Tra qualche giorno mio figlio Ermes compie un anno. M’ero ripromesso di scrivere molto: di lui, ma soprattutto a lui. Di parlargli nelle mie pagine di diario, avviando un colloquio che ci accompagnerà per tutte le nostre vite. Mi accorgo invece di aver scritto poco; quasi nulla. E per lo più annotazioni per così dire pediatriche: il peso, la temperatura, la crescita.
Perché? Perché sono stato troppo impegnato a cambiargli il pannolino, a inseguirlo per casa quando ha cominciato a gattonare, a cullarlo sperando che si addormentasse. E a giocare con lui. E questo mi è bastato.
Ora sono le nove meno un quarto del mattino. Sta ancora dormendo. Ho qualche minuto, e qualcosa provo a scrivere. Smetterò appena lo sentirò piangere: perché piange sempre quando si sveglia solo nel nostro letto.
Dunque: un figlio. Qui, sulle mie gambe. Gli tengo le mani, gli canto “Ci son due coccodrilli…”. Poi con le mani impersono questi due coccodrilli. La mano destra è Cocco, la mano sinistra è Drillo. Cocco e Drillo parlano tra di loro. Poi litigano. Cocco divora Drillo. Ermes guarda allibito. Poi arriva l’orangotango: e allora bisogna battersi forte il petto. Ma il meglio viene con i due piccoli serpenti, che strisceranno sul suo corpicino, facendolo ridere a crepapelle.
Eccolo qui, Ermes. I suoi occhi enormi, le sopracciglia lunghe e perfettamente disegnate, i capelli folti. La sua espressione attenta, in qualche modo misteriosa, quando…
[Si è svegliato, è sceso dal letto e ha gattonato per la camera da letto piangendo. Bisognerà che continui al prossimo sonnellino.]
Dicevo: a volte c’è un’intensità particolare nel suo sguardo. Come se andasse oltre o altrove. O meglio: insieme andassimo oltre e altrove.
Mio figlio, un figlio. Cos’è?
Quando è nato ho passato un momento difficile. Perché, mi chiedevo, mettere al mondo un figlio? Prima di farlo bisognerebbe essere certi di saper rispondere alla domanda: perché viviamo? Se si mette al mondo un figlio senza sapere perché si vive si dà il proprio contributo a una sorta di cattivo infinito.
So che la questione si risolve facilmente. Il senso appartiene alle cose del mondo. C’è un richiamo universale, x rimanda a y, x trova in y il suo senso. Ma il mondo, l’insieme delle cose, non si lascia trattare così; e ugualmente la nostra vita. Per cui parlare di un senso della vita o di un senso del mondo vuol dire semplicemente applicare all’insieme delle cose una categoria che vale solo per le singole cose.
Soluzione facile, appunto: e dunque insufficiente. Perché la domanda resta. E con essa la sofferenza, la ferita dell’assurdo.
Un figlio. Quello che so, grazie ad Ermes, è che una vita può avere valore assoluto. So bene che qualsiasi vita ha un valore assoluto. Ma è una posizione per così dire teorica. Una di quelle cose che sappiamo, ma non sappiamo davvero. Qui c’è ora, invece, una vita che ha per me un valore realmente assoluto. Un valore di fronte al quale tutto cede. Se Dio ci fosse, non avrebbe per me un valore maggiore. Chi sostiene, come Giovanni della Croce, che le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio, non sa cos’è un figlio. E forse nemmeno cos’è l’amore. E cos’è Dio.
Un essere che ha valore assoluto. E intorno a lui un mondo che quel valore lo assedia, in cui la vita è di continuo prodotta e distrutta, come se a contare qualcosa – forse – fosse il dinamismo dell’insieme, non certo le piccole esistenze che quel dinamismo di continuo crea e distrugge.
Riconoscere dunque l’esistenza di una vita dotata di valore assoluto pone un problema. Che dire di un mondo che nega questo valore? Per i credenti quel mondo non è che apparenza; al fondo c’è un Dio buono che preserva ogni vita, tranne quelle che saranno condannate dalla loro malvagità – o dalla loro mancanza di fede. Una soluzione che in realtà aggiunge violenza a violenza: la violenza religiosa a quella della natura.
La natura, il nome che diamo al modo di funzionare della vita sul nostro pianeta, appare sinistra. Le leggi del mondo sono feroci. E possiamo adattarci ad esse, sottometterci, abituarci a rinunciare a noi stessi, vedendo in ciò la più profonda saggezza. Ma non quando abbiamo un figlio. Posso accettare la mia morte, ma non la morte dell’altro, dal momento in cui ho un figlio.
Un anno fa ero impegnato in una rilettura di Spinoza. Uno dei miei autori; e, con David Hume, il più orientale dei filosofi occidentali. Avvertivo la forza, la potenza, anche la bellezza di una vita che si ponga nell’ordine della natura, sentivo il respiro di una vita che sappia attraversarsi e deporsi nel seno delle cose. Ma non più ora che ho un figlio. Posso attraversare il mio io, svuotarlo e abbandonarlo come un guscio vuoto: ma non quello di mio figlio.
E dunque: vada al diavolo Spinoza. Ho un figlio, e dico no alla natura, all’origine, al principio.
Ermes è Dio della soglia, del confine e del passaggio. E così è. Sta tra i mondi. Questo e quell’altro. Il mondo in cui i fiori appassiscono e i rami cedono all’inverno e quello in cui ogni fiore è eterno. E io sto con lui, grazie a lui, attraverso lui nella ribellione dolce di questo altrove. “E l’altrove è gioia, colori, pace e amore amore amore”, dice Lisi.