Lo stupro di una donna che ha bevuto

Valeria Di Napoli, aka Pulsatilla, ha avviato un blog su Substack, Regina di Spade, in cui tenta tra l’altro una narrazione diversa dei rapporti di genere. L’ultimo articolo tratta il tema delicatissimo dello stupro di una ragazza che ha bevuto (rispondendo a un articolo di Andrea Casadio su “Domani” che non ho avuto modo di leggere, non essendo abbonato a quel giornale). Lo fa in un modo che ritengo inaccettabile, per ragioni che proverò a spiegare facendone una analisi dettagliata; dovrò ricorrere dunque ad ampie citazioni del suo articolo, che naturalmente vi invito a leggere.

Pulsatilla esordisce così:

Nella narrazione e nella ricostruzione dello stupro, di qualsiasi stupro, trovo che vengano fatti degli errori sistematici di bidimensionalità: si mira a dividere i buoni dai cattivi invece di mettere l’accento sulle risorse evolutive delle donne che hanno subìto la violenza. Il discorso sullo stupro si risolve quasi sempre dicendo che lui era un carnefice e lei era una vittima, ergo lui va punito, lei va difesa. Mai, mi risulta, vengono forniti alla donna degli strumenti di protezione o di crescita. Gli unici strumenti che le vengono forniti sono quelli della denuncia.

Cos’è un discorso sullo stupro? L’espressione può includere diverse cose. In primo luogo la sua ricostruzione e narrazione giornalistica. Poi la narrazione che ne viene fatta in tribunale, che come sappiamo ha modalità spesso umilianti per la vittima. Infine la narrazione che ne fa la vittima stessa al di fuori del tribunale, nei casi in cui decida di farlo, ad esempio scrivendo lei stessa articoli o libri sulla sua esperienza.

Ora, mi sembra abbastanza evidente che nei primi due casi il compito di chi racconta non sia altro che quello di offrire alla vittima la verità su ciò che le è accaduto. Non è compito né dei giornalisti né dei giudici dire alla vittima come dovrà elaborare la sua esperienza, offrirle “strumenti di protezione e di crescita” o cose simili. Pensarlo è paternalismo. Un giornalista deve preoccuparsi della verità, un giudice della giustizia. Null’altro.

Prosegue dicendo che la distinzione tra carnefice e vittima appartiene a un mondo ideale. Nel mondo reale le cose vanno diversamente. E cioè:

La narrazione dello stupro racconta di una donna-agnello, di norma troppo buona, indifesa, ingenua e permissiva, che è finita tra le grinfie di un lupo senza scrupoli. Probabilmente è un racconto accurato: nel senso che nella maggior parte dei casi temo vada proprio così. Ti parlo, fra l’altro, non solo da donna, ma anche da vittima di abusi sessuali e da volontaria che ha lavorato con detenuti che hanno commesso reati contro le donne; conosco bene lo stato di “freeze” di cui parla l’articolo. È tra l’altro un codice di comportamento diffuso anche nel mondo animale: nella danza fra predatore e preda, il banchetto si consuma proprio nella concessione di alcuni segnali da parte della preda quando si rassegna a farsi mangiare. Dunque non metto neanche per un attimo in discussione le storie delle mie sorelle, né la malafede e spesso la malasorte degli uomini che perpetrano reati contro di loro.

Qui va segnalata intanto una fallacia, l’appello alla natura. Qualunque cosa accada nel mondo naturale tra preda e predatore, le donne non sono agnelli né una qualsiasi altra preda animale. Il problema del consenso al rapporto sessuale è propriamente culturale, così come tutto ciò che riguarda la nostra sessualità, che è ormai slegata dal fine riproduttivo.

È appena il caso di notare quanto sia pericoloso affermare che esistano dei “segnali” da parte della futura vittima che in qualche modo invitano l’aggressore a procedere. Va notata ancora, invece, la disonestà argomentativa: Pulsatilla fa appello alle sue sorelle e ai loro racconti, di cui però non è possibile sapere altro. Quand’anche confermassero la sua interpretazione, vorrebbe dire ben poco: per quante sorelle possa aver ascoltato, non saranno rappresentative di tutte le donne stuprate. E quand’anche tutte le donne stuprate dicessero ciò che Pulsatilla fa dir loro, una tale interpretazione potrebbe essere una conseguenza del trauma subito.

Continuiamo:

Quello che non mi funziona di questi processi giudiziari è il focus. Il punto, pare, è stabilire se il predatore fosse effettivamente un predatore. Era il figlio di Beppe Grillo un efferato predatore? Sì – ipotizziamo. Quindi? Quindi giustizia è stata fatta. Se questo da un lato può alleggerire i cuori, e magari – si spera – rendere le donne un po’ più consapevoli di vivere all’interno di un sistema oppressivo e di sfruttamento sessuale, dall’altro non risolve minimamente il problema, perché la foresta pullula di lupi dall’inizio dei tempi: credo sia davvero utopistico credere nella loro redenzione.

Dunque sappiamo che si riferisce non ai giornalisti, ma ai giudici. E tocca ribadire quanto detto. Il compito di un giudice è, appunto, di fare giustizia (e magari si potesse dire, ogni volta, che “giustizia è stata fatta”). Non è compito di un giudice né del sistema giudiziario occuparsi di come la vittima debba elaborare la propria esperienza. Questo sarà magari compito dell’assistenza psicologica, si spera qualificata e gratuita.

Intanto Pulsatilla incorre in un’altra fallacia, l’argumentum ad antiquitatem. Sull’“inizio dei tempi” a dire il vero non sappiamo molto. Conosciamo una manciata di migliaia di anni della nostra storia, e quelli più lontani da noi poco e male. E la cosa che salta agli occhi anche del più distratto degli osservatori è l’enorme variabilità delle nostre espressioni culturali. C’è ancora un appello alla natura nel ritenere utopistica la redenzione dei lupi-stupratori. Al netto del fatto che qui non si tratta propriamente di redimere qualcuno, per quanto si pensi male degli uomini essi non sono naturalmente stupratori; hanno atteggiamenti violenti se e quando il sistema culturale li favorisce e li tollera. E se l’eliminazione totale dello stupro è una meta sicuramente utopistica, così come utopistica, o meglio messianica è l’idea di una terra liberata dal male – ma supporre che sia questo che si vuole è, ancora, ricorrere allo straw man – la lotta allo stupro e alla cultura che lo sostiene resta un compito urgente che può realisticamente ridurre il numero di donne violentate.

Che fare dunque per Pulsatilla? Punite pure, dice; ma “la punizione non risolve il problema, né tanto meno è un atto femminista.” Sfugge perché dovrebbe essere un atto femminista, ma vediamo la soluzione:

Femminismo per me significa self-empowerment, e self-empowerment significa che la donna un tempo imbelle diventa saggia, occhiuta: sa dove e con chi ubriacarsi, sa che deve prendere un’altra strada quando vede un vicolo buio, sa che il mondo ideale non esiste, è (Dio mi perdoni se ogni tanto mi ritrovo a dover dare ragione alla Meloni) una ragazza “con la testa sulle spalle”. Avere la testa sulle spalle non significa permettere al predatore di fare quello che vuole: significa esattamente il contrario, significa riconoscere che un lupo è un lupo e sapersene difendere. Significa sviluppare dei sensori, rendersi autonome, scaltre, responsabili, disporre di strutture difensive vigili e scattanti. […] Dopotutto, Cappuccetto Rosso non è la storia di una donna: è la storia di una bambina. Una bambina che deve diventare donna, una bambina che si mette in pericolo per ingenuità, e lo fa affinché possa diventare donna.

Dopo aver evidenziato le fallacie di Pulsatilla vorrei evitare io di ricorrere allo straw man. Ma se qui non dice che, in fin dei conti, è colpa delle vittime, che potrebbero pur essere più attente, ci va molto vicina. Da femminista – sequento un suo femminismo – Pulsatilla ritiene che una donna non abbia il diritto che ha un uomo, di lasciarsi andare come e quando vuole, di rendersi anche vulnerabile senza che qualcuno ne approfitti. È una vittima ambulante in una società in cui è stata dichiarata una guerra contro di lei. Il lupo può star tranquillo. Avrà tutta la nostra comprensione, lo ringrazieremo perfino per aver incarnato così bene un archetipo e per aver aiutano l’ingenua bambina a diventare una donna. Magari una donna che, facendo tesoro della sua esperienza e di quella delle sue sorelle, scrive articoli simili.

Foto di Mika Baumeister su Unsplash

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org