Re-istituire la scuola

Gustav Igler, On the Eselbank

Ivana Margarese mi ha intervistato per “Morel. Voci dall’isola”. È il secondo tassello di una indagine sulla scuola avviata con una conversazione con Sabina Minuto.

Cosa significa per te essere un insegnante oggi?

Vuol dire porsi la domanda, in primo luogo. E vuol dire porsela insieme: ai propri studenti e ai propri colleghi. Cosa facciamo tutti, chiusi in un’aula, un giorno dopo l’altro? Perché veniamo qui? Perché stare in un’aula è meglio che star fuori a fare altro?
La scuola è immediatamente percepita come una cosa buona. Dove non c’è si esige che vi sia. Dove c’è delinquenza, dove c’è mafia, si propone di fare più scuola.
“La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”, diceva Gesualdo Bufalino. La scuola è un bene attraverso il quale ci si propone di combattere tutti o quasi i mali sociali.
Quando si mette piede in un’aula scolastica le cose appaiono in tutt’altra luce. Non c’è un mondo in ansiosa attesa della redenzione attraverso l’istruzione. C’è invece spesso un mondo che si ribella all’istruzione, rifiuta il ruolo del docente e non riconosce l’istituzione. Ed è quello che accade nelle aree cosiddette a rischio, nelle periferie, nei luoghi in cui si fanno più manifeste, e dolorose, le contraddizioni di una società nella quale le disuguaglianze sono venute crescendo negli anni, e non per qualche fatalità, ma per una precisa scelta politica.
Ma queste, certo, sono situazioni estreme. La normalità è un’altra. La normalità è trovare classi nelle quali gli studenti sono scolarizzati: riconoscono l’importanza della scuola, dello studio, dell’affermazione sociale, e dunque il ruolo del docente. Il quale però, se è appena attento, si accorgerà che l’istituzione piega e comprime spesso in quella condizione che Tolstoj chiamava “stato scolastico dell’anima” o, nella migliore delle ipotesi, fa adagiare lo studente in una sorta di meccanicismo che lo porta, da bravo operaio, a fare tutto ciò che il sistema richiede per conquistarsi la paga del voto.
Insomma: insegnare vuol dire fare i conti con la mancanza di senso. È evidente che la scuola, nonostante le aspettative che la società ancora ripone in essa, è una istituzione in crisi. Ma non lo è per qualche deviazione sociale che ci ha portati a non riconoscere più le buone cose di un tempo, come l’autorità del docente e il valore dello studio. Lo è perché è una istituzione che sconta antiche fragilità strutturali: prima fra tutte quella che le viene dall’essere fondata su relazioni verticali, e dunque inautentiche.
Insegnare con qualche consapevolezza vuol dire, oggi, sapersi fermare. Rendersi conto che il nonsenso, non tematizzato, cresce giorno dopo giorno e sfocia in un malessere sempre più profondo e sempre più difficile da affrontare. Un malessere che vediamo sui volti e nei corpi dei nostri studenti, ma che aleggia anche nelle sale docenti, si insinua nei discorsi preconfezionati tra colleghi, sboccia in un sospiro improvviso, eppure da tutti immediatamente compreso.
Come in una relazione malata è importante fermarsi a parlare della relazione, così a scuola è importante oggi fare metascuola: ragionare – ripeto: con gli studenti e i docenti; meglio ancora se tutti insieme – sulla scuola. Pensarla nuovamente insieme. Re-istituirla.

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La Folgore e lo spirito di corpo

Nell’estate del 2014  qualcuno ebbe l’infelice idea di postare su YouTube un video girato nella caserma “Bandini” di Siena, nel quale i parà della Folgore cantavano un certo inno che fa, tra l’altro, “Bombe a mano e carezze col pugnal”, esibendosi anche nel saluto romano. Libero riportava così la notizia:

Si sono ritrovati fuori dall’orario di servizio all’interno del piazzale della caserma “Bandini” di Siena, e si sono messi a cantare l’inno fascista “Se non ci conoscete“ con tanto di saluto romano facendosi riprendere da un telefonino. Ovviamente il video è finito su YouTube e poi è stato condiviso centinaia di volte sui social network provocando una marea di polemiche. Tanto che la bravata dei trenta Parà della Folgore è diventata un caso. Un caso sul quale lo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano ha aperto un’inchiesta interna che arriverà poi alla Procura Militare o civile. Alcuni passi del testo cantato: “Bandiere rosse per pulirsi il culo”, “botte in quantità”, “bombe a man e carezze col pugnal” e sul finale il saluto “A noi!”. Tutti chiari riferimenti al Ventennio che non sono sfuggiti ai vertici militari che non sono disposti a passare sopra.

Ho sentito da allora, a Siena, attentissime esegesi di quell’inno, in cui mi è capitato di imbattermi anche in contesti ben diversi da una caserma; esegesi che dicevano che no, quell’inno non ha nulla di fascista, si tratta solo di una virile esaltazione dello spirito di corpo, o qualcosa del genere. Esegesi che devono aver avuto qualche efficacia, se cinque anni dopo, il 21 marzo 2019, il sindaco De Mossi ha ritenuto opportuno, anzi doveroso concedere ai parà della Folgore la cittadinanza onoraria di Siena. In quella occasione l’assessore alla sicurezza dichiarò:

Siete a rappresentare un’eccellenza dell’esercito italiano; un esempio da seguire per le giovani generazioni, per i valori e i comportamenti che trasmettete. La Folgore ha al primo posto il senso del dovere, il servizio, servire l’Italia, sempre tenendo presente lo spirito di corpo, l’essere comunità.

Evidentemente quella canzoncina non era nemmeno una bravata, come scriveva Libero. Perché forse anche una semplice bravata avrebbe suggerito di evitare un passo importante come la concessione della cittadinanza onoraria. Continue reading “La Folgore e lo spirito di corpo”

Progettazione didattica condivisa

La scuola è una istituzione: che vuol dire, tra l’altro, un ambiente in cui si entra e si trova una routine già pronta. I docenti insegnano, gli studenti studiano. Nessuno mette in discussione come si insegna e come si studia.

Questa proposta, rivolta alla mia quarta del prossimo anno, prevede che all’inizio dell’anno scolastico ci si fermi per decidere insieme cosa studiare, come farlo e come valutare. Che si progetti insieme il lavoro, stabilendo insieme metodi, contenuti, pratiche.

Questa è una bozza. Ogni contributo critico è ben accetto.

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Bruciare i libri sacri

Papa Francesco si è detto disgustato per il rogo del Corano, avvenuto qualche giorno fa davanti alla principale moschea di Stoccolma durante una manifestazione autorizzata. “Qualsiasi libro considerato sacro dai suoi autori deve essere rispettato per rispetto dei suoi credenti, e la libertà di espressione non deve mai essere usata come scusa per disprezzare gli altri, e permettere questo va rifiutato e condannato”, ha dichiarato.

Consideriamo le due affermazioni. Partiamo dalla seconda: la libertà di espressione non deve mai essere usata come una scusa per disprezzare gli altri? Potrei essere d’accordo, ma non sono sicuro che papa Francesco abbia il diritto di fare una simile affermazione. L’istituzione di cui è il capo gode della massima libertà d’espressione, che usa per offendere e disprezzare una molteplicità di soggetti. Io convivo da tredici anni con una donna, che è anche la madre di mio figlio. Di noi il Catechismo della Chiesa di cui papa Francesco è capo dice quanto segue (par. 2390):

Si ha una libera unione quando l’uomo e la donna rifiutano di dare una forma giuridica e pubblica a un legame che implica l’intimità sessuale. L’espressione è fallace: che senso può avere una unione in cui le persone non si impegnano l’una nei confronti dell’altra, e manifestano in tal modo una mancanza di fiducia nell’altro, in se stessi o nell’avvenire? L’espressione abbraccia situazioni diverse: concubinato, rifiuto del matrimonio come tale, incapacità di legarsi con impegni a lungo termine. Tutte queste situazioni costituiscono un’offesa alla dignità del matrimonio; distruggono l’idea stessa della famiglia; indeboliscono il senso della fedeltà. Sono contrarie alla legge morale: l’atto sessuale deve avere posto esclusivamente nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un peccato grave ed esclude dalla comunione sacramentale.

Dunque per quest’uomo e l’istituzione che rappresenta io e la mia compagna siamo ancora, nel 2023, concubini (nel 1956 i coniugi Bellandi denunciarono il vescovo di Prato per averli definiti “pubblici peccatori e concubini”, dal momento che si erano sposati solo in Comune; il vescovo fu assolto), peccatori gravi, contrari alla legge morale. Non solo, per la Chiesa di cui papa Francesco è capo non costituiamo una vera famiglia e non abbiamo fiducia l’uno nell’altra e la nostra vita insieme rappresenta perfino una offesa alla famiglia. Non occorre sottolineare quanto tutto ciò sia offensivo e calunnioso. Ma non pretendo che la Chiesa cancelli questa parole. Credo nella libertà di espressione, con pochissimi limiti (razzismo, apologia del fascismo e poco altro).

Veniamo alla prima affermazione. Qualsiasi libro considerato sacro deve essere rispettato per rispetto dei suoi credenti. Questo vuol dire che i libri non sono tutti uguali e non sono tutti ugualmente degni di rispetto. I dialoghi di Platone, ad esempio, contano meno della Bibbia, perché non sono religiosi ed hanno solo lettori, non credenti. Il valore di un libro non è dato dal suo contenuto, ma dal suo status religioso. Ma questo vuol dire in generale attribuire all’esperienza religiosa un valore e un diritto al rispetto superiori riguardo ad altre esperienze. Se si considera giusta questa affermazione un credente potrà bruciare le opere di Voltaire o di Meslier (o magari di Onfray), mentre un non credente non potrà bruciare la Bibbia; perché le opere dell’ateismo e del libero pensiero hanno solo lettori, mentre i testi sacri hanno credenti. Continue reading “Bruciare i libri sacri”

Come insegnare filosofia

Prendete il manuale di filosofia. Apritelo. Toccate la carta. Saggiatene la consistenza. Si chiama grammatura. Ora fate una ricerca su quella carta. Che tipo di carta è, dove viene prodotta e come e quanto guadagnano gli operai che la producono.

Tornate al libro di testo. Guardate nel colophon dove è stato stampato. Non sapete cos’è un colophon? Ve lo dico io. Dopo però chiamate la tipografia e chiedete come viene stampato il libro. Le tecniche, i diversi compiti e quanto guadagnano gli operai.

Poi tornate al libro. Vedete che c’è un editore. Cercate informazioni sull’editore. Poi contattatelo. Chiedete come funziona il lavoro di un editore, chi fa cosa e quanto guadagna.

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Di cosa parliamo quando parliamo di burocrazia scolastica

Come tutti i docenti in questo periodo sono alle prese, oltre che con il complesso lavoro di valutazione finale, con la compilazione di un bel po’ di documenti, prime fra tutti le relazioni finali riguardanti il lavoro svolto con gli studenti. Documenti importanti, che servono a valutare il proprio lavoro, ad interrogarsi su cosa ha funzionato e cosa no, e su come si può migliorare, ma che per lo più vengono stilati seguendo modelli che richiedono il ricorso a crocette, mentre le parti testuali vengono risolte ricorrendo a formule più o meno stereotipate – più o meno copia-incollate – in puro didattichese.

Tra le altre carte quest’anno ho dovuto occuparmi di quelle relative alla mia attività di tutor di una docente immessa in ruolo. Ho osservato alcune sue lezioni, lei ha seguito le mie, e qualche lezione l’abbiamo fatta insieme. Alla fine ho scritto una relazione il più possibile onesta. Ma con il Signor Miur naturalmente non è possibile cavarsela così a buon mercato. Ed ecco dunque la meravigliosa scheda di osservazione approntata dal Ministero. Dieci pagine di crocette per ogni singola osservazione. Dieci pagine di crocette che, a volerle compilare in modo onesto, manderebbero in crisi chiunque. Perché, per cominciare con le Informazioni di contesto, cos’è uno studente straniero? Da cosa distinguo uno studente straniero da uno italiano? Lo studente filippino adottato da una famiglia italiana è straniero o italiano? La studentessa dalla pelle scura, ma nata in Italia, è straniera o italiana? E soprattutto: perché me lo chiedi? Perché dovrebbe avere qualsiasi rilevanza? Perché accomunare gli studenti stranieri agli studenti disabili?

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Il corto circuito

Una persona ferisce con un coltello – un’arma bianca, scrive un articolo che riprende l’italiano disarmante dei rapporti di polizia – un’altra persona. Ferite non gravi, roba da codice giallo. Una non notizia. Diventa notizia perché la persona ferita è una professoressa e l’aggressore è uno studente. E non diventa solo una notizia. Diventa una notizia in base alla quale è possibile trarre conclusioni generali sugli studenti di oggi, le loro famiglie e chissà quanto altro.

Il ministro si è affrettato a dire che nelle scuole serve lo psicologo. Una delle cose di cui fatico a capacitarmi è la fiducia che un Paese sfiduciato come il nostro ha ancora negli psicologi. Non ci fidiamo dei politici, non ci fidiamo dei docenti, non ci fidiamo dei preti, ma siamo assolutamente certi che persone che spesso si sono formate su concezioni non meno fantasiose di quelle che si insegnano in seminario possano risolvere tutto: sistemare la maglia strappata della nostra società, mettere a posto i cocci della nostra identità, ripescare la voglia di vivere dal baratro delle nostre quotidianità. Ed ecco dunque uno di loro – uno psicanalista!- dichiarare immancabilmente a Repubblica che “Siamo al corto circuito tra una scuola sempre più fragile e una famiglia che giustifica tutto”. Nell’occhiello si può leggere il corollario di questo luminoso teorema: “L’incapacità dei nostri ragazzi di elaborare le sconfitte può sfociare nella violenza”.

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La società delle persone

Vittorio Feltri ha scritto un tweet che contiene una delle cose più volgari che un essere umano possa dire a un altro essere umano.

Un tweet che con ogni probabilità non sarà rimosso, nonostante le molte prevedibili richiese. Perché le offese che vengono rimosse, su Twitter come su altri social, riguardano soprattutto (cito dal form di segnalazione di Twitter alla voce Attacchi per via della sua identità): “Offese, utilizzo intenzionale di un genere incorretto, stereotipi razziali o sessisti, incitamento di terzi a molestare oppure immagini d’odio”. Riguardano, cioè, soprattutto l’identità sessuale e razziale.

La morte è l’esperienza più nostra, più propria. O meglio: non la morte in sé, sulla quale in fondo aveva ragione Epicuro: quando c’è, noi non ci siamo. Ma la mortalità. L’esperienza di avere la morte come orizzonte vicino. Colui che sa di essere condannato a morte vive una esperienza che lo separa in modo irrimediabile da chiunque altro. Non è un caso che per filosofi come Michelstaedter e Heidegger quella esperienza sia la porta d’accesso alla autenticità.

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L’audacia e il coraggio

I miei studenti di terza si sono classificati secondi alla finale nazionale del torneo “Dire e contraddire” del Consiglio Nazionale Forense. Un torneo di Debate nel quale si trattava di sostenere una tesi contro l’avversario, indipendentemente dal fatto di ritenerla vera o falsa.

Ho scritto qui cosa penso del Debate, e non tornerò sul tema. Qualcosa voglio dire, però, sul tema di discussione della finale. Si trattava di essere a favore o contrari riguardo alla seguente affermazione di Nelson Mandela:

L’uomo audace non è colui che non ha paura, ma quello che vince la paura.

Ai miei studenti toccava il compito ingrato di essere contrari a questa affermazione. Ingrato, perché è ben evidente che la paura è una cosa negativa, una passione triste, e che vincerla è gran cosa. E c’è tutto un esercito di grandi uomini e di grandi donne da chiamare come testimoni: lo stesso Mandela, Falcone e Borsellino, Franca Viola: eccetera.

Siamo tutti d’accordo che vincere la paura sia una gran cosa. Ma l’audacia? Bisogna vincere la paura nella direzione dell’audacia? Cos’è l’audacia? Audere è compiere un’azione azzardata, con una sfumatura di tracotanza, di hybris. È un termine che appartiene al linguaggio militare; anzi: alla retorica militare. Memento audere sempre è motto dannunziano, e l’acronimo era un omaggio al motoscafo armato silurante (MAS). È con la retorica dell’audacia, dell’osare, dell’impresa azzardata ma eroica che da secoli si mandano i soldati a morire in nome di una causa più grande. E certo, bisogna vincere la paura. Dove non arriva la retorica, funzionano le droghe, di cui s’è fatto largo uso durante la seconda guerra mondiale.

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Cosa resta della Conoscenza

Dopo aver letto il mio post precedente un amico mi ha chiesto su quale base si possano credere cose simili. Come sappiamo che il fondo della realtà è l’Uno? Come sappiamo che dietro il manifestarsi delle cose c’è la Natura? E come sappiamo che dietro il nostro io c’è lo Spirito?

Il Samkhya, il più antico sistema filosofico indiano, risponde che lo sappiamo attraverso la conoscenza analitica del reale. Il testo fondante della scuola, il Samkhyakarika di Ishvarakrishna, si sofferma sul valore dell’inferenza, che insieme alla testimonianza dei sensi e alla rivelazione degna di fede di consente di conoscere l’essenza della realtà. Non sono sicuro però della solidità di tutti i passaggi logici – così come non sono sicuro della solidità dei passaggi logici che portano Platone ad affermare l’esistenza dell’Idea come realtà iperurania. Continue reading “Cosa resta della Conoscenza”

L’importanza di essere ignoranti

L0027331 MS Indic 37, Isa upanisad. Credit: Wellcome Library, London. Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0

Quand’ero adolescente raggiunsi la Conoscenza. Bastano poche parole per dirla. Noi non siamo il nostro io e la nostra mente, così come non siamo il nostro corpo. C’è un fondo, un al di là di quello che crediamo di essere, che è la nostra natura autentica. Attingere questo al di là è lo scopo della vita. E questo al di là è, al tempo stesso, il fondo dell’essere, che potremmo chiamare Dio. E questo fondo è Uno. La profonda unità di tutto. Limai una medaglietta, vi scrissi “Tutto è uno” e me la misi al collo. Non avevo altro da sapere.

Giunsi a questa Conoscenza dopo aver letto un po’ di testi di filosofia indiana. Stabilirmi, almeno con l’immaginazione, in questo altrove da me mi dava un senso di liberazione che rendeva quasi tollerabile il tempo sprecato a vegetare tra i banchi. Ma, anche, mi isolava terribilmente. Perché io ero quello che sapeva, gli altri vagavano nell’ignoranza. Mi rese, insomma, insopportabilmente arrogante.

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Come fare un blog di insuccesso

Questo blog esiste ormai da molti anni ed è riuscito nel tempo a mantenere un numero di visitatori meravigliosamente basso: in media meno di dieci al giorno. Uno di questi sparuti visitatori qualche giorno fa mi ha fatto notare che il mio blog non è più quello di una volta: troppe cose tecniche e poca poesia. Il nostro lettore è deluso, e questo vuol dire che probabilmente il numero di visitatori diminuirà ulteriormente. Attendo con ansia il giorno in cui il contatore dei visitatori sarà stabile sullo zero. E il mio blog avrà raggiunto la sua entelechia.
Intanto, forte di questa esperienza, sento di poter offrire una guida minima alla creazione di un blog di insuccesso. Continue reading “Come fare un blog di insuccesso”

Siena e i fronteggiamenti

Non ho mai amato andare dal barbiere. Vuol dire stare davanti a uno specchio per molto tempo, e per me gli specchi sono una tortura. Da ragazzino attenuavo l’ansia andando da Franco, il barbiere all’angolo, che era quasi uno di famiglia. E quasi uno di famiglia era Adolfo, il suo garzone di bottega. Abitava proprio di fronte a casa mia ed eravamo cresciuti insieme.

Adolfo è morto a vent’anni. La sua fidanzatina gli riferì un giorno che un tale l’aveva infastidita. Lui fissò un appuntamento con il tale e, come chiedeva la cultura del luogo, si presero a botte. Fu colpito da un pugno in un occhio. Perse i sensi. Morì qualche ora dopo in ospedale. Per quello che ne so sua madre – sono passati decenni – veste ancora di nero.

A Siena una sentenza che i giornali definiscono storica ha assolto ventisette contradaioli per la rissa in piazza alla fine del Palio di agosto del 2015; altri tre contradaioli sono stati condannati a multe dai seicento euro in giù. Non è possibile conoscere la motivazione della sentenza, che sarà depositata tra novanta giorni. Ma intanto i senesi – o meglio: i contradaioli – esultano. Sicuri che quella sentenza avalli il loro teorema: quelle in piazza durante il palio non sono volgari risse, ma nobilissimi fronteggiamenti, che fanno parte della cultura e dell’identità senese, e che come tali sono incensurabili; e processare dei contradaioli che si picchiano vuol dire, pertanto, attaccare Siena. Continue reading “Siena e i fronteggiamenti”

Potere, autorità e autorialità

Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Scrive Cognetti:

Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)

La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).

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Peppe Sini, la nonviolenza e l’anello debole

Peppe Sini replica al mio La nonviolenza si è fermata, su “MicroMega”, protestando. Nel mio articolo ho scritto che lui, Sini, nell’intervento che ho preso in esame e da cui sono partito per ragionare della nonviolenza italiana, “evita accuratamente di parlare di Putin”. No, protesta Sini, questo non è vero. Perché già nella terza riga ha scritto che occorre “continuare a denunciare la criminale follia di chi la guerra ha scatenato”. Il problema è, appunto, che parla di chi la guerra ha scatenato, ma non fa il nome di Putin. Come se solo nominarlo fosse difficile. Mentre poco dopo dice:

Con l’azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di mettere il veto ad ogni iniziativa della Nato, l’organizzazione terrorista e stragista di cui i nostri paesi tragicamente fanno parte: paralizzare immediatamente i criminali della Nato occorre, e successivamente procedere allo scioglimento della scellerata organizzazione.

La Nato dunque è scellerata, terrorista e stragista. Perché mai un lettore non dovrebbe pensare che è questa organizzazione criminale, nell’analisi di Sini, ad aver scatenato la guerra?

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Quel che resta della nonviolenza

Su MicroMega intervengo ancora sulle posizioni della nonviolenza italiana di fronte alla guerra in Ucraina. E mi chiedo intanto che fare della nonviolenza. Che fare, cioè, di oltre vent’anni di studi e, forse, di passione.

La mia porta d’accesso a ciò che chiamiamo nonviolenza è stato Aldo Capitini. Era l’inizio degli anni Novanta. Trovai per la prima volta il suo nome in un numero di una rivista dedicato agli irregolari della filosofia italiana in cui cercavo un articolo su Giuseppe Rensi. Filosoficamente, mi pare che Capitini cominci in effetti dove finisce Rensi. Il filosofo genovese giunge al dramma del contrasto tra la nostra urgenza morale e l’evidenza di un mondo che non è che atomi e vuoto; di qui la semplice constatazione del suo Testamento filosofico (“Atomi e vuoto e il Divino in me”), ma anche l’ipotesi azzardata della Morale come pazzia: se c’è qualcosa là fuori oltre agli atomi e al vuoto, allora la mia urgenza morale non sarà stata follia. Una conclusione che mi sembrò – e mi sembra – un passo indietro rispetto alla posizione, atea eppure spirituale, delle Lettere spirituali: posizione di attraversamento dell’ego, che è la costante del pensiero di Rensi. Capitini risolve quel contrasto nell’orizzonte di una filosofia pratica. Non è tutto atomi e vuoto. C’è dell’altro: c’è la compresenza, un mondo in cui ogni vita resta, in eterna, affratellata ad ogni altra vita. Ma – è qui l’originalità di Capitini, ma anche ciò che l’ha condannato all’incomprensione – questo mondo propriamente non esiste. Non è tra le cose verificabili, semplicemente presenti; non è una realtà metafisica, un mondo al di sopra del nostro in cui credere; e non è nemmeno una dimensione futura, un Regno che certamente si realizzerà. È il mondo al quale qui e ora apparteniamo con la scelta morale di non uccidere, anzi con l’atto rivoluzionario di ribellarci alla logica stessa del reale, che è quella della distruzione universale.

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La miseria di essere Sua Santità

La bizzarra – no: disgustosa – uscita del Dalai Lama, che chiede a un bambino di succhiargli la lingua dopo averlo baciato, può apparire come l’evidente manifestazione del decadimento mentale di un uomo in età particolarmente avanzata o la dimostrazione che una certa corruzione morale esiste anche nel buddhismo, che da noi, chissà perché, gode di buona stampa. Non così per i fedeli italiani, che essendo dei convertiti hanno, dei convertiti, lo zelo e il fanatismo (ah, Papini!). Uno di questi spiegava su un social che il Dalai Lama, bontà sua, è come un bambino, e quel gesto va dunque considerato nulla più che un gioco infantile. Infantile: e dunque innocente. Forse perfino poetico.

M’è tornato in mente, leggendo questa libera interpretazione, un passo del Vangelo di Sri Ramakrishna:

I segni di chi ha visto Dio sono questi: Il suo comportamento è come quello di un bambino. A volte appare come uno spirito impuro. (Il Vangelo di Sri Ramakrishna, Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 122.)

Il nostro Dalai Lama, benché privo di Dio, non sarà per caso uno di questi santi folli, di questi uomini che, avendo oltrepassato l’io, si sono lasciati alle spalle la distinzione tra il bene e il male? Può essere. Ma a farne le spese è stato un bambino, e questo, per noi che siamo al di qua, è un male.

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L’educazione finanziaria

Su MicroMega Emilio Carnevali, docente di economia alla Northumbria University, ha avviato una discussione sulla necessità di introdurre in tutte le scuole superiori italiane l’insegnamento di Lineamenti di economia e finanza quale strumento indispensabile per esercitare una vera cittadinanza democratica. Carlo Scognamiglio è intervenuto presentando alcune perplessità. Sostenendo pienamente la proposta di Carnevali, io invece ho ragionato un po’ sulle resistenza verso una simile proposta, che va ricondotta, mi pare, a tre limiti culturali della scuola italiana: l’opposizione tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico; la contrapposizione ulteriore, legata alla prima, tra saperi disinteressati e saperi pratici, in quanto tali inferiori; e la contrapposizione, quasi religiosa, tra la scuola e il mondo. Questi tre pregiudizi rendono improbabile una apertura della scuola italiana a un campo del sapere che appare al tempo stesso tecnico-scientifico, pratico e mondano.

Due libri di Milo De Angelis

Il De Rerum Natura di Lucrezio tradotto da Milo De Angelis (Mondadori, Milano 2022), uno dei maggiori poeti italiani, era da tempo nell’elenco dei libri da leggere. È arrivato ora il suo tempo, insieme alla traduzione dei primi quattro libri del poema di Roberto Herlitzka (La nave di Tesero, Milano 2019). Quest’ultima è un’operazione singolare: un Lucrezio non solo tradotto in endecasillabi (come nella classica traduzione di Alessandro Marchetti), ma reso con un linguaggio anacronistico, bisognoso a sua volte, si direbbe, di traduzione. Per averne un saggio:

Ora io debbo precorrere a quella
che fingne altrui percossa in tal dettame
anzi che da ’l mio vero ti disvella. (I, 502-504)

La traduzione di De Angelis è agli antipodi. La sua lingua è chiarissima, elegante, piana. Lucrezio è reso leggibile come capita in poche altre edizioni italiane. Ma appare una traduzione più in prosa che in poesia. I versi sono talmente lunghi, da costringere il povero impaginatore della Mondadori a fare salti mortali con la crenatura. Continue reading “Due libri di Milo De Angelis”

La scuola è antifascista?

“La scuola è antifascista”, certo. Ma orienta le donne verso alcuni indirizzi e i poveri verso altri, e ritiene che alcuni saperi siano più importanti di altri. E questa è l’eredità del fascismo.

Qualche settimana fa in una mia classe abbiamo fatto un seminario sulla libertà. Cos’è la libertà? Cosa vuol dire essere liberi? Abbiamo cominciato con molte certezze, ci siamo lasciati con tanti dubbi. La libertà di movimento, ad esempio, è una libertà fondamentale, e non si può considerare libera una persona cui sia negata. Ma in un regime chi è più libero, chi ha libertà di movimento perché si adegua o chi finisce in galera perché combatte il regime? Chi era più libero, Gramsci in carcere o uno dei tanti italiani che avevano la tessera del PNF per necessità familiare? È una domanda retorica. Meno retorica è un’altra domanda. La libertà di fare del male è o non è una libertà? Va difesa? Sì può negare la libertà per garantire la sicurezza? Ma poi, alla fine, siamo in grado di dare davvero una definizione di libertà?

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Denise e la ziganofobia

Ancora una volta si preleva il dna ad una ragazza rom nell’ambito delle indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone. Sulla base di un inaccettabile pregiudizio.

Denisa e Denise sono due nomi molto simili. Questa è un’evidenza. I Rom rubano i bambini. Anche questa è un’evidenza. Sulla base di queste due evidenze gli inquirenti che indagano sulla scomparsa di Denise Pipitone stanno seguendo da anni la pista rom.

Nel 2021 venne sottoposta al test del dna una ragazza rom di nome, appunto, Denisa, che viveva in un campo in Calabria. Il risultato fu negativo. Ora hanno scovato un’altra Denisa, questa volta in un campo di Roma, e l’hanno ugualmente sottoposta a test del dna. I cui risultati sono in grado di anticipare con assoluta certezza: negativi.

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Un anno di guerra

Un anno dopo l’inizio della guerra in Ucraina sono evidenti la catastrofe della Russia e la bancarotta del pacifismo.

Un anno di guerra contro l’Ucraina. Trecentosessantacinque giorni di stragi, distruzioni, sequestri di bambini ed altre atrocità. Un anno insanguinato per l’Europa e il mondo. Più di un secolo indietro per la Russia. Perché il danno che criminali come Putin e Kirill stanno facendo alla Russia è di gran lunga maggiore del danno che stanno facendo all’Ucraina.

Più di cento anni indietro. L’impressione è che la Russia, non riuscendo a fare i conti con il suo passato comunista, abbia deciso semplicemente di rimuoverlo. E di tornare, dunque, a quello che c’era prima. Seguendo il dibattito attuale in Russia – che ha, soprattutto nelle televisioni, tratti di vera e propria follia di massa – l’impressione è di ritrovarsi catapultati nella Russia di Dostoevskij. E di sentir parlare il suo idiota, quel principe Myskin che affermava: ’Bisogna che il nostro Cristo risplenda a difesa contro l’Occidente, un Cristo che noi abbiamo conservato e che loro non conoscono!” Il Cristianesimo ortodosso, la santità e la purezza della Russia contrapposti spiritualmente alla corruzione che viene dall’Occidente. Una spiritualità che naturalmente è destinata a degenerare nella più atroce violenza. Continue reading “Un anno di guerra”

Sanremo e il monologo impossibile

C’è un monologo che è impossibile, sul palco dell’Ariston, una differenza che non può essere socialmente riconosciuta.

sanremo 2023 monologo chiara francini
Chiara Francini a Sanremo

Qualche giorno fa parlavo, in una delle mie quinte, della globalizzazione. Degli aspetti oscuri della globalizzazione: la finanziarizzazione dell’economia, la delocalizzazione, la precarizzazione, lo sfruttamento globale. E dicevo che se c’è una lotta che identifica la mia generazione, è la lotta contro quella globalizzazione. Una lotta che abbiamo perso a Genova.

E ho chiesto loro quale sia, nella loro percezione, la lotta della loro generazione. Ci hanno pensato un attimo, poi hanno risposto senza tentennamenti: la lotta contro il razzismo e l’omofobia. Una lotta importante, in effetti. Faccio notare che sono stati fatti molti passi avanti. Obiettano che non è abbastanza. Hanno ragione.

Non ho visto Sanremo. Affermazione che equivale oggi ad una dichiarazione di snobismo, che forse riuscirò ad attenuare precisando che ho un figlio di poco più di un anno, e per lo più si arriva a sera con una stanchezza che non si concilia troppo con gli orari di Sanremo. I giornali e i social network hanno avuto però la premura di informarmi su tutto quello che è accaduto a Sanremo. Un cantante ha preso a calci delle rose, in un impeto di rabbia che forse era preparato e forse no; un altro cantante ha baciato sulla bocca, con un certo trasporto, un tale davanti a sua moglie; la moglie di questo tale ha tenuto un monologo durante il quale ha parlato della sua sensazione passata di non essere abbastanza. E non è stata l’unica a tenere un monologo: una campionessa sportiva dalla pelle nera ha parlato della sua condizione di donna che è cresciuta sentendosi diversa, mentre un’attrice ha parlato delle donne che non sono madri. Continue reading “Sanremo e il monologo impossibile”

Gianni Vattimo e gli avvoltoi

Il tribunale di Torino ha condannato per circonvenzione di incapace Simone Caminada, compagno del filosofo Gianni Vattimo. Ora, dichiarare incapace di intendere un filosofo significa, con ogni evidenza, decretarne la morte intellettuale: perché un filosofo incapace di intendere è un filosofo morto. Non ho però informazioni che mi consentano di criticare la decisione dei giudici. Spero solo che su di essa non abbia pesato qualche pregiudizio gerontofobo o, peggio, omofobo.

La vicenda mi ha fatto tornare alla memoria una cosa. Dopo la laurea lavorai, tra le altre cose, come segretario di uno scrittore e filosofo che aveva esattamente l’età che ha oggi Vattimo. Fragile, certo: perché era anche cieco. Dipendeva totalmente dalle persone che si prendevano cura di lui: il ragazzo che gli sbrigava tutte le faccende, la cuoca, chi restava a dormire con lui. E io, che gli leggevo libri e giornali e lo aiutavo a scrivere. Nessuno, per quello che ne so, ha tentato di raggirarlo. Tutti, piuttosto, sopportavano pazientemente le sue sfuriate: perché il filosofo non aveva un carattere facile.

Una mattina lo trovai agitato. Aveva appena cacciato qualcuno di casa, mi dissero. E fu lui stesso a spiegarmi la cosa. Erano venuti dei tali di non so quale ente religioso. Gli avevano fatto presente che la morte incombe su di tutti, e a ottantasette anni incombe parecchio, e bello sarebbe lasciare questo mondo compiendo un’opera meritoria. Opera che potrebbe consistere, ad esempio, nell’intestare tutti i propri beni ad un ente religioso come il loro. Avvoltoi, li chiamò il vecchio, lucidissimo filosofo. E mi spiegò che non erano i primi e non sarebbero stati gli ultimi.

Scoprii così che esiste un piccolo esercito di emissari benefici che prendono d’assalto anziani più o meno soli e più o meno facoltosi con l’intento di convincerli a fare quest’ultima opera di bene, alleggerendo la coscienza e il patrimonio. E non sono a conoscenza di giudici che abbiano decretato, in casi simili, che c’è stata circonvenzione di incapace, facendo leva sulla solitudine, sulla fragilità legata all’età e sulla paura della morte.

Come amore confonde i sentieri

Mi nascondevo in fondo alla mia casa
in fondo alla mia casa a pianoterra
in fondo alla cucina in cui dormivo
insieme a mio fratello e mia sorella
mi nascondevo e guardavo la porta
col cuore che batteva che batteva
e gli dicevo mio cuore ti prego
non battere così ci troverà
ma giungeva il rumore ed era come
se il mondo sospendesse il suo respiro
e m’inghiottisse giù con quella mano
orribile che apriva la finestra
e mi prendeva in fondo alla cucina
e più non ero me più non avevo
un posto al mondo in cui dire io sono
o pronunciare la parola ancora
o pronunciare la parola madre
nel buio stavo solo con me stesso
preso da quella mano che era mia.

Una volta mi presero – ero ancora
in fondo alla mia casa a pianoterra –
e mi portarono in un altro fondo
una caverna questa volta: ed umida
e mi tennero lì per qualche tempo
finché qualcuno più attento degli altri
prese ago e filo e mi cucì le palpebre.

Mi piaceva la vita con le palpebre
cucite avevo un mondo dentro me
ed era meglio di via Tiro a Segno
crescevano giganti i tulipani
e i soldati crociati li coglievano
e tornavano a casa raccontando
di come amore confonde i sentieri
e riconduce ogni cosa all’origine.

I fantasmi di Alfredo Cospito

La “via immaginifica alla distruzione dell’esistente” di Alfredo Cospito e della Federazione Anarchica Informale è pura, masturbatoria esaltazione della violenza.

Dirò subito quello che penso della questione del 41 bis. Poiché è ormai evidente che Alfredo Cospito non chiede di essere sottratto personalmente al 41 bis, ma digiuna per ottenerne l’abolizione, la questione è se la sua richiesta, la sua lotta, sia giusta o meno. E a me la risposta appare chiara: il 41 bis non è compatibile con la democrazia. Nessun essere umano può essere sottoposto a quella forma di carcerazione senza che se ne violi la dignità. Continue reading “I fantasmi di Alfredo Cospito”

Il dovere di essere transculturali

I grandi capolavori del pensiero (e della poesia, della letteratura, dell’arte) appartengono all’umanità ed hanno uno straordinario valore formativo. Per questo abbiamo il dovere di farli conoscere agli studenti.

Nell’ultimo numero di “Educazione Aperta” è uscito un mio saggio piuttosto lungo su perché e come inserire il pensiero cinese nella didattica della filosofia. È un tema, quella della didattica comparata e transculturale della filosofia, di cui mi sono occupato in un altro saggio comparso sulla stessa rivista; mi piacerebbe raccogliere i due saggi in volume, integrandoli con uno studio sulla didattica della filosofia indiana. Sto intanto lavorando a un sito – Monimos. Mondi filosofici – con il quale intendo offrire con licenza aperta materiali per una simile didattica non eurocentrica.

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Gli oscuri intenti di Bernardo Zannoni

Una faina. La vita di una faina. Un romanzo sulla vita di una faina. E non un romanzo qualsiasi: un romanzo che ha vinto il Campiello.

Come si racconta la vita di una faina? Bisognerà provare ad essere una faina. Chiedersi cos’è essere un animale. Qualcosa alla Uexküll, ma con in più il talento del narratore. Bello!

Questo pensavo, più o meno, apprestandomi alla lettura di I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni (Sellerio, Palermo 2021), con le migliori aspettative: sia perché, appunto, ha vinto il Campiello, sia perché se ne dice un gran bene.

Mi trovo subito alle prese con una faina che si chiama Archy. Perché Archy? Sarà perché le faine vivono negli Stati Uniti? Ma no. Il loro habitat è europeo e mediorientale. La nostra faina avrebbe più realisticamente potuto chiamarsi Peppino. Ma soprattutto: che faina è una faina che ha un nome? Per giunta parla. E dorme in un letto. Gli animali di Zannoni hanno il comodino e la lampada, e quando occorre chiamano il medico: e dunque no, niente Uexkül. Nessuno sforzo di essere una faina. Ma nemmeno ci si muove in un mondo disneyano: la cosa diventa chiara oltre ogni possibilità di equivoco quando la mamma di Archy fa saltare un occhio alla sorella con una zampata. Continue reading “Gli oscuri intenti di Bernardo Zannoni”

L’arte dei piaceri

Esistono due forme di piacere: il piacere dei cercatori di piacere e il piacere dei negatori del piacere. Il piacere dei primi è quello dell’acqua e del vino, del cibo e della musica, della lettura e del pensiero. I negatori del piacere hanno qualcosa di più alto, in genere qualche forma di dovere, e in nome di questo più alto negano, sdegnati, i piaceri. Il piacere in questo caso non è estetico, legato alla sensazione, ma nasce dalla percezione di sé in rapporto all’altro. Il negatore del piacere qui ed ora trae il suo piacere dal sentire di avere un posto nella società, o nel cosmo, perfino; di essere un soggetto riconosciuto. Per ottenere questo piacere più alto, o preteso tale, il nostro soggetto deve farsi seduttore: dell’altro o di Dio stesso. Può godere di sé solo nella misura in cui l’altro cede alla sua seduzione. E quando ciò riesce, potrà riposare nel suo io come in un nido. E godere di questo. Continue reading “L’arte dei piaceri”

ChatGPT e la pulizia del water

Il meritevole ministro dell’Istruzione e del merito, chiamato ad esprimersi su chatGPT, evita la condanna secca e riconosce che “Può essere impiegata per aiutare gli insegnanti a personalizzare l’apprendimento, ad adattare i contenuti in base alle attitudini individuali degli studenti, a monitorare i loro progressi e a fornire informazioni su come migliorare il loro rendimento”, pur aggiungendo che “L’intelligenza artificiale non può dunque soppiantare l’insegnante né marginalizzarne il ruolo, che è decisivo in tutti i gradi di scuola, in particolare nella primaria”. È singolare il modo in cui i giornali hanno riportato la notizia: alcuni hanno enfatizzato la prima parte, altri la seconda; per alcuni Valditara dice sì all’intelligenza artificiale, per altri afferma soprattutto che il docente è insostituibile.

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