Condannarsi a essere senza storia
Pur essendo preparati al peggio, non si può fare a meno di deprimersi leggendo, nei Materiali per il dibattito pubblico sulle Nuove Indicazioni per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione che il governo ha diffuso, l’affermazione che “Solo l‘Occidente conosce la Storia” con la quale si apre la sezione dedicata, appunto, all’insegnamento della storia. Sia chiaro: da questo governo non ci si aspettava nulla di meglio, ma è davvero triste dover constatare che nel terzo decennio del secondo millennio si sia ancora a questo punto.
Non c’è una sola riga delle pagine dedicate alla questione che non appaia viziata da superficialità e pigrizia intellettuale, due cose che la scuola dovrebbe combattere più di qualsiasi altra. Naturalmente non negano, gli esperti guidati da Galli della Loggia, che anche qualche altro popolo abbia raccontato gli eventi mettendoli in successione, ma solo l’Occidente, assicurano, ha creato la Storia con la maiuscola, riuscendo a pensare i fatti “nella loro origine, nei loro nessi, nelle loro conseguenze”. Che è come dire che solo l’Occidente possiede la ragione, se ragione è cogliere i nessi di causa ed effetto.
Raccontiamo agli esperti una storia.
Trump è mafioso?
Di che natura è il potere di Trump? Di che natura è il nuovo potere del secondo mandato di Trump? Una domanda simile sarebbe evidentemente prematura a poche settimane dall’insediamento, ma Trump ha mandato con una rapidità che disorienta all’America e al mondo intero un messaggio tanto chiaro quanto inquietante. L’impressione è che a questo scopo servisse anche lo show – difficile definirlo diversamente – con Zelensky. Umiliare e minacciare in mondovisione il rappresentante di un Paese invaso non serviva solo a chiarire in modo particolarmente rozzo, facendo a pezzi ogni protocollo diplomatico, la sua posizione sul conflitto in corso, ma anche a presentare al mondo il suo stile di governo. Uno stile che a molti è sembrato mafioso. Ed è difficile negarlo, riguardando le immagini di quell’incontro, considerando i contenuti, ma anche il tono e perfino la prossemica. Trump si è posto indubbiamente come un boss mafioso.
Donald Trump is turning America into a mafia state è il titolo di un editoriale di Jonathan Freedland su “The Guardian” di ieri. Trump, nell’analisi di Freidland, è un corleonese della politica, che considera gli altri Stati come cosche rivali da intimidire e ridurre all’obbedienza. Così l’Ucraina, così il Canada. Mafiosi sono anche l’ossessione per il rispetto, richiesto grottescamente a Zelensky nell’incontro allo Studio Ovale, e l’umiliazione dei subordinati come Marco Rubio, che di Trump è stato a lungo un avversario e ora di trova a dipendere da lui. Dopo aver ricordato che i giudici federali stanno ricevendo a casa pizze anonime, una forma di intimidazione (“sappiamo dove abiti”) in purissimo stile mafioso, Freidland conclude con durezza: “Queste sono persone spregevoli, prive persino della moralità del teppista, e ora governano il paese che abbiamo considerato il nostro migliore amico sin dall’epoca edoardiana”.
3 marzo
Si sveglia. Piange. Come sempre: l’assenza della mamma, la fatica di riacquistare l’io. Ma si quieta in un attimo. Lo vedo strisciare nel mio studio. “Sono un serpente!”, annuncia. Prendo un cucchiaio di plastica che ha lasciato ieri sulla mia scrivania e decido di usarlo come bacchetta magica. “Ora sei un cane!” Non funziona: resta serpente. E striscia verso la sala. Si mette a giocare con la pista del trenino, mentre gli passo un biscotto – tra qualche minuto andrà alla scuola dell’infanzia e bisogna che mangi qualcosa. A un certo punto il treno esce dai binari. “Deragliato!”, dice. La parola mi sorprende. Non gliel’avevo mai sentita dire.
La cultura dell’alcol
Come succede ai più, dopo la laurea ho vissuto un periodo di bulimia formativa, per così dire. Frequentavo un corso dopo l’altro, per riempire in qualche modo il curriculum, ma anche perché avevo bisogno di capire molte cose. Della maggior parte di quei corsi non mi è rimasto nulla. Uno mi ha segnato. Era un corso tenuto da Vladimir Hudolin, il fondatore dei Club di alcolisti in trattamento (CAT; oggi in Italia si chiamano Club alcologici territoriali). Mi colpì, Hudolin: un uomo austero, a tratti arcigno, dedito a una causa in cui credeva profondamente, cui si dedicava senza risparmiarsi, anche se la malattia gli lasciava poche energie (sarebbe morto di lì a poco). A chi gli faceva notare che in fondo non c’è nulla di male a bere un bicchiere di vino o di birra, Hudolin replicava con pazienza, ma anche con fermezza: non c’è dipendenza che non parta da un bicchiere di vino, cui quando si è nervosi o stressati si aggiunge un secondo – che sarà mai? – e poi un terzo, e così via. Ma a colpirmi, a segnarmi in quel corso furono soprattutto le testimonianze di chi c’era passato. E ad esserci passati non erano i soggetti che normalmente associamo a qualche forma di devianza, ma persone normalissime. Ricordo soprattutto una coppia di architetti. Giovani, benestanti, con figli: una vita apparentemente invidiabile. Che era andata in frantumi quando lei aveva cominciato a bere. Perché, scoprii, la dipendenza dall’alcol colpisce in modo significativo le donne, anche se il fenomeno è quasi invisibile.
Il Buddhismo dei Baci Perugina
Se chi lavora per la Perugina avesse l’idea di inserire nei Baci un bigliettino con una frase di Gesù sarebbe un grave scandalo, un attacco alla nostra tradizione e identità culturale, un’offesa a tutti i cristiani; e Salvini farebbe oscillare il rosario con la bava alla bocca. Se ci finisse, nei Baci Perugina, un passo del Corano, sarebbe un attacco alla diversità culturale, una mancanza di rispetto al Libro Sacro, una manifestazione di zuccherosa strisciante islamofobia. Se il creativo della Perugina – che ci figuriamo giovane, precario e malpagato: perché questo è l’andazzo – inserisce nei baci Perugina una frase del Buddha, non succede nulla. Perché i buddhisti, si sa, sono pacifici, anzi pacioni, e in fondo il Buddha con la sua bella pancia tonda è in tutti i negozi di prodotti per la casa.
La cosa si complica un po’, ma non senza restare in piena sintonia con lo spirito dei tempi, se la frase inserita nei Baci non è mai stata pronunciata dal Buddha. Come scrisse Socrate in Contro i Sofisti, “Una volta che uno è morto puoi fargli dire quello che vuoi, e questo non è bello”. Non è bello, ma funziona, e siamo in un’epoca in cui è importante che le cose funzionino. E dunque non c’è frase che non possa essere attribuita a Socrate, a Platone o a Rousseau (a Gesù e a Maometto no, abbiamo detto).