugno 2020.

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La scuola salvata dagli smartphone

Nella prima metà degli anni Novanta presi, con la massima determinazione, una posizione che ancora oggi è oggetto di ironia nella mia famiglia: “Non mi vedrete mai con quel coso”. Quel coso era il telefono cellulare. In quegli anni erano davvero pochi ad averli, e chi lo aveva lo ostentava come status symbol, segno dell’ingresso in una ristretta cerchia di gente benestante e al passo con i tempi. I cellulari erano oggetti ingombranti, che fanno tenerezza se confrontati con gli smartphone attuali, e chi li usava era spesso costretto a contorsioni imbarazzanti per intercettare il campo. Nel ’98 insegnavo italiano in una scuola media. In una terza quasi tutti gli studenti avevano il telefono cellulare. Lo tenevano poggiato in bella mostra sul banco, in alto a destra, come qualcosa che non potevano sottrarre allo sguardo nemmeno per un istante. Mi sembrava una ostentazione che non faceva ben sperare sulle nuove generazioni, e lo stesso pareva ai miei colleghi.
Ho preso il primo cellulare sul finire degli anni Novanta, per ragioni affettive: una persona cui tenevo si era trasferita in un’altra città e mi aveva fatto capire che con il cellulare sarebbe stato più facile sentirci, anche via sms. Presi un Siemens C25, un oggettino compatto, piacevole da maneggiare. Scoprii che mi piaceva, per quanto ci si potesse far poco: telefonare, mandare sms, giocare a Snake.[read more]

Non so dire quanti telefoni cellulari ho cambiato da allora. Ma sono molti. Non ho mai speso troppo, mi sono tenuto lontano dai cosiddetti top di gamma e dalle marche più costose, ma ho sempre cercato dispositivi che mi permettessero di sfruttare tutte le possibilità della tecnologia. Oggi con il mio smartphone faccio le seguenti cose: leggo libri e giornali (nazionali ed internazionali, che leggo gratis grazie ad un servizio della biblioteca della mia città), studio le lingue (al momento sto rinfrescando il mio tedesco e studiando un po’ di giapponese: le app hanno scalzato pienamente i libri nello studio delle lingue), guardo documentari e film, ascolto musica, seguo corsi universitari gratuiti (con Coursera), gestisco le mie classi virtuali e preparo materiali didattici, suono la chitarra seguendo uno spartito che scorre sullo schermo, medito usando un timer apposito con una campana, leggo la posta… Potrei continuare a lungo. Quando mi capita di imbattermi nella diffusa e facile ironia sul fatto che una volta sull’autobous ti imbattevi in gente che leggeva il giornale mentre oggi sono tutti chini sugli smartphone, non posso fare a meno di obiettare che magari stanno usando lo smartphone per leggere. Oppure – è quello che ho fatto io fino a quando è stato possibile prendere gli autobus – per ascoltare Bach.
Abbiamo demonizzato il cellulare quando era una cosa da ricchi, quando sapeva di yuppie fuori tempo massimo, e forse avevamo ragione. Poi il cellulare si è trasformato in smartphone, un dispositivo semplicemente straordinario, che offre possibilità di conoscenza, di esperienza, di scambio prima nemmeno pensabili, e abbiamo continuato con la nostra demonizzazione. Mi riferisco soprattutto alla scuola. Lo smartphone era la fonte di distrazione suprema e come tale bisognava vietarlo, non prima di aver gettato un po’ di disprezzo sullo strumento e su chi ne fa uso. Solo pochi si sono accorti che poteva essere uno strumento didattico. Poi è arrivato il lockdown. Le scuole sono state chiuse, e con la chiusura delle scuole sono saltate anche tante certezze che sorreggevano la nostra prassi didattica.
Ci raccontiamo che la scuola continua, in forma diversa, grazie ai computer. E quando non ci sono, mandiamo i computer scolastici, o diamo un sostegno economico – immagino insufficiente – per colmare il gap tecnologico. Non ci rendiamo conto che non sono i computer che stanno salvando la scuola in questo momento. E non solo perché non in tutte le case ci sono i computer. E nemmeno perché in molte famiglie c’è un computer e ci sono tre figli che vanno a scuola (e magari il computer serve anche ai genitori). Quello che sta salvando oggi la scuola, che ci sta consentendo di continuare in qualche modo a far lezione, a seguire i nostri studenti, a continuare il dialogo, è il tanto demonizzato smartphone. Se noi adulti continuiamo a percepire lo smartphone come un bene di lusso, memori delle scene degli esordi, i ragazzi sanno che si tratta invece di un bene di necessità: e per questo è difficile che manchi uno smartphone anche nelle famiglie più povere, nelle quali i computer non sono mai entrati. Ed è, di fatto, un bene di prima necessità. Oggi la realtà si è sdoppiata, accanto a quella che tocchiamo con i sensi c’è la realtà parallela dei social network e della condivisione informatica. Essere fuori da questa realtà parallela significa vivere una realtà sociale dimezzata. E non solo per i ragazzi: la stessa politica oggi si fa sui social network. Se alla realtà quotidiana si accede attraverso i sensi, alla realtà parallela si accede attraverso un nuovo senso tecnologico: e tale è, e sta diventando sempre più, lo smartphone. Qualcosa di più di un semplice strumento. Un senso aggiunto. Un sesto senso. Bisogna tenerne conto anche sul piano politico, perché è sempre più evidente che l’accesso alla rete Internet ed alla tecnologia sono oggi fondamentali per il pieno esercizio degli stessi diritti di cittadinanza. Ma bisognerà tenerne conto anche a scuola, quando sarà possibile tornare nelle aule e, guardandoci in faccia, ci troveremo di fronte ad una scelta: continuare la vecchia, consolidata narrazione, o costruire un discorso nuovo, liberarci dai pregiudizi, avere il coraggio del cambiamento.

Gli Stati Generali, 24 aprile 2020.[/read]

Quella distanza che rende la scuola più vicina

I problemi, le difficoltà, i rischi della chiusura – non si sa fino a quando – della scuola sono evidenti: primo fra tutti la possibilità concreta che chi è già indietro resti ancora più indietro, a causa del divario culturale, cui si aggiunge ora, spesso, il divario digitale. Un piccolo studente che abbia difficoltà legate alla motivazione, con alle spalle una famiglia che non lo supporta, rischia di perdere anche l’incoraggiamento e il sostegno della comunità scolastica (quando c’è: cosa che non è purtroppo scontata). E può essere che la mancanza di computer o di una stabile connessione alla rete Internet finisca per aggravare il quadro.
Vorrei però ragionare anche sulle opportunità di questa fase così difficile. Procederò per punti.
1. Nuove modalità relazionali. Sono fortemente convinto che il principale problema della scuola italiana vada individuato nella relazione tra docenti e studenti. La scuola nasce come istituzione autoritaria, asimmetrica, disciplinare e tendenzialmente totalizzante. E’ una istituzione di potere, che promette di creare delle soggettività solo dopo un lungo assoggettamento, per dirla alla Foucault. Altrove i sistemi scolastici sono riusciti a fare i conti con questo passato autoritario ed a staccarsi da una modalità relazionale che ha poco a che fare con l’apprendimento. L’Italia no. Benché nella percezione di molti la causa della crisi attuale della scuola vada ricercata in un lassismo che si fa risalire all’influenza nefasta del Sessantotto, in realtà la scuola persiste nel suo delirio unidirezionale. Il docente fa lezione dalla cattedra, gli studenti sono nei loro banchi in fila, il sapere si trasmette dall’uno agli altri.[read more]

Ora, l’irruzione della distanza fa saltare il gioco. Quei docenti che persistono nel guardare le classi dall’alto della pedana sotto la cattedra (sì: in Italia persistono le pedane sotto le cattedre) dovranno adesso accontentarsi di mettere le pedane sotto le scrivanie. O sotto la webcam, se preferiscono. Il docente collegato in videoconferenza con la sua classe diventa, che lo voglia o no, quello che dovrebbe essere: una persona al servizio dei suoi studenti, pagata dallo Stato per favorire i loro apprendimenti. Tutto l’apparato di controllo, tutto il setting che sostiene e giustifica il suo potere, è venuto a crollare. Nessuno chiederà il permesso per andare in bagno. Lo studente è a casa sua, il docente entra nella sua cameretta, nel salotto, nella cucina a volte. E dovrà farlo necessariamente in punta di piedi. Paradossi di questo tempo sospeso: la didattica a distanza annulla la distanza.
2. Riflessione sulla valutazione. La domanda più pressante, in questi giorni, è: come valutare? Il sottinteso è: come essere certi che non copino? C’è dietro questa domanda la paura di perdere anche l’ultimo strumento di potere, il voto. Che dovrebbe solo servire ad aiutare lo studente a monitorare il suo percorso di apprendimento, ma in un sistema autoritario diventa uno strumento di potere e di manipolazione per gli uni, il fine reale del lavoro per gli altri. A meno che non si voglia interrogare lo studente in videoconferenza avendo cura che sia bendato, l’unico modo per valutare in questo periodo è concentrarsi sulle competenze. Non chiedere allo studente di ripetere quello che c’è sul libro, o che il docente ha detto a lezione, ma proporre delle attività dalle quali emerga la rielaborazione personale, la capacità di applicare le conoscenze, la creatività. Inutile fare la classica interrogazione sul pensiero di Nietzsche; chiedere piuttosto di scrivere soggetto e un pezzo di sceneggiatura di un film nicciano (che si leghi cioè, anche in modo critico, a qualcuno dei temi di fondo del suo pensiero). Ma concentrarsi sulla competenza è quello che bisognerebbe fare sempre, a scuola, per evitare il vuoto nozionismo, la penosa simulazione del sapere.
3. I gruppi. Un lavoro come quest’ultimo potrebbe essere troppo difficile per il singolo studente. Meglio proporlo come lavoro di gruppo. Ed è questa, forse, la principale opportunità di questo periodo. Il lavoro di gruppo a scuola – nella scuola italiana – è da sempre marginale. Lo è anche per l’ossessione docimologica: come valutarlo? come impedire che il lavativo di turno si avvantaggi del lavoro degli altri? Gli strumenti che utilizziamo in questi giorni sono nati spesso per favorire il lavoro nelle aziende. E’ il caso di Teams, strumento centrale di Microsoft Office 365 Education A1, tra le piattaforme raccomandate dal Miur. Penso tutto il male possibile di questa raccomandazione di servizi proprietari, quando sono disponibili alternative open source, e mi chiedo anche perché il Ministero non abbia approntato mai una sua piattaforma per l’apprendimento aperta, gratuita, con alle spalle una solida visione pedagogica. Cerco però di vedere il buono anche nelle cose che non mi piacciono, soprattutto quando sono cose che devo usare per lavoro. Teams funziona bene, come dice il suo nome, per il lavoro di gruppo. Usare strumenti come questo per continuare la didattica unidirezionale è sciocco. E’ bene che finalmente i nostri studenti imparino a coordinarsi, condividere le informazioni, dividersi i compiti, costruire l’intelligenza collettiva.
4. La scuola e l’altrove. La scuola pensa sé stessa come una cittadella del sapere. Un mondo chiuso nel quale c’è il sapere vero, autentico, certificato (con qualche eccezione: i voti scolastici in inglese o francese non certificano nulla di per sé; “conoscenza scolastica” nel curriculum in questo caso non fa fare una grande figura), autorevole. Fuori è tutto dilettantismo. La chiusura della scuola come luogo fisico abbatte questa barriera mentale. Il docente che fa lezione in videoconferenza ha come strumento il suo computer. Potrà usare, sul suo computer, il libro di testo. Ma potrà anche esplorare la rete insieme ai suoi studenti. La classe, di fatto, diventa questo: un ambiente di apprendimento connesso alla rete, e dunque parte di un più grande sistema informativo, che può essere un pericolo (ah, la privacy), ma anche una straordinaria risorsa.
La scuola a distanza, dispersa apparentemente nelle singole abitazioni dei docenti e degli studenti, può tentare nuove relazioni, nuove connessioni, nuove modalità di ricerca. Essere, forse, più vicina che mai.

Gli Stati Generali, 24 marzo 2020.[/read]

Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)

In questo periodo di grave difficoltà per la scuola pubblica, pare segno di grande responsabilità e generosità che aziende piccole, grandi e grandissime abbiano messo a disposizione gratuitamente i loro servizi. Prime fra tutte, le multinazionali dell’informazione per eccellenza: Google e Microsoft. Google Suite for Education e Office 365 Education A1 fanno bella mostra di sé nella pagina del Miur dedicata alla didattica a distanza, quali piattaforme raccomandate; e di fatto, grazie a questo endorsement ministeriale, sono le piattaforme più usate dalle scuole in questo periodo. Il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione e l’Agenzia per l’Italia Digitale hanno poi promosso Solidarietà digitale, una pagina con il lungo elenco di aziende ed associazioni che mettono gratuitamente a disposizione i loro servizi: si va dall’immancabile Amazon ai gestori di telefonia fino alla aziende di trasporti che offre corse gratuite, una offerta poco comprensibile in un periodo di immobilità coatta.
Bisogna essere molto ingenui per non vedere dietro questa generosità la realizzazione di un sogno: quello di conquistare il lucroso settore della scuola pubblica, rendendo i propri servizi indispensabili per la didattica ed acquisendo i dati personali di migliaia, possibilmente milioni di studenti e docenti. Chi scrive ha conseguito un attestato di Docente esperto in tecnologie informatiche non meno di vent’anni fa. All’epoca per essere esperti di tecnologie informatiche bastava saper usare Microsoft Office; e l’attestato giunse proprio alla fine di un corso a distanza (naturalmente gratuito) di Microsoft, accompagnato e completato dal dono generoso di una copia gratuita della suite Office. La logica è quella commerciale del cavallo di Troia: si offre un servizio gratis, si entra nella scuola pubblica e si conquista il mercato dell’insegnamento. Continue reading “Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)”

Facciamo una scuola difficile

Uno studente che provenga dal ceto proletario si trova ad affrontare difficoltà che per lo studente borghese sono difficili anche da immaginare. La più grande, spesso insormontabile, è la differenza culturale: perché la cultura scolastica è la cultura elaborata nei secoli dal ceto nobiliare e poi da quello borghese, una cultura che esprime una visione del mondo che è diversa, diversissima da quella proletaria; una costellazione di valori altra, nella quale lo studente proletario non è a casa. E si trova di fronte a una scelta dolorosissima: abitare quella nuova casa e diventare un estraneo per il suo ambiente o rifugiarsi nel suo ambiente e disertare la nuova, improbabile casa. Spesso è questa seconda, la sua scelta, ed è tra le cause principali della dispersione scolastica. C’è poi la lingua. Il nostro studente proletario ha un codice ristretto, direbbe Basil Bernstein. Ha un codice diverso, direbbe qualche altro. Certo parla una lingua che non è quella scolastica. Un proletario foggiano ha termini estremamente precisi per indicare, che so, l’acqua di cottura della pasta o le briciole di polistirolo, ma non ha un lessico astratto o adatto alla complessità del mondo emotivo e sentimentale (quel mondo che si esprime nella poesia e nella letteratura): nella sua lingua non esiste nemmeno un modo per dire “ti amo”. C’è poi – lo diceva Gramsci, e l’aveva vissuto sulla sua pelle – l’attitudine a quel tipo particolare di fatica che è il lavoro intellettuale, che può essere piacevole e anche gioioso, ma resta un lavoro, e per lo studente proletario è un lavoro strano, diverso dal lavoro di suo padre e di suo nonno. Continue reading “Facciamo una scuola difficile”

Sinagogia

Una intervista a Tutta un’altra scuola.

Professor Vigilante, lei è fautore di piccoli-grandi cambiamenti e novità nell’approccio con l’insegnamento, che sperimenta con gli studenti del liceo dove insegna. Ci vuoi spiegare su cosa si basa la costruzione delle relazione con loro e delle relazioni tra di loro e come questo permetta una modalità di insegnamento più efficace?

“Da qualche tempo amo usare la parola sinagogia al posto di pedagogia. Il termine pedagogia indica il ‘condurre il bambini’, ed è evidentemente inadeguata oggi che sappiamo che l’educazione non riguarda solo i bambini, ma è un processo che dura tutta la vita. Ma dal mio punto di vista è inadeguata anche perché pensa l’educazione come l’azione con la quale un soggetto conduce e dirige un altro soggetto. Sinagogia vuol dire invece che l’educazione accade quando due o più soggetti si conducono insieme (syn). Non posso educare qualcuno senza educarmi al tempo stesso. Vi sono situazioni educative, nelle quali ognuno è al tempo stesso educatore ed educato. La scuola dovrebbe essere la situazione educativa per eccellenza, ma lo è di rado e quasi per accidente. Io ritengo che chi insegna debba riflettere a fondo su questa domanda: quando, come, a quali condizioni accade l’educazione? E’ una riflessione che non può che partire da noi stessi. Quando e come siamo cresciuti? In quali situazioni siamo cambiati? Cosa ci ha fatto riflettere, ci ha spinti a vedere il mondo con occhi diversi, ad allargare lo sguardo? La mia risposta è che una relazione viva, autentica, è essenziale. Credo che l’educazione sia creare relazioni autentiche. E dal mio punto di vista non è possibile creare relazioni autentiche senza attaccare il verticismo, l’asimmetria, la gerarchia relazionale che caratterizzano le relazioni nella scuola italiana. In una relazione asimmetrica, quale si vuole che sia quella tra docente e studente, non si comunica in modo autentico. Spesso, anzi, non si comunica affatto”.[read more]

Come utilizza la mindfulness a scuola e come la si potrebbe utilizzare proficuamente nella scuola oggi?

“La mia proposta è quella di inserire la mindfulness in un contesto più ampio, che chiamo Educazione Basata sulla Consapevolezza (EBAC). Essere consapevoli di quello che accade è l’essenza della mindfulness. In alcune applicazioni, questa consapevolezza viene adoperata come strumento per affrontare problemi comuni nella nostre classi, come il bullismo o il deficit di attenzione. E’ quella che chiamo EBAC Problema-Soluzione. In un secondo approccio la meditazione è intesa nel suo senso più propriamente religioso, come pratica che consente il trascendimento dell’ego ordinario. Chiamo questo approccio, che si trova ad esempio nell’Alice Project di Valentino Giacomin, EBAC Transpersonale. In alternativa a questi due approcci io propongo una EBAC Umanistica, che inserisce la meditazione in un più ampio progetto di formazione integrale dello studente, che comprende anche la formazione politica. La meditazione guida alla conoscenza di sé, ma consente anche una migliore comprensione dell’altro e la costruzione comune di una comunità autentica: spiritualità, etica e politica”.

Sono in molti a sottolineare la necessità di un radicale cambiamento del paradigma educativo convenzionale che si basa ancora su lezioni frontali, nozioni, standardizzazione, ecc. Come vede l’educazione efficace e a misura di bambino/ragazzo di un futuro possibile?

“Bisognerebbe riflettere sull’efficacia. Efficace rispetto a cosa? Quale è lo scopo da raggiungere, in educazione? Per molti, è l’affermazione lavorativa degli studenti o dei figli. Una visione legittima, ma che pecca di individualismo: quale società creeremo, se educhiamo ciascuno a pensare solo al proprio futuro professionale? Per altri, bisogna educare alla felicità. Anche questa è una visione condivisibile, ma non meno individualistica. Che succede, se la mia felicità contrasta con i bisogni di altri? Dal mio punto di vista, fondamentale è la violenza. L’educazione è lo strumento migliore – l’unico? – che abbiamo per combattere la violenza. E possiamo combattere la violenza fino in fondo solo se abbiamo imparato anche a cercarla e stanarla dentro di noi. Per questo quella educazione dello sguardo che è la meditazione è per me essenziale”.[/read]

Come eliminare la bocciatura e vivere felici

Dopo la pubblicazione del mio articolo sull’orale dell’esame di Stato qualcuno si è chiesto come sia possibile che uno studente giunga agli esami finali senza saper risolvere un limite. Provo a spiegarlo. Il nostro studente, che chiameremo Taldeitali, giunge allo scrutinio finale del primo anno di liceo con una sola insufficienza, grave, in matematica; nelle altre discipline ha sufficienza piena, e anche qualche otto. Che si fa? Promosso con giudizio sospeso: dovrà recuperare matematica. Dopo due mesi lo studente si presenta all’esame di riparazione e, come è prevedibile, non ne sa più di prima. Allora? I casi sono due: o il docente di matematica, che due mesi prima era rigoroso, ora diventa improvvisamente malleabile e si fa bastare quel poco che lo studente sa, o resta irremovibile e il consiglio di classe, valutando complessivamente i risultati dello studente, decide comunque di ammetterlo alla classe successiva. Il nostro Taldeitali affronterà dunque il secondo anno di liceo con basi traballanti in matematica, e rimedierà con ogni probabilità una seconda insufficienza, che sarà sanata allo stesso modo. E così per tutti gli anni di liceo, fino a giungere agli esami di Stato senza sapere molto della disciplina.
È evidente che c’è una falla nel sistema (una tra le tante). Respingere peraltro uno studente per una disciplina significa condannarlo a ripetere, l’anno successivo, tutte le discipline nelle quali ha raggiunto la piena sufficienza, solo per recuperarne una. Un assurdo evidente. A dire il vero non è meno assurdo che lo si faccia per tre discipline; anche in questo caso lo studente dovrà ripetere dieci discipline nelle quali ha raggiunto la sufficienza: vale a dire decine e decine di argomenti che già conosce. Uno spreco umano, intellettuale ma anche economico, perché un anno di scuola costa allo Stato intorno ai settemila euro all’anno. E se lo studente è bocciato, quei settemila euro sono soldi buttati. Continue reading “Come eliminare la bocciatura e vivere felici”

La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali. Continue reading “La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri”