Ancora sulla progettazione didattica condivisa

“Orizzonte Scuola” mi ha intervistato a proposito della mia proposta di progettazione didattica condivisa, anticipata in questo blog. Il titolo scelto – La classe che decide i contenuti da studiare, il metodo di lavoro e i criteri di valutazione: la proposta didattica condivisa – non ha favorito una discussione serena: sulla pagina Facebook i commenti sono stati per lo più scandalizzati: e sospetto che molti di quelli che hanno commentato non siano andati oltre il titolo.

Di seguito l’intervista.

Professore Vigilante, da dove viene questa proposta?

Da lontano: da quando, negli anni Novanta, mi capitò di incontrare in una cooperativa educativa di Cerignola – un contesto sociale difficilissimo – l’opera di Georges Lapassade, il padre dell’autogestione. Imparai lì che un’istituzione educativa può essere pensata come una comunità che si autogestisce, che stabilisce dialogicamente i fini, i mezzi, i tempi, che insieme analizza i problemi e cerca le soluzioni. A scuola ho trovato poi un ambiente in cui nulla di questo era possibile. Una istituzione rigida nei suoi rituali, in cui anche le relazioni umane erano – e sono – in qualche modo congelate. Sono convinto, come molti, che la scuola sia una istituzione in crisi.

A differenza di molti, però, ritengo che questa crisi non sia (o non sia solo) il risultato di questo o quell’intervento ministeriale, ma che sia la conseguenza di alcuni difetti d’origine. Prendendo in prestito un’espressione da Murray Bookchin, penso che si debba riflettere sul passaggio da una società povera a una società post scarcity. In una società povera, con un analfabetismo spaventoso, era forse inevitabile un setting trasmissivo. Ora – da più di qualche decennio, a dire il vero – non ha più alcun senso.

Non solo non favorisce l’apprendimento: lo ostacola. E favorisce, invece, quella che chiamo simulazione di apprendimento. Molto spesso un buon voto attesta semplicemente che lo studente ha fatto tutto il necessario per ottenere un buon voto. Non a caso le proposte didattiche più innovative trovano il più delle volte una opposizione ferma da parte degli studenti. Fin dalle elementari hanno imparato come fare per ottenere risultati più o meno certi e qualsiasi cambiamento in questa routine consolidata li manda in crisi.

La scuola è una folle e grottesca corsa al profitto, nella quale l’apprendimento diventa un mezzo, quasi un pretesto; ed è una corsa grottesca perché si tratta di un profitto di cui la società si fida sempre meno. Gli studenti fanno di tutto per ottenere dei voti, come se a scuola si trattasse di questo. Ma un otto in inglese per la società non conta granché. Nessuno metterebbe nel curriculum di avere una conoscenza scolastica dell’inglese. E’ da qui che parte la mia proposta. Ho bisogno che i miei studenti capiscano che centrale è l’apprendimento, non il voto. E credo che questo possano capirlo solo se non vivono più la scuola come pazienti, ma come attori responsabili.

Ma non è competenza del docente stabilire fini, metodi, forme di valutazione? Non è pericoloso dar voce agli studenti su questi aspetti?

Ti rispondo con le parole di Francesco De Bartolomeis, che è scomparso da poco. In La ricerca come antipedagogia – testo che cito anche nel documento di presentazione del progetto – scriveva che “una competenza invocata per giustificare l’indottrinamento, l’autorità indiscussa, la subordinazione, le decisioni dall’alto, la rigida predeterminazione di programmi e di piani di studio è fuori strada proprio sul terreno della competenza perché in flagrante disaccordo con la psicopedagogia dell’apprendimento che prevede un regime educativo in cui gli studenti siano protagonisti, facciano ricerche, prendano decisioni, mettano in campo i loro problemi, s’impegnino a risolverli, abbiano un loro spazio che non può coincidere con quello degli adulti” (Feltrinelli, Milano 1973, p. 32). In altri termini, un docente competente è in primo luogo competente in campo pedagogico e didattico. E se lo è, sa che il protagonismo e la responsabilizzazione degli studenti sono fondamentali per la qualità del loro apprendimento.

Qui però si va oltre il coinvolgimento degli studenti. Si propone loro di prendere in mano la loro formazione.

Con dei limiti. La progettazione didattica condivisa non è autogestione. Si parte dalla lettura attenta delle Indicazioni Ministeriali, ossia da ciò che ci si aspetta che si faccia in una classe quarta studiando filosofia. Non siamo un gruppo di persone che si incontrano liberamente per decidere liberamente cosa e come studiare, ma persone che cercano di ritagliarsi spazi di libertà in un contesto istituzionale.

Sembra centrale la questione dell’istituzione.

Anche questa è una cosa che viene da Lapassade, da Remi Hess e da tutta la corrente dell’analisi istituzionale. La nostra vita sociale avviene nell’ambito di istituzioni. Se viviamo queste istituzioni come fredde, estranee a noi, la nostra vita sociale è alienata. Credo che non ci siano molti dubbi sul fatto che questo sia il modo in cui i nostri studenti vivono la scuola. Alla radice del loro malessere c’è l’alienazione, e l’alienazione nasce dal non comprendere le ragioni di una istituzione le cui fondamenta sono state gettate quando la società era radicalmente diversa, e da allora non hanno subito alcuna vera trasformazione.

Si parla spesso del pensiero critico come fine della scuola. Ma non riesco a pensare un pensiero critico che non sia, in primo luogo, critica sociale. E poiché la società è fatta di istituzioni, la critica delle istituzioni è un aspetto fondamentale dello sviluppo di una personalità critica e consapevole. Non possiamo insegnare ai nostri studenti che la società può essere trasformata se non li coinvolgiamo, qui ed ora, in una trasformazione dal basso della stessa istituzione scolastica.

Foto di Brett Jordan su Unsplash.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org