Scrittura in corsivo ed estetica della manualità

Saper scrivere a mano, in corsivo, è meglio che non saperlo fare. Ci spiega perché, buon ultimo, Raffaele Simone, in un articolo pubblicato su “Avvenire” che tuttavia fatico a immaginare scritto a mano. Mi figuro piuttosto Simone che digita con due dita su una tastiera. Perché è questo il modo in cui per lo più vengono scritte oggi le cose che poi si pubblicano sui giornali – per non parlare dei libri. Pochi sanno davvero usare una tastiera, perché non è cosa che si insegni a scuola e nessuno scrive articoli sull’importanza di farlo. (Naturalmente può essere che Simone sia un asso della tastiera, così come è possibile che invece scriva davvero a mano anche i suoi articoli e libri, lasciando ad altri il compito di trasformare le sue lettere vergate a mano in lettere digitali.)

Gli argomenti di Simone, che si serve anche – citandolo – di un libro di Franco Lorenzoni, sono due.

Il primo non è propriamente un argomento, o almeno non un argomento in favore di quel tipo di scrittura. “Tutto ciò che riguarda la scrittura va guardato con estremo rispetto”, scrive (e ci saremmo aspettati riguardo, dopo i verbi riguardare e guardare). La tastiera di uno smartphone ha a che fare con la scrittura esattamente come la tastiera – a dire il vero parecchio scomoda – del computer portatile che sto usando in questo momento; forse addirittura il microfono che utilizziamo per dettare le parole che un software trasforma in testo scritto. Tutte queste cose riguardano la scrittura, e dunque vanno considerate con estremo rispetto esattamente quanto la penna biro, la stilografica o la piuma d’oca. 

Ma l’assunto da cui parte Simone è che tale scrittura, almeno a scuola, sia meno degna di rispetto. E bisogna capire perché. 

A questo serve il secondo argomento. Prima di arrivare al quale, però, Simone fa un’affermazione che colpisce per la sua ingenuità: “E’ solo per una sorta di inerzia lessicale che continuiamo a chiamare ‘scrittura’ un comportamento che non somiglia in nulla a ciò che, nel tempo, si è indicato con questo termine”, scrive. E qui davvero bisogna sperare che lo abbia scritto a mano, altrimenti non potremmo dire che ha scritto l’articolo che stiamo discutendo. Di certo, dal suo punto di vista, io non sto scrivendo questo articolo. 

Vediamo il secondo argomento. La scrittura in corsivo è una pratica complessa, che richiede competenze raffinate. “La mano deve scorrere fluidamente, seguendo il rigo e attenendosi ai bordi, controllando la pressione, interagendo con la vista, imparando così gradualmente movimenti delicati sempre più fini”. Dunque la scrittura a mano, in corsivo, non è solo un modo per mettere su carta il proprio pensiero. Serve a sviluppare quella che si chiama motricità fine, ossia la capacità di usare le dita in modo preciso, esatto, maneggiando anche oggetti piccoli e coordinando mente e movimento.

È difficile negare che la scrittura manuale sia utile per sviluppare la motricità fine. E tuttavia non è l’unica pratica utile a questo scopo. Qualsiasi pratica manuale, che richieda una certa concentrazione e la capacità di maneggiare piccoli oggetti, serve a questo scopo. La scuola valorizza adeguatamente queste pratiche? No. Ed è un no che diventa sempre più ingombrante man mano che si procede negli anni. Se alla scuola primaria i bambini fanno ancora cose con le mani, maneggiando perfino le forbici per i famosi lavoretti, già alle medie imparano che saper usare le mani per fare cose complesse e precise non è poi così importante; e alla secondaria di secondo grado le attività manuali saranno del tutto assenti, a meno che lo studente non abbia scelto un indirizzo professionale o tecnico.

Lo studente liceale impara dunque, grazie al suo percorso scolastico, che la motricità fine non è poi così importante. Il mondo è pieno di intellettuali che si vantano quasi di non saper nemmeno fissare un chiodo al muro; perché mai dovrebbe essere un problema? La scrittura è, di fatto, l’unica cosa che la scuola chiede ancora allo studente di fare con le mani. Ma lo fa in un contesto che al contempo gli dà il messaggio costante che le mani non sono poi così importanti.

Peraltro, la scrittura in corsivo pare condannata anche da un altro aspetto che nella scuola è centrale: il prevalere di azioni razionali rispetto allo scopo, per dirla con Weber. La scuola favorisce il pensiero convergente, la soluzione più razionale, efficace ed economica ad un problema, oltre a stimolare con l’onnipresenza del voto perfino l’opportunismo. In un simile contesto, la scrittura in corsivo appare come una bizzarria. Un’attività antieconomica, sostanzialmente priva di senso, perché se l’obiettivo è trasformare il pensiero in parola scritta, si possono ottenere risultati migliori con strumenti più facili – anche perché un testo scritto a mano, se non è la lista della spesa, prima o poi andrà riscritto su una tastiera. Se si vuole salvare la scrittura a mano e in corsivo non basta, dunque, appellarsi alla sacralità della tradizione, né rivendicarne il valore formativo, se questo valore formativo è poi smentito da tutto ciò che si fa a scuola. Se l’educazione della mano è importante, allora dobbiamo ripensare il ruolo che in generale assegniamo alla manualità nel nostro sistema di istruzione, e non solo alla primaria, ma anche nel corso di studi più avanzato. Ci occorre una estetica del lavoro manuale che mostri agli studenti la bellezza, il valore e la dignità di qualsiasi lavoro manuale complesso, non solo di quello che tradizionalmente associamo all’attività intellettuale.

Foto di Ambitious Studio* – Rick Barrett su Unsplash

Articolo pubblicato su Educazione Aperta.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org