30 gennaio, martedì

Uno scrittore che ho sempre un po’ snobbato – di quelli popolari: e dunque facili e leggeri (conclusione a volte ingiusta) – ha annunciato una sua grave malattia – ed è comparso alla televisione irriconoscibile. Pensavo, portando giù Mirò, a come vivrei io – a come vivrò io – dopo aver saputo di una grave malattia, anzi standoci dentro. A che farei del tempo, degli istanti. Come andrei avanti. Anzi: come mi fermerei. Che farei qui ed ora. Ascolterei forse molta musica. Ma cosa? Mozart o Wagner? Verdi o Puccini? O non preferirei forse Jimi Hendrix? No, niente musica. Mi darebbe nausea. Forse, ho pensato, mi rileggerei le cose che ho scritto. Ma presto ho escluso anche questo. Mi dà fastidio leggere quello che ho scritto molto tempo fa, quando ero in gran parte altro da quello che sono. Mi dà un duplice fastidio: perché mi pare, quell’io lontano, ingenuo, e considererei l’ingenuità un peccato capitale, se fossi credente; e perché al tempo stesso mi pare che quell’io lontano, con un diritto che gli viene dall’essere mio padre, benché più giovane di me, mi giudichi per aver perso per strada la sua passione: e la sua indignazione. Mi dà fastidio leggere anche quello che ho scritto più di recente, perché mi pare che manchi sempre qualcosa, che vi sia sempre un passo in più che non ho avuto la pazienza, la forza, la determinazione di fare. E aggrovigliarmi nella frustrazione di essere io non è certo un gran modo di passare il tempo ultimo. Leggerei, forse. Ma, anche qui, cosa? E perché impiegare gli ultimi scapoli di vita a frugare nella vita degli altri?

No, ho concluso. Non farei nulla. Starei seduto, infossato in me stesso, abitando le mie sensazioni. Mi godrei anche il dolore, se ci fosse. Ci sono passato, so quanta voluttà può esserci anche in un dolore atroce. E ho pensato che qualche voluttà, qualche inconfessabile piacere – inconfessabile in senso stretto: impossibile da spiegare – verrebbe anche dal sentire che questo momento è a un passo dall’annientamento.

Author: Antonio Vigilante

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