Re-istituire la scuola

Gustav Igler, On the Eselbank

Ivana Margarese mi ha intervistato per “Morel. Voci dall’isola”. È il secondo tassello di una indagine sulla scuola avviata con una conversazione con Sabina Minuto.

Cosa significa per te essere un insegnante oggi?

Vuol dire porsi la domanda, in primo luogo. E vuol dire porsela insieme: ai propri studenti e ai propri colleghi. Cosa facciamo tutti, chiusi in un’aula, un giorno dopo l’altro? Perché veniamo qui? Perché stare in un’aula è meglio che star fuori a fare altro?
La scuola è immediatamente percepita come una cosa buona. Dove non c’è si esige che vi sia. Dove c’è delinquenza, dove c’è mafia, si propone di fare più scuola.
“La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”, diceva Gesualdo Bufalino. La scuola è un bene attraverso il quale ci si propone di combattere tutti o quasi i mali sociali.
Quando si mette piede in un’aula scolastica le cose appaiono in tutt’altra luce. Non c’è un mondo in ansiosa attesa della redenzione attraverso l’istruzione. C’è invece spesso un mondo che si ribella all’istruzione, rifiuta il ruolo del docente e non riconosce l’istituzione. Ed è quello che accade nelle aree cosiddette a rischio, nelle periferie, nei luoghi in cui si fanno più manifeste, e dolorose, le contraddizioni di una società nella quale le disuguaglianze sono venute crescendo negli anni, e non per qualche fatalità, ma per una precisa scelta politica.
Ma queste, certo, sono situazioni estreme. La normalità è un’altra. La normalità è trovare classi nelle quali gli studenti sono scolarizzati: riconoscono l’importanza della scuola, dello studio, dell’affermazione sociale, e dunque il ruolo del docente. Il quale però, se è appena attento, si accorgerà che l’istituzione piega e comprime spesso in quella condizione che Tolstoj chiamava “stato scolastico dell’anima” o, nella migliore delle ipotesi, fa adagiare lo studente in una sorta di meccanicismo che lo porta, da bravo operaio, a fare tutto ciò che il sistema richiede per conquistarsi la paga del voto.
Insomma: insegnare vuol dire fare i conti con la mancanza di senso. È evidente che la scuola, nonostante le aspettative che la società ancora ripone in essa, è una istituzione in crisi. Ma non lo è per qualche deviazione sociale che ci ha portati a non riconoscere più le buone cose di un tempo, come l’autorità del docente e il valore dello studio. Lo è perché è una istituzione che sconta antiche fragilità strutturali: prima fra tutte quella che le viene dall’essere fondata su relazioni verticali, e dunque inautentiche.
Insegnare con qualche consapevolezza vuol dire, oggi, sapersi fermare. Rendersi conto che il nonsenso, non tematizzato, cresce giorno dopo giorno e sfocia in un malessere sempre più profondo e sempre più difficile da affrontare. Un malessere che vediamo sui volti e nei corpi dei nostri studenti, ma che aleggia anche nelle sale docenti, si insinua nei discorsi preconfezionati tra colleghi, sboccia in un sospiro improvviso, eppure da tutti immediatamente compreso.
Come in una relazione malata è importante fermarsi a parlare della relazione, così a scuola è importante oggi fare metascuola: ragionare – ripeto: con gli studenti e i docenti; meglio ancora se tutti insieme – sulla scuola. Pensarla nuovamente insieme. Re-istituirla.

Nella tua bella risposta parli di alcuni temi che mi stanno a cuore. Uno tra questi è quello del corpo, troppo spesso poco considerato nell’ambito dell’apprendimento. Invece si impara anche col corpo, muovendosi e prendendo spazio o rispettando i confini dello stare insieme.
Noi che insegniamo al Liceo ci rendiamo conto di come cambino i nostri studenti dal primo all’ultimo anno e di come questi mutamenti anche fisici non siano ininfluenti e siano talvolta persino inclusivi o discriminatori.

Capita, alle superiori, di seguire una classe durante tutto il quinquennio. Vuol dire dai quattordici ai diciannove anni. Li prendi che sono poco più che bambini e li diplomi che sono uomini e donne.
In questo periodo sono cambiati profondamente. Sono ad esempio maturati sessualmente, hanno avuto le prime esperienze, hanno perso la verginità. E la scuola? Da un’indagine fatta lo scorso anno scolastico nell’ambito delle attività dell’Osservatorio socio-antropologico del mio Liceo, alla quale hanno risposto 544 ragazze senesi dai quattordici ai diciotto anni, risulta che la grande maggioranza di loro, più di trecento, ritengono di non aver ricevuto dalla scuola una adeguata educazione sessuale. Questo vuol dire che alla scuola il più profondo cambiamento degli studenti semplicemente non interessa, o che essa non ritiene che sia sua competenza, lasciando il compito alla famiglia.
Si ritiene che le analisi di Michel Foucault sulla società disciplinare siano superate. Quella di oggi, afferma ad esempio Byung-chul Han, è una società nella quale ci si disciplina da soli, imponendosi i ritmi competitivi della società post-capitalistica. Ma cos’è, se non disciplinamento – e disciplinamento esteriore, anche se spesso interiorizzato – quello che avviene nelle scuole? Cos’è dover chiedere il permesso per bere dalla propria borraccia? Cos’è dover chiedere il permesso per andare in bagno anche quando si è maggiorenni?
C’è in un’aula scolastica una gestione del corpo degli studenti attentissima, capillare. Ognuno ha il suo posto, seduto al suo banco. C’è una tradizione di critica pedagogica dei banchi che risale a Dewey, ma il banco resiste a qualsiasi critica. Occorre anche che sia seduto in un certo modo: una postura più rilassata è interpretata come poco rispettosa e può giustificare una nota disciplinare. Nella classe regola la compostezza. E lo sguardo del docente vigila di continuo che non vi siano deviazioni.
Non ho mai capito per quale ragione uno studente non possa ster seduto sul banco o, se preferisce, a terra. Non ho mai capito quale sia lo scopo di questa immobilità cui ci costringiamo tutti, e in che modo si leghi all’apprendimento. Certo, può essere funzionale a una serie di azioni: ascoltare in silenzio una persona che parla, leggere un libro, sempre in silenzio o, ancora in silenzio, scrivere. Ma si apprende solo facendo cose immobili e in silenzio? Al di fuori della scuola, l’apprendimento accade in questo modo? Che ne è dell’aspetto comunitario della conoscenza? Dove sono il confronto, la ricerca comune, il dialogo? Sono tutte cose che richiedono la prossimità dei corpi, l’alzarsi e abbassarsi delle voci, perfino qualche risata.

Come tutto ciò che viene rimosso, il corpo rivendica il suo spazio. E lo fa con la forza, con l’urgenza del sintomo. La studentessa, seduta al suo banco in silenzio, comincia a respirare a fatica. Le tremano le mani. Perde il controllo. Bisogna portarla fuori. Ha un attacco di panico, e questo le dà per un quarto d’ora il diritto di sottrarsi allo sguardo e soffrire nel corridoio. Gli attacchi di panico a scuola sono un’emergenza da ben prima prima della pandemia. Quando accadono si indaga sulle cause personali e si fa presente allo studente e alla famiglia che c’è un servizio scolastico di assistenza psicologica. Si ritiene che la faccenda sia un problema individuale e che come tale vada trattata. La scuola non c’entra. A livello di analisi, si dirà che i ragazzi di oggi sono sempre più fragili. Intere fortune televisive, se non accademiche, sono costruite su simili banalità.

Ogni attacco di panico dovrebbe essere considerato un analizzatore nel senso della socioanalisi. Una occasione per interrogarsi sull’istituzione, invece di assolverla frettolosamente. E in questo processo bisognerebbe chiedersi quanto sensata, salutare, favorevole all’apprendimento o semplicemente rispettosa delle persone e della loro dignità sia la gestione dei corpi in un’aula scolastica.

La didattica contemporanea si fonda sullo sviluppo di curricoli e competenze trasversali, e ha superato da tempo il concetto di “programma” e di “libro di testo” come unico veicolo di contenuti. Eppure non tutti i docenti sembrano avere acquisito questo dato e fanno spesso ricorso al concetto di programma, al dover finire il programma e finiscono con l’ignorare parti di mondo per riferirsi in ordine cronologico ai libri di testo. Qual è la tua idea in merito?

Non c’è il programma ma resta la programmazione o piano di lavoro iniziale. Ed è chiaro che se questo piano di lavoro è calibrato male, il docente passerà l’anno scolastico con l’ansia di non riuscire a finire ciò che si è proposto.
Ho parlato poco fa di re-istituire la scuola. Questo vuol dire anche, per me, dedicare del tempo, all’inizio dell’anno, a discutere insieme agli studenti cosa studiare e quali competenze curare in modo particolare. Io insegno filosofia e scienze umane. In filosofia si può discutere, ad esempio, se concentrarsi esclusivamente sulla filosofia occidentale o esplorare anche le filosofie altre. Ma si può ragionare anche sull’importanza di competenze come l’argomentazione rigorosa, il dialogo, la lettura e comprensione di un testo filosofico. Una volta che si sia giunti a conclusioni condivise su questi punti, può essere interessante costruire insieme il piano di lavoro, decidere insieme cosa studiare, quando e quanto.
La faccenda dei libri di testo è triste. Mi capita di confrontare i manuali di filosofia oggi in uso con quelli che usavo io alle superiori, ma anche con altri più antichi che ho recuperato su qualche bancarella. Col passare dei decenni i manuali sono diventati sempre più corposi: ormai un manuale non merita nessuna considerazione se non ha almeno cinquecento pagine. E una quantità enorme di immagini. E gli esercizi. E i link ai siti Internet. E magari anche la programmazione per competenze. Sembra che nessuno debba far nulla: ha già tutto il libro di testo.
Mi sorprende sempre che i docenti non colgano l’umiliazione del manuale, che ormai si sostituisce al docente. Il testo di un filosofo, ad esempio, è annotato in modo capillare; non passa per la testa delle case editrici che annotarlo e commentarlo possa essere il lavoro del docente. Sfugge che più cresce il manuale meno cresce il docente. Che si riduce alla miserabile funzione di spiegare il manuale.
C’è poi l’aspetto economico della faccenda. I manuali crescono di mole e dunque anche di prezzo. Ed è vero che ci sono dei tetti di spesa per le famiglie, ma è ugualmente vero che di ogni manuale si utilizza effettivamente in classe sono una piccola parte; in qualche caso sì e no un terzo. C’è uno spreco di denaro per le famiglie e uno spreco di carta per tutti.
L’alternativa è creare da sé i manuali, se proprio se ne avverte il bisogno. Scriverli da soli, o insieme ad altri docenti, o insieme agli studenti. Metterli a disposizione di tutti con licenza Creative Commons e, se occorre il cartaceo, pubblicarli con i costi bassi resi possibili dal print-on-demand. C’è molto da fare in questa direzione, ma qualcosa si sta muovendo. Penso, per la filosofia, al Filo di Arianna di Martino Sacchi. Ma anche io sto lavorando a Mònimos, un progetto di didattica interculturale della filosofia.

Come ti poni tu all’interno del dibattito crescente in Italia sulla valutazione e sull’utilizzo delle risorse digitali?

Partiamo dalla seconda questione. Ciò che chiamiamo digitale comprende realtà radicalemente diverse. A un estremo abbiamo il digitale delle multinazionali, sintetizzate con l’acronimo GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft). È una concezione del digitale, dell’informatica, della rete Internet fondata sulla massimizzazione dei profitti anche attraverso l’uso spregiudicato dei dati personali degli utenti; un uso che dà vita a quello che Shoshana Zuboff chiama capitalismo della sorveglianza. All’estremo opposto abbiamo la galassia del software con codice aperto (open source) e con licenze libere. Un mondo nel quale si produce software in modo collaborativo e lo si mette a disposizione di tutti, consentendo a chiunque abbia la competenze di modificarlo. Nel campo dei social network è la differenza abissale tra Facebook, Instagram e Twitter, social che mettono capo a un unico proprietario e usano i dati degli utenti – di fatto tutta la loro vita online, che è una porzione sempre più significativa della vita tout court – a scopo commerciale, e social come Mastodon o Pleroma, distribuiti, con codice aperto e senza alcun algoritmo.
Si tratta, è evidente, di una questione politica. Si tratta di scegliere tra un mondo in cui gli strumenti informatici e digitali e la vita online delle persone sono fonte di profitto e un mondo in cui sono invece strumenti collaborativi e liberi. La scuola non può essere indifferente a questa scelta. La pandemia ha consentito alle multinazionali l’ingresso nelle scuole che da tanto tempo cercavano. Le piattaforme più usate per la didattica a distanza sono state quelle di Google e Microsoft, mentre Moodle è stato snobbato; e il PNRR consentirà a Meta di entrare nel mercato promettente delle risorse digitali da fruire con visori.
È una scelta che ha a che fare con la didattica. Le multinazionali del digitale non chiedono all’utente grandi competenze informatiche. Chi compra un prodotto Microsoft, chi usa Facebook è un fruitore di prodotti finiti; non gli si chiede altro che di goderli, con il minimo sforzo. Si tratta di strumenti passivizzanti, che portano l’utente dove desiderano loro, e in quanto tali tutt’altro che educativi. Uno strumento digitale ideale da usare a scuola pretende che gli studenti ci mettano le mani, lo modifichino, lo personalizzino. È l’utente – lo studente, a scuola – a decidere la direzione da prendere, con le competenze adeguate.
Il problema è costruire queste competenze. Una cosa cui la scuola non lavora. È convinzione diffusa che avere competenze informatiche di base significhi saper usare il pacchetto Office. Poi ci si trova a scuola con copie piratate di Office, perché le scuole non hanno soldi sufficienti per pagare le licenze. Se va bene, c’è OpenOffice. Ma a nessuno viene in mente di semplificare la produzione e diffusione di documenti utilizzando il semplicissimo Markdown e di insegnarlo agli studenti (che vuol dire, peraltro, avviarli anche a una prima organizzazione logica del testo).
Quanto alla valutazione, si sta sperimentando il giudizio come alternativa al semplice voto. Una scelta di buon senso, ma non so quanto rivoluzionaria, se allo scrutinio occorre comunque giungere con un voto. Anche qui ritengo fondamentale il lavoro iniziale di re-istituzione. Bisogna smontare in ogni modo la dinamica che porta a considerare il voto come fine e l’apprendimento come mezzo. Se non è chiaro agli studenti che l’apprendimento conta, non il voto, qualsiasi cambiamento mi pare poco utile. Per quanto mi riguarda, provo anche a spiegare agli studenti e alle loro famiglie che considero naturale una curva dei voti irregolare, con alti e bassi, evidentemente legati all’interesse, che non può essere lo stesso per tutti gli argomenti (non lo è nemmeno per noi docenti). Non dobbiamo fare la corsa all’otto o al nove. Possiamo approfondire quello che ci appassiona e il resto cercare di acquisirlo nel migliore dei modi, evitando lacune.
Mi sembra che sia molto importante anche introdurre a scuola pratiche semplicemente libere dalla valutazione. È il caso, ad esempio, della Maieutica Reciproca, il metodo di Danilo Dolci che uso con i miei studenti da circa dieci anni. È una attività assolutamente libera: nessuno è costretto a partecipare (ma gli studenti non vedono l’ora di fare un seminario) e nessuno viene giudicato o valutato per quello che dice. A distanza di molti anni capita che degli studenti ricordino soprattutto quel lavoro scolastico. Perché è grazie a quella attività libera che hanno affinato il senso critico, la capacità di argomentare e l’introspezione.

Sei direttore responsabile della rivista “Educazione Democratica” e parte della Comunità di Ricerca che pubblica la rivista “Educazione Aperta”. Cosa potresti raccontarci di queste realtà?

Le origini sono in “Educazione Democratica”, una rivista che fondammo nel 2011 e che abbiamo portato avanti per dieci numeri, fino al 2015, quando l’esperienza si è interrotta per dissidi con l’editore. Già allora era importante, per noi, costituirci come comunità di ricerca. Era una cosa che stava molto a cuore al compianto Fulvio Cesare Manara, che sul tema curò anche il numero 6 della rivista. Era una rivista di pedagogia politica la cui idea deve molto al mio dottorato in Dinamiche formative e educazione alla politica. Ci chiedevamo come fare un’educazione e una scuola al servizio di una democrazia piena; i nostri riferimenti erano Capitini e Dolci, Dewey e Freire, oltre alla tradizione della pedagogia libertaria, alla quale mi sento personalmente legato.
“Educazione Aperta” nasce nel 2017, con la stessa periodicità semestrale e un nuovo editore (Fasi di Luna). C’è continuità di ispirazione tra le due riviste, ma “Educazione Aperta” si caratterizza per una maggiore attenzione al mondo dell’America Latina e all’eredità di Paulo Freire, anche grazie all’esperienza dei due direttori scientifici, Paolo Vittoria (che ha insegnato per molti anni all’Università di Rio de Janeiro) e Mariateresa Muraca, docente all’università di Verona e anche lei con ampia esperienza in Brasile, dove ha studiato il movimento delle donne contadine.
“Educazione Aperta” è stata riconosciuta dall’ANVUR come rivista di classe A, un riconoscimento importante per una rivista assolutamente indipendente.

L’ultima domanda riguarda il contatto della realtà scolastica con il contesto futuro che attende gli studenti. Qual è la tua esperienza nella complessa questione dell’alternanza scuola- lavoro e quali le possibilità concrete di contatto tra scuola e Università che vadano oltre il momento dell’orientamento?

La discussione pubblica sull’alternanza scuola-lavoro è stata molto deprimente. Sembra che il solo uso della parola lavoro abbia impedito qualsiasi confronto sereno. Quando ho cominciato a insegnare portavo una volta a settimana le mie studentesse alla scuola dell’infanzia per attività di tirocinio. Non ho mai sentito di proteste per una attività simile. Fare l’identica cosa nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro diventava invece sfruttamento e educazione al neoliberismo. Sono stati strumentalizzati in modo indecente dei fatti tragici accaduti non in alternanza scuola-lavoro, ma durante gli stage, che sono un’altra cosa.
L’alternanza è fondamentale per due ragioni. La prima è legata al discorso che si faceva prima sulla pedagogia politica. Credo che sia fondamentale che la scuola offra una formazione politica agli studenti. Che non vuol dire orientarli politicamente a destra o a sinistra, ma formarli all’azione nella comunità, guidarli nella conquista del senso di cittadinanza e della percezione di sé come attori sociali. Questo non può essere fatto se non uscendo dall’aula. È solo grazie all’alternanza scuola-lavoro che anche in Italia si è cominciato a sperimentare il Service-Learning o Aprendizaje Servicio-Solidario, una pratica educativa diffusa in tutto il mondo, che unisce allo studio disciplinare l’impegno in favore della comunità.
La seconda ragione è legata, appunto, all’orientamento. Io insegno in un Liceo delle Scienze Umane e in un Liceo Economico-Sociale. È assolutamente fondamentale per i nostri studenti mettersi alla prova in un contesto sociale: provare a lavorare con i bambini, con gli anziani, con le persone diversamente abili, eccetera. Io non riesco a capacitarmi del fatto che molti ritengano che studiare teoricamente lo sviluppo psicologico di un bambino o i problemi della terza età sia formativo, mentre mettere a contatto uno studente con dei bambini o degli anziani sia una offesa alla dignità e alla purezza degli studi.
Credo che sia urgente superare la visione della scuola come il luogo, più o meno chiuso, in cui si trasmette un sapere già codificato. Ciò conduce inevitabilmente a una cultura di basso livello: e non a caso l’aggettivo scolastico, associato a una qualsiasi produzione culturale, non lascia presagire nulla di buono. Se ci si limita alla trasmissione è inevitabile che vi sia ristagno della conoscenza. La scuola dev’essere un luogo di creazione di conoscenza; una comunità di ricerca – per usare ancora questa espressione – in relazione costante con le altre realtà che fanno ricerca, prima fra tutte l’Università, ma anche costantemente aperta al contesto urbano e naturale.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org