Lo stupro di una donna che ha bevuto

Valeria Di Napoli, aka Pulsatilla, ha avviato un blog su Substack, Regina di Spade, in cui tenta tra l’altro una narrazione diversa dei rapporti di genere. L’ultimo articolo tratta il tema delicatissimo dello stupro di una ragazza che ha bevuto (rispondendo a un articolo di Andrea Casadio su “Domani” che non ho avuto modo di leggere, non essendo abbonato a quel giornale). Lo fa in un modo che ritengo inaccettabile, per ragioni che proverò a spiegare facendone una analisi dettagliata; dovrò ricorrere dunque ad ampie citazioni del suo articolo, che naturalmente vi invito a leggere.

Pulsatilla esordisce così:

Nella narrazione e nella ricostruzione dello stupro, di qualsiasi stupro, trovo che vengano fatti degli errori sistematici di bidimensionalità: si mira a dividere i buoni dai cattivi invece di mettere l’accento sulle risorse evolutive delle donne che hanno subìto la violenza. Il discorso sullo stupro si risolve quasi sempre dicendo che lui era un carnefice e lei era una vittima, ergo lui va punito, lei va difesa. Mai, mi risulta, vengono forniti alla donna degli strumenti di protezione o di crescita. Gli unici strumenti che le vengono forniti sono quelli della denuncia.

Cos’è un discorso sullo stupro? L’espressione può includere diverse cose. In primo luogo la sua ricostruzione e narrazione giornalistica. Poi la narrazione che ne viene fatta in tribunale, che come sappiamo ha modalità spesso umilianti per la vittima. Infine la narrazione che ne fa la vittima stessa al di fuori del tribunale, nei casi in cui decida di farlo, ad esempio scrivendo lei stessa articoli o libri sulla sua esperienza. Continue reading “Lo stupro di una donna che ha bevuto”

Babbo Natale e quello che abbiamo perso per strada

L’ontologia è quella parte della filosofia che si occupa degli enti. Gli enti sono le cose che esistono. L’ontologia si interroga sulle caratteristiche generali degli enti – in soldoni: cos’è una cosa? – ma anche della classificazione degli enti. Proviamo. È evidente che un libro, ad esempio, è diverso da un’opera. Un libro è un oggetto, è questa cosa qui, mentre un’opera può incarnarsi, diciamo così, in diversi libri. Questa Bibbia, edizione 1992, non è la Bibbia. Evidente è che un ciottolo di fiume è diverso da una pietra intagliata: il primo è un ente naturale, il secondo è un ente naturale trasformato dalla nostra azione. E così via.

La cosa si complica quando si giunge a tipi di enti particolarissimi. Ad esempio la bellezza. Una pietra intagliata ad arte è bella. Ma cos’è la bellezza in sé? Per rispondere a questa domanda Platone ha creato un mondo a parte, l’Iperuranio, nel quale ha collocato le Idee: il Bene, il Bello, il Giusto eccetera. Cose che, nella sua filosofia, sono più reali del mondo che vediamo. Oggi non sono molti i platonici. Per lo più consideriamo valori la bellezza e la giustizia, ma non è facilissimo capire cosa sia e che tipo di realtà abbia un valore.

Vi sono poi gli enti personali non tangibili. Ho sulla mia scrivania una statuetta di Don Chisciotte. La statuetta è materiale, ma il personaggio è di fantasia. Questo non vuol dire che non abbia una sua realtà. La nostra cultura è piena di personaggi non tangibili, che tuttavia hanno avuto ed hanno una grande influenza sul modo in cui percepiamo la realtà. Può accadere anche che un ente personale tangibile si sdoppi, per così dire. Il Dante della Commedia è diverso dal Dante storico: è (era) una persona tangibile che diventa anche un ente non tangibile. Continue reading “Babbo Natale e quello che abbiamo perso per strada”

C’è ancora ieri (e non basta)

Il post contiene spoiler sul film C’è ancora domani di Paola Cortellesi.

C’è questa donna picchiata dal marito. Il cinema italiano non è in grado di mostrarci una donna realmente picchiata dal marito; per cui, nonostante l’omaggio al neorealismo, nel film di Cortellesi le botte sono a passi di danza. Questa donna, così infelice, ha una possibile via d’uscita: un suo ex fidanzato che la porterebbe via con sé. E lei si decide a prenderla, questa via d’uscita: e lo spettatore pregusta l’happy end. Ma ecco che avviene l’imprevisto, e la via d’uscita si richiude, e pare che non vi sia speranza. Ma giammai. “C’è ancora domani”, annuncia la protagonista. E lo spettatore immagina che domani, per chissà quale misterioso meccanismo – in fondo è la funzione di sceneggiatori e registi, escogitare misteriosi meccanismi – la nostra protagonista riuscirà e ricongiungersi al suo salvatore. Ma no. Domani è il giorno del voto. Del primo voto per le donne.

La via d’uscita per le donne, dice Cortellesi, non è romantica. Non è in un uomo che sostituisce un altro uomo, e può essere che non sia migliore di lui (come dimostra il fidanzato della figlia della protagonista). La via d’uscita è politica. E questo è un bel messaggio, senza alcun dubbio. E qui lo spettatore, spiazzato, applaude.

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La controrivoluzione del merito di Luca Ricolfi

Morta la meritocrazia, ritorna il merito. Si potrebbe sintetizzare così La rivoluzione del merito di Luca Ricolfi (Rizzoli, Milano 2023). La meritocrazia è, per Ricolfi, una ideologia, e come ogni ideologia ha i suoi limiti concettuali e le sue contraddizioni pratiche. Cosa c’è dietro il merito? Almeno tre fattori: l’ambiente socio-economico, la dotazione genetica e lo sforzo personale. Ora, è evidente che i primi due fattori non comportano alcun merito reale e derivano dalla semplice fortuna. Quanto al terzo, si può considerare una qualità non diversa dalle altre, e come le altre indipendente da noi. Alcuni hanno una grande forza di volontà, senza che averla si possa considerare ragione di merito (come non lo è essere belli o intelligenti). In una società organizzata secondo l’ideologia meritocratica ognuno riceve dalla società solo ciò che gli spetta in base ai suoi soli meriti; il problema però è come isolare questo merito individuale da fattori come le doti naturali e l’origine sociale. Per neutralizzare quest’ultima, ad esempio, bisognerebbe imporre un’altissima tassa di successione o, addirittura, togliere ai genitori la responsabilità dell’educazione dei figli affinché tutti, educati dallo Stato, abbiano lo stesso livello culturale di partenza. In altri termini, l’ideologia meritocratica o è irrealizzabile o è realizzabile in società dai netti caratteri distopici.

Per Ricolfi si può e si deve rinunciare alla ideologia del merito senza rinunciare al merito stesso. E si può fare – mossa singolare per un sociologo – ricorrendo al senso comune, per il quale il merito è legato soprattutto allo sforzo individuale. Si tratta dunque di intervenire affinché lo sforzo individuale dei capaci, benché poveri, possa consentire loro di emergere. Ricolfi pone l’enfasi su questo sostegno sociale al percorso di elevazione sociale del povero, più che sul contrasto al vantaggio di chi proviene da un ambiente sociale privilegiato, cosa che gli sembra condurre inevitabilmente alla distopia. Continue reading “La controrivoluzione del merito di Luca Ricolfi”

Ancora sulla progettazione didattica condivisa

“Orizzonte Scuola” mi ha intervistato a proposito della mia proposta di progettazione didattica condivisa, anticipata in questo blog. Il titolo scelto – La classe che decide i contenuti da studiare, il metodo di lavoro e i criteri di valutazione: la proposta didattica condivisa – non ha favorito una discussione serena: sulla pagina Facebook i commenti sono stati per lo più scandalizzati: e sospetto che molti di quelli che hanno commentato non siano andati oltre il titolo.

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La società delle persone

Vittorio Feltri ha scritto un tweet che contiene una delle cose più volgari che un essere umano possa dire a un altro essere umano.

Un tweet che con ogni probabilità non sarà rimosso, nonostante le molte prevedibili richiese. Perché le offese che vengono rimosse, su Twitter come su altri social, riguardano soprattutto (cito dal form di segnalazione di Twitter alla voce Attacchi per via della sua identità): “Offese, utilizzo intenzionale di un genere incorretto, stereotipi razziali o sessisti, incitamento di terzi a molestare oppure immagini d’odio”. Riguardano, cioè, soprattutto l’identità sessuale e razziale.

La morte è l’esperienza più nostra, più propria. O meglio: non la morte in sé, sulla quale in fondo aveva ragione Epicuro: quando c’è, noi non ci siamo. Ma la mortalità. L’esperienza di avere la morte come orizzonte vicino. Colui che sa di essere condannato a morte vive una esperienza che lo separa in modo irrimediabile da chiunque altro. Non è un caso che per filosofi come Michelstaedter e Heidegger quella esperienza sia la porta d’accesso alla autenticità.

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Come fare un blog di insuccesso

Questo blog esiste ormai da molti anni ed è riuscito nel tempo a mantenere un numero di visitatori meravigliosamente basso: in media meno di dieci al giorno. Uno di questi sparuti visitatori qualche giorno fa mi ha fatto notare che il mio blog non è più quello di una volta: troppe cose tecniche e poca poesia. Il nostro lettore è deluso, e questo vuol dire che probabilmente il numero di visitatori diminuirà ulteriormente. Attendo con ansia il giorno in cui il contatore dei visitatori sarà stabile sullo zero. E il mio blog avrà raggiunto la sua entelechia.
Intanto, forte di questa esperienza, sento di poter offrire una guida minima alla creazione di un blog di insuccesso. Continue reading “Come fare un blog di insuccesso”

Due libri di Milo De Angelis

Il De Rerum Natura di Lucrezio tradotto da Milo De Angelis (Mondadori, Milano 2022), uno dei maggiori poeti italiani, era da tempo nell’elenco dei libri da leggere. È arrivato ora il suo tempo, insieme alla traduzione dei primi quattro libri del poema di Roberto Herlitzka (La nave di Tesero, Milano 2019). Quest’ultima è un’operazione singolare: un Lucrezio non solo tradotto in endecasillabi (come nella classica traduzione di Alessandro Marchetti), ma reso con un linguaggio anacronistico, bisognoso a sua volte, si direbbe, di traduzione. Per averne un saggio:

Ora io debbo precorrere a quella
che fingne altrui percossa in tal dettame
anzi che da ’l mio vero ti disvella. (I, 502-504)

La traduzione di De Angelis è agli antipodi. La sua lingua è chiarissima, elegante, piana. Lucrezio è reso leggibile come capita in poche altre edizioni italiane. Ma appare una traduzione più in prosa che in poesia. I versi sono talmente lunghi, da costringere il povero impaginatore della Mondadori a fare salti mortali con la crenatura. Continue reading “Due libri di Milo De Angelis”

Sanremo e il monologo impossibile

C’è un monologo che è impossibile, sul palco dell’Ariston, una differenza che non può essere socialmente riconosciuta.

sanremo 2023 monologo chiara francini
Chiara Francini a Sanremo

Qualche giorno fa parlavo, in una delle mie quinte, della globalizzazione. Degli aspetti oscuri della globalizzazione: la finanziarizzazione dell’economia, la delocalizzazione, la precarizzazione, lo sfruttamento globale. E dicevo che se c’è una lotta che identifica la mia generazione, è la lotta contro quella globalizzazione. Una lotta che abbiamo perso a Genova.

E ho chiesto loro quale sia, nella loro percezione, la lotta della loro generazione. Ci hanno pensato un attimo, poi hanno risposto senza tentennamenti: la lotta contro il razzismo e l’omofobia. Una lotta importante, in effetti. Faccio notare che sono stati fatti molti passi avanti. Obiettano che non è abbastanza. Hanno ragione.

Non ho visto Sanremo. Affermazione che equivale oggi ad una dichiarazione di snobismo, che forse riuscirò ad attenuare precisando che ho un figlio di poco più di un anno, e per lo più si arriva a sera con una stanchezza che non si concilia troppo con gli orari di Sanremo. I giornali e i social network hanno avuto però la premura di informarmi su tutto quello che è accaduto a Sanremo. Un cantante ha preso a calci delle rose, in un impeto di rabbia che forse era preparato e forse no; un altro cantante ha baciato sulla bocca, con un certo trasporto, un tale davanti a sua moglie; la moglie di questo tale ha tenuto un monologo durante il quale ha parlato della sua sensazione passata di non essere abbastanza. E non è stata l’unica a tenere un monologo: una campionessa sportiva dalla pelle nera ha parlato della sua condizione di donna che è cresciuta sentendosi diversa, mentre un’attrice ha parlato delle donne che non sono madri. Continue reading “Sanremo e il monologo impossibile”

Gianni Vattimo e gli avvoltoi

Il tribunale di Torino ha condannato per circonvenzione di incapace Simone Caminada, compagno del filosofo Gianni Vattimo. Ora, dichiarare incapace di intendere un filosofo significa, con ogni evidenza, decretarne la morte intellettuale: perché un filosofo incapace di intendere è un filosofo morto. Non ho però informazioni che mi consentano di criticare la decisione dei giudici. Spero solo che su di essa non abbia pesato qualche pregiudizio gerontofobo o, peggio, omofobo.

La vicenda mi ha fatto tornare alla memoria una cosa. Dopo la laurea lavorai, tra le altre cose, come segretario di uno scrittore e filosofo che aveva esattamente l’età che ha oggi Vattimo. Fragile, certo: perché era anche cieco. Dipendeva totalmente dalle persone che si prendevano cura di lui: il ragazzo che gli sbrigava tutte le faccende, la cuoca, chi restava a dormire con lui. E io, che gli leggevo libri e giornali e lo aiutavo a scrivere. Nessuno, per quello che ne so, ha tentato di raggirarlo. Tutti, piuttosto, sopportavano pazientemente le sue sfuriate: perché il filosofo non aveva un carattere facile.

Una mattina lo trovai agitato. Aveva appena cacciato qualcuno di casa, mi dissero. E fu lui stesso a spiegarmi la cosa. Erano venuti dei tali di non so quale ente religioso. Gli avevano fatto presente che la morte incombe su di tutti, e a ottantasette anni incombe parecchio, e bello sarebbe lasciare questo mondo compiendo un’opera meritoria. Opera che potrebbe consistere, ad esempio, nell’intestare tutti i propri beni ad un ente religioso come il loro. Avvoltoi, li chiamò il vecchio, lucidissimo filosofo. E mi spiegò che non erano i primi e non sarebbero stati gli ultimi.

Scoprii così che esiste un piccolo esercito di emissari benefici che prendono d’assalto anziani più o meno soli e più o meno facoltosi con l’intento di convincerli a fare quest’ultima opera di bene, alleggerendo la coscienza e il patrimonio. E non sono a conoscenza di giudici che abbiano decretato, in casi simili, che c’è stata circonvenzione di incapace, facendo leva sulla solitudine, sulla fragilità legata all’età e sulla paura della morte.

Il dovere di essere transculturali

I grandi capolavori del pensiero (e della poesia, della letteratura, dell’arte) appartengono all’umanità ed hanno uno straordinario valore formativo. Per questo abbiamo il dovere di farli conoscere agli studenti.

Nell’ultimo numero di “Educazione Aperta” è uscito un mio saggio piuttosto lungo su perché e come inserire il pensiero cinese nella didattica della filosofia. È un tema, quella della didattica comparata e transculturale della filosofia, di cui mi sono occupato in un altro saggio comparso sulla stessa rivista; mi piacerebbe raccogliere i due saggi in volume, integrandoli con uno studio sulla didattica della filosofia indiana. Sto intanto lavorando a un sito – Monimos. Mondi filosofici – con il quale intendo offrire con licenza aperta materiali per una simile didattica non eurocentrica.

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Gli oscuri intenti di Bernardo Zannoni

Una faina. La vita di una faina. Un romanzo sulla vita di una faina. E non un romanzo qualsiasi: un romanzo che ha vinto il Campiello.

Come si racconta la vita di una faina? Bisognerà provare ad essere una faina. Chiedersi cos’è essere un animale. Qualcosa alla Uexküll, ma con in più il talento del narratore. Bello!

Questo pensavo, più o meno, apprestandomi alla lettura di I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni (Sellerio, Palermo 2021), con le migliori aspettative: sia perché, appunto, ha vinto il Campiello, sia perché se ne dice un gran bene.

Mi trovo subito alle prese con una faina che si chiama Archy. Perché Archy? Sarà perché le faine vivono negli Stati Uniti? Ma no. Il loro habitat è europeo e mediorientale. La nostra faina avrebbe più realisticamente potuto chiamarsi Peppino. Ma soprattutto: che faina è una faina che ha un nome? Per giunta parla. E dorme in un letto. Gli animali di Zannoni hanno il comodino e la lampada, e quando occorre chiamano il medico: e dunque no, niente Uexkül. Nessuno sforzo di essere una faina. Ma nemmeno ci si muove in un mondo disneyano: la cosa diventa chiara oltre ogni possibilità di equivoco quando la mamma di Archy fa saltare un occhio alla sorella con una zampata. Continue reading “Gli oscuri intenti di Bernardo Zannoni”

ChatGPT e la pulizia del water

Il meritevole ministro dell’Istruzione e del merito, chiamato ad esprimersi su chatGPT, evita la condanna secca e riconosce che “Può essere impiegata per aiutare gli insegnanti a personalizzare l’apprendimento, ad adattare i contenuti in base alle attitudini individuali degli studenti, a monitorare i loro progressi e a fornire informazioni su come migliorare il loro rendimento”, pur aggiungendo che “L’intelligenza artificiale non può dunque soppiantare l’insegnante né marginalizzarne il ruolo, che è decisivo in tutti i gradi di scuola, in particolare nella primaria”. È singolare il modo in cui i giornali hanno riportato la notizia: alcuni hanno enfatizzato la prima parte, altri la seconda; per alcuni Valditara dice sì all’intelligenza artificiale, per altri afferma soprattutto che il docente è insostituibile.

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Un altro mondo (virtuale) è possibile

Se dovessi sintetizzare in poche parole il mio ideale politico-sociale, direi più o meno questo: un sistema in cui gli Stati siano sostituiti da ma un insieme di città libere di federarsi con altre città, di stringere accordi commerciali e di creare insieme infrastrutture tecnologiche; ogni città sarà governata secondo il criterio della massima partecipazione possibile al potere.Sono ben consapevole che una simile realtà non ha molte speranze di realizzarsi, almeno a breve, anche se nel Rojava i curdi stanno facendo un tentativo coraggioso di praticare il municipalismo libertario di Murray Bookchin, filtrato dalla lettura di Abdullah Öcalan. Siamo però nel terzo decennio del secondo millennio, e la realtà che viviamo non è più solo la cara vecchia dimensione fisica. Abitiamo due mondi paralleli: il mondo fisico, reale (ma cosa è reale?) e quello virtuale. E a quanto pare – se le speranze di Zuckerberg non saranno deluse – nel futuro prossimo questo secondo mondo sarà sempre più presente nelle nostre vite. È anche, se non soprattutto, ormai, alla luce del mondo virtuale che dobbiamo saggiare la plausibilità dei nostri ideali.

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Hitler e il vegetarianesimo

Anni fa la lettura del bellissimo The bloodless revolution di Tristam Stuart mi offrì una prospettiva inedita sul vegetarianesimo di Hitler (ma dovrei dire: sull’hitlerismo in generale). Sono tornato sul tema, leggendomi le Conversazioni a tavola di Hitler, per aprire una finestra in un libro che sto scrivendo sul Diavolo e la violenza cristiana.

In questo libro ho parlato del dispositivo diabolico del cristianesimo, cercando di dimostrare i suoi effetti terribili sulla storia dell’Occidente e del mondo intero. Questo non vuol dire, come è naturale, che si tratti dell’unico dispositivo violento dell’Occidente, né che solo l’Occidente abbia dispositivi simili. Come detto nell’introduzione, ritengo che sia urgente ed importante una riflessione sulle radici culturali della violenza, che sono molteplici e in qualche caso intrecciate tra di loro. Di particolare importanza è scoprire radici violente lì dove sono particolarmente occultate; dove pare che vi sia, al contrario, la radice dell’amore e della benevolenza.

Se dovessi citare un caso simile potrei far riferimento all’esaltazione mistica della Natura e delle sue energie, diffusa nei diversi atteggiamenti riconducibili alla sensibilità new age. Una esaltazione che normalmente fa corpo con una fede cieca nelle cure naturali e la convinzione che la malattia non sia che la conseguenza di una qualche forma di alterazione dell’equilibrio naturale. Frequente è anche la scelta vegetariana o vegana, quando non il crudismo.

Una obiezione frequente, nei confronti dei vegetariani, è che anche Hitler era vegetariano. Si obietta che si tratta di un caso particolarmente rozzo di reductio ad Hitlerum e che Hitler era vegetariano non certo per convinzione personale, ma per ragioni di salute. Questo è falso. Hitler era un vegetariano con tendenze crudiste talmente convinto, da desiderare che anche il suo cane da pastore Blondi diventasse vegetariano (p.571). In un certo senso non è falso che fosse per lui questione di salute; ma non si trattava di guarire da qualche disturbo di salute. Hitler considerava innaturale per l’essere umano il consumo di carne e lo associava alla decadenza. I soldati di Cesare, osservava, non mangiavano carne, e così gli antichi vichinghi (p. 114); ed in natura sono più forti e resistenti gli animali vegetariani. In una conversazione sul futuro dell’umanità, dopo aver affermato che le religioni sono destinate al declino, conclude: “Ma c’è una cosa che posso predire a quelli che mangiano carne: il mondo futuro sarà vegetariano” (p.125).

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Il tempo dell’IArte

In questi ultimi mesi si sta attuando una rivoluzione silenziosa che con ogni probabilità avrà conseguenze notevoli sulla vita di tutti. L’Intelligenza Artificiale (IA) è usata da anni nei settori più vari: dalla salute ai trasporti alla gestione degli elettrodomestici. Sono ormai di uso comune dispositivi di IA che, al solo comando della voce, accendono o regolano l’intensità della luce, diffondono musica o consigliano cosa preparare per cena. Ora si stanno sperimentando le applicazioni dell’IA nella creazione di immagini partendo da un testo. I programmi sono diversi, e alcuni ancora in fase di test: Imagen (https://imagen.research.google), DALL-E 2 (https://openai.com/dall-e-2), e Midjourney (https://www.midjourney.com). Imagen non è ancora aperto agli utenti, DALL-E 2 è accessibile solo ad alcuni utenti selezionati, mentre Midjourney da qualche giorno può essere provato da tutti. Le mie osservazioni sono basate sull’uso di Midjoruney. Chi ha avuto modo di testarlo, afferma che i risultati con con DALL-E sono simili per quanto riguarda il livello qualitativo delle immagini, anche se con qualche differenza nello stile.

Partiamo da qui: il livello qualitativo. Che è altissimo. Se a un primo uso Midjourney può dare risultati banali e artisticamente poco interessanti, dopo una pratica sufficiente l’algoritmo è in grado di generare immagini impressionanti per la qualità artistica, la complessità e la bellezza.

Come funziona? L’algoritmo attinge a un ampio archivio di immagini e di stili, ai quali ricorre per soddisfare la nostra richiesta. Questo vuol dire che, quando inseriamo un testo per richiedere un’immagine, di fatto stiamo navigando nel nostro immaginario collettivo. O in una porzione di essa.

Per creare un’immagine occorre fornire all’IA informazioni sui contenuti dell’immagine, lo stile, il formato, le condizioni di illuminazione, i materiali, il tipo di risoluzione desiderata, e così via. Questa è all’esempio l’immagine che ho ottenuto provando a descrivere la scena finale di Solenoide di Mircea Cărtărescu, dando le indicazioni di stile che mi sembravano adatte.

I risultati saranno tanto più originali quanto più dettagliata, precisa e complessa sarà la richiesta. Al contrario, indicazioni vaghe forniranno una rappresentazione dell’immaginario collettivo, o meglio della particolare visione che ne ha l’algoritmo. Se si inserisce ad esempio il testo “God” si ottiene l’immagine di un uomo anziano, ma spesso anche una croce. Queste quattro immagini, ad esempio, sono proposte dall’IA con la sola indicazione del soggetto, “God”, e dello stile, “risograph” (una particolare tecnica di stampa):

Si tratta di due figurazioni che riflettono l’immaginario occidentale, ebraico-cristiano, e questo costituisce un limite evidente di un software che si rivolge ad utenti non solo occidentali. Del resto, quale sarebbe l’alternativa? Le figurazioni del divino sono talmente diverse, che ci si troverebbe nella semplice impossibilità di rispondere a una simile richiesta. La scelta è stata quella, oggettivamente etnocentrica, di lasciare una immagine ebraico-cristiana per “God”, consentendo poi di creare immagini di altre divinità inserendo i loro nomi. Per rispetto verso i musulmani, la parola “Allah” è invece vietata.

Non è l’unica parola vietata. Sono vietate su Midjourney le parole che potrebbero servire per creare immagini pornografiche (come “naked”) o eccessivamente cruente (come “severed”). Si tratta di un limite comprensibile in un programma che è ancora in fase di test, e che rischierebbe altrimenti di essere travolto dalla polemiche, e che lo rende peraltro abbastanza sicuro da usare in ambito scolastico.

Si può considerare arte quella creata in questo modo? La questione ripropone evidentemente quella che si pose ai tempi dell’invenzione della fotografia. Come scrive Francesco d’Isa,

Anche all’epoca dei primi dagherrotipi infatti ci si chiedeva se era possibile che uno strumento che con tanta facilità creava una rappresentazione realistica del mondo fosse in grado di generare delle opere d’arte. 1

Oggi sappiamo che un fotografo può essere un artista, anche se non chiunque fotografi è, per ciò stesso, un artista. Si può fotografare bene o male. Si può fotografare per documentare o per fare vera a propria arte. Sappiamo anche, però, che la fotografia e poi il cinema hanno cambiato il nostro immaginario. E tutto lascia supporre che la stessa cosa accadrà con programmi come Midjoruney.

Alcuni, presumibilmente la maggioranza, useranno il mezzo con risultati modesti. Altri creeranno vera e propria arte – quella che potremmo chiamare IArte. E qualcuno obietterà che di vera arte non si può parlare. Siamo in fondo ancora condizionati dalla concezione romantica del genio, dell’essere umano eccezionale che ergendosi sopra la massa dà vita all’opera d’arte. La quale dev’essere frutto di fatica e sacrificio, e soprattutto apparire assolutamente originale. Come può essere un artista chi si limita a descrivere una scena a un software?

Per rispondere a questa domanda occorre considerare come funziona la letteratura. Il rapporto che esiste tra lo scrittore e il lettore è lo stesso che esiste tra chi descrive la scena all’IA e l’IA stessa. Quando leggiamo un romanzo, traduciamo costantemente le parole dello scrittore in immagini. Senza questa nostra operazione l’opera non esisterebbe. Facciamo con le parole dell’autore la stessa operazione che l’algoritmo fa con le nostre parole. E d’altra parte il modo in cui immaginiamo ciò che l’autore descrive risente del nostro archivio di immagini, che possono venire dall’esperienza o dall’arte. Quando Leopardi descrive la sua donzelletta con il suo improbabile mazzo di rose e di viole, il modo in cui immaginiamo la scena è condizionato dalla nostra esperienza in fatto di ragazze, di campagne e di tramonti, ma anche dai quadri che abbiamo visto su questo tema.

Siamo noi gli autori dell’opera che leggiamo? Una risposta affermativa sembrerebbe bizzarra a chiunque.

Ma è forse, soprattutto, il tempo di liberarsi dall’ossessione per l’autorialità. Chi sta testando in questi giorni Midjoruney si trova di fronte a una straordinaria creazione collettiva di immagini. Nei diversi canali si susseguono centinaia di creazioni, a getto continuo, ed ognuna di essa può essere fatta propria da chiunque o diventare motivo di ispirazione. In questa fase – non sappiamo come si svilupperà poi – la produzione di immagini è un’impresa collettiva e collaborativa.

Come con la fotografia, alcuni useranno l’IA per creare immagini e altri saranno IArtisti. Ma anche per i primi i cambiamenti saranno con ogni probabilità significativi. Negli ultimi anni la produzione di immagini si è moltiplicata grazie ai dispositivi digitali ma ha portato al tempo stesso a un ripiegamento sul soggetto. Se l’obiettivo della macchina fotografica era rivolto verso il mondo, quello dello smartphone sembra essere costantemente rivolto verso sé stessi. Ognuno riproduce ossessivamente l’immagine di sé, quasi a voler dare consistenza a un soggetto che rischia in ogni momento l’evanescenza; il mondo fa da semplice sfondo. L’IA ci riconduce a noi stessi. Qualunque cosa si chieda all’IA di rappresentare, è di noi che stiamo parlando. Se chiediamo di rappresentarci una scena, è dal profondo di noi stessi che l’abbiamo tratta. Attraverso l’IA tiriamo fuori le immagini da noi stessi, con la mediazione dell’immaginario comune. Giungiamo a noi attraverso l’altro per riconsegnarci al mondo comune. È quello che fa da sempre l’arte, che non è creazione della bellezza – molte opere d’arte ritraggono l’orrore – ma rivelazione dell’intimo, messa in comune di quanto è più profondo – ed è qui il suo valore anche etico. Se questa analisi non è errata, dopo anni di ripiegamento avremo forse una nuova era dell’espressione.

1 F. D’Isa, La rivoluzione degli algoritmi, in “Il Tascabile”, 21.7.2022, url: https://www.iltascabile.com/scienze/arte-algoritmi/

Articolo pubblicato su Educazione Aperta.

Lea Ypi: dall’altra parte della storia

Accade non di rado che la successione delle nostre letture, apparentemente casuale, sveli invece una sua logica e suggerisca un’interpretazione. Mi è capitato di leggere Libera. Diventare grandi alla fine della storia (Feltrinelli, Milano 2022) di Lea Ypi (titolo originale: Free: Coming of Age at the End of History) dopo L’altra parte di Alfred Kubin e di accorgermi che, nonostante siano due opere separate da più di un secolo e che non potrebbero essere più diverse per lo stile, raccontano forse una stessa storia.

Kubin ha scritto il suo libro enigmatico nel 1908, dopo la morte del padre, in uno di quei momenti in cui è inevitabile fare i conti con la propria vita. Ma il suo romanzo, che anticipa le atmosfere di Franz Kafka, è anche una grandiosa rappresentazione del finis Austriae, il crollo dell’impero austro-ungarico e del mondo culturale che esso ha rappresentato. Il protagonista, alter ego dell’autore, parte su invito di Patera, un suo ex compagno di scuola, per il Regno del sogno, collocato in un luogo indefinito, al di fuori dell’Europa, separato dal resto del mondo e quasi inaccessibile. L’isolamento è la sua caratteristica principale. Il secondo tratto caratteristico è il suo aspetto per così dire vintage. A Perla, capitale del Regno, tutto, a cominciare dalle case, ha un aspetto vecchio. E di fatto lo è. Ogni cosa, comprese le case, è preso da altrove e riciclato. Per il resto, questa strana utopia non sembra muovere da nessuna delle promesse forti che da sempre danno vita alle utopie. Tranne una: il denaro. A Perla il denaro conta poco, gli scambi di denaro hanno un carattere più simbolico che reale, e c’è “una giustizia mostruosa” che regola l’avvicendarsi di ricchezza e povertà. “Quella sconfinata potenza, piena di tremenda curiosità, un occhio che penetrava ogni fessura, era onnipresente: nessuno le sfuggiva” (L’altra parte, Adelphi, Milano 2020, p. 70). È l’occhio di Patera, padre, stregone, perfino Dio di questo mondo sospeso. E colpisce, in questo romanzo di inizio Novecento, la prefigurazione per così dire onirica dei totalitarismi del Novecento.

Se provo a figurarmi una qualsiasi abitazione di Perla mi torna in mente la Casa delle foglie, il suggestivo museo dei servizi segreti comunisti di Tirana. In una stanza di quella che era la sede della Sigurimi è stato ricreato l’interno di una casa albanese tipica del periodo comunista. Tipica in senso stretto: i mobili erano gli stessi, il divano, il tavolino con il centrino ricamato, perfino la pianta in un angolo, la pianta aquila che ricorda la bandiera albanese. Oggi ripensando a quell’interno non posso fare a meno di pensare anche un televisore con sopra una lattina vuota di Coca-Cola. Era, racconta Lea Ypi, un cimelio dell’Occidente capitalista che veniva acquistato a caro prezzo, e che meritava una posizione di tutto rilievo in casa. Ma anche questa ricollocazione è in piena continuità con la logica di riciclo di Perla.

Il protagonista del romanzo di Kubin sceglie di vivere nel Regno del sogno, stanco della civiltà occidentale. Lea Ypi non ha scelto; è nata in un Regime comunista, incarnazione storica del sogno di Karl Marx. È nata in quello che pretendeva di essere il più ortodosso dei Paesi comunisti. Enver Hoxha si era distaccato progressivamente sia dalla Russia che dalla Cina, accusando entrambi di aver tradito gli ideali socialisti, chiudendo l’Albania in un isolamento perfetto e in una perfetta paranoia, di cui sono ancora oggi testimonianza i numerosi bunker antiatomici sparsi ovunque, diventati ormai uno dei simboli dell’Albania e venduti ai turisti nei negozi di souvenir.

Attraverso il racconto di Lea Ypi – il racconto della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua giovinezza – guardiamo questo regno isolato, ostinatamente fedele a sé stesso, attraverso gli occhi di una bambina che vive in quello che sembra il migliore dei mondi possibili. Certo, le difficoltà quotidiane sono evidenti – le file interminabili per ottenere i generi di prima necessità, ad esempio – ma acquistano senso grazie al confronto costante con il male occidentale. Loro, gli occidentali, mettono il denaro davanti a tutto. Loro hanno gente ricchissima e gente che muore di fame. Loro fondano la loro ricchezza sullo sfruttamento. Questa è la narrazione che viene dalla scuola e che è confermata dalla famiglia, ma con qualche incertezza. Perché i genitori esitano tanto a sistemare sul televisore il ritratto di Enver Hoxha? E cosa sono quegli strani discorsi su gente che si è laureata in stranissime università?

Sulla famiglia di Lea Ypi pesa un equivoco. Xhafer Ypi, l’odiato primo ministro albanese sotto il regno di re Zogu, per il regime comunista null’altro che un traditore della nazione, aveva lo stesso nome di suo padre. Una coincidenza spiacevole, ma nulla più. Solo dopo la fine del Regime Lea Ypi scoprirà che non si trattava di una coincidenza, perché quell’uomo era il suo bisnonno. E tutta la sua famiglia era segnata dalla biografia che ne faceva nemici di classe. Le università di cui i genitori parlavano erano i campi di rieducazione del regime comunista. La sua famiglia le aveva mentito sulle sue origini per proteggerla, per impedire che il peso della biografia la opprimesse.

Lea Ypi dunque esce contemporaneamente dall’infanzia e dal comunismo. Diventa grande, come dice il sottotitolo, alla fine della storia: perché tale parve a Francis Fukuyama la fine del comunismo (The End of History and the Last Man è del 1992). Come spesso accade (e come è accaduto anche da noi) molti si riciclano con grande abilità, diventano immediatamente sostenitori della democrazia e del liberalismo. Società civile, annota Ypi, diventa l’espressione chiave. L’Albania ha bisogno di costruire una società civile che manca. Questo dicono gli esperti occidentali, chiamati a guidare la transizione del Paese verso la democrazia. E le loro parole echeggiano quelle di Hercules Bell, l’antagonista e sfidante di Patera nel romanzo di Kubin, che rappresenta in modo assolutamente trasparente il capitalismo americano. Questo uomo ricchissimo, attivissimo, positivo, fautore della democrazia e della partecipazione, così si rivolge ai cittadini di Perla: “Il grande mondo fuori di noi ha fatto passi giganteschi verso la luce dell’avvenire! Voi siete ricaduti indietro e vivete accovacciati in una palude. Non partecipate in alcun modo alle meravigliose invenzioni della nostra nuova epoca, le innumerevoli invenzioni che diffondono l’ordine e la felicità, e di fronte a cui l’abitante del Sogno sta come un estraneo! Cittadini, vi meraviglierete quando uscirete di qui!” (Ivi, p. 179). Come estranei saranno gli albanesi di fronte all’Occidente più a portata di mano, quell’Italia con i supermercati pieni di cose troppo costose per poterle comprare, ma che è bello intanto visitare per il senso di pienezza che trasmettono.

Il Regno del Sogno, mandato in crisi dalla tensione tra Patera e Bell, precipita nel caos. La società stessa di disgrega, le case si sgretolano, la città è presa d’assalto dagli animali. L’Albania precipita nel 1997 ella cosiddetta anarchia, quando la crisi delle imprese piramidali, incarnazioni della promessa di benessere occidentale, manda sul lastrico la maggior parte delle famiglie albanesi, e la rabbia collettiva esplode incontrollata, seminando ovunque terrore e distruzione.

Quella di Kubin non è la storia del pragmatismo occidentale che sconfigge le fantasticherie utopistiche e stabilisce il regno del benessere. La conclusione del romanzo di Kubin è una riflessione sulla complicazione dei contrari. “Der Demiurg ist ein Zwitter” è la conclusione lapidaria ed enigmatica. Zwitter: ermafrodito, ibrido. Il Demiurgo è un ibrido.

Nemmeno la storia di Ela Ypi, raccontata con equilibrio, sensibilità e uno stile assolutamente nitido, racconta il passaggio della prigionia del comunismo alla libertà del capitalismo. L’autrice, che è una filosofa della politica, ci mostra che le cose non sono così semplici. Se per i suoi genitori comunismo era “la negazione di ciò che avrebbero voluto essere, del diritto di sbagliare e di imparare dai propri errori, di esplorare il mondo nei loro termini”, lei associa il liberalismo “alle promesse infrante, alla distruzione della solidarietà, al diritto di ereditare il privilegio, di chiudere gli occhi davanti all’ingiustizia” (p. 298). Quando raccontava la sua vita sotto il regime comunista ai compagni universitari di sinistra italiani – Lea Ypi ha studiato alla Sapienza – suscitava in loro imbarazzo ed irritazione. Per gli italiani di sinistra il comunismo era Allende e Ernesto Che Guevara, non certo un grigio dittatore come Enver Hoxha. “Nella migliore delle ipotesi, i miei racconti sul socialismo in Albania e i riferimenti a quello degli altri paesi con cui il nostro si era confrontato venivano tollerati come le osservazioni imbarazzanti di una straniera che stava ancora imparando a integrarsi”, scrive Ypi (p. 295). Il suo racconto mostra quanto di romantico e falso c’è in questa narrazione che è ancora fondante da noi (e non solo) per l’identità di sinistra, ma mostra anche che non meno falsa è la narrazione dell’Occidente come luogo della democrazia, della libertà e dei diritti. La società liberale è un altro sogno fragile, attraversato da crepe, destinato ad infrangersi; a ben vedere, l’altra parte – die andere Seite – della medesima medaglia del comunismo.

/imagine

Disclaimer: alcune immagini possono urtare la sensibilità del lettore.

Il paesaggio, adesso, era solenne e grandioso nella sua uniformità; ci trovavamo ai piedi della Montagna di Ferro…“

Nel momento in cui leggo questo passo – tratto da L’altra parte di Alfred Kubin – la mia mente ricostruisce il paesaggio descritto. Come è un paesaggio solenne e grandioso? Come immaginare la sua uniformità? Come sarà questa Montagna di Ferro? La mente opera questa operazione ermeneutica in tempi estremamente rapidi, se la lettura dev’essere scorrevole e dunque piacevole. Ma in che modo compie questa operazione? Da dove trae le immagini? Abbiamo un set di immagini, più o meno vaghe, che possono servirci a rendere l’idea di un paesaggio solenne o di una montagna di ferro. Ma mano che l’autore ci fornisce degli input, la nostra mente funziona come un interprete iconico, che trasforma con eccezionale rapidità le parole in immagini. Ma per farlo deve attingere ad informazioni che vanno oltre la mente stessa. Ogni lettore immaginerà in modo personale quel paesaggio solenne e grandioso, eppure tutti i lettori attingeranno a un immaginario comune, che può essere più o meno ampio a seconda della vastità dell’esperienza del lettore.

Immaginiamo ora di poter essere noi stessi a fornire input a una mente esterna; di poter, cioè, dettare un testo ad una intelligenza artificiale che trasforma quello che diciamo in immagini, attingendo a un vastissimo repertorio di immagini. È quello che accade con Midjourney, che si presenta come “a new research lab focused on new mediums and tools for empowering people”. Al momento il software, in versione beta, può essere provato ad invito, ma si tratta di una tecnologia che senza alcun dubbio sarà presto disponibile per tutti e che con grande probabilità cambierà il nostro modo di concepire l’arte (e non solo).

Nei miei primi tentativi con Midjoruney – occorre inserire del testo dopo /imagine – ho provato a descrivere una scena semplice. Ad esempio un uomo che cammina di notte in una qualsiasi città italiana.

Ho provato poi ad aggiungere elementi fantastici, per creare situazioni inusuali. Con risultati affascinanti.

Quindi sono passato dalle immagini ai concetti. In che modo l’intelligenza artificiale avrebbe interpretato per me la morte di Dio?

E poi concetti ancora più astratti. Come la differenza ontologica.

O il concetto buddhista di vuoto.

Midjourney interpreta le immagini in base ad input che possono contenere anche particolari stilistici. È possibile chiedere all’IA di raffigurare la Montagna di Ferro descritta da Kubin, per confrontarla con quella che abbiamo immaginato noi leggendo il romanzo. Ma Kubin è stato anche e soprattutto un grande artista, ed ha accompagnato il suo romanzo con una serie di disegni che aiutano il lettore a raffigurarsi gli ambienti descritti. La stessa cosa può essere richiesta all’IA: si può chiedere di raffigurare una Montagna di Ferro nello stile di Alfred Kubin. Ma anche, se piace ibridare gli immaginari, nello stile di Shaun Tan o di Escher.

Le ricerche, mandate su un server comune, sono a disposizione di tutti (a meno che non si paghi per avere un accesso privato), e chiunque può intervenire per realizzare delle variazioni della stessa immagine. E questo pone la questione centrale: di chi sono le immagini create da Midjourney? Si può definire autore dell’opera chi fornito l’input all’IA? Posso ritenermi autore delle opere inserite in questo articolo (altre sono sulla mia pagina su Deviantart)? E potrei ritenermi autore di un’opera che avessi creato modificando il testo di un altro utente di Midjourney? Verrebbe da rispondere di no, perché è l’IA che ha fatto il lavoro. Ma, in fondo, il lavoro che l’IA compie a partire dal mio testo non è lo stesso che la mia intelligenza compie a partire dal testo di Kubin? Quando leggo un romanzo, la mia mente mette in scena l’opera, e senza questa messa in scena il romanzo non esisterebbe. Ma questo vuol dire che l’autore dell’opera è il lettore? A monte, ci si può chiedere se abbia ancora senso parlare di un’opera d’arte centrando l’attenzione sull’autore, e non sui processi da cui risulta, che sono inevitabilmente transpersonali – ed è in questo, forse, l’importanza di un’opera d’arte.

La Spagna, la filosofia e le chiacchiere

Esiste un progetto globale per attaccare i saperi umanistici, che formano al pensiero critico, in favore di una concezione meramente strumentale della conoscenza, funzionale al capitalismo ed alla preparazione di lavoratori sempre meno consapevoli. Questa volta tocca alla Spagna: ed è, significativamente, proprio un governo di sinistra ad eliminare la filosofia, evidentemente scomoda, dai programmi scolastici.

Ecco, se cominciassi così un articolo sulla riforma spagnola dei programmi della scuola dell’obbligo (Educación Secundaria Obligatoria) del governo di Pedro Sanchez, potrei essere certo di una vasta condivisione, di un mare di like e di commenti indignati. Il mio articolo andrebbe ad ingrossare il discorso vanveristico sulla scuola, che in questo caso si fa internazionale. E nel quale purtroppo casca anche qualche giornale come MicroMega, sulle cui pagine digitali un indignato, ça va sans dire, Antonio Cecere scrive:

Per completare la contestualizzazione della scuola nel frastuono dell’epoca in cui stiamo vivendo, i sinistri pedagoghi spagnoli decretano l’espulsione della Filosofia dall’insegnamento sostituendo la vetusta e odiata (dalle classi dirigenti) materia plurimillenaria con materie più pratiche, come il lavoro su specifiche tematiche di attualità, i problemi di convivenza in una comunità pluralista, la formazione e l’orientamento personale e professionale, la digitalizzazione, l’economia e l’imprenditorialità.

Antonio Cecere, La sinistra masochista, Psoe e Podemos cancellano storia e filosofia, in MicroMega, url: https://www.micromega.net/la-sinistra-masochista/

Eppure basterebbe non dico documentarsi, ma ragionare un attimo per vedere la cosa diversamente. In primo luogo, perché si tratta di scuola dell’obbligo, vale a dire l’equivalente della scuola secondaria inferiore e dei primi due anni della secondaria superiore italiane. Ora, in Italia in questo segmento scolastico la filosofia non c’è. Non c’è mai stata, e nessuno ha mai pensato di mettercela. Anche al Classico la filosofia si insegna solo dopo la fine della scuola dell’obbligo. In Italia nessuno studente che abbia abbandonato la scuola alla fine dell’obbligo ha mai studiato filosofia. In secondo luogo, gli studenti nella scuola dell’obbligo dovranno affrontare temi etici e civici, legati alla democrazia e ai diritti. Ora, se mi si chiedesse come introdurre gli studenti alla filosofia, indicherei esattamente questi temi. Non c’è propedeutica filosofica più efficace che mostrare in che modo il ragionamento filosofico può contribuire a chiarificare i problemi comuni. Nelle nostre scuole gli studenti al terzo anno della secondaria superiore si trovano subito alle prese con Talete, Anassimandro e Anassimene. In terzo luogo, l’insegnamento della filosofia all’ultimo anno della scuola dell’obbligo era già stato eliminato dai popolari, ed è facoltà delle regioni reintrodurlo, se vogliono, anche nella scuola dell’obbligo. Per soprammercato, si potrebbe osservare che nei Paesi europei che danno il maggior contributo al dibattito filosofico mondiale, come la Francia e la Germania, la filosofia è tutt’altro che disciplina centrale nei programmi, mentre noi con i tre anni di storia della filosofia – sarebbe meglio chiamarla così, perché di questo si tratta – restiamo ai margini.

La cosa triste – più triste – di questo insistente, asfissiante chiacchiericcio pedagogico è che impedisce di affrontare i problemi reali. Che nella scuola italiana sono enormi: e considerare con attenzione e onestà intellettuale quello che stanno facendo gli altri Paesi è un buon modo per cercare vie alternative. La riforma spagnola ha punti di grande interesse, come l’eliminazione dei voti numerici e il ripensamento dei meccanismi di recupero, ai fini di combattere la dispersione scolastica. Ma anche di questo sarebbe impossibile parlare, senza essere travolti dal solito disperante muro di fallacie logiche, disinformazione, catastrofismo, proprio di gente che dalla filosofia, se l’ha studiata, ha imparato poco: e certo non la serietà dell’argomentazione.

L’angelo non necessario. Il fascismo di Putin

Tolstoj

Nella sua più importante opera filosofica, così poco letta in Italia da far pensare a una vera rimozione, Il Regno di Dio è in voi (1893), Lev Tolstoj analizzava la società russa del suo tempo come un sistema di dominio interamente fondato sulla violenza. Un sistema fortemente diseguale, con pochi ricchi e potenti e una grande massa di contadini poverissimi, tenuti a bada con la forza – la polizia, l’esercito – e con una prassi religiosa che era nulla più che superstizione e inganno, senza alcun rapporto con gli elementi etici del Vangelo. Una società violenta che Tolstoj invitata a sovvertire con la nonviolenza: rifiutandone, cioè, la logica stessa, e dunque minandone la base. Ma come, in concreto? Quale era il punto debole sul quale intervenire? La risposta di Tolstoj non è affatto ingenua. La leva per rovesciare l’assetto sociale è l’opinione pubblica. Nelle società contemporanee essa è una forza sociale fondamentale, controllare la quale è essenziale per il potere. E l’azione nonviolenta, con il suo carattere etico e la disponibilità al sacrificio, è la più adatta ad agire sull’opinione pubblica. Tanto più, osservata Tolstoj, che la società contemporanea è scissa. Da un lato la violenza dei forti sui deboli, degli oppressori sugli oppressi; dall’altra l’inquietudine degli stessi oppressori, in un’epoca in cui gli ideali umanitari vanno diffondendosi e la loro pratica di oppressione è sempre meno giustificabile ai loro stessi occhi. Su questo disagio la nonviolenza avrebbe fatto leva.

Era, ho detto, una idea tutt’altro che ingenua. Ma Tolstoj non aveva previsto che con l’avvento della società di massa e la crescita dell’industria culturale il potere sarebbe riuscito a manipolare con efficacia quasi perfetta l’opinione pubblica. Quanto al disagio dell’oppressore, il metodo più semplice per liberarsene era semplicemente rinunciare agli ideali umanitari. Elaborare una nuova cultura, cinica e brutale, che si facesse beffa di ogni ideale umanitario. Tolstoj, insomma, non aveva previsto il fascismo (mentre aveva intuito che la realizzazione violenta degli ideali di giustizia non avrebbe portato nulla di buono).

Cos’è fascismo?

A dire il vero il fascismo non si è limitato – non si limita – a gettar via gli ideali umanitari, affermando contro di essi la forza bruta. Sarebbe stata una operazione sincera, e la sincerità è essa stessa un valore: mentre il fascismo è negazione di qualsiasi valore, menzogna allo stato puro. La negazione di ogni valore avviene dunque, nel fascismo, in nome della spiritualità. Si legga la prima parte della voce Fascismo nell’Enciclopedia Treccani, firmata da Mussolini ma scritta da Giovanni Gentile, l’ideologo del fascismo. L’uomo fascista, scrive, è colui

che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrifizio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo. (Mussolini 1931)

Ecco la risposta. Il fascista non può più essere accusato di sfruttare qualcuno per i propri biechi interessi personali. Quello è l’individuo liberale e borghese. Lui no, lui ha trasceso la sua individualità. Lui è mistico. Lui è tutt’uno col suo duce, col suo popolo, col movimento della sua nazione, col passato e le sue tradizioni. Lui è puro e innocente: se e quando ricorre al manganello, lo fa perché lo richiede l’interesse superiore del popolo e dello Stato, che è l’incarnazione del bene. La violenza ha un fine etico e spirituale che la purifica.

Il sistema di sfruttamento resta lo stesso. I poveri continuano ad essere sfruttati. I preti continuano ad ingannarli con il loro insieme di rituali ossessivo-compulsivi che evidentemente non è più così efficace, perché ha bisogno di essere corretto e sorretto da una nuova religione, quella politica. Ma tutto diventa più brutale, in quanto spirituale. La spiritualità occidentale è quella cristiana. E la spiritualità cristiana si è formata attraverso le lunghe, estenuanti lotte degli anacoreti contro il Diavolo; lotte che avvenivano nella loro stessa mente, nella loro stessa carne. Il mondo spirituale è scisso tra bene e male, Dio e Diavolo. È insidiato da un Nemico che è ovunque, anche dentro di noi. Ed essendo un Nemico assoluto, terribile, richiede una lotta senza quartiere, nella quale è lecito qualsiasi mezzo, reso puro e santo dal fine, che è divino.

Con l’avvento dei fascismi il sistema di dominio diventa più spirituale e più brutale ad un tempo. E si può forse dire che il fascismo italiano è stato meno brutale del nazismo proprio perché meno spirituale. Nel fascismo la rozza corporeità del duce, la sua imbarazzante carnalità tende a prendere tutta la scena. La propaganda nazista presenta invece Hitler intento ad accarezzare cani o caprioli, l’erede della tradizione spirituale romantica, dell’idealismo antiborghese dei Wandervogel, il dittatore vegetariano dalla fisicità diafana. E dalla ferocia perfetta.

Kirill

Buona parte del mondo occidentale ha scoperto il patriarca Kirill dopo il 6 marzo scorso. Un uomo vestito con paramenti tanto vistosi da diventare ridicoli, che tiene un discorso con il quale non si limita a giustificare l’invasione dell’Ucraina: lo fa con argomenti che appaiono deliranti. Il mondo occidentale è il mondo del peccato, il mondo delle libertà illecite, di cui il Gay Pride è per il patriarca la rappresentazione più scandalosa.

Pertanto, ciò che sta accadendo oggi nella sfera delle relazioni internazionali non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Stiamo parlando della salvezza umana, di dove finirà l’umanità, da che parte del Dio Salvatore, che viene nel mondo come suo Giudice e Creatore, a destra o a sinistra, saremo. ” (https://bitterwinter.org/patriarch-of-moscow-blesses-war-against-gay-prides/).

La lotta, per il patriarca non è militare o politica, ma metafisica.

Proviamo ad inquadrare storicamente queste parole. Per diversi decenni il mondo è stato diviso in due blocchi politici, economici ed ideologici: il mondo occidentale capitalista e quello comunista. Dopo il 1989 il secondo mondo è crollato, i paesi ex-comunisti sono diventati democratici, benché in modo problematico ed essendo minacciati costantemente dal caos (si pensi al periodo di anarchia albanese). La fine di una alternativa ha fatto sì che si potesse perfino parlare – è la nota tesi di Francis Fukuyama – di fine della storia. Ma il testimone della lotta contro l’Occidente è stato preso dal mondo islamico.

Dariush Shayegan (2015) ha mostrato come dietro la rivoluzione islamica iraniana e più in generale l’uso politico dell’Islam ci sia una ideologizzazione della religione che non sarebbe avvenuta senza il rapporto con il mondo occidentale. In altri termini, l’Islam prende dall’Occidente l’ideologia e la usa per ribellarsi all’Occidente. Non si comprende la rivoluzione islamica iraniana se non si tiene conto dell’influenza di pensatori occidentali come Marx o Heidegger. La tesi ricorrente, alla vigilia della rivoluzione, era quella del غرب‌زدگی, la Westoxification, l’intossicazione occidentale. Il mondo iraniano si sente aggredito culturalmente da quello occidentale, avverte che sta smarrendo la propria identità, anche e soprattutto religiosa, e ritiene che sia necessario reagire rifiutandolo radicalmente. Più ad est la percezione non è stata troppo diversa. In India Gandhi e Tagore discutono con posizioni diverse della stessa cosa: l’aggressività culturale dell’Occidente e i modi per resistere. Che sono nonviolenti, per Gandhi, ma anche decisi nel rifiuto delle merci e della lingua inglese.

Oggi in Russia è all’opera qualcosa di simile. La Russia non ha bisogno di imparare dall’Occidente l’uso ideologico della tradizione religiosa. È un paese che è stato organizzato per decenni secondo la più forte ideologia del mondo contemporaneo. Che è entrata in crisi lasciando un caos politico economico, un forte senso di sconfitta nei confronti dell’Occidente e un desiderio di rivalsa ugualmente forte. Putin intende dar voce a questo desiderio. E il patriarca Kirill gli offre una ideologia fondamentalista: il ruskij mir, un tassello fondamentale del quadro del fascismo di Putin. Mir in russo è sia mondo che pace. Il mondo russo, dunque; e la pace russa. Questo mondo russo è un campo di valori spirituali tradizionali in aperta opposizione a quelli del mondo occidentale. Il che vuol dire da un lato la guerra alle persone omosessuali – del 2013 è la legge sulla propaganda gay, che vieta in Russia qualsiasi rappresentazione di relazioni sessuali non eterosessuali; la parlamentare autrice della legge, Yelena Mizulina, sta cercando anche di depenalizzare la violenza domestica sulle donne e i bambini – dall’altro la persecuzione di minoranze religiose come i Testimoni di Geova.

L’unità della Russia cercata attraverso la religione, nella sua forma più violenta. L’unità di potere spirituale e potere politico è evidenziata anche fisicamente dallo spostamento della dimora del patriarca Kirill nel Cremlino. Mentre la fede ortodossa conquista sempre più fedeli nella società russa, ampiamente secolarizzata, “il patriarcato – ricorda Matteo Zola, direttore di East Journal – ha potuto mettere insieme un discreto gruzzolo di rubli, pari a quattro miliardi di dollari secondo il Moscow Times” (Zola 2016).

Dugin

Se alla sua destra ha l’ineffabile patriarca Kirill, con il suo deposito di cari vecchi valori cristiano-ortodossi, alla sinistra Putin ha Alexandr Dugin. Già fondatore, con Ėduard Limonov, del nazionalboscevismo, è ora per molti senz’altro l’ideologo di Putin. Definizione forse eccessiva; certo è che Putin trae molta ispirazione, diciamo così, da quello che scrive.

Ho letto La Quarta Teoria Politica di Dugin (pubblicato in Italia da NovaEuropa) l’estate dello scorso anno. Volevo comprendere meglio i riferimenti teorici di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, la via che stava prendendo in Italia la destra evidentemente sempre più estrema. Ricordo che pubblicai sul mio profilo Facebook la copertina del libro. E un amico commentò: “Ma perché lo leggi? De Maistre o Chateaubriand o Junger sono più interessanti”. E aveva ragione. E tuttavia temo che non sia possibile comprendere quello che sta accadendo – e non mi riferisco solo al conflitto in Ucraina – senza leggere Dugin.

Alexandr Dugin

Dugin è uno di quegli autori che si definiscono rossobruni, ossia un po’ comunisti e un po’ fascisti. Una definizione che ho sempre trovato impossibile. Il fascismo non è sintetizzabile con alcunché. Far reagire qualsiasi cosa col fascismo, e pretendere che ne venga fuori qualcosa che non sia fascismo, è come moltiplicare un numero per zero e sperare che il risultato sia diverso da zero. Il fascismo è lo zero della politica. Qualunque cosa si sintetizzi col fascismo diventa fascismo tout court.

Il 7 marzo Dugin ha pubblicato sul suo profilo Facebook un post che è una sintesi perfetta del suo pensiero:

La Russia ha stabilito un percorso per costruire il suo mondo, la sua civiltà. E ora il primo passo è stato fatto. Ma sovrano di fronte al globalismo può essere solo un grande spazio, un continente-stato, una civiltà-stato. Nessun paese può resistere a lungo a una completa disconnessione. La Russia sta creando un campo di resistenza globale. La sua vittoria sarebbe una vittoria per tutte le forze alternative, sia di destra che di sinistra, e per tutti i popoli. Stiamo, come sempre, iniziando i processi più difficili e pericolosi. Ma quando vinciamo, tutti ne approfittano. È così che deve essere. Stiamo creando i presupposti per una vera multipolarità. E quelli che sono pronti ad ucciderci ora saranno i primi ad approfittare della nostra impresa domani. Scrivo quasi sempre cose che poi si avverano. Anche questo si avvererà…

È chiaro cosa è davvero in ballo, per Dugin e dunque per Putin. Si tratta di una resa dei conti con l’Occidente. La Russia intende riconquistare la grandezza perduta. Dopo la fine del comunismo ha cercato la via della integrazione nel mondo globalizzato, ma restando sempre in un ruolo subalterno. Ora l’alternativa ideologica è quella di porsi come mondo altro rispetto all’Occidente.

I riferimenti di Dugin sono i pensatori del fascismo tradizionalista, come Julius Evola e René Guenon, pensatori francesi come Deleuze, ma soprattutto Martin Heidegger. E la circostanza ci rimanda ancora all’Iran della fine degli anni Settanta, perché il filosofo tedesco fu fondamentale, attraverso Ahmad Fardid, anche per l’elaborazione filosofica della ideologia religiosa che ha portato alla rivoluzione islamica. La Quarta Via che teorizza Dugin è la Terza Via del nazismo e del fascismo corretta con il socialismo, sfrondato da ateismo e progressivismo (Dugin 2017, p. 293). E poiché il fascismo rivendicava di avere aspetti socialistici, un fascismo socialistico, senza materialismo, ateismo e progressivismo (cioè: senza marxismo), è semplicemente nazifascismo.

Seguire Heidegger per Dugin vuol dire essere consapevoli che non è possibile una rivoluzione semplicemente conservatrice. Non si può cioè tornare al logos della tradizione occidentale, perché questo stesso logos, insegna il filosofo tedesco, ci ha condotti dove siamo. Bisogna risalire alle origini, andare oltre il logos, ricollocarsi in un’origine che è al di qua del peccato originale dell’Occidente. Il soggetto rivoluzionario non sarà più la classe, come nel comunismo, né la nazione o la razza, come nel fascismo. Sarà il Dasein, il termine che Heidegger usa per indicare l’essere umano.

Non è facile seguire Dugin nella pars construens del suo discorso. Come organizzare la società secondo modelli non individualistici e liberali? Scrive:

Dobbiamo scavare più a fondo [rispetto alle teorie anti-liberali del passato] e fare appello alla Tradizione e a fonti pre-moderne di ispirazione. Qui si collocano lo stato ideale platonico, la società gerarchica medievale e le visioni teologiche del sistema normativo sociale e politico (cristiana, islamica, buddista, ebraica o indù). Queste fonti premoderne sono uno sviluppo molto importate per la sintesi nazionalbolscevica. (Ivi, p. 293)

Che è una indicazione inquietante, fascista in senso stretto, ma non si può negare che sia una indicazione chiara. Torniamo alle Leggi di Manu, ristabiliamo le gerarchie, rimettiamo a posto la società. Ma non ha detto, Dugin, che occorre risalire oltre la linea logocentrica occidentale? E cos’è, la Repubblica platonica, se non il frutto di questo logocentrismo? Se ne accorge, Dugin, procedendo nella riflessione. E giunge alla sua proposta concreta: il caos.

Così l’unico modo di salvarci, di salvare l’umanità e la cultura da questo incanto è fare un passo oltre la cultura logocentrica, verso il caos. Non possiamo restaurare il logos e l’ordine, perché portano in sé la ragione della loro stessa eterna distruzione. In altre parole, per salvare il logos esclusivo dovremmo fare appello all’istanza alternativa inclusiva che è il caos. (Ivi, p. 337)

Il caos gode di ottima stampa, in ambito filosofico, dopo Nietzsche. Non sono sicuro però che la realizzazione storica di questo progetto filosofico rappresenti la salvezza per chicchessia.

Il sesso degli angeli

C’è un aspetto del pensiero di Dugin che pare singolare, soprattutto se si pensa all’omofobia di cui s’è detto. Per il filosofo russo il soggetto della Quarta Teoria politica – che, abbiamo visto, è il Dasein heideggeriano – non è il maschio. Che è dietro il logos occidentale. Ma non è nemmeno la femmina, che è il contrario del maschio, e dunque complementare ad esso. Il Dasein è al di qua del genere. È agender, o meglio androgino. “Un androgino è un essere umano alla radice, prima dell’essere umano sessuato e il suo radicalismo è in esso, significando il suo appartenere alle radici. ” (Ivi, p. 314). I riferimenti, qui, sono esoterici, e vanno dal Libro di Enoch all’Atalanta Fugiens. E si potrebbe dire che questo essere umano asessuato è anche astorico, qualcosa come l’uomo astratto di Feuerbach distrutto criticamente da Marx; oppure, ricordando (con qualche imbarazzo) Gender di Ivan Illich, si potrebbe chiedere se non sia il soggetto proprio dell’odiato liberismo. È bene, piuttosto, ricordare l’influenza che ha avuto Sesso e carattere di Otto Weininger sul nazismo. La donna (come gli ebrei) amorale, presa interamente dalla sessualità, il maschio attivo, produttivo, volto al bene, libero dal sesso (Weininger 2012; cfr. Mosse 1985, p. 145). L’androgino non è tanto il superamento del dualismo tra maschile e femminile, quanto la sublimazione del maschile. Se il maschio è, a differenza della femmina, libero dal sesso, un maschio completo sarà affrancato dalla stessa identità di genere. Sarà, cioè, un angelo. “Nello spirito dell’angelomorfismo dell’antropologia politica della Quarta Teoria Politica possiamo describere [sic] il sesso del soggetto di questa come il sesso degli angeli” (Ivi, p. 315). Viene da sorridere. Ma passa, il sorriso, se ricordiamo da dove siamo partiti: spiritualità e fascismo. L’uomo fascista, diceva Gentile, “sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere”. Il Dasein di Dugin lo sopprime al punto de eliminare il suo stesso genere.

Conclusione

Dietro tutto questo c’è una realtà di oppressione che non è troppo diversa da quello descritta, denunciata, dissacrata da Tolstoj. Un sistema politico nelle mani di una casta di oligarchi ricchissimi e loschi, intenti a fare affari con il tanto odiato Occidente in accordo con la mafia o mafiosi essi stessi, mentre qualunque voce di dissenso viene spenta con la violenza. È chiaro a chiunque sappia usare il cervello che questa Russia non può rappresentare la seria alternativa ad alcunché. È un paese che ha smarrito la sua identità ed è caduto in uno stato di confusione. Se il compito della filosofia è esprimere lo spirito di un’epoca, un dilettante della filosofia come Dugin è realmente, come si definisce sul suo profilo Facebook, il più grande filosofo russo. La sua confusione mentale, il suo scimmiottare le avanguardie occidentali pretendendo si trarre da esse una alternativa russa all’Occidente, è il riflesso perfetto della confusione della Russia di oggi. Risolvere questa confusione con una politica di potenza porterà la Russia alla sua bancarotta completa. Bisognerà vedere se sarà un disastro che riguarderà solo la Russia o nella sua missione suicida, nella sua vocazione al caos coinvolgerà anche l’Occidente.

Riferimenti

Emanuel Carrére, Limonov, Adelphi eBook, Milano 2012.
Alexandr Dugin, La Quarta Teoria Politica, NovaEuropa, s.l. 2017.
Georg Mosse, Nationalism and Sexuality, The University of Wisconsin Press, Madison 1985.
Benito Mussolini, Fascismo, voce dell’Enciclopedia Italiana, vol. XIV, Treccani, Roma 1932.
Dariush Shayegan, Lo sguardo mutilato. Schizofrenia culturale: paesi tradizionali di fronte alla modernità, Ariele, Milano 2015.
Otto Weininger, Sesso e carattere, Mimesis, Udine 2012.
Matteo Zola, Il potere della Chiesa russa, in Il Tascabile, 24 ottobre 2016, url: https://www.iltascabile.com/societa/potere-chiesa-russa

Le menzogne di Houellebecq

Scrive Pierluigi Peggini su Le parole e le cose che Annientare di Michel Houellebecq (La nave di Teseo) “è un romanzo-romanzo, perfino ‘di genere’; non un romanzo a tesi, come i suoi libri più interessanti” (https://www.leparoleelecose.it/?p=43356).

Davvero difficile condividere questo giudizio. Sia perché quello di Houellebecq non è, con ogni evidenza, un romanzo di genere, ma un romanzo che prende a pretesto un genere per affrontare poi, in modo spiazzante per il lettore, un tema universale; e poi perché la tesi nel libro – se si ha la forza di leggerlo fino in fondo, e non lo si abbandona (scelta legittima) dopo l’ennesima uscita alterofobica – è chiarissima: e non mi sembra esagerato affermare che si tratta proprio di un romanzo a tesi.

Il tema del romanzo è la fragilità. Una doppia fragilità. Da una parte quella generale. La fragilità di un sistema sociale ipertecnologico, che può essere mandato in crisi facilmente proprio perché è diventato ipertecnologico. Una società che non può ormai più essere governata. Le riflessioni amare del ministro Bruno Juge, consapevole che la politica conta poco ormai, perché a governare gli eventi è “una forza oscura, segreta, la cui natura poteva essere psicologica, sociologica o semplicemente biologica, non si sapeva cosa fosse ma era terribilmente importante perché da essa dipendeva tutto il resto”, sono significative. Una società fragile e infelice, talmente infelice che il protagonista sente quasi di poter simpatizzare con i terroristi – anarco-primitivisti? – che vorrebbero distruggerla.

C’è poi la fragilità personale. La fragilità del padre del protagonista, ex agente dei servizi segreti colpito da un ictus, e poi quella del protagonista stesso, Paul Raison, alto funzionario sul quale si abbatte, appena compiuti i cinquant’anni, un cancro la cui soluzione chirurgica appare quasi peggiore della morte.

Il tema del libro è l’incrocio di queste due fragilità. Il fatto, cioè, che non abbiamo più qualcosa come un’arte della morte. Che si muore sostanzialmente vergognandosi un po’, allontanandosi dagli altri per i quali la fragilità è semplicemente oscena, abbandonandosi all’abbraccio della tecnica medica, senza saper bene come collocarsi di fronte alla prospettiva dell’ultimo respiro.

Houellebecq prova a pensare la crisi partendo da lì: dalla prospettiva di un uomo che sta per morire. E da quella prospettiva tenta una analisi storica. Il problema è, per lui, l’Illuminismo; e la guida è un ultrareazionario come Joseph de Maistre. L’Illuminismo dunque è stato satanico, così come satanica è stata la Rivoluzione francese. Mentre il Romanticismo aveva riportato l’Europa sulla via giusta. “Difendendo Dio e il re contro le atrocità rivoluzionarie, – è ancora il ministro Bruno Juge a parlare, in un monologo fondamentale per l’interpretazione del libro – appellandosi a una restaurazione cattolica e monarchica, cercando di far rivivere lo spirito della cavalleria e del Medioevo, i primi romantici avevano avuto, come gli oppositori del nazismo, la certezza di appartenere al campo del Bene”. Nazismo che sarebbe dunque l’equivalente contemporaneo dell’Illuminismo. Una equivalenza bizzarra ma rassicurante: Bruno, e con lui Hoellebecq, sarà tentato dalla più bieca reazione, ma non dal nazifascismo.

Qua e là nel romanzo compaiono due filosofi che si collocano alle soglie della modernità. Il primo è Spinoza. Aborrito. Ragionando sulle pratiche wicca cui è dedica la moglie, il protagonista pensa: “Doveva essere una roba più o meno pagana, se non panteista o politeista, faceva confusione tra le due cose, insomma, una roba vagamente ripugnante, alla Spinoza”. E in un altro passo: “Il determinismo, proprio come l’assurdo, non fa davvero parte delle categorie cristiane; le due cose del resto sono collegate, un mondo interamente deterministico appare sempre più o meno assurdo, non solo a un cristiano, ma a qualsiasi uomo”.

Pascal è invece l’autore che, insieme a Conan Doyle, accompagna il protagonista negli ultimi giorni della sua vita. Spinoza il razionalista, il deteminista, l’ateo; Pascal il matematico che crede nonostante tutto. Houellebec sta dalla parte del secondo e contro il primo. Sta dalla parte delle “meravigliose menzogne” che il protagonista evoca nell’ultima battuta del libro. Quali? Le menzogne del cristianesimo, evidentemente; o le menzogne di una qualsiasi fede o convinzione religiosa.
Ci sono alcune cose che sfuggono a Houellebecq, che non diversamente dal suo protagonista non sembra essere andato, nello studio della filosofia, molto oltre il corso intensivo dell’ultimo anno del liceo francese. Lo Spinoza panteista che tanto lo irrita è stato tra i pensatori di riferimento del Romanticismo; e i legami tra il nazismo e il Romanticismo sono certo storicamente molto più solidi dei legami con l’Illuminismo. Il suo quadro storico semplicemente non regge.

Come è noto, Spinoza affermava che un uomo libero a nulla pensa meno che alla morte. E un lettore superficiale potrebbe pensare che si tratti di qualcosa di non troppo diverso dalla attuale rimozione della morte. È, invece, tutt’altro. Spinoza è, con Hume, il più orientale dei filosofi occidentali. “Quello che non poteva sopportare, si era reso conto con inquietudine, era l’impermanenza di per sé; era l’idea che una cosa, qualunque cosa, finisse; quello che non poteva sopportare, non era altro che una delle condizioni essenziali della vita”, dice Houellebecq del suo protagonista. L’impermanenza, il punto di arrivo di Paul Raison, è il punto di partenza del buddhismo. Il cui punto d’arrivo è qualcosa di vicino al terzo genere di conoscenza di Spinoza: una visione del mondo nel quale l’ego è trasceso, attraversato. E in questo senso né il buddhismo né Spinoza si occupano della morte. Perché la morte è morte dell’io, ma tanto lo spinozismo quanto il buddhismo sono visioni che trascendono l’io.

Le meravigliose menzogne evocate da Paul/Hoeullebecq sono ancora possibili – la religione è (purtroppo) tutt’altro che morta, e la stessa tecnologia della comunicazione favorisce la diffusione inarrestabile di visioni irrazionali. Ma restano, appunto, menzogne, e per giunta menzogne pericolose, che hanno reso meno dolorosa la morte ad un prezzo troppo alto: l’abbrutimento dei singoli e delle collettività. Quella di Paul Raison vorrebbe essere la storia della ragione occidentale costretta a riconoscere la sua impotenza di fronte alla morte. È più probabile che sia il documento del disorientamento di uno scrittore che di fronte alla complessità del mondo attuale si scopre culturalmente sprovveduto. Un documento con quale si spera che possa essere definitivamente archiviato l’equivoco di un Houellebecq progressista.

Articolo pubblicato su Morel. Voci dall’isola, n. 4, 7 febbraio 2022.

L’abbacinante luce degli inizi. Nota su “Solenoide” di Cărtărescu

Nota: Questo articolo contiene anticipazioni sulla trama di Solenoide.

Un uomo sui cinquantacinque anni, con gli occhiali spessi, il volto serio, il capo sollevato a guardare qualcosa che è in alto. Davanti a lui un bambino sui dieci anni, che guarda dritto nell’obiettivo della fotocamera. L’uomo regge un cartello su cui è scritto: “Unità con tutti per sempre”. Ma avrebbe potuto reggere cartelli con scritte come: “Basta la morte!”, “Abbasso la malattia!”, “Basta con la sofferenza!”. Cartelli, cioè, simili a quelli che in Solenoide di Mircea Cărtărescu (Il Saggiatore, Milano 2021) reggono i membri della setta dei Manifestanti.
L’uomo della foto si chiama Aldo Capitini. E per tutta la vita, non diversamente dai Manifestanti di Cărtărescu, ha protestato contro la morte, la malattia, l’invecchiamento, il dolore. Ed ha fatto di questa protesta la cifra stessa del suo pensiero. Si vuole che violenza sia solo quella che l’essere umano compie sull’altro essere umano. Ma che dire della violenza della natura? Che dire della violenza ontologica? Vivere non è essere torturati, violentati?

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La vita umana non è sacra

“La mia vita appartiene a me” è lo slogan scelto per la campagna referendaria Eutanasia Legale. Ed è uno slogan che appare pieno di buon senso. “A chi appartiene la tua vita? È una domanda che più retorica non si può. A chi vogliamo che appartenga? La vita appartiene a chi la vive. C’è forse altra possibilità?”, scrive Paolo Flores d’Arcais su Micromega. E certo, viene da essere d’accordo, contro chi afferma che la nostra vita appartiene a Dio. Una visione legittima per il credente, per quanto assolutamente discutibile come tutte le affermazioni dei credenti; ma che è inaccettabile che condizioni anche chi credente non è.

Ma la mia vita appartiene davvero a me? È chiaro che qui con vita non si intende la possibilità di decidere con assoluta libertà come passare il nostro tempo. Vivere nella nostra società vuol dire accettare tacitamente che gran parte della nostra giornata sia impegnata a fare cose che non faremmo volontariamente, per guadagnarci, appunto, da vivere. La vita vera e propria è quella del tempo libero. Che spesso, nella nostra società, è tempo invaso dalla manipolazione dei consumi. Se ci fermassimo a chiederci quando accade che la nostra vita appartenga davvero a noi, non riusciremmo probabilmente a trovare una risposta. E questo ci metterebbe molta angoscia.

Ciò che si intende con vita è qui, invece, il fatto di essere vivi e non morti. E si intende: la decisione se continuare a vivere o farla finita spetta solo a noi; è una nostra scelta libera. Ma proviamo a chiederci ancora: è proprio così? Ognuno ha la libertà di suicidarsi, e questo è innegabile. Di fatto, la vita appartiene a noi, in condizioni normali. In qualsiasi momento possiamo decidere di farla finita. Oggi il solo parlare di suicidio suscita un grave imbarazzo, ma nell’antichità l’arte di suicidarsi, per così dire, faceva parte dell’arte di vivere.

Ma, al di là della nostra incontestabile libertà, abbiamo anche il diritto di suicidarci? Spesso sì. Qualche volta no. Sappiamo bene che togliendoci la vita arrecheremo sofferenza alle persone che ci vogliono bene, ma nessuno può continuare una vita penosa solo per evitare a chi gli è vicino di soffrire. Diverso è il caso di chi abbia uno o più figli non autosufficienti. In questo caso, quali che siano le sofferenze che proviamo, abbiamo il dovere di continuare a vivere per prenderci cura della persona o delle persone che abbiamo messo al mondo.

Ci sono casi, dunque, in cui la vita non appartiene a noi, nel senso proprio della semplice esistenza fisica; in cui suicidarsi è una colpa. In altri casi, invece, il suicidio ha perfino un valore etico.

Accennavo alla posizione degli antichi sul suicidio. Seneca dedica una intera lettera a Lucilio a consigliargli il suicidio, quando è il momento opportuno. Con parole che ricordano lo slogan della campagna referendaria. Placet? Vive. Non placet? Licet eo reverti unde venisti (Ad Lucilium, VIII, 15). Se la vita ti piace, vivi. Se la vita non ti piace, torna da dove sei venuto. Semplice. Poco oltre Seneca racconta il caso di un uomo che stava per essere condotto sul patibolo per lo spectaculum del suo supplizio, e che riuscì ad uccidersi incastrando la testa fra i raggi della ruota del carro (ivi, 23).

Si direbbe che quest’uomo, infliggendosi da sé una morte atroce, abbia evitato a sé stesso sofferenze anche maggiori, agendo dunque in modo intelligente. O che abbia voluto semplicemente appropriarsi della propria morte.

Ma c’è forse qualcosa d’altro.

Quando qualcuno viene condotto su un patibolo e sottoposto al supplizio davanti a una folla che gode dello spectaculum, accadono due cose. La prima è che si arreca sofferenza a un uomo o a una donna. Una cosa atroce, ma individuale. La seconda è che si offende l’umanità. Ogni atto di violenza compiuto su un essere umano è un’offesa all’umanità. Auschwitz non è solo la sofferenza individuale di milioni di ebrei, zingari, omosessuali. Auschwitz è una ferita profonda inferta all’umanità. E una ferita profonda viene inferta ogni volta che si arreca sofferenza inutile a qualcuno. Ogni volta, ad esempio, che si getta qualcuno in una cella, a vegetare, inutile a sé stesso e agli altri, preclusa ogni via di crescita umana.

La sofferenza inutile è un’offesa all’umanità di tutti, e per questo l’eutanasia è un bene. Non si tratta di rivendicare, in un’ottica individualistica, la proprietà della nostra vita, ma di affermare, in una prospettiva transpersonale e comunitaria, il valore, la dignità, l’intoccabilità della vita di tutti.

Ogni volta che si fa del male a un essere umano, si fa del male all’umanità. Il film Schindler’s List ha reso noto il detto, tratto a dire il vero molto liberamente dalla Mishnà, che “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Il principio si trova formulato con grande chiarezza nel Corano (sura 5, 32, traduzione di Hamza Roberto Piccardo):

Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità.

Cosa vuol dire quel come se? Naturalmente chi salva la vita di un uomo o una donna ha salvato di fatto, solo quella vita. Ma al tempo stesso ha affermato il valore, la dignità, l’importanza della vita. Ha affermato, e difeso, qualcosa che va al di là di quella singola vita, e che riguarda tutti. Mandare in un campo di sterminio sei milioni di persone non vuol dire solo massacrare quelle persone. Vuol dire affermare il principio della massacrabilità dell’essere umano.

Potremmo affermare il principio della non massacralità della vita umana. E sembra che siamo molto lontani da quel principio della qualità della vita umana che ispira la bioetica laica e giustifica anche l’eutanasia. Se la vita umana non è massacrabile, non vuol dire che è sacra? E non è la sacralità della vita umana il principio in base al quale i cattolici rifiutano l’eutanasia?

Il verbo massacrare indica tanto l’uccidere quanto il fare del male a qualcuno. Massacrare di botte è espressione corrente. Una persona è massacrata quando viene uccisa, ma anche quando è torturata. Affermare la non massacrabilità di un essere umano significa rifiutare che possa essere torturato. E le condizioni nelle quali si parla di eutanasia in questo consistono: in una tortura. Lo spiegava benissimo Piergiorgio Welby, raccontando la sua vita su un letto d’ospedale nella nota lettera aperta all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

L’eutanasia va riconosciuta perché nessun essere umano dev’essere massacrato. Non è un diritto o una questione individuale. Non solo almeno. Non si tratta di rivendicare il possesso della propria vita. Si tratta di difendere l’umano dalla violenza.

È nota l’ambivalenza del sacro. Affermare che la vita umana è sacra è estremamente rischioso. Perché il passo dal sacro al sacrificio è breve. Ed è un passo terribile. Nella Bibbia ciò che è consacrato a Dio (herem) dev’essere distrutto: ucciso.

Nessuna persona votata con anatema può essere riscattata; sia messa a morte. (Levitico, 27, 29).

È con questo dispositivo violento che Israele ha sterminato i suoi nemici, sacrificandoli al proprio Dio.

I cattolici possono, se vogliono e se a loro piace, offrire come sacrificio la propria sofferenza inutile al loro Dio. Ma non hanno il diritto di sacrificare al loro Dio la vita di chi non crede. Perché di questo si tratta. Affermare la sacralità della vita umana come principio astratto si risolve in concreto nella condanna alla sofferenza di esseri umani votati a un Dio ormai improbabile, e tuttavia ancora pericoloso per tutti.

Lo schwa renderà la nostra società meno sessista?

La proposta, avanzata dalla sociolinguista Vera Gheno, di introdurre lo schwa, una vocale media che si trascrive con una e rovesciata (ə), per superare il sessismo della lingua italiana, è oggetto di polemiche anche piuttosto accese, in particolare sui social network. Le obiezioni più violente vengono da chi rigetta i valori che sono dietro la proposta, ma non manca chi la rifiuta in nome della sacralità ed intangibilità della lingua italiana. Io condivido pienamente i valori e non ho alcuna sacra venerazione per la lingua — ritengo piuttosto che la lingua vada presa d’assedio, che ogni singola parola vada interrogata come si fa con un indiziato di reato — ; la mia condizione di persona che ha come madre lingua un dialetto caratterizzato da un uso perfino infestante dello schwa mi suggerisce però qualche considerazione critica.

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L’eccellenza e le macerie

In occasione della consegna dei diplomi di licenza tre normaliste, Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, hanno letto un testo che è una denuncia della deriva non solo della Normale di Pisa, ma dell’intero sistema universitario italiano (qui il testo, qui il video della lettura). Un testo che non commento, perché ho davvero poco da aggiungere. Mi piace invece dire due o tre cose sulla replica che un altro ex normalista, Claudio Giunta, ha scritto per il Post.

“Tu non esisti”

Esordisce, Giunta, con un’affermazione incredibile: “Quattro o cinque anni di frequenza universitaria come studentesse e studenti non bastano, di per sé, a mettere queste studentesse e studenti nella condizione di dire cose particolarmente profonde o interessanti sull’università”. Chi è legittimato a parlare di università? Solo i docenti, in virtù della loro vasta esperienza? Quale esperienza particolare occorre per notare, come fanno le tre normaliste, che solo tre donne su tredici membri siedono nel Senato Accademico della Normale? Che “di 10 professori ordinari nella classe di Lettere, nove sono uomini” è una informazione che uno studente può ottenere facilmente, e che forse solo uno studente — non i nove ordinari maschi, e ancor meno forse l’ordinaria donna — può sottolineare. Tacendo del fatto che molti docenti hanno difficoltà ad esprimere opinioni critiche sul sistema perché temono ritorsioni personali, è surreale che in un Paese in cui non manca la predica quasi quotidiana sulla scuola o l’università di persone di assoluta incompetenza sul tema si ritenga non titolato un diplomato della Normale, ossia uno studente che ha seguito il percorso di studi che più di qualsiasi altro dovrebbe mettere in grado di analizzare i fatti sociali in modo critico.

Che quello che degli studenti hanno da dire sull’università contenga “una verità che non merita neppure di essere sottoposta a verifica e discussione” — come scrive ancora Giunta— è una affermazione rivelatrice nella sua arroganza. Di fatto, agli studenti italiani non viene chiesto mai di esprimersi sulla istituzione che vivono quotidianamente; sono clienti, non attori, del sistema. Nella linguaggio della Scuola di Palo Alto la premessa di Giunta è una disconferma. Che consiste non nel criticare gli argomenti dell’interlocutore, ma nel negarlo. Nel dirgli: “Tu non esisti”.

Un sistema di sfruttamento

Ma Giunta è generoso, e impiega qualche riga per criticare le cose scritte e dette dalle tre normaliste che non esistono. Il centro della sua critica è che le cose che esse dicono non sono particolarmente nuove e che è superficiale ricondurre i problemi di cui parlano al neoliberismo. Ora, ritengo che uno dei problemi della discussione attuale sulla scuola sia l’accusa arbitraria di neoliberismo, quella che chiamo reductio ad Hayekum. Convinti che sia in atto da anni un attacco neoliberista alla scuola pubblica, si rifiuta sdegnosamente qualsiasi cambiamento, vedendovi — spesso con vere e proprie acrobazie interpretative — una tessera del piano neoliberista; ed è così che, in nome della lotta al neoliberismo, si finisce per chiudersi nell’immobilismo della scuola cattedra-lezione. Ma Giunta cade nell’errore opposto. E’ naturale che l’università non sia un ambiente pienamente plasmato da logiche neoliberiste. Non lo è nemmeno la scuola secondaria. L’impostazione di base del nostro sistema di istruzione viene da lontano e certo non si trasforma da un giorno all’altro. Ma bisogna essere molto distratti per non vedere quello che sta succedendo. Lo denunciano le tre normaliste, e Giunta lo relativizza mettendolo quasi tra parentesi, con una strategia argomentativa da strapazzo. L’università è sotto-finanziata. Aumentano le posizioni a tempo determinato. I ricercatori, che prima erano a tempo indeterminato, ora hanno un contratto triennale rinnovabile per due anni una sola volta (se di tipo A) o non rinnovabile (se di tipo B). I ricercatori non si occupano solo di ricerca, ma insegnano. Moltissimi di loro lo fanno pur essendo stata rifiutata loro l’Abilitazione Scientifica necessaria per essere docenti. In sostanza lo Stato, attraverso l’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), dichiara che questi ricercatori non hanno la maturità scientifica necessaria per insegnare all’università; e tuttavia è essenziale per le università che questi ricercatori continuino ad insegnare. Umiliati e pagati meno di quanto spetterebbe loro per il lavoro che fanno. Ci sono poi i docenti a contratto, che tengono insegnamenti ma sono pagati in modo assolutamente simbolico, quando sono pagati: perché ci sono anche università che non pagano affatto i docenti a contratto.

Ricercatori, docenti a contratto, assegnisti, borsisti, dottorandi sono soggetti sfruttati a diverso titolo dall’università italiana. E non è difficile immaginare che succederebbe se queste figure scomparissero: le università chiuderebbero. Le università vanno avanti grazie allo sfruttamento del lavoro di migliaia di persone. A Giunta non piace che si parli di neoliberismo? Lo chiami come preferisce. Ma è un problema. Non astratto o teorico, ma che ha a che fare con la vita di molte persone. Vero è che molti docenti, anche indegni, sono “inamovibili”, come dice Giunta. Ma questo non dimostra che si tratta di un sistema garantito, e quindi opposto alle logiche neoliberiste. Dimostra, invece, che è un sistema di potere, in cui chi è in alto ha tutte le garanzie e chi è in basso non ne ha nessuna.

Discutere la didattica universitaria

Quello che è interessante, nel discorso di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi è che fa saltare i corollari correnti del discorso sulla scuola neoliberiste: perché denunciano la deriva neoliberista, ma anche la metodologia tradizionale di insegnamento. “All’uso non esclusivo — scrivono — della didattica frontale dovrebbe associarsi un ripensamento del momento del seminario in senso più formativo e meno performativo. Perché non considerare il seminario, soprattutto ai primi anni, come un’occasione prima di tutto metodologica, per imparare a scrivere e a parlare della propria ricerca, non necessariamente inedita? Perché non incoraggiare, in questa sede, il lavoro a più mani, a mostrare quanto le competenze individuali risultino potenziate in un progetto collettivo?” Una richiesta che è pienamente valida anche per la scuola primaria e secondaria. Ma se la messa in discussione del modo di insegnare dei docenti della scuola primaria e secondaria è pratica quotidiana, anche se soprattutto da parte di chi nulla sa di pedagogia e di didattica, parlare di didattica universitaria è un vero e proprio tabù.

L’impegno

Aldo Capitini in un ritratto giovanile

Mentre ascoltavo il discorso di Magnaghi, Spacciante e Grossi il pensiero andava ad un altro normalista, che per me è stato fondamentale. Un normalista d’eccezione, perché della Normale è stato anche segretario, fino a quando non è stato costretto alle dimissioni per il rifiuto della tessera fascista: Aldo Capitini. Giovanni Gentile aveva chiesto a Capitini la tessera dopo uno scandalo legato a un suo carissimo amico, Claudio Baglietto, che aveva ottenuto nel 1932 una borsa di studio per seguire a Friburgo le lezioni di Heidegger ma poi si era dichiarato obiettore di coscienza e si era rifiutato di tornare in Italia. Il pensiero è andato a Capitini e Baglietto non solo perché il loro è stato uno scandalo alla Normale forse paragonabile, mutatis mutandis, a quello attuale, ma soprattutto perché il racconto che Capitini fa della vicenda in Antifascismo tra i giovani (1966; nuova edizione: Il Ponte, Firenze 2018) ci consegna la testimonianza di un ambiente di potere, sul quale calava la scure totalitaria, ma nel quale era tuttavia possibile un profondo scambio umano e intellettuale, nel quale ci si perfezionava negli studi, ma ci si formava anche all’impegno politico. Aldo Capitini è un esempio degli intellettuali impegnati che perfino in epoca fascista la Normale riusciva a formare. La rinuncia all’impegno degli attuali docenti è uno dei punti della critica delle tre normaliste. A Giunta la sola parola dà fastidio. Gli “fa un brutto effetto quasi in ogni sua declinazione”, scrive. Mi dispiace per lui. Ma ancora di più mi dispiace che il suo ostentato fastidio sia, in effetti, un segno dei tempi.

L’uscita a destra di Byung-Chul Han

Non so quante volte, dopo aver chiuso un libro di Byung-Chul Han, mi sono detto: bene, ma come ne usciamo? Bene per modo di dire, perché se apprezzo la chiarezza del filosofo sudcoreano e ritengo che nelle sue analisi vi sia molto di vero, mi pare anche che si tratti, più che di un ritratto della società attuale, di una sua caricatura. Che come tutte le caricature può servire a individuare meglio i difetti di un volto, ma che come tutte le caricature è frutto di una accentuazione unilaterale, che non coglie le possibilità di bellezza che possono essere anche in un volto irregolare. C’è poi una questione metodologica. Byung-Chul Han ha la pretesa di parlare, nientemeno, della società contemporanea, ossia di un campo vastissimo; arriva d’un balzo, cioè, dove un sociologo onesto si arresta, e lo fa senza aver bisogno di alcun dato sociologico o statistico. Non è il solo a farlo, a dire il vero, e nella sociologia non mancano esempi di imprese simili, spesso suggestive e di grande successo; ma si tratta di semplificazioni di una realtà complessa e contraddittoria. Caricature, appunto. 

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Cristo con gli occhi a mandorla

Catia Cannizzaro, Elena Rossi, Giada Clementi, Giulia Rossa e Cirilla Costa hanno due cose in comune. La prima è che sono evidentemente pie donne: assidue nel gruppo Facebook dei devoti della Madonna di Fatima. La seconda è che, a guardare il loro profilo, si scoprono volti orientali che poco o nulla hanno a che fare con i nomi italianissimi. Una ulteriore stranezza salta agli occhi se ci si sofferma a leggere i loro post. Ricorrenti sono temi escatologici, apocalittici e messianici che ormai non appartengono più da tempo alla Chiesa cattolica. E frequentissimo è il riferimento ad una luna di sangue che apparirà il 26 maggio prossimo e che ha a che fare, evidentemente, con gli accadimenti degli ultimi giorni.

Seguendo il link, si entra nel sito www.kingdomsalvation.org, che ha nell’intestazione solo la scritta Vangelo della discesa del Regno. Bisogna andare nella pagina Chi siamo per capirci qualcosa. Il sito è di una Chiesa che annuncia che: [read more]

Negli ultimi giorni, come promesso e preannunciato da Lui Stesso, Dio Si è di nuovo incarnato ed è disceso in Oriente del mondo – in Cina – per svolgere l’opera di giudizio, castigo, purificazione e salvezza utilizzando la parola, sulle basi dell’opera di redenzione del Signore Gesù. 

Si tratta della Chiesa di Dio Onnipotente o Folgore da Oriente (Quánnéng Shén Jiàohuì), una chiesa o setta – la differenza è sottile – cinese che afferma che Cristo è tornato, a quanto pare incarnandosi in una donna nata nel 1973, Yang Xiangbin. In Cina il movimento è perseguitato, accusato tra le altre cose dell’omicidio di una cassiera del McDonald’s di Zhaoyuan nel 2014. Ed evidentemente le vie dell’apostolato portano verso Occidente.

Considerata la notevole capacità degli aderenti del movimento di infiltrarsi e di mimetizzarsi sui social, considerato il bassissimo livello critico di chi frequenta questi gruppi – ogni post degli aderenti al movimento è commentato con decine di amen degli ignari, cattolicissimi frequentatori – non è da escludere che tra qualche decennio nelle nostre chiese, sempre più deserte, si veneri una donna con gli occhi a mandorla. [/read]

I bambini come merce

A meno che non si sia convinti che l’estinzione degli italiani sarebbe cosa buona e giusta – una tesi che si potrebbe sostenere con ottime ragioni – il drammatico calo della natalità nel nostro Paese costituisce un problema. Non ho dunque alcuna preclusione verso una cosa come degli Stati Generali della Natalità. Li seguirei perfino con entusiasmo, se fosse un’occasione per parlare del calo della fertilità dovuto all’inquinamento ed all’uso di pesticidi. O delle difficoltà che incontrano le giovani coppie nel mettere al mondo figli a causa della precarizzazione del lavoro. O del ricatto che le donne si trovano spesso ad affrontare sul lavoro, e che le costringe spesso ad abbandonare il lavoro una volta avuto un figlio. O della fragilità dell’assistenza sociale, dei costi dell’asilo nido, eccetera.

Ma no: nulla del genere. Gli Stati Generali della Natalità di oggi, a Roma, sono aperti dal papa, e questo dice molto. Ma non tutto. Perché non si tratta della solita ipoteca clericale sui temi della famiglia, ma di una apparentemente inedita sinergia tra mondo cattolico e mondo finanziario. Sponsor dell’iniziativa sono banche ed assicurazioni e i relatori, tolte le solite comparsate politiche, sono per lo più manager.

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Congedo

Ho letto l’articolo di Biagio Riccio sul Giorgia Meloni sperando fino all’ultima riga che fosse ironico. No, non lo è. Riccio sostiene davvero che Meloni è una persona perbene, gentile e rispettosa con gli avversari eccetera. E che gli insulti che le sono stati rivolti da un tale in cerca di notorietà – che è poi uno dei migliori storici italiani, ma in un paese analfabeta come il nostro questo in effetti non dà alcuna notorietà – sono inaccettabili perché le donne rappresentano “la dolcezza e la letizia dell’universo”.
Non voglio entrare nel merito del giudizio su Giorgia Meloni. Chi sia, lo sanno tutti. Quale sia il suo contributo alla civiltà di questo Paese anche. Il punto è un altro. Sono sicuro che Riccio non se ne rende conto ma affermare, per difendere una donna, che le donne sono “la bellezza del creato” e sciocchezze simili significa collocarsi nella stessa logica discriminatoria e patriarcale da cui proviene l’insulto a Meloni. Leggere che le donne “si sfiorano solo per accarezzarle” – con la doverosa precisazione: “con tatto gentil e prezioso” – mi dà un fastidio fisico. Agli occhi di Riccio le donne sono una schiera di esseri quasi angelici messi lì da Dio per essere ammirati nella loro bellezza e accarezzati quando se ne presenta l’occasione. E posso immaginare il suo sconcerto quando qualche donna, magari meno garbata e perbene di Giorgia Meloni, si sottrae al suo penoso teatrino.[read more]

Dopo aver letto l’articolo di Riccio ho provato quella sensazione che i tedeschi chiamano Fremdschämen. Provare imbarazzo al posto di un altro. Ma mi sono vergognato anche per me stesso. Perché quell’articolo, che sarebbe scadente anche per un foglietto parrocchiale, è stato pubblicato sul mio giornale. Che da oggi non è più il mio giornale.
La mia collaborazione con Gli Stati Generali termina qui. Sono grato, sinceramente, per lo spazio che mi è stato dato. Sono grato soprattutto a quanti hanno letto, commentato, discusso – non sempre, fortunatamente, “con tatto gentil e prezioso” – le mie cose.

Gli Stati Generali, 24 febbraio 2021.[/read]

Velo e autodeterminazione femminile

Dopo gli insulti e le minacce sui social network, Silvia Romano ha parlato della sua conversione all’Islam e della scelta di mettere il velo in una intervista al giornale on-line islamico La luce. Nella parte che riguarda l’hijab afferma:

Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale.

Sulla conversione all’Islam aveva scritto cose dure Cinzia Sciuto, autrice dell’ottimo Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli); leggo ora su Micromega un intervento, non meno duro, di Monica Lanfranco. Due donne che stimo, ma con le quali non sono d’accordo.[read more]

Prima di spiegare perché, occorre una premessa. Sono ateo, e forse potrei considerarmi perfino un ateo militante (sono iscritto all’UAAR). Considero le religioni un male sociale e in particolare ritengo che i monoteismi abbiano causato infinite tragedie storiche. Non ho alcuna simpatia per l’Islam, fatta eccezione per il sufismo. Ritengo che sia importante fare una battaglia culturale per denunciare la violenza simbolica delle religioni. Politicamente, sono di area anarchica ed antiautoritaria, pur consapevole di tutti i problemi di una tale collocazione. La questione del velo provoca non poco imbarazzo nelle persone di sinistra perché fa entrare in conflitto due valori importanti: il riconoscimento dei diritti delle minoranze, e in particolare dei migranti, e la libertà ed autodeterminazione delle donne. Che succede, ora, se una minoranza nega il secondo valore? Quale posizione assumere nei confronti di una minoranza che nega i diritti delle donne? Bisogna accettare limitazioni alle libertà femminili in nome del multiculturalismo o rigettare (come fa Cinzia Sciuto) l’idea stessa di un multiculturalismo che diventa il cavallo di Troia per far arretrare le società occidentali nel campo dei diritti civili delle donne?
Vorrei provare, seguendo le parole di Silvia Romano, a chiedermi se non sia possibile un punto di vista diverso. Preciso che non parlo in generale della questione del velo, perché non ha alcun senso parlarne all’ingrosso, mettendo su uno stesso piatto, per dire, Afganistan, Albania e Italia. Parlo dell’uso dell’hijab da parte di una donna musulmana nel nostro Paese.
Il diverso punto di vista è quello del diritto delle donne di dare un significato al loro corpo ed a quel rapporto con il loro corpo che è l’abbigliamento.
Le donne che subiscono violenza sessuale sono spesso sottoposte alla ulteriore umiliazione di dover spiegare come erano vestite e perché. Per qualcuno il fatto che una donna sia vestita in modo considerato provocante può comportare una attenuante per il violentatore. Un certo abbigliamento non è forse segno certo di disponibilità sessuale? No, rispondono le donne, non lo è. Una donna ha il diritto di vestirsi come vuole, senza che nessuno si senta autorizzato a dare alcun significato a quell’abbigliamento. Soprattutto: solo una donna ha il diritto di dare un significato al suo modo di vestirsi. Nessun altro. Solo una donna ha il diritto di dire di essersi vestita per piacere a sé stessa, per piacere agli altri o solo perché così le andava.
Consideriamo ora il velo. Silvia Romano afferma che portare il velo per lei significa sottrarsi a dinamiche sociali che non ama. Che la seduzione sia una pratica sociale è innegabile. È una pratica sociale tutt’altro che condannabile, ma alla quale qualcuno può legittimamente decidere di non partecipare. Simone Weil, una delle più lucide intelligenze del Novecento, vi si sottrasse per tutta la sua breve vita. “Essere oggetto di desiderio: è questo che genera in me, dopo il Luxembourg, una repulsione e un’umiliazione fortunatamente invincibili”, scriveva. L’accenno ai giardini del Luxembourg resta misterioso; non è da escludere che si riferisca all’incontro con un esibizionista quando era adolescente. Ma sarebbe un grave errore considerare queste repulsione come un tratto patologico dovuto ad un evento traumatico, così come sarebbe semplicemente ridicolo vedere in quelle parole una qualche imposizione maschile. È la scelta di una delle donne più libere del Novecento e fa parte in modo significativo della sua eccezionale spiritualità. Non aveva bisogno del velo, Simone Weil. Esprimeva il suo rifiuto di essere oggetto di desiderio con tutto l’abbigliamento e in generale con un atteggiamento che spesso sconcertava e intimoriva chi la incontrava.
Silvia Romano afferma che per lei il velo ha un significato. Indica la scelta di essere al di fuori del gioco sociale della seduzione. Monica Lanfranco afferma che invece il velo ha un altro significato: indica la violenza simbolica dell’uomo sulla donna, e le parole di Silvia Romano non sono che “formule insopportabili e ipocrite, quando si pensa ai milioni di donne nel mondo costrette a portarlo, pena anche la morte, da feroci dittature teocratiche totalitari”. Non è un grande argomento, perché qui non parla una donna afgana, ma una donna italiana, e non c’è nessuna prova che qualcuno la costringa a portare il velo, pena la morte. Se una donna è costretta a portare il velo, evidentemente è un male, come è un male qualunque imposizione; ma qui si parla d’altro. Qui c’è una donna che parla del suo abbigliamento e della sua scelta. E dice cosa significa, per lei, quell’abbigliamento. Replicare che quelle parole non esprimono realmente un punto di vista personale, ma una manipolazione culturale, è sbagliato per due ragioni. La prima è che si può vedere qualche forma di manipolazione culturale in qualsiasi esperienza o scelta, e la stessa Silvia Romano considera frutto di “un’imposizione da parte della società” il suo precedente modo di vestirsi. La seconda è che significa attuare una disconferma, quel meccanismo studiato dalla scuola di Palo Alto per cui in uno scambio comunicativo si nega l’esistenza stessa dell’altro come parlante. Non si tratta di discutere le affermazioni dell’altro; gli di dice: “Tu non esisti”. Ed è esattamente quello che accade a Silvia Romano. Le sue parole non vengono prese realmente in considerazione, non è una vera interlocutrice in un discorso pubblico. Si ritene che per sua bocca parli il Patriarcato, o qualcosa del genere. E questa è evidentemente una violenza. È una violenza, quando una donna parla, ritenere che sia un uomo a parlare in sua vece, se dice cose che non ci piacciono. E metterla così a tacere.
Nessuno – che sia uomo o donna – ha il diritto di stabilire il significato dell’abbigliamento di una donna, se non la donna stessa. Non sono affatto convinto che il velo sia indice di qualsiasi libertà, mi piacerebbe piuttosto vivere in una società in cui tutti abbiano il diritto e la libertà di andare in giro completamente nudi, se lo vogliono, ma sono anche consapevole che la liberà si incarna in forme diversissime. E che l’individuo stesso è l’unico cui si può riconoscere il diritto di dare un significato alla propria esperienza. Qualsiasi alternativa conduce a conseguenze disastrose.

Gli Stati Generali[/read]