Bruciare i libri sacri

Papa Francesco si è detto disgustato per il rogo del Corano, avvenuto qualche giorno fa davanti alla principale moschea di Stoccolma durante una manifestazione autorizzata. “Qualsiasi libro considerato sacro dai suoi autori deve essere rispettato per rispetto dei suoi credenti, e la libertà di espressione non deve mai essere usata come scusa per disprezzare gli altri, e permettere questo va rifiutato e condannato”, ha dichiarato.

Consideriamo le due affermazioni. Partiamo dalla seconda: la libertà di espressione non deve mai essere usata come una scusa per disprezzare gli altri? Potrei essere d’accordo, ma non sono sicuro che papa Francesco abbia il diritto di fare una simile affermazione. L’istituzione di cui è il capo gode della massima libertà d’espressione, che usa per offendere e disprezzare una molteplicità di soggetti. Io convivo da tredici anni con una donna, che è anche la madre di mio figlio. Di noi il Catechismo della Chiesa di cui papa Francesco è capo dice quanto segue (par. 2390):

Si ha una libera unione quando l’uomo e la donna rifiutano di dare una forma giuridica e pubblica a un legame che implica l’intimità sessuale. L’espressione è fallace: che senso può avere una unione in cui le persone non si impegnano l’una nei confronti dell’altra, e manifestano in tal modo una mancanza di fiducia nell’altro, in se stessi o nell’avvenire? L’espressione abbraccia situazioni diverse: concubinato, rifiuto del matrimonio come tale, incapacità di legarsi con impegni a lungo termine. Tutte queste situazioni costituiscono un’offesa alla dignità del matrimonio; distruggono l’idea stessa della famiglia; indeboliscono il senso della fedeltà. Sono contrarie alla legge morale: l’atto sessuale deve avere posto esclusivamente nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un peccato grave ed esclude dalla comunione sacramentale.

Dunque per quest’uomo e l’istituzione che rappresenta io e la mia compagna siamo ancora, nel 2023, concubini (nel 1956 i coniugi Bellandi denunciarono il vescovo di Prato per averli definiti “pubblici peccatori e concubini”, dal momento che si erano sposati solo in Comune; il vescovo fu assolto), peccatori gravi, contrari alla legge morale. Non solo, per la Chiesa di cui papa Francesco è capo non costituiamo una vera famiglia e non abbiamo fiducia l’uno nell’altra e la nostra vita insieme rappresenta perfino una offesa alla famiglia. Non occorre sottolineare quanto tutto ciò sia offensivo e calunnioso. Ma non pretendo che la Chiesa cancelli questa parole. Credo nella libertà di espressione, con pochissimi limiti (razzismo, apologia del fascismo e poco altro).

Veniamo alla prima affermazione. Qualsiasi libro considerato sacro deve essere rispettato per rispetto dei suoi credenti. Questo vuol dire che i libri non sono tutti uguali e non sono tutti ugualmente degni di rispetto. I dialoghi di Platone, ad esempio, contano meno della Bibbia, perché non sono religiosi ed hanno solo lettori, non credenti. Il valore di un libro non è dato dal suo contenuto, ma dal suo status religioso. Ma questo vuol dire in generale attribuire all’esperienza religiosa un valore e un diritto al rispetto superiori riguardo ad altre esperienze. Se si considera giusta questa affermazione un credente potrà bruciare le opere di Voltaire o di Meslier (o magari di Onfray), mentre un non credente non potrà bruciare la Bibbia; perché le opere dell’ateismo e del libero pensiero hanno solo lettori, mentre i testi sacri hanno credenti. Continue reading “Bruciare i libri sacri”

La laicità, la scuola e l’Islam

La brutale uccisione di Samuel Paty, il docente francese colpevole di aver mostrato le vignette di Carlie Hebdo durante una lezione sulla libertà d’espressione, mi ha colpito profondamente. Mi ha colpito perché sono un docente, perché sono laico, e perché negli stessi giorni ho tenuto nella mia terza una lezione sulla libertà d’espressione. Mi spiace che quella tragedia, che tanto sta facendo discutere in Francia, da noi non susciti grande interesse, e al tempo stesso ne sono un po’ sollevato, perché il livello del dibattito pubblico nel nostro Paese è infimo, e non ci sarebbe da aspettarsi molto di diverso dalla più becera islamofobia.
Confesso di essere stato tentato anch’io dalla rabbia. Di aver pensato che noi laici abbiamo conquistato la libertà di parola con il sangue di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini. E che è insufficiente ripetere fino alla nausea che “l’Islam è pace”, se poi si decapita qualcuno in nome di Allah. Ma è, appunto, una tentazione, e se cedere ad alcune tentazioni può essere cosa buona e giusta, cedere a questa tentazione è un errore grave.[read more]

Come docente italiano, e docente laico, una tragedia simile mi spinge a riflettere sull’istituzione di cui, con disagio sempre crescente, faccio parte. Io insegno filosofia e scienze umane. Insegno a studenti italiani, albanesi, romeni, nordafricani, centrafricani, sudamericani. Insegno la filosofia europea, perché così si vuole nel nostro Paese. E insegno le scienze umane dal punto di vista occidentale. Insegnando antropologia, faccio anche lezioni di antropologia della religione. E dal momento che non credo troppo nella scuola lezione-libro-interrogazione, cerco di far in modo che gli studenti incontrino dal vivo la diversità religiosa. Li porto, ad esempio, alla locale sinagoga, dove apprendono la storia, le vicende e le usanze della piccola comunità ebraica della città. Mi piacerebbe che potessero anche incontrare l’imam, perché nella città ci sono molti musulmani, e musulmani sono anche diversi studenti, e credo che sia importantissimo conoscere un punto di vista sull’Islam diverso da quello superficiale ed esterno dei mass-media. Ora so che no, non si può fare. L’imam a scuola spaventa. Se lo proponi, ti senti dire che la proposta dev’essere approvata dal Consiglio d’Istituto. E lì basta un genitore islamofobo per bloccare tutto. Questo in un Paese in cui non è infrequente che il vescovo locale faccia visita a questa o quella scuola in pompa magna, accolto da una folla di bambini festanti.
Provo a mettermi nei panni di uno studente musulmano. Sappiamo che il profilo dello studente attentatore è simile in diversi Paesi (ne parla Francesco “Bifo” Berardi in Heroes, Baldini e Castoldi): ragazzi che vivono un forte senso di esclusione, che alimenta un sentimento di rivalsa. Nelle nostre scuole l’Islam è il convitato di pietra. Compare sporadicamente, come una presenza imbarazzante; raramente c’è modo di parlarne in modo aperto, con la competenza necessaria. Uno studente musulmano (non solo lui, a dire il vero) sente di appartenere non tanto a una sottocultura, quanto a una controcultura. È lì che la società lo colloca. Finisce per lo più per vergognarsi di essere musulmano, abbracciando con un senso di liberazione i valori dominanti (e con le comprensibili, dolorose fratture con la sua famiglia); ma può succedere anche il contrario: che si chiuda nella sua identità, che faccia proprio lo sguardo dell’altro e diventi ciò che si crede che lui sia. Che reagisca al rifiuto generale della società nei confronti della sua cultura con un uguale rifiuto che, in particolari condizioni, può esplodere con violenza. Inclusività è una delle parole chiave della scuola italiana. Non c’è documento scolastico – non c’è pezzettino di quella scuola di carta che si sovrappone ormai alla scuola reale – che non la piazzi nei punti strategici. Ma la scuola italiana è davvero inclusiva? Culturalmente no, non lo è. Lo studente straniero non è il portatore di una diversità che bisogna conoscere e valorizzare. Non è una finestra su mondi altri (e la scuola cos’è, se non aprire finestre su mondi altri?). È segnato dalla negatività. È quello che non sa la lingua. Non quello che sa una lingua diversa – a volte ne sa diverse – che si può provare ad imparare insieme. È quello cui bisogna insegnare la lingua. E di fatto in questo consistono la maggior parte degli interventi in favore degli studenti stranieri. Si fa un corso di italiano L2, e finisce lì. E no, non può finire lì.
Da laico, amo poco l’Islam, come anche il cristianesimo e in generale le religioni. Penso che si vivrebbe molto meglio senza. Da cittadino, penso che le religioni comunque ci sono, ed è un diritto sacrosanto poter seguire la propria religione. E mi dispiace che tanti musulmani debbano pregare in luoghi di fortuna (nella mia città una sorta di garage). Da docente, penso che la scuola debba fare tutto il possibile per far sentire riconosciuti e rispettati gli studenti musulmani, come anche gli studenti portatori di qualsiasi alterità (comprese le diversità di classe sociale, di cui nessuno più si occupa). E mi pare che la scuola italiana lo stia facendo poco e male.

Gli Stati Generali[/read]

Velo e autodeterminazione femminile

Dopo gli insulti e le minacce sui social network, Silvia Romano ha parlato della sua conversione all’Islam e della scelta di mettere il velo in una intervista al giornale on-line islamico La luce. Nella parte che riguarda l’hijab afferma:

Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale.

Sulla conversione all’Islam aveva scritto cose dure Cinzia Sciuto, autrice dell’ottimo Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli); leggo ora su Micromega un intervento, non meno duro, di Monica Lanfranco. Due donne che stimo, ma con le quali non sono d’accordo.[read more]

Prima di spiegare perché, occorre una premessa. Sono ateo, e forse potrei considerarmi perfino un ateo militante (sono iscritto all’UAAR). Considero le religioni un male sociale e in particolare ritengo che i monoteismi abbiano causato infinite tragedie storiche. Non ho alcuna simpatia per l’Islam, fatta eccezione per il sufismo. Ritengo che sia importante fare una battaglia culturale per denunciare la violenza simbolica delle religioni. Politicamente, sono di area anarchica ed antiautoritaria, pur consapevole di tutti i problemi di una tale collocazione. La questione del velo provoca non poco imbarazzo nelle persone di sinistra perché fa entrare in conflitto due valori importanti: il riconoscimento dei diritti delle minoranze, e in particolare dei migranti, e la libertà ed autodeterminazione delle donne. Che succede, ora, se una minoranza nega il secondo valore? Quale posizione assumere nei confronti di una minoranza che nega i diritti delle donne? Bisogna accettare limitazioni alle libertà femminili in nome del multiculturalismo o rigettare (come fa Cinzia Sciuto) l’idea stessa di un multiculturalismo che diventa il cavallo di Troia per far arretrare le società occidentali nel campo dei diritti civili delle donne?
Vorrei provare, seguendo le parole di Silvia Romano, a chiedermi se non sia possibile un punto di vista diverso. Preciso che non parlo in generale della questione del velo, perché non ha alcun senso parlarne all’ingrosso, mettendo su uno stesso piatto, per dire, Afganistan, Albania e Italia. Parlo dell’uso dell’hijab da parte di una donna musulmana nel nostro Paese.
Il diverso punto di vista è quello del diritto delle donne di dare un significato al loro corpo ed a quel rapporto con il loro corpo che è l’abbigliamento.
Le donne che subiscono violenza sessuale sono spesso sottoposte alla ulteriore umiliazione di dover spiegare come erano vestite e perché. Per qualcuno il fatto che una donna sia vestita in modo considerato provocante può comportare una attenuante per il violentatore. Un certo abbigliamento non è forse segno certo di disponibilità sessuale? No, rispondono le donne, non lo è. Una donna ha il diritto di vestirsi come vuole, senza che nessuno si senta autorizzato a dare alcun significato a quell’abbigliamento. Soprattutto: solo una donna ha il diritto di dare un significato al suo modo di vestirsi. Nessun altro. Solo una donna ha il diritto di dire di essersi vestita per piacere a sé stessa, per piacere agli altri o solo perché così le andava.
Consideriamo ora il velo. Silvia Romano afferma che portare il velo per lei significa sottrarsi a dinamiche sociali che non ama. Che la seduzione sia una pratica sociale è innegabile. È una pratica sociale tutt’altro che condannabile, ma alla quale qualcuno può legittimamente decidere di non partecipare. Simone Weil, una delle più lucide intelligenze del Novecento, vi si sottrasse per tutta la sua breve vita. “Essere oggetto di desiderio: è questo che genera in me, dopo il Luxembourg, una repulsione e un’umiliazione fortunatamente invincibili”, scriveva. L’accenno ai giardini del Luxembourg resta misterioso; non è da escludere che si riferisca all’incontro con un esibizionista quando era adolescente. Ma sarebbe un grave errore considerare queste repulsione come un tratto patologico dovuto ad un evento traumatico, così come sarebbe semplicemente ridicolo vedere in quelle parole una qualche imposizione maschile. È la scelta di una delle donne più libere del Novecento e fa parte in modo significativo della sua eccezionale spiritualità. Non aveva bisogno del velo, Simone Weil. Esprimeva il suo rifiuto di essere oggetto di desiderio con tutto l’abbigliamento e in generale con un atteggiamento che spesso sconcertava e intimoriva chi la incontrava.
Silvia Romano afferma che per lei il velo ha un significato. Indica la scelta di essere al di fuori del gioco sociale della seduzione. Monica Lanfranco afferma che invece il velo ha un altro significato: indica la violenza simbolica dell’uomo sulla donna, e le parole di Silvia Romano non sono che “formule insopportabili e ipocrite, quando si pensa ai milioni di donne nel mondo costrette a portarlo, pena anche la morte, da feroci dittature teocratiche totalitari”. Non è un grande argomento, perché qui non parla una donna afgana, ma una donna italiana, e non c’è nessuna prova che qualcuno la costringa a portare il velo, pena la morte. Se una donna è costretta a portare il velo, evidentemente è un male, come è un male qualunque imposizione; ma qui si parla d’altro. Qui c’è una donna che parla del suo abbigliamento e della sua scelta. E dice cosa significa, per lei, quell’abbigliamento. Replicare che quelle parole non esprimono realmente un punto di vista personale, ma una manipolazione culturale, è sbagliato per due ragioni. La prima è che si può vedere qualche forma di manipolazione culturale in qualsiasi esperienza o scelta, e la stessa Silvia Romano considera frutto di “un’imposizione da parte della società” il suo precedente modo di vestirsi. La seconda è che significa attuare una disconferma, quel meccanismo studiato dalla scuola di Palo Alto per cui in uno scambio comunicativo si nega l’esistenza stessa dell’altro come parlante. Non si tratta di discutere le affermazioni dell’altro; gli di dice: “Tu non esisti”. Ed è esattamente quello che accade a Silvia Romano. Le sue parole non vengono prese realmente in considerazione, non è una vera interlocutrice in un discorso pubblico. Si ritene che per sua bocca parli il Patriarcato, o qualcosa del genere. E questa è evidentemente una violenza. È una violenza, quando una donna parla, ritenere che sia un uomo a parlare in sua vece, se dice cose che non ci piacciono. E metterla così a tacere.
Nessuno – che sia uomo o donna – ha il diritto di stabilire il significato dell’abbigliamento di una donna, se non la donna stessa. Non sono affatto convinto che il velo sia indice di qualsiasi libertà, mi piacerebbe piuttosto vivere in una società in cui tutti abbiano il diritto e la libertà di andare in giro completamente nudi, se lo vogliono, ma sono anche consapevole che la liberà si incarna in forme diversissime. E che l’individuo stesso è l’unico cui si può riconoscere il diritto di dare un significato alla propria esperienza. Qualsiasi alternativa conduce a conseguenze disastrose.

Gli Stati Generali[/read]

L’incarnazione del divino in Giuliano Ferrara

“Di persona che, per aver compiuto azioni particolarmente turpi e spregevoli, si è resa indegna della pubblica stima”, dice il vocabolario Treccani alla voce infame. E aggiunge: “Nell’uso corrente, con senso più generico, di chiunque si sia macchiato di gravi colpe contro la legge, la morale, la religione”. Adopera esattamente questo aggettivo, infame, Giuliano Ferrara, per parlare di nonviolenza sul Foglio di oggi. Storia della nonviolenza infame, titola.
Proviamo a seguire il suo ragionamento. Partendo però dalla fine. Continue reading “L’incarnazione del divino in Giuliano Ferrara”

Le donne viennesi e il burkini

Se volessimo individuare il momento – il tempo e il luogo – più alto della civiltà europea contemporanea, pochi luoghi potrebbero sembrare più adatti della Vienna dell’inizio del secolo scorso. E’ il tempo e il luogo della psicoanalisi di Sigmund Freud, della grande musica di Brahms, Mahler, Schoenberg, della grande scrittura di Hofmannstahl e Kraus, della grande pittura di Klimt e della Secessione viennese. Una civiltà raffinatissima, razionale, ottimistica. Una civiltà che come poche altre, nella storia, tiene in conto il teatro, la scrittura, l’arte, la musica.
Ora, leggiamo nell’autobiografia di Stefan Zweig, uno dei grandi figli di quella civiltà, questo passo che riguarda le donne viennesi di quegli anni:

Che le ragazze anche nella più calda estate giocassero al tennis con abiti corti o peggio a braccia nude, sarebbe stato considerato scandaloso, e se una signora ben educata incrociava i piedi in società, ne erano offesi i buoni costumi, perché avrebbero potuto apparire sotto l’orlo della veste i suoi malleoli. Persino agli elementi naturali, al sole, all’acqua e all’aria, non era lecito sfiorare la pelle nuda delle donne. Esse nuotavano a fatica con pesanti costumi, coperte dal collo al tallone, e nei collegi e nei conventi le ragazze, perché dimenticassero di avere un corpo, dovevano persino fare il bagno in lunghi camici bianchi. Non è leggenda né esagerazione che morissero allora in tarda età donne del cui corpo, all’infuori del marito, dell’ostetrico e di chi ne lavava la salma, non erano mai stati veduti neppure le spalle o i ginocchi. (S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano 1954)

Prima di giudicare la civiltà altrui dagli abiti indossati dalle donne, sarebbe cosa buona ricordare che era questa la condizione femminile in uno dei momenti più alti della cultura e civiltà europea. Non per rivendicare quella condizione, ma per riflettere sul fatto che, per quanto la cosa possa sembrarci strana, in alcuni contesti sociali e culturali uomini e donne – anche colti, razionali, evoluti  – possono trovare assolutamente normale che una donna faccia il bagno interamente coperta. E quando smettono di considerarlo normale, non è spesso perché la cultura ha aperto loro la mente, ma perché i cambiamenti economici hanno travolto le vecchie forme di vita.

Nell’Egitto di al-Sisi la libertà di pensiero si paga con il carcere

Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio Isacco. Quando tutto è pronto per il sacrificio – Isacco ha portato anche sulle sue spalle la legna che sarebbe servita per il suo olocausto – e la mano del padre sta per scannare il figlio, Dio interviene. “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo figliuolo, l’unico tuo!” (Genesi, 22, 12). E per non restare privo d’un sacrificio, Dio fa comparire un ariete, che viene sacrificato al posto del ragazzo. Per ricordare questo episodio biblico, non dei più luminosi, ogni anno si celebra nel mondo musulmano la “festa del sacrificio”, Id Al-Adha. Si prende un animale, lo si sgozza e lo si lascia dissanguare, a maggior gloria di Dio. Può essere un montone o una pecora, una mucca, un cammello. “Milioni di innocenti creature saranno condotte al più orribile massacro compiuto da esseri umani per dieci secoli e mezzo. Un massacro che si ripete ogni anno a causa dell’incubo di un uomo giusto riguardo al suo bravo figlio”, ha scritto sul suo profilo Facebook ad ottobre dello scorso anno la scrittrice egiziana Fatima Naoot. E per queste parole il 28 gennaio è stata condannata a tre anni di carcere con l’accusa di aver disprezzato l’Islam, di aver diffuso odio settario e di aver attentato alla pace pubblica. [read more]

Fatima Naoot, già candidata al parlamento, è poetessa e scrittrice, traduttrice (ha tradotto tra l’altro Virginia Woolf) e giornalista, nota per le sue prese di posizione in favore delle minoranze del paese, come quella copta. Durante il processo non ha negato di aver scritto quel post, ma ha rigettato l’accusa di aver voluto offendere l’Islam, sostenendo che la religione è solo un pretesto per giustificare il gusto di uccidere animali. La poetessa è stata condannata in base all’articolo 98 del Codice Penale egiziano, che così recita: “Chiunque sfrutti la religione per promuovere ideologie estremiste attraverso la parola, gli scritti o in altro modo, con il fine di fomentare la sedizione, di denigrare o disprezzare qualsiasi religione divina o i suoi aderenti, sarà punito con il carcere da sei mesi a cinque anni, o al pagamento di una multa di almeno 500 sterline egiziane”. Una norma che ha lo scopo di combattere il fondamentalismo e lo hate speech religioso, e che nell’Egitto di oggi – l’Egitto nel quale un giornalista coraggioso come Giulio Regeni viene ucciso dopo essere stato orribilmente torturato – finisce invece per colpire la semplice espressione di opinioni non conformiste.
Intervistata il 30 gennaio dall’emittente egiziana CBC TV, la scrittrice ha dichiarato che la legge contro la blasfemia, che doveva servire a proteggere i cristiani dagli attacchi dei fondamentalisti islamici, è diventata un cappio al collo per gli stessi cristiani e per gli intellettuali progressisti. Ed ha aggiunto: “Lo Stato sta combattendo i terroristi, ma non il terrorismo. Il terrorismo è una ideologia. Il mio imprigionamento è terrorismo. L’imprigionamento di Islam Behery è terrorismo. L’imprigionamento di chiunque esprima la propria opinione è terrorismo”.
Islam Behery, citato da Naoot, sta scontando la pena di un anno di carcere nella prigione di Tora in base allo stesso articolo del Codice penale. Studioso dell’Islam con una laurea all’università di Wales, Behery conduceva un programma televisivo di grande successo presso il canale televisivo Al Kahera Wal Nas, ripreso sul suo canale YouTube, nel quale parlava di un Islam purificato dai suoi aspetti violenti. Gli hadith, le narrazioni dei fatti e dei detti di Muhammad che costituiscono la seconda fonte dell’Islam dopo il Corano, parlano di un Profeta che sposa una bambina ed ha rapporti sessuali con lei. Che pensare di un uomo di Dio che compie un crimine del genere? Come conciliare questo crimine con l’altezza morale che il Profeta mostra in molti passi del Corano? Per Behery bisogna porre in questione l’attendibilità degli hadith, se si vuole liberare l’Islam dai suoi aspetti oppressivi e violenti. Se non si compie questa operazione, sarà inutile la lotta contro contro il Califfato. Ridiscutere l’autorità degli hadith vuol dire estirpare la radice del fondamentalismo. Una posizione coraggiosa, che ha suscitato le ire di Al-Azhar, l’Università del Cairo che rappresenta la più importante autorità culturale del mondo sunnita, che ha chiesto ed ottenuto la sospensione del programma di Behery. Il processo invece è stato avviato in seguito alla denuncia di un semplice cittadino. Dopo la condanna, l’intellettuale egiziano ha commentato ironicamente: “Molte grazie al presidente Abdel-Fattah El-Sisi ed alla sua rivoluzione religiosa… Sono grato per la libertà di espressione in Egitto”.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 28 febbraio 2016.[/read]

Nous sommes Charlie Hebdo?

Lo Spirito Santo, il Figlio ed il Padre presi in una relazione non proprio spirituale. E’ una delle vignette di Charlie Hebdo che hanno preso a circolare dopo il massacro di ieri. Suscitando sconcerto in non pochi cattolici che fino a poco prima erano pronti a dire “Je suis Charlie Hebdo”, e che si sono ritrovati invece a reclamare la censura e ad affermare i limiti della libertà d’espressione. Perché sì, la satira è importante, e rivendichiamo tutti il libero pensiero come conquista dell’Occidente, ma il Figlio che prende lo Spirito Santo nel didietro…
I soggetti che oggi sono Charlie Hebdo sono abbastanza male assortiti. Ci sono i laici, gli atei, i difensori del libero pensiero: ma ci sono anche gli islamofobi, gli xenofobi, i fascisti alla Salvini. Questo singolare assortimento è una conseguenza dell’ambiguità stessa della satira, che può essere due cose diverse; o meglio: avere due valenze politiche. A fare la differenza è il tipo di gruppo sociale contro cui si scaglia. La satira ha una funzione progressiva, positiva, liberatrice quando si scaglia contro gruppi potenti, dominanti, in grado di imporre la propria volontà anche con la forza, anzi con la violenza. Una satira del genere è sempre giustificata, anche quando è blasfema, anche quando ridicolizza i valori più sacri. Diversa è la satira che si dirige contro gruppi minoritari, deboli, socialmente discriminati. Formalmente sempre di satira si tratta; ma in questo caso è satira vigliacca. E’ una satira che ha una lunga tradizione, dalle vignette del fascismo e del nazismo fino a quelle della Lega Nord.
Ora, nel caso delle vignette contro il cattolicesimo la questione è semplice. I cattolici rappresentano un gruppo potente, che in un paese come il nostro ha anche gestito direttamente il potere, attraverso il suo partito di riferimento: e lo ha fatto nel modo che sappiamo, ossia usando come mezzi di governo la corruzione, le stragi, la collusione con la mafia. Ogni satira contro il cattolicesimo è un atto di libero pensiero. Più complessa è la faccenda per quanto riguarda l’Islam. Perché i musulmani sono, al tempo stesso, un gruppo debole ed un gruppo forte. In Italia ed altrove, i musulmani rappresentano una minoranza cui spesso si negano diritti elementari, come quello di avere un luogo in cui pregare; una minoranza guardata con sospetto, spesso calunniata, culturalmente e socialmente marginalizzata. Ma l’Islam è anche quello dei terroristi che, come è accaduto ieri, vendicano con il sangue le offese alla loro religione. Terroristi che naturalmente non rappresentano l’Islam, e che tuttavia uccidono chi ha offeso l’Islam. E’ per questo che le vignette contro l’Islam sono al tempo stesso un atto di coraggio e di vigliaccheria, una manifestazione al tempo stesso di libero pensiero e di xenofobia. Il fatto che i vignettisti di Charlie Hebdo siano stati massacrati, e che dunque appaiano come martiri del libero pensiero occidentale contro il fondamentalismo islamico, avrà l’effetto di attenuare quell’ambiguità, proprio mentre, per effetto di quello stesso massacro, i musulmani europei si troveranno ad essere ancora più fragili e marginalizzati.

Aggiornamento: Ma essere Charlie Hebdo non vuol dire anche essere Naji al-Ali? A quanto pare no.