Dove comincia il mondo nuovo

Dove comincia il mondo nuovo, amico,
si scavano le vene della vita
di domani, e si vuole si decide
per ognuno giustizia e compiutezza

lo indovini, lo so: non è nel centro
dove ricchezza eleva verso il cielo
l’uomo televisivo ultimo mostro
senz’occhi senza lingua senza sangue.

E’ dove l’esistenza si contorce
– nella Sicilia di Danilo gli uomini
erano legno antico e sofferente –
che qualcuno ha l’ardore di colpire

la terra reclamandone speranza:
e la terra risponde e nuovi umori
soccorrono e ciascuno si rianima
le schiene si raddrizzano le mani

si stringono la voce si schiarisce
e l’uomo dice “io” e dice “tu”
come si dice il bello delle cose:
e quando dice “noi” non c’è violenza.

Il groviglio di Piazza Mercato

Foto ripresa dal sito www.ispastrutture.it
Tra le ragioni per le quali la vita è un groviglio c’è il fatto che le ciambelle raramente riescono col buco. Il che vuol dire che c’è uno scarto tra il progetto e la sua esecuzione, tra l’idea e la sua concretizzazione, tra quel che si vorrebbe fare – spesso con le migliori intenzioni – e quello che si riesce davvero a fare.
Una ciambella penosamente malriuscita è stato l’incontro di domenica mattina tra il sindaco ed i cittadini per discutere del futuro di Piazza Mercato. Nelle intenzioni del sindaco doveva essere un bel momento di democrazia partecipata: cosa rara di questi tempi, rarissima a Foggia, e quanto mai opportuna in campagna elettorale. Ne ė venuta fuori invece una gazzarra delle peggiori, che ha messo a dura prova la flemma mongelliana: a un certo punto ha dovuto far la voce grossa (per quanto sia possibile far la vice grossa a Mongelli) per imporre ordine e disciplina.
Le contestazioni più dure sono state per l’ex assessore Maria Rosaria Lo Muzio, che ha preso la parola per ricordare che quella piazza oggi tanto contestata quando era ancora un progetto venne apprezzata in una mostra a Bruxelles e inserita dalla Fondazione Agnelli tra trenta opere di grandi architetti italiani. Dal pubblico la interrompono: “Ci vuole un coraggio… No, fa schifo questa piazza”. Eppure non aveva tutti i torti, l’ex assessore. La piazza progettata e la piazza realizzata, quello che doveva essere e quello che è stata ed è, sono due cose diverse. Ancora una volta lo scarto, il groviglio. Nelle intenzioni di chi l’ha progettata, quella piazza doveva essere un centro di aggregazione sociale, ospitare iniziative culturali, diventare uno dei luoghi più vivi del cuore storico della città. Se è andata diversamente, la responsabilità non è di chi l’ha progettata, ma di chi non è riuscito a farla funzionare. E’ molto triste, ed è un indice del degrado civile e non solo politico della città, che non si riesca a Foggia a far funzionare uno spazio culturale (si pensi, oltre a Piazza Mercato, all’abbandono delle strutture di parco San Felice), mentre a Manfredonia con i fondi della Regione hanno trasformato il mercato del pesce in un laboratorio culturale che, affidato ad una cooperativa, ospita ogni giorno concerti, corsi di musica, mostre d’arte, convegni e conferenze.

Oggi si vorrebbero abbattere le contestate strutture metalliche della piazza – il “trenino” – e lasciare solo la pavimentazione. Anche qui rischia di esserci uno scarto, e tra i peggiori, tra il progetto e la sua realizzazione. Perché il dato più impressionante che è emerso dall’incontro di domenica è l’altissimo malessere della gente di quel quartiere, di quel centro storico che è diventato, dicono, terra di nessuno. Il timore, fondato, è che, liberata dalle strutture metalliche, quella piazza finisca per diventare un buco nero nel bel mezzo del centro storico, un pisciatoio e vomitatoio a due passi dalla cattedrale.
All’incontro di domenica mattina è intervenuta anche una ragazza dai capelli rossi. Il problema del centro storico non si risolve, ha detto, facendo le multe, ma dando ai giovani degli spazi, perché quello che accade è sintomo di un disagio. Il sindaco s’è detto d’accordo: “Ci vogliono le multe, ma ci vogliono anche altre cose”. Quali altre cose? E’ una domanda difficile, ed è proprio dal modo in cui riesce a rispondere ad una domanda del genere che si può valutare l’operato di una amministrazione. E’ certo che con l’amministrazione Mongelli sono mancate sia le multe che le “altre cose”. E indubbiamente smantellare una struttura che doveva essere uno spazio culturale, invece di lavorare per ripristinarla e farla funzionare, mettendo a tacere gli opposti egoismi, appare come una sconfitta della politica delle “altre cose”.
Articolo per Stato Quotidiano.

Perché i ravanelli sì?

Francesco Pullia segnala questo articolo di Claudio Sabelli Fioretti su Io Donna, che presenta una obiezione non infrequente al vegetarianesimo/veganesimo: perché mangiare i vegetali non sarebbe violenza? Ricordo di aver scritto un post sul tema quasi dieci anni fa sul mio vecchio blog, Minimo Karma. Blog che non è più accessibile per l’improvvisa chiusura del server. Grazie a Web Archive sono riuscito a recuperare il post, che ripropongo, dal momento che la mia posizione sull’argomento non è cambiata.


Una sera mi trovavo a casa di un amico molto morale, ecologico, vegetariano e nonviolento: mi stava preparando una cena tutta a base di vegetali. Sul tavolo si allineavano i corpicini gialli, rossi e verdi: carote, pomodori e lattughe. Con le faccine tonde ornate da una lieve barbetta, braccia alzate, fibre vive e gonfie d’acqua, un mazzo di ravanelli agonizzava in un canto: il mio amico ne prese una per le verdi braccine e con un morso ne addentò la rossa testolina. […] Se non bisogna mai uccidere, perché i ravanelli sì?

Questo interrogativo venne posto una decina d’anni fa da Sandro Gindro in un articolo pubblicato su Studi cattolici (389-390, 1993) (e viene citato ora nel bel saggio di Adriano Mariani, Do per cibo il verde dell’erba. Il cristianesimo alla prova della condizione animale, “Quaderni Satyagraha” n. 8, Pisa 2005). Naturalmente la descrizione dei corpicini che agonizzano fa sorridere, ma la domanda non è affatto oziosa. Perché mangiare i vegetali invece degli animali?

La risposta più semplice è che gli animali soffrono ed i vegetali no. E’ una risposta insoddisfacente. Se la sofferenza fosse l’unico argomento contro l’uccisione di animali a scopo alimentare, bisognerebbe approvare l’uccisione indolore di animali allevati in condizioni di vita accettabili. Io sono dell’opinione che vada riconosciuto agli animali un valore intrinseco. Non direi un diritto all’esistenza, perché i soggetti che hanno diritti sono soltanto quelli che fanno parte di una comunità di soggetti giuridici, e questo con ogni evidenza non si può dire degli animali. Proprio per questo, però, si può contestare che gli uomini abbiano il diritto di uccidere gli animali ad uso alimentare. Proprio perché noi possiamo avere diritti solo su chi fa parte di una comunità di soggetti di diritti, non possiamo averne sugli animali, che di tale comunità non fanno parte. Uccidere un animale per cibarsene non è l’esercizio di un diritto, ma un atto di forza. Per trasformarlo in un diritto occorre una metafisica o una mitologia, che attribuisca il creato a Dio e faccia dire a Dio che tutto è finalizzato all’uomo. E’ precisamente la metafisica, la mitologia cristiana e cattolica; la quale anche, ponendo una comunità di uomini ed animali sotto la giurisdizione di Dio, potrebbe consentire di parlare di diritti animali: forse.
Una seconda risposta è che gli animali sono esseri più perfetti dei vegetali. Io contesto questo modo di vedere. Considero vegetali, piante ed alberi gli esseri più perfetti della natura, certamente più perfetti degli animali e dell’uomo. Non c’è nessuno, credo, che non sia stato colto almeno una volta nella vita da un senso di profonda ammirazione al cospetto di un albero; anzi, da un vero sentimento religioso. Non è improbabile, del resto, che alcune tra le prime pratiche religiose siano nate nelle selve, in mezzo a questi esseri meravigliosi. Unici nella natura, i vegetali riescono a vivere senza uccidere altri esseri. Ed a restare immobili, privi di pensiero. Credo che questa condizione – l’immobilità priva di pensiero – sia quanto di meglio possa desiderare un essere tahat ha-shamesh. Non sono lontano dal desiderio di quel poeta zen:

Di tutte le cose del mondo
vorrei essere una patata dolce
appena dissotterrata.

Rinuncerei però all’ultima condizione. Vorrei essere una patata dolce sotterrata, senza il contatto profanante della mano dell’uomo.
E allora: perché i ravanelli sì?
Se fosse possibile una semplice scelta tra vite animali e vite vegetali, sarebbe difficile scegliere. Ma le cose stanno diversamente. La sarcofagia non esclude, anzi implica l’uccisione dei vegetali. La sarcofagia ha bisogno di immensi allevamenti di animali. Questi milioni di animali mangiano vegetali. E quindi la sarcofagia richiede un immenso sterminio di vegetali. Oltre alla distruzione di foreste per far spazio agli allevamenti. Mangiare carne vuol dire distruggere una quantità immensa di sostanze di origine vegetale che potrebbero servire, tra l’altro, all’alimentazione umana, dando un contributo notevole alla soluzione del problema della fame nel mondo.
Volendo formalizzare il discorso, si può dire questo: 1) né gli animali né le piante hanno alcun diritto, in quanto non fanno parte di una comunità di soggetti giuridici; 2) per la stessa ragione, però, non abbiamo alcun diritto né su animali né sulle piante; 3) ogni uccisione di un essere vivente è un atto di forza, e non l’esercizio di un diritto; 4) la sarcofagia comporta la soppressione di vite vegetali e animali, mentre l’alimentazione vegetariana comporta la soppressione delle sole vite vegetali; 5) l’alimentazione vegetariana è quindi preferibile, se non moralmente doverosa.

Appunti di ateologia #4

L’ateo nega Dio e con Dio la religione. L’ateologo nega il discorso su Dio, ma non l’esperienza religiosa.
Cos’è l’esperienza religiosa? Chiamo religiosa ogni esperienza che abbia il carattere della transpersonalità, mentre è non religiosa o irreligiosa ogni esperienza personale.
Il rapporto con un Dio-Persona è sempre irreligioso. Il Dio-Persona è un portato dell’io; un appendi-io trascendente.

L’ebook conviviale

Ivan Illich
Quale mezzo di trasporto favorisce maggiormente la libertà, l’automobile o la bicicletta? La risposta sembra facile: la prima. L’automobile è forse l’unico simbolo rimasto della libertà; non c’è pubblicità che manchi di sottolineare questo aspetto. Ma Ivan Illich, uno dei più grandi pensatori della seconda metà del secolo scorso (autore, tra l’altro, di un Elogio della bicicletta), non era d’accordo. Per comprendere la sua posizione, possiamo riformulare la questione in altri termini. Quale strumento possiamo dominare meglio, l’automobile o la bicicletta? Posta così la questione, qualche dubbio verrà anche al più entusiasta sostenitore delle virtù della tecnologia automobilistica. Perché è vero che l’automobile ci porta dove vogliamo, ma è anche vero che sono in molti ad avvertire che l’automobile ed il sistema di cui fa parte al tempo stesso hanno potere su di noi. Avere l’automobile vuol dire pagare la tasse, pagare la benzina (e dunque dipendere dai petrolieri), pagare i parcheggi, pagare le autostrade, e così via. Quando poi si rompe, cosa che accade spesso, bisogna portarla dal meccanico. E’, insomma, uno strumento che ci sfugge di mano. La bicicletta al contrario è semplice da usare (non occorre la patente), si rompe difficilmente, è facile da riparare, non richiede benzina né tasse. Illich chiama strumento conviviale uno strumento che io posso padroneggiare. Gli strumenti industriali in generale non sono strumenti conviviali, non si lasciano dominare ma al contrario ci dominano: si può dire che è l’uomo che si adatta alla macchina e non il contrario.
Chiediamoci ora: cosa direbbe Illich dell’ebook? Lo considererebbe più o meno conviviale del libro di carta? Considerando l’ostilità del filosofo verso il mondo industriale e la sua scelta dell’austerità, la risposta sembra scontata: l’ebook sta al caro vecchio libro di carta come l’automobile sta alla bicicletta. Ma le cose stanno davvero così? Forse no.
Per produrre un libro di carta, come per produrre un ebook, occorre in primo luogo scriverlo. Poi, nel percorso tradizionale, il libro viene affidato ad un editore, e da questo momento sfugge al controllo dell’autore. Il libro viene impaginato da un tecnico, quindi mandato in stampa, quindi alla distribuzione. Il libro così prodotto viene acquistato dal lettore, che lo legge e lo studia. Sul libro di carta il lettore può compiere una serie di operazioni: può sottolineare, può evidenziare, può segnare la pagina piegando l’angolo.
Consideriamo ora l’ebook. L’autore lo scrive, dopo di che può considerare due vie. Può mandarlo ad un editore, che sceglierà se pubblicarlo o meno, lo impaginerà e creerà il libro elettronico da mandare alla distribuzione. Ma può anche scegliere la via dell’autopubblicazione. In questo caso sarà lui stesso a creare il libro elettronico ed a distribuirlo. Il lettore acquisterà il libro da una libreria on-line e lo trasferirà sul proprio computer, o sul tablet, o sul lettore ebook. Anche sul libro elettronico il lettore può compiere le stesse operazioni possibili sul libro di carta. Può evidenziare, annotare, mettere segnalibri. Più qualche altra cosa. Può, ad esempio, fare una ricerca nel testo.
Ma c’è una differenza più significativa tra libro di carta e libro elettronico. Poniamo che dopo aver comprato un libro di carta io mi accorga che è fatto male. Che ci sono errori di impaginazione o di stampa. Non posso farci nulla; al massimo, manderò il libro alla casa editrice per chiederne la sostituzione. Se invece mi capita un ebook fatto male (cosa che succede abbastanza spesso), ed ho un minimo di competenza tecnica (cosa facile da acquisire), posso sistemare gli errori e rifare l’ebook. Non solo. Nel libro di carta posso aggiungere al testo delle mie annotazioni, ma limitatamente. Posso farlo al margine della pagina, che può essere più o meno ampio. Nel caso del libro elettronico, le mie annotazioni non hanno alcun limite di spazio, ma soprattutto non devono essere necessariamente sistemate a margine del testo. Se voglio, posso costruire un nuovo testo che comprenda il testo originale più le mie annotazioni a margine. Se mi piace, posso riscrivere il testo, dialogando con l’autore. 
Insomma, se il libro di carta è una cosa, un oggetto chiuso, il libro elettronico è aperto, modificabile, ripensabile. Cioè, è più conviviale.
Illich è noto soprattutto come teorico della descolarizzazione. Sosteneva che bisognerebbe liberare la società dalle scuole, perché le scuole non sono realtà conviviali. La scuola non risponde a bisogni reali delle persone; al contrario: crea il falso bisogno di istruzione, che ritiene di essere l’unica a poter soddisfare. La scuola si presenta come l’unica istituzione in grado di dare una istruzione valida, squalificando qualunque altra fonte di istruzione  e qualunque conoscenza ottenuta al di fuori di essa. Ma che succede se chiudiamo le scuole? Quali le alternative? Per Illich sono tanti i modi in cui ci si può istruire, da soli o insieme ad altri. Ci si può istruire se è possibile “accedere a cose, a luoghi, a processi, a eventi e a documenti” senza l’ostacolo costituito dalla mercificazione. E’ importante che sia facilitato l’accesso alle risorse formative di ogni genere. Illich pensava a luoghi fisici, ma è chiaro che la diffusione di Internet ha reso tutto ciò molto più facile. In rete è possibile accedere ad informazioni di ogni tipo, guardare film, leggere giornali, ed anche contattare persone con gli stessi interessi per studiare insieme. In Internet, soprattutto, è possibile trovare migliaia di libri elettronici gratuiti. Libri privi di licenza e di pubblico dominio, ma anche libri con copyright che sono stati piratati. Mi rendo conto del rischio di fare apologia di reato, ma trovo commovente che vi siano persone che impiegano una parte considerevole del proprio tempo per passare allo scanner libri di filosofia per metterli gratuitamente a disposizione di tutti. Come gli amanuensi nei conventi medioevali, queste persone lavorano non perché la cultura in generale non vada persa, ma perché non vada persa una certa concezione della cultura: quella della cultura come attività libera e gratuita, cui tutti possano accedere senza ostacoli legati alla disponibilità economica.
Sospetto che Illich sarebbe d’accordo.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Appunti di ateologia #3

“Su di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, diceva Wittgenstein.
Dio è ciò di cui non si può parlare per eccellenza, poiché ogni discorso oggettivizza ciò su cui verte, ed un Dio oggettivizzato non è Dio. La teologia, discorso su Dio, è segno sicuro di alienazione religiosa.
L’ateologia di differenzia dall’ateismo per questo. Non nega Dio, ma il discorso su Dio: la teologia. Tolta la teologia, resta il silenzio su Dio. Questo silenzio su Dio è qualcosa di altro dall’ateismo.

Venerdì, 31 gennaio

Ieri una collega mi ha chiesto come mai sono stato in malattia. Le ho detto del mal di schiena. “Alla nostra età succede”, ha detto. Alla nostra età. La sua, la mia. C’è un’età che ora è anche la mia nella quale succede di star male per il mal di schiena. E succedono tante altre cose.
Ma queste cose – ed è questo l’essenziale – succedono al di fuori. Nel corpo, ma al di fuori. Nel corpo, ma al margine di qualcosa che resta identico, immutato: che si rifiuta di appartenere alla nuova età, semplicemente perché non ha a che fare con altro che con questo-presente-qui, che non è più giovane o più vecchio di alcun altro presente.
“Ogni istante del tempo può essere denominato ‘monade di eternità'”, dice Nishitani.

Tutti cercano la vita, tutti hanno paura della morte

Alcuni anonimi hanno creato un gruppo in difesa della sperimentazione animale scegliendosi come nome nientemeno che Resistenza Razionale. Nel loro blog trovo un articolo sul “cortocircuito logico dell’antispecismo” cui proverò a rispondere, non prima però di aver fatto qualche osservazione preliminare. Gli autori del blog, che preferiscono restare anonimi per via, dicono, delle minacce degli animalisti, scrivono: “Noi siamo assolutamente persuasi di avere dalla nostra i fatti scientifici, e con strumenti del genere nelle mani si vince sempre”. Una convinzione piuttosto ingenua, sia perché si può discutere a lungo di cosa siano i fatti scientifici, sia soprattutto perché le questioni morali non sono riconducibili ai fatti scientifici, qualunque cosa siano.
Secondo l’autore o gli autori dell’articolo, l’affermazione da cui partono gli antispecisti è la seguente: “Chi vi da diritto di disporre della vita degli animali? Sono uguali a noi.” Ora, l’obiezione è semplice. Come sono gli animali? Come si comportano? Quali sono le leggi di natura? Semplice:

Ebbene sì: qualsiasi essere vivente, animale o vegetale, in natura è profondamente egoista, crudele, cinica, razzista e specista. Qualsiasi essere vivente, compreso l’uomo. In natura. Cioè prima della civiltà. 

Per cui la conclusione è semplice: se l’uomo è come gli animali, allora dovrebbe comportarsi come loro, e dunque distruggere le altre vite senza porsi alcun problema etico; se si pone problemi etici, è perché invece si distingue nettamente da loro: “solo ammettendo che l’uomo sia diverso abbiamo il diritto di essere noi a decidere cosa è giusto, e solo con la presunzione di essere superiori possiamo pensare che questa decisione sia giusta”.
C’è qui il rovesciamento – o meglio: il tentato rovesciamento – di un argomento frequente di coloro che sono contrari alla sperimentazione animale. E cioè: si ricorre alla sperimentazione animale perché si ritiene che gli animali siano simili agli esseri umani (altrimenti le conclusioni degli esperimenti condotti su di loro non sarebbero estensibili agli esseri umani); ora, se gli animali sono simili agli esseri umani, allora hanno anche lo stesso diritto al rispetto dell’integrità corporea: e dunque la sperimentazione è sbagliata.
Consideriamo ora l’affermazione di partenza. In che senso i sostenitori dei diritti degli animali – antispecisti o animalisti – affermano che “gli animali sono uguali a noi”? La questione è posta fin dalle prime pagine di Liberazione animale di Peter Singer, uno dei testi fondamentali del movimento per i diritti degli animali. Alla fine del Settecento comparve in Inghilterra un libro intitolato A Vindication of the Rights of Brutes. Ne era autore il filosofo Thomas Taylor e voleva essere una satira della Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft. Il ragionamento era semplice: se le donne rivendicano dei diritti, perché non dovrebbero farlo le bestie? Su quali basi si sostiene l’uguaglianza di uomini e donne? E’ evidente, osserva Singer, che non si tratta della loro uguaglianza reale. Uomini e donne sono fisiologicamente diversi. Cosa vuol dire allora che sono uguali? La domanda riguarda ogni altro genere di uguaglianza riguardante gli esseri umani. Quando affermiamo che gli esseri umani sono uguali “senza distinzioni di razza, sesso o religione”, stiamo sostenendo che tutti gli esseri umani sono effettivamente identici? No, evidentemente, se parliamo appunto di distinzioni. Ed in cosa consiste allora l’uguaglianza? Come scrive efficacemente Singer, essa è “un’idea morale, non un’asserzione di fatto”:

Il principio dell’uguaglianza degli esseri umani non è una descrizione di una pretesa uguaglianza reale: è una prescrizione sul modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere trattati. [1]

Affinché due esseri abbiano gli stessi diritti non occorre dunque che siano identici. Occorre tuttavia che abbiano comunque qualcosa in comune. Sembra piuttosto arduo sostenere l’uguaglianza tra esseri umani e pietre, ad esempio. Se si afferma che gli animali hanno diritti come gli esseri umani (e non, evidentemente, tutti gli stessi diritti), è perché c’è qualcosa che i primi ed i secondi hanno in comune. Di cosa si tratta? Una prima risposta è: la capacità di soffrire. Un cane o una scimmia soffrono come un essere umano. O meglio: è difficile sapere se la sofferenza è esattamente la stessa, perché nella percezione della sofferenza nel caso dell’essere umano intervengono elementi che possono non essere presenti nell’animale. Che un animale soffra, tuttavia, è innegabile. E sappiamo per esperienza che la sofferenza è un male. Ma la soppressione della vita animale diventa accettabile, se fatta con metodi non dolorosi? E: gli esseri viventi non dotati di sistema nervoso non hanno alcun diritto alla vita? Un criterio diverso è quello che si trova in testi scritti molti secoli prima che si cominciasse a parlare di animalismo ed antispecismo: i sutra buddhisti. Nel Dhammapada si legge (verso 129):

Sabbe tasanti dandassa
sabbe bhayanti maccuno
attanam upamam katva
na haneyya na ghataye.

Tutti hanno paura del bastone
tutti temono la morte.
Facendo un confronto con se stessi
non si colpirebbe e non si ucciderebbe. [2]

La cosa che accomuna tutti gli esseri viventi – che si tratti di un essere animale, di un cane o di una pianta – è il fatto di evitare la morte e di cercare la vita. Come dice un verso successivo (131), tutti gli esseri sono “in cerca di felicità”. In termini nietzscheani, potremmo dire che ogni essere vivente esprime un sì alla vita. E’ facile osservare in natura questa ricerca della vita: si pensi al modo in cui le piante si sporgono verso la luce o si adattano per sopravvivere anche in condizioni difficili. Di fronte a questo sì alla vita, che è lo stesso che muove l’essere umano, è doveroso il rispetto. Che vuol dire, in concreto, considerare vandalismo la distruzione gratuita ed evitabile di qualsiasi essere vivente.
Si dirà – ed è quello che dice l’autore dell’articolo – che in natura ogni vita, affermando sé stessa, lo fa a scapito delle altre vite. In natura nessun essere vivente esprime rispetto per il sì alla vita di altri esseri viventi. E’ una convinzione che si può discutere. Non mancano, da Kropotkin a Danilo Dolci, coloro che hanno considerato il mondo naturale ed animale come un campo di grandi insegnamenti morali. Una cosa è certa: in natura la violenza su altre vite è normalmente finalizzata alla sopravvivenza. Il leone sbrana la gazzella se ha fame. Un leone sazio è pacifico, come sanno quelli che lavorano nei circhi (di cui auspico la rapida scomparsa, nella loro forma attuale). La distruzione della vita, dunque, non è gratuita ed evitabile. Ed è esattamente questo che i difensori dei diritti degli animali chiedono. Non di evitare la distruzione di qualsiasi vita animale, ma di evitare ogni distruzione di vita animale gratuita ed evitabile. Per alimentarsi occorre uccidere: non si sfugge. Ma, si dirà, non è dunque giusto allevare, uccidere e mangiare animali per soddisfare il bisogno primario della sussistenza? Qui entra in gioco l’altro criterio, quello della sofferenza. Tutti gli esseri viventi cercano la vita, tutti cercano di sfuggire alla morte. Alcuni, però, a differenza di altri hanno la capacità di soffrire. Potendo scegliere quale vita distruggere per soddisfare il bisogno primario si alimentarsi, è doveroso scegliere la vita che non è capace di sofferenza. Si può obiettare che qui è all’opera un criterio ancora antropocentrico: si salva l’animale perché ha qualcosa che lo accomuna all’essere umano, mentre si condanna la pianta che è più lontana dall’essere umano. E’ una obiezione seria, anche se al senso comune può sembrare provocatoria, perché siamo abituati a percepire le piante come quasi-cose. In mancanza di altri criteri per distinguere la vita sacrificabile da quella non sacrificabile, mi pare però che questo sia un criterio ragionevole.
Un’ultima osservazione. Nelle specie animali è molto raro che gli scontri tra i singoli individui siano mortali. La violenza interspecifica è in genere frenata da meccanismi di pacificazione. Quando nello scontro diventa evidente chi è il più forte, ad esempio, l’altro si sottomette, e lo scontro finisce. Nella specie umana questi meccanismi non funzionano. Se dicessi che la specie umana nel corso della sua vita sulla terra si è massacrata da sola, direi il falso, perché per la gran parte della sua vita sulla terra la specie umana si è espressa in società di caccia e raccolta che erano sostanzialmente pacifiche, e certo non conoscevano lo sterminio. Gli esseri umani si massacrano da qualche secolo. Da quando, diciamo, hanno introdotto l’agricoltura, la proprietà, lo Stato. Forse anche la religione.
Perché gli esseri umani si massacrano? Una risposta plausibile è la seguente. Il nemico, che viene massacrato, in virtù della sua differenza (di etnia, di religione, di ideologia ecc.) non è più percepito come un appartenente alla stessa specie. E’ come se non fosse più un essere umano, ma un animale. In questo senso la violenza interspecifica diventa violenza intraspecifica.
Se le cose stanno così, abbiamo una ragione in più per considerare urgente la questione della violenza sulle specie animali. Non è escluso che qui sia la chiave per risolvere anche il problema della violenza sull’essere umano.

[1] P. Singer, Liberazione animale, tr. it., il Saggiatore, Milano 2010, p. 21. Corsivo nel testo.
[2] Traduzione di Luigi Martinelli: Dhammapada, Mondadori, Milano 1990.

Appunti di ateologia #2

Una cosa che accomuna le cosiddette religioni orientali e la mistica speculativa cristiana è il fatto di considerare la Realtà ultima come qualcosa di radicalmente altro rispetto all’essere umano. Ed è in questo che l’esperienza religiosa incontra la scienza. Il conflitto tra scienza e religione esiste soltanto per la religione alienata ed alienante, quella che mette l’essere umano al centro di un cosmo fittizio, e la cui funzione consiste nel creare una “dimora metafisica” (Buber) per un soggetto insicuro, il cui io viene puntellato da quel Grande Io che è Dio.
La Radice delle cose non è umana. Non c’è un Dio Persona che crea il mondo e lo governa. Questa è una percezione superficiale, oltre la quale c’è il Radicalmente Altro. La fisica, inoltrandosi nella natura dell’universo, scopre l’inadeguatezza delle nostre concezioni correnti di tempo e di spazio e dell’idea stessa di “cosa”. Ma lo sapeva già l’autore del Daodejing (I): “Il Dao che può essere nominato non è il Dao eterno”. E così il Sutra del cuore: “Iha śāriputra: rūpaṃ śūnyatā śūnyataiva rūpaṃ” (Shariputra, la forma è vuoto, il vuoto è forma).

Il Vuoto. Il Senza Nome. L’Indicibile. Alla radice delle cose c’è la non-cosa, ciò che la nostra lingua non può nominare, ciò che la nostra mente non può cogliere fino a quando non si libera delle sue categorie correnti. Il mondo con le sue identità, con le cose e i nomi e le forme, non è la realtà ultima. 
Questa consapevolezza provoca angoscia, ed è esattamente questa angoscia che avvia l’esperienza religiosa. La falsa religione che i più professano serve a placare l’angoscia esistenziale; rassicura il soggetto, dicendogli che non morirà davvero, che dopo la morte avrà una vita nuova migliore di quella attuale. La religione autentica, al contrario, parte dall’angoscia e la usa come strumento di conoscenza. Non dice al soggetto che la morte non c’è; gli dice che lui, qui ed ora, è già morto. Che lui non c’è. Che il suo io non è che una interpretazione. 
C’è esperienza religiosa quando un soggetto si mette in cammino contro sé stesso. L’altro radicale – il Vuoto, il Senza Nome – è qualcosa che tu devi essere. Fino a quando resta altro, siamo ancora nell’alienazione religiosa. Essere questo altro, lasciando cadere il corpo e la mente, il nome e la forma, è esperienza religiosa. Essere il Senza Nome vuol dire rinunciare alla parola: stare nel silenzio. Farsi silenzio.

Rinunciare al karma

C’è una contraddizione, nel buddhismo, tra l’affermazione che tutto è pieno di sofferenza (sabbe dukkha) e la dottrina del karma. Un mondo pieno di sofferenza è un mondo privo di senso; un mondo nel quale la sofferenza, che accade, non ha alcuna giustificazione, si colloca al di là della nostra capacità di comprensione. La sofferenza è veramente tale solo quando è incomprensibile. Se riusciamo a collocarla in una visione delle cose piena di senso, essa non è più vera sofferenza: sarà facile sopportarla.
Ora, il mondo regolato dalla legge del karma è, appunto, un mondo dotato di senso, nel quale le cose non accadono a caso, ma secondo un ferreo criterio retributivo. Se soffro, so che la mia sofferenza ha un senso. Se una malattia mi colpisce, è perché ho fatto del male. E se qualcuno mi fa del male, so che prima o poi i frutti della sua azione giungeranno a maturazione, e toccherà a lui soffrire.
Perché dovremmo liberarci da un mondo del genere? Esiste l’impermanenza, esistono la malattia e la morte, ma sono cose che acquistano senso alla luce del karma.
Nel suo nucleo originale, il buddhismo è una concezione – più terapia che religione – che procede per passaggi logici, senza alcun elemento fantastico, o mitico, o irrazionale. Fanno eccezione la legge del karma e l’idea della rinascita. Non si tratta dell’ovvia constatazione che se si fanno certe azioni toccherà subirne le conseguenze (anche se non sempre accade, come è facile constatare: ed era già l’interrogativo di Giobbe e del Qohelet), ma di un meccanismo metafisico, di un legame che va di vita in vita, operando in modo misterioso. Un buddhismo occidentale, pienamente logico, dovrà fare a meno della legge del karma e della rinascita. E prendere atto che la liberazione è necessaria proprio perché viviamo in una realtà che sfugge a qualsiasi presa di senso.

Versetti pericolosi?

Versetti pericolosi del frate servita Alberto Maggi (Fazi, Roma 2011) presenta una lettura dei vangeli talmente semplificata da apparire naïf. Gesù era buono: radicalmente buono. E’ venuto ad annunciare il vangelo dell’amore. Ma era, il suo, un messaggio nuovo, perché il Dio degli ebrei, il Dio dell’Antico Testamento, non era un Dio d’amore. Era il Dio della legge, il Dio che giudica e condanna, che separa il puro dall’impuro e che incute paura. I suoi rappresentanti, al tempo di Gesù, sono gli scribi ed i farisei, religiosi zelanti attenti più a rispettare la legge che a rispettare l’uomo.
Durante tutta la sua vita, Gesù non ha fatto che attraversare liberamente la linea di confine tra il puro e l’impuro, collocandosi dalla parte degli impuri ed operando in questo modo una trasmutazione dei valori. L’episodio più clamoroso, sul quale Maggi si sofferma ed a cui fa riferimento il titolo del suo libro, è quello della lapidazione dell’adultera. Che, spiega l’autore, doveva essere in realtà una bambina sui dodici anni, poiché non era una donna sposata, ma in attesa di nozze (l’adultera sposata secondo la legge invece andava strangolata). Erano talmente scandalosi, i versetti che raccontano l’assoluzione dell’adultera, che

Per almeno un secolo nessuna comunità cristiana accettò questo brano, che veniva ogni volta rispedito al mittente, e ci vollero ben tre secoli prima che questi versetti trovassero ospitalità in un vangelo, che non era quello originario, e venissero inseriti da Girolamo nel Nuovo Testamento.

Questo passo è scandaloso perché più di altri mostra il cambiamento avvenuto, che Maggi così sintetizza:

In ogni religione, compresa quella giudaica, si insegnava che Dio premiava i (pochi) buoni ma castigava inesorabilmente i (tanti) cattivi. Gesù annuncia e dimostra che il Signore “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). Ma se Dio non premia più i buoni e non castiga più i malvagi, allora… non c’è più religione! Con Gesù è finita la religione e inizia la fede.

Le conseguenze di questa affermazione, sul piano dottrinale, sono piuttosto profonde. Per Maggi c’è una discontinuità assoluta tra prima e dopo, tra Antico e Nuovo Testamento, tra legge mosaica e vangelo. Il che vuol dire, con ogni evidenza, che i cristiani dovrebbero smetterla di considerate sacro l’Antico Testamento e ritenere che il Dio che parla attraverso le sue pagine sia un Dio falso e violento, ricongiungendosi con il marcionismo ed allontanandosi, ahimè, dall’ebraismo.

Ma le cose stanno proprio così? Quella di Maggi è una lettura dei vangeli molto selettiva. Non mancano, certo, i passi che indicano la logica dell’amore, che è ciò che più colpisce e seduce del vangelo. E tuttavia, se la storia della Chiesa è una storia violenta, se il cristianesimo storico ricorda più la legge mosaica che la logica dell’amore, è perché nel vangelo c’è anche altro.

Per Maggi con Gesù finisce la religione e comincia la fede. E’ vero. Ma non è detto che sia una cosa positiva. Credo di non sbagliare se affermo che prima di Gesù la figura del non credente era sostanzialmente sconosciuta in Israele. Esisteva la figura dell’empio, o di colui che, come Giobbe, mette Dio in stato di accusa. Ma si trattava di domandarsi come e chi è Dio, non se c’è Dio o meno. Con Gesù le cose cambiano. In primo piano viene ora la questione della fede. Gesù afferma di essere il Figlio di Dio. E’ vero? E’ falso? Per alcuni è vero, per altri è falso. I primi sono i credenti, i secondi i non credenti. Ora, questa distinzione del tutto nuova porta con sé una nuova violenza. I primi, quelli che credono, saranno i salvati, i secondi saranno i dannati. In altri termini, si ripropone ora la scissione del mondo ebraico. Prima il mondo umano era diviso in puri ed impuri, secondo la legge. Gesù supera questa scissione collocandosi dalla parte degli impuri. Ma propone ora una seconda scissione: quella tra credenti e non credenti. E nei confronti dei secondi si ripresenta tutto l’armamentario violento dell’ebraismo. “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde” (Luca 11, 23).

Che Gesù sia venuto a salvare tutti è semplicemente falso. Il vangelo di Giovanni è chiarissimo: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero peccato” (Giovanni 15, 22). La venuta del Cristo rappresenta la salvezza per alcuni, la condanna per altri. Dopo la venuta del Cristo e grazie ad essa, chi doveva essere salvato è stato salvato, chi doveva essere condannato è stato condannato.

Ancora una volta un mondo scisso, spaccato: infelice. Quel mondo infelice che è stato ed è l’occidente

Appunti di ateologia

La cosiddetta fede in Dio consiste di tre cose: etnolatria, antropolatria, egolatria.
L’etnolatria è propria dell’ebraismo. Attraverso Dio, si rende culto in realtà al popolo ebraico; Dio è colui che conduce l’esercito verso lo sterminio dei nemici.
L’antropolatria è propria del cristianesimo. Dio si sacrifica per l’uomo, muore in croce per lui. Ma ciò per cui ci si sacrifica, è ciò che più conta. Con il cristianesimo Dio muore e l’Uomo prende il suo posto. Il cristianesimo è ateismo ed umanesimo.
L’egolatria rappresenta la degenerazione del cristianesimo nella società dei consumi. Al centro ora non è più l’Uomo, ma questo-uomo-qui. Dio è il sostegno metafisico delle sue insicurezze. Il messaggio è: “Dio ti ama, dunque non soffrire”. La fede e Dio sono dei beni di consumo. Di Dio, come di qualunque altro prodotto, si magnificano le virtù ed i benefici.

Se il sindaco non risponde (e cancella chi lo critica)

Gianni Mongelli, sindaco di Foggia
Il sindaco di Foggia, Gianni Mongelli, mi ha cancellato dai suoi contatti Facebook. Ha fatto esattamente quello che avrei fatto io se qualcuno dei miei contatti avesse scritto sulla mia pagina le cose che ho scritto io sulla pagina del sindaco. L’ultima delle quali è stata che Mongelli non risponde sulla sua pagina Facebook perché non è in grado di mettere insieme dieci parole senza fare errori ortografici. Constatazione difficilmente contestabile – basta rileggere qualcuna delle rare testimonianze autografe mongelliane -, ma sicuramente antipatica. E tuttavia io non sono il sindaco di Foggia. Questa cosa – il non essere sindaco di Foggia – qualche vantaggio l’ha. Essendo un privato cittadino, posso permettermi qualche libertà che un cittadino pubblico non può permettersi. Tra queste, quella di cancellare da Facebook chi non mi piace.
Devo confessare che non ho mai compreso per quale ragione Mongelli abbia voluto aprire una pagina Facebook. Nell’era dei social network, la politica si fa anche su Facebook e su Twitter. I social network sono il luogo virtuale in cui i politici incontrano i cittadini, con le loro richieste reali, e si sforzano di dare risposte. Mongelli no. Apre la sua pagina Facebook e la abbandona a sé stessa. Interviene solo, di tanto in tanto, per augurare buongiorno o buon Natale. Se qualcuno gli dice ciao, risponde ciao. Se qualcuno gli fa una domanda politica, tace. Se qualcuno gli fa una critica, tace. Se qualcuno gli fa una richiesta, tace. Se qualcuno gli fa una segnalazione, tace. Chiunque acceda alla pagina Facebook di Mongelli, si fa di lui questa idea: il sindaco che tace. E’, più o meno, l’impressione che chiunque può farsi dell’amministrazione passeggiando per la città. Una città in cui la politica tace.

Diamo uno sguardo agli ultimi interventi sulla pagina del sindaco. Qualcuno pubblica la foto del pronao della villa comunale, imbrattato dalle scritte, e chiede di dare dignità a uno dei simboli della città. Il sindaco non risponde. Altri fanno notare che nonostante l’ordinanza che vietava la vendita dei botti, la città in questi giorni è stata piena di baracche abusive di venditori di botti. Mongelli non ha nulla da dire. Un’altra cittadina chiede che si permetta di pagare la Tares fino alla fine di gennaio. Mongelli tace. Un cittadino protesta perché gli abitanti dei palazzi di nuova costruzione passeranno le vacanze natalizie senza gas e riscaldamenti. Mongelli non ha nulla da dire.
Sia chiaro: non tutti quelli che intervengono sulla pagina del sindaco lo fanno con educazione e rispetto, né tutte le richieste sono sensate, né tutte le responsabilità sono del sindaco. Ma se la risposta è, invariabilmente, il silenzio, tutto diventa indifferente. La bacheca, che doveva essere il luogo del confronto, diviene un muro delle lamentazioni sul quale lo sfogo volgare e scomposto e la critica ragionata, l’insulto e la segnalazione di un disagio reale hanno lo stesso peso specifico. L’impressione – mi si passi l’immagine un po’ forte – è quella delle chiacchiere nella stanza del morto. Con la differenza che i parenti raccolti intorno alla salma in genere parlano bene del defunto. In questo caso, invece, per lo più ne parlano male.
Devo confessare che quando ho scoperto che Mongelli mi ha cancellato dei suoi contatti ho sorriso. Ed ho pensato: oh, dunque esiste. Mongelli respira, è vivo. C’è. E tuttavia penso che non vada bene se un sindaco cancella un cittadino dai suoi contatti. Immaginiamo la scena al di fuori di un social network. Il sindaco sta al Comune. La gente va al Comune, con le sue domande. “Sindaco, la Tares”. “Sindaco, ci manca il riscaldamento”. “Sindaco, non ho la casa”. Il sindaco tace. La gente continua a protestare, ed il sindaco continua a tacere. Finché, a un certo punto, ha uno scatto di orgoglio. Decide di fare qualcosa. Rispondere? No, troppo difficile. Chiama i vigili urbani e fa allontanare uno a caso. Diciamo il più antipatico, anche se non il più violento.
Ammetto che si tratta di un paragone un po’ forzato. Per fortuna, la pagina Facebook del sindaco non è il Comune, ed essere cancellati dai contatti non è la stessa cosa che essere allontanati con la forza dai vigili. Ma la sostanza non cambia molto. C’è un sindaco che non vuole sentire chi lo critica. Che chiude la comunicazione.
Anche chi è meno duro nei confronti di Mongelli riconosce che non ha grandi capacità comunicative. E considera questa come una pecca trascurabile, un peccato veniale.
Bisogna intendersi su cosa vuol dire comunicare. Per molti la comunicazione che ha a che fare con la politica è la stessa comunicazione della pubblicità: consiste nel saper vendere un prodotto. Il politico comunicatore è uno che sa vendersi. Sa come atteggiarsi, come parlare, come vestirsi. Sa dire le parole giuste, sa risultare gradevole e positivo.
Mongelli non è un grande comunicatore in questo senso. Non sa scegliere le parole; di più: non è in grado nemmeno di pronunciare la nostra lingua in modo corretto. E devo ammettere che, per quanto mi infastidisca che un sindaco non sappia esprimersi correttamente in italiano, la cosa me lo rende quasi simpatico. Non amo i comunicatori-imbonitori.
Ma la comunicazione ha a che fare con la politica anche in un altro senso, più vero e più profondo. Comunicare è ascoltare e parlare; c’è vera comunicazione solo se ci sono queste due cose insieme. Per questo il politico comunicatore, così come è comunemente inteso, non è in realtà un comunicatore ma, appunto, un imbonitore. Il politico autentico ascolta le domande e poi cerca di dare delle risposte serie. Non solo: riesce anche a far comunicare gli altri. La vera politica si riconosce da questo: elimina i blocchi comunicativi, fa circolare le idee e le domande, apre uno spazio pubblico per il confronto. E’ in questo secondo senso, più vero, che Mongelli non è un buon comunicatore. E non solo perché non sa usare un social network e cancella chi gli dà fastidio.
Come altre città meridionali, Foggia ha vissuto e vive la miseria di una politica da pitocchi, del voto di scambio e del clientelismo, che sempre porta all’abbandono ed al degrado. Una fotografia scattata in uno dei tanti quartieri degradati della nostra città potrebbe essere intitolata “Effetti del cattivo governo in città”, come l’affresco di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. Per i foggiani dei Quartieri Settecenteschi o di Candelaro il politico è il santo in paradiso al quale scroccare la cena elettorale o la promessa di lavoro. Il rapporto con il politico è di reciproco sfruttamento: ed è un rapporto privato, fatto di incontri al chiuso, di cose sussurrate tra quattro pareti. Un sindaco di rottura in questa città dovrebbe combattere soprattutto questa logica. Passare dalla comunicazione privata alla comunicazione pubblica. Andare nei quartieri, una volta al mese o anche meno spesso, ed incontrare la gente. Ascoltare le lamentele, raccogliere le richieste, rispondere alle critiche. Avviare la stagione del confronto. Educare alla cittadinanza reale persone che sono state ridotte da decenni di miserabile politicanteria a vendersi il voto per un pacco di pasta. Andare nei posti del degrado – che a Foggia sono tanti – e cercare insieme una via d’uscita.
Mongelli non è stato e non è nulla di tutto questo.

La Via (Daodejing, I)

道可道 非常道

Dào kě dào fēi cháng dào

La Via che è capace di essere Via non è la Via eterna.
Oppure:
La Via che sa farsi Parola non è la Via eterna.
L’ideogramma include  (shǒu), testa e  辵 (chuò), camminare.
(cháng) può significare anche: convenzionale, comune, costante.
E dunque si può anche tradurre:
La Via capace di essere Via non è una Via comune.
La Via che può essere nominata non è la Via convenzionale.

Duyvendak traduce:
La Via veramente Via non è una via costante.
Julien:
La voie qui peut être exprimée par la parole n’est pas la Voie éternelle.
Waley:
The Way that can be told of is not an Unvarying Way
Si distingue Wilhelm:
Der Sinn, der sich aussprechen läßt, ist nicht des ewige Sinn.

Due punti di discordanza, dunque. Il secondo  va interpretato come Parola, o resta Via? e: sta per eterno o costante?
Le interpretazioni possibili sono due. O il passo vuol dire che la Via autentica è al di là della parola, e quella Via che giunge alla parola non è la vera via, non è la Via eterna. Oppure vuol dire che la Via, correttamente intesa (la Via che è veramente Via) è incostante.

La bellezza oltre la mente

Emanuela Zibordi, autrice di Testi scolastici 2.0, ha realizzato un ebook del mio saggio La bellezza oltre la mente. Krishnamurti e l’educazione, uscito nel numero 5 di Educazione Democratica.
Ringraziando Emanuela, lo metto a disposizione per il download su Google Drive.
Come tutti i testi di Educazione Democratica, il saggio è rilasciato con licenza Creative Commons.

La cultura del disprezzo

Ragazzini che prendono a botte un anziano disabile a Manfredonia; altri, appena più grandi, che sulla statale 16 aggrediscono con spranghe delle ragazze rumene, una delle quali incinta. Senza pietà, senza umanità.
Sarebbe un grave errore trarre da queste notizie di cronaca – molte altre se ne potrebbero aggiungere – conclusioni generali sugli adolescenti ed i giovani di oggi. Chi come me lavora ogni giorno con i ragazzi sa che, per fortuna, ancora moltissimi ragazzi sono capaci di empatia, di rispetto, di attenzione per l’altro. E tuttavia sarebbe un errore non meno non interrogarsi su questi segnali di disumanità.
I due ragazzi arrestati per l’aggressione alle ragazze rumene hanno un profilo su Facebook. Uno dei due ha mostra il bicipite tatuato nell’immagine di copertina. Nell’immagine del profilo ha una camicia generosamente aperta sul petto che mette in mostra un grande crocifisso; occhiali enormi, come si usano adesso. In una delle foto è in posa accanto ad un cartello con una scritta in dialetto che traduce così: “Più mi guardi e più in grasso”. La sua precedente immagine di copertina, ancora visibile sul profilo, immortalava un ragazzo col cappuccio che punta una pistola. Tra le informazioni si legge: Studia presso La Cattiveria; precedentemente: La Strada e ladro.
L’altro ragazzo nella foto del profilo è in posa da pugile. Anche lui ha studiato presso la strada (questa volta con la minuscola). Sul profilo gli amici lo sostengono dopo l’arresto. Una ragazza scrive: “fai subito a uscire che dobbiamo fare altre stronzate insieme”.

Visitando questi due profili sapendo cosa hanno fatto, è facile trarre conclusioni. C’erano tutte le premesse, senza alcun dubbio. Il problema è però che quei due profili, che a posteriori appaiono come i profili di due criminali, non sono troppo diversi dai profili di tanti altri ragazzi. L’estrema cura dell’aspetto, con esiti qualche volta anche ridicoli, la palestra, i bei vestiti, le pose da duro. Dietro c’è, non è possibile non notarlo, la ricerca del personaggio: e il modello è, naturalmente, televisivo. Il duro ipercurato è un modello che a quanto pare riscuote un certo successo tra i ragazzi, quale modello umano.
Pare (non sono in grado di controllare la notizia) che uno dei due aggressori delle ragazze rumene sia vicino a CasaPound. Se fosse confermata, la notizia non stupirebbe. Il quadro umano appena delineato è ovviamente fascista, e lo è anche in mancanza di qualsiasi consapevolezza politica. E’ fascista il culto della durezza, anche quando non si traduce nell’azione vigliacca (come sempre è ogni azione fascista) contro donne o anziani, ma resta a livello di look e di posa. E’ fascista il disprezzo nei confronti dei deboli. Sono fasciste le “stronzate”, per usare il termine di quella ragazza.
C’è un humus fascista, dunque. Che va condannato, senza alcun dubbio, ma che va soprattutto compreso.
Qualche giorno fa una studentessa stava ascoltando musica in cuffia. Le ho chiesto cosa ascoltava. Mi ha detto un nome che non ho mai sentito. Poi mi sono documentato: si chiama Salmo. E’ un rapper italiano, sui trent’anni. Leggo su Wikipedia che in una sua canzone, Merda in testa, si trova un verso omofobo: “Se avessi un figlio gay sicuro lo pesterei”. Provo ad ascoltare qualcosa. Un brano si intitola “Il senso dell’odio”. Dice tra l’altro:
Non ci resta che l’odio quando tutto finisce
mi troverai ancora qui, dove il senso lo percepisce.
Non ti resta che l’odio, lui detta e io scrivo.
Fin che senti il senso dell’odio potrai dire di essere vivo!
non ci resta che l’odio…
Sia chiaro: non intendo dire che i ragazzi diventano fascisti o protofascisti perché ascoltano musica rap. Un adolescente degli anni Ottanta ascoltava Ozzy Osbourne ed AC/DC. Probabilmente musica migliore del rap di oggi, ma certo non ne traeva una visione del mondo improntata all’amore universale. La rabbia e l’odio compaiono facilmente nella psicologia adolescenziale e giovanile. Non che siano tratti naturali: gli antropologi sono lì a dimostrare che la variabilità della percezione di sé nelle culture è enorme. Ma da qualche decennio la psicologia dell’adolescente nelle società occidentali è caratterizzata da emozioni fortemente negative, spesso anche distruttive. Non è difficile individuare le ragioni di questa rabbia. Nelle nostre società ai ragazzi si nega qualsiasi partecipazione alla vita sociale. Chiusi per anni nelle scuole – luoghi poco piacevoli -, sono immersi per anni ed anni in rapporti asimmetrici. A diciott’anni uno studente a scuola deve chiedere ancora il permesso per andare in bagno, ed è fortunato se la sua aula non ha le sbarre come la cella di un carcere. Privo di qualsiasi autonomia economica, è totalmente dipendente dai suoi genitori. Gli manca il piacere di dedicarsi ad una qualsiasi attività in favore della collettività, e gli manca quel riconoscimento sociale che soltanto il lavoro è in grado di offrire.
I ragazzi vivono, dunque, una condizione di marginalità. Quello che colpisce è che, diversamente dal passato, la rabbia che scaturisce da questa marginalità non si dirige contro i genitori. Gli adolescenti di oggi considerano la famiglia un valore. Forse l’unico. La famiglia è il porto sicuro nel quale rifugiarsi. L’altro lato della medaglia è l’assoluta impoliticità. C’è una opposizione dentro/fuori. Dentro, nella famiglia, c’è tutta la sicurezza, tutta la fiducia, tutto il bene. Il fuori fa paura. E’ meglio evitare di occuparsene. Perfino gli amici possono tradire, mentre i genitori non tradiranno mai: è una idea che ho sentito mille volte dai miei studenti, e che non sarebbe mai venuta in mente ad un ragazzo degli anni Settanta o Ottanta.

C’è rabbia, dunque. Una rabbia che cerca uno sfogo, ma che non lo trova in famiglia. Dove, come sfogare la rabbia?

Ho detto che sulla statale 16 dei ventenni hanno aggredito delle ragazze rumene. I giornali hanno dato la notizia diversamente. Le ragazze diventano prostitute. Ora, la definizione non sembra errata: si tratta di ragazze che si stavano prostituendo. Ma il fatto di prostituirsi fa tout court di una ragazza una prostituta? No, se la ragazza non si prostituisce volontariamente. Una ragazza che sia costretta a prostituirsi non è una prostituta. E’ una persona vittima di violenza sessuale, ridotta in schiavitù.
Per chi le ha aggredite, erano senz’altro prostitute. E le prostitute sono da sempre disprezzate. Di qui la logica criminale da cui è scaturita quell’azione: se le ragazze rumene che stanno sulla statale 16 sono delle prostitute, e se le prostitute, per consenso unanime, sono da disprezzare, non c’è nulla di male a prenderle a sprangate.
Quello che sta succedendo è che la rabbia giovanile, che è un portato della società capitalistica, incontra una cultura del disprezzo che si sta sempre più diffondendo in seguito alla crisi economica. Quando le cose vanno male sono i più deboli a farne le spese. I veri responsabili della crisi e degli spaventosi squilibri nella distribuzione della ricchezza non perdono nulla della loro rispettabilità; pagano invece quelli che sono ai margini, quelli sui quali pesa un atavico disprezzo, che ora diventa odio e si traduce in azione.
Ecco dunque dove sfogare la rabbia. Esistono dei soggetti che, per il fatto stesso di essere ai margini della società dei consumi, sono privi di dignità umana. Corpi in vendita privi di fortuna, liberamente massacrabili. Il corpo della prostituta, il corpo del migrante, il corpo del clochard.
E’ importante che ci si indigni per l’aggressione a due ragazze, una delle quali incinta, o a un anziano. E’ un segno di umanità. Ma può essere un segno di ipocrisia, se non è inserita in una riflessione più ampia. Se non ci si è indignati anche, ad esempio, per il vergognoso accordo con il quale il governo Berlusconi, con il favore del Partito Democratico, ha consegnato i corpi e le anime, i sogni e le speranze dei migranti africani ai torturatori ed agli assassini libici. E’ ipocrisia, se si finge di non vedere la terribile violenza contro i deboli che attraversa tutta la nostra società, sostenuta da una cultura del disprezzo che si annida nelle pieghe dei discorsi pubblici e privati, nei titoli di giornale, nell’uso apparentemente innocente di termini che tolgono dignità ad un essere umano e sacralità al suo corpo.
Articolo per Stato Quotidiano.

Dobbiamo proprio rileggere Pirsig

Robert M. Pirsig

Mi sto convincendo che la via migliore per uscire dal pantano in cui è caduta la scuola pubblica sia quella di non rilasciare più alcun titolo di studio e di non mettere più voti. A scuola il voto, che dovrebbe essere un mezzo, diventa il fine. Non si viene per imparare, ma si impara (per lo più: si fa finta di imparare) per avere il voto. E poi il diploma. Di qui il mercanteggiare sulle pagine da studiare (“professore, toglieteci questo e quest’altro”), le piccole furbizie, gli imbrogli veri e propri. Di qui l’imparare a memoria. Di qui la scuola trasformata in qualcosa di indefinibile – una triste ed inutile eterotopia.

Discuto di questa idea con alcuni colleghi nel newsgruoup it.istruzione.scuola. Una collega con cui molti anni fa ho discusso a fondo di molte cose commenta: “Comunque dobbiamo proprio rileggerci il Pirsig”. Non colgo il riferimento, finché lei non prosegue con la citazione:
Il più grosso problema dello studente è una mentalità da mulo, inculcatagli da anni di politica del bastone e della carota. L’abolizione dei voti e dei diplomi non si propone di punire i muli o di liberarsi di loro, ma di creare un ambiente in cui ogni mulo possa trasformarsi in un uomo libero.
Così tornerebbe alla nostra scuola senza voti e senza diplomi, motivato questa volta non dai voti ma dalla conoscenza. Lo stimolo a imparare gli verrebbe dal di dentro. Sarebbe un uomo libero. Non avrebbe bisogno di disciplina per la sua formazione, anzi, se i professori dei suoi corsi non si impegnassero a dargli quel che cerca sarebbe lui a metterli in riga con qualche domanda fuori dai denti. 

Ho letto Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta quasi dieci anni fa; lo ricordo come un bel romanzo di viaggio con fastidiose velleità filosofiche. Vado a controllare la mia edizione. Il passo citato è a pagina 196 (l’edizione è Adelphi), ed è ovviamente sottolineato.
A quanto pare sì, bisogna rileggere Pirsig.

31 ottobre, giovedì

“Questa è la scuola”, dice la ragazza nigeriana al figlio. Si chiama Destiny, il bambino. Avrà un anno, sta cominciando a parlare, e guarda il mondo con occhi grandi. L’autobus è fermo davanti alla scuola elementare, imbottigliato nel traffico. “Questa è la scuola. Quando ti fai grande tu vai a scuola. La scuola è buona”, dice la ragazza nigeriana al figlio.
Cinque minuti dopo sono davanti alla scuola in cui insegno. I ragazzi sono tutti nel piazzale, anche se è tempo di entrare. Non entrano. E’ sciopero.
Faccio per entrare. Una delle due porte è sbarrata dalla saracinesca. “Che succede?”, chiedo. “Ci buttano le uova”. Dentro il fetore di uova marce è insopportabile.
Ci buttano le uova.
La scuola è buona.

L’educazione e la sua ombra

Quando si parla di libertà nell’educazione, di rifiuto di ogni forma di violenza educativa, di rispetto rigoroso della personalità del bambino e dei suoi diritti, capita spesso di sentire la seguente obiezione, soprattutto da parte di genitori: “Tutto ciò è assolutamente condivisibile, ma è solo teoria. La pratica dell’educazione è una cosa diversa. Nessun genitore vorrebbe essere violento con i suoi figli, ma crescere dei figli è difficile, ed a volte capita di dover ricorrere alla violenza”. Segue, in genere, la narrazione di qualcuna di queste situazioni estreme, nelle quali sarebbe impossibile seguire i principi di una pedagogia libertaria e nonviolenta.
In genere si tratta di situazioni di due tipi.
La prima situazione è quella di un bambino che si trova in pericolo o che rifiuta qualcosa che per lui è indispensabile. Può essere che il bambino si ostini a fare una cosa che per lui è oggettivamente pericolosa, come attraversare da solo una strada molto trafficata, o che non voglia a nessun costo prendere uno sciroppo che è necessario per la sua salute. Che fare? Non bisognerà rinunciare ai nostri cari principi libertari ed esercitare una qualche pressione, forse anche una violenza? Sarà bene spiegargli perché deve attraversare accompagnato o prendere lo sciroppo, sperando nella sua comprensione. Ma se non comprende, occorre costringerlo senz’altro.

Questo dimostra che non è possibile educare rispettando la libertà del bambino? Non proprio.
E’ importante distinguere l’educazione dall’allevamento. E’ educazione tutto ciò che favorisce la crescita personale, spirituale, morale, intellettuale del bambino; è allevamento, invece, la cura del suo benessere fisico, della sua crescita corporea, della sua incolumità. La relazione tra le due cose è assai stretta, ma non fino al punto che non sia possibile distinguerle. Anche se è destinato ad essere trasceso dall’educazione, l’allevamento ne costituisce la premessa indispensabile: un genitore non può occuparsi della crescita personale del suo bambino senza prima garantirgli la salute e la sicurezza. E’ importante che anche l’allevamento segua il principio del massimo rispetto della personalità del bambino. In passato sono state diffuse pratiche che, in nome dell’allevamento, mortificavano anche fisicamente il bambino: si pensi all’usanza di fasciare i bambini, che qualcuno vorrebbe riportare in auge in nome della presunta saggezza dei vecchi tempi. Se il bambino rifiuta una cosa che riteniamo essere buona per lui, è bene fermarci un attimo a riflettere. Non può essere che abbia ragione lui? Noi pensiamo che faccia freddo e che per questo debba coprirsi. Lui si rifiuta e strilla. Non può essere che abbia caldo, e potrebbe essere per lui dannoso coprirsi?
E tuttavia vi sono casi nei quali non è possibile evitare l’imposizione. Nessun bambino prende una medicina amara con piacere; bisogna costringerlo a prenderla, anche se piange e ri rifiuta, così come bisogna costringerlo a porgere il braccio per fare un prelievo di sangue, e tante altre cose.
Costrizione, dunque. Ma non costrizione educativa. Si tratta di qualcosa che ha invece a che fare con l’allevamento, che rappresenta in questo caso l’ombra, per così dire, dell’educazione. Riguarda indirettamente l’educazione, nel senso che la rende possibile, ma resta una cosa diversa.
E’ errato considerare questi casi di costrizione necessaria la prova dell’inevitabilità della costrizione in educazione.
Vi sono poi i casi disperati. In genere i genitori li raccontano all’esperto – il pediatra, lo psicologo, più raramente il pedagogista – non senza una qualche agitazione. Il bambino è diventato impossibile. Fa i capricci di continuo, è violento, maleducato, rende la vita impossibile ai genitori. Che fare? Chi censurerà mai un genitore che aggredisce verbalmente un bambino insolente, e magari giunge a prenderlo a schiaffi? In effetti, se si considera la scena raccontata dal genitore, pare quasi impossibile dargli torto. A tratti vivaci, ci viene dipinta l’immagine di due poveri genitori vessati da un piccolo tiranno. Ma quella scena può essere compresa soltanto se allarghiamo la visuale. Perché il bambino si comporta così? Può essere che stia vivendo un momento difficile, per varie ragioni. Può essere, ad esempio, che a scuola subisca le angherie di qualche compagno, e che questo lo renda nervoso o irritabile. Può essere che si senta meno amato del fratellino più piccolo, che è al centro delle attenzioni perché più bisognoso di cure. Può essere che i genitori stessi abbiano difficoltà di relazione, e che questa instabilità del sistema-famiglia si rifletta sul bambino. Senza approfondire questo quadro, è difficile capire il comportamento del bambino. Quel che è certo, è che un intervento violento – sia nella forma verbale del rimprovero che in quella fisica dello schiaffo – non ha alcun valore educativo. Otterrà, forse, l’effetto di mettere a tacere momentaneamente il bambino, ma di sicuro non lo aiuterà a crescere.
Dietro la scena raccontata all’esperto di turno c’è, spesso, una intera storia di errori educativi. Se le relazioni con il bambino sono state basate fin dalla nascita su forme diverse di violenza – il rimprovero, il ricatto, la minaccia, la punizione -, è assolutamente normale che il bambino ad un certo punto diventi a sua volta violento e che si comporti in modo da suscitare risposte violente. Le quali a loro volta confermano il comportamento violento, in un circolo vizioso dal quale è molto difficile uscire.
Il bambino ha imparato la lingua della violenza, e imparare un nuovo linguaggio relazionale, già a cinque o sei anni, può essere difficile. Addirittura impossibile, se chi gli sta intorno continua a parlare la vecchia lingua.
E’ chiaro che la domanda “Cosa dovrei fare?”, con la quale si cerca di mettere all’angolo chi sostiene il principio del rispetto educativo e del rigoroso rifiuto di ogni forma di violenza, è una domanda alla quale non è possibile dare che una sola risposta: “Smettere di fare quello che hai sempre fatto”. Ma è una risposta che sono disposti ad ascoltare soltanto quei genitori che di fatto hanno già cominciato a parlare un’altra lingua. Gli altri continueranno a parlare della presunta distanza tra la teoria e la pratica, tra le belle idee dei pedagogisti e la concreta e difficile (e che sia tale nessuno lo negherà) prassi dell’educazione.
Articolo per Il bambino naturale.

Ancora sui bandi ad personam dell’Università di Foggia

Scambio su Facebook con il Magnifico Rettore Giuliano Volpe.
Giuliano Volpe: Vigilante sta facendo polemiche. Unifg non ha risorse per retribuire contratti di insegnamento. Forse Vigilante ignora che il sistema universitario italiano ha perso un miliardo di finanziamento statale negli ultimi anni? ignora che Unifg riceve 5 milioni in meno ogni anno rispetto al 2008-9? Ho cercato di spiegare questa situazione difficilissima in questi anni, ma evidentemente non basta. La legge Gelmini inoltre impone un limite del 5% di insegnamenti a contratto a titolo gratuito. Nel caso dei corsi di area umanistica si tratta di 2-3 contratti gratuiti (uno di questi ad esempio è tenuto dalla ex preside e professore emerito Franca Pinto Minerva). L’unica maniera per avvalerci dell’apporto gratuito di docenti esterni è grazie a convenzioni con Enti pubblici, tra cui scuole secondarie, musei, soprintendenze. Per fortuna ci sono colleghi di queste istituzioni, ovviamente dotati di titoli scientifici adeguati, che offrono gratuitamente e generosamente il loro apporto. So bene che è ingiusto non retribuire il lavoro e in particolare il lavoro intellettuale di docenti. Ma non ci sono le risorse! L’alternativa sarebbe chiudere corsi, ridurre ulteriormente l’offerta formativa, mettere in difficoltà i nostri studenti. Dov’è lo scandalo? dove l’ingiustizia? dove il nepotismo? Avevamo rapporti di collaborazione con vari docenti e con molte scuole, in alcuni casi da anni: abbiamo regolarizzato questi rapporti attraverso convenzioni, secondo quanto previsto dalla legge 240 ‘Gelmini’. Annualmente si pubblica un bando relativo alle discipline ‘scoperte’ per le quali è necessario rivolgersi all’esterno; i docenti della scuola che si è dichiarata disponibile alla collaborazione e hanno sottoscritto una collaborazione possono presentare domanda di insegnamento. In tal modo sostengono l’Università e la sua offerta formativa, la scuola e i docenti dimostrano di collaborare con una Università.

Tutto alla luce del sole. Ho già detto a Vigilante di denunciare la cosa alla magistratura se ritiene che ci siano irregolarità: in questi anni non una sola indagine della magistratura, non uno scandalo, non una indagine ci ha minimamente riguardati. Abbiamo la coscienza limpida. Anche le ultime vicende di concorsi universitari sui quali si presumono irregolarità non ha riguardato Unifg. Vigilante ora mi attacca solo perché ho ritenuto doveroso, come ho sempre fatto, rispondere, dare spiegazioni, cercare di chiarire. Se è interessato a collaborare con l’Università e se ha i titoli per farlo, nulla impedisce che faccia domanda per i bandi che riguardino i settori disciplinari di sua competenze, se per questi ovviamente non ci sono docenti interni dell’Università e se sono previsti nei nostri corsi di studio, si attivi perché la sua Scuola sottoscriva una convenzione con Unifg. Preciso che ignoro completamente a quali insegnamenti lui si riferisca, a quali docenti della sua Scuola e di altri Istituti: in questi anni mi sono occupato della gestione dell’intero Ateneo e non ho potuto seguire le vicende dirette del Dipartimento di studi umanistici, che ha un suo direttore e il cui consiglio ha deliberato in proposito. Ho solo cercato di spiegare le procedure: che possono non piacere (e non piacciono nemmeno a me), ma sono quelle fissate dalla legge. Ci dispiace solo che si facciano polemiche, si getti fango, si cerchi screditare anche quelle poche realtà che cercano di operare con trasparenza, con legalità, con serietà.
Antonio Vigilante: Gentile Rettore, glielo spiego subito dov’è lo scandalo (non ho parlato di nepotismo). Per essere chiaro fino in fondo dovrò fare nomi e cognomi, cosa che fino ad ora ho evitato (anche se i giornalisti dell’Attacco” non si sono fatti molti scrupoli nel pubblicare ciò che era stato riferito in privato).
C’è all’Università di Foggia un docente a contratto di cinematografia che si chiama Eusebio Ciccotti. E’ una persona che non conosco; non ho alcun motivo di dubitare che sia un’ottima persona e che abbia tutti i titoli per insegnare cinematografia. Ora, c’è questo bando per un insegnamento a contratto di cinematografia che – cosa stranissima – è riservato ai soli docenti dell’istituto “Majorana” di Guidonia. E’ un bando strano sia perché è singolare che si restringa la selezione ai docenti di una sola scuola, sia perché Guidonia non è proprio dietro l’angolo: se si vuole scegliere tra i docenti di una scuola, perché proprio quella? Allora faccio un rapido controllo su Google, inserendo come ricerca “Eusebio Ciccotti Majorana”. Ed ecco svelato l’arcano: il professor Eusebio Ciccotti è il dirigente scolastico dell’istituto Majorana di Guidonia. Se dunque concludo che si tratta di un bando ad personam vuol dire che sono uno che vuole gettare fango sull’università, o semplicemente ho capito quello che capirebbe un bambino di cinque anni e qualunque adulto non in malafede?
Vediamo ancora. L’altro bando è riservato ai docenti del “Roncalli”, che è la scuola in cui insegno. Questa volta si tratta di selezionare un docente di filologia. Devo credere che è solo per una singolare coincidenza, che al “Roncalli” insegna la professoressa Pierangela Izzi (anche lei, sia chiaro, ottima persona e preparata), che è stata la titolare dell’insegnamento a contratto di filologia?
E come mai, poi, se l’università fa un bando riservato ai docenti di una scuola, si dimentica poi di avvisare quella scuola del bando? Non è, ancora, semplicemente perché in realtà il bando non è indirizzato a tutti i docenti di quella scuola, ma soltanto ad uno?
Vedo che lei vuole ad ogni costo metterla su personale. Occorre dunque che glielo dica: non mi interessa collaborare con l’Università di Foggia a quelle condizioni. Non lavoro gratis. Ma se volessi, mi permetta di smentirla: non potrei semplicemente proporre la mia candidatura. Se le logiche e le prassi sono quelle, io come tanti altri non potrò concorrere lealmente ad una cattedra, sia pure a contratto. Così come ora decine e decine di studiosi, pur bravi, sono esclusi da quei bandi, per il semplice fatto di non insegnare al “Roncalli” di Manfredonia o al “Majorna” di Guidonia, se ci fossero dei bandi riguardanti filosofia o pedagogia (le mie discipline) io ne sarei escluso, perché non insegno al liceo “Paperino” di Rocca Cannuccia.
I bandi ad personam – e la prego di entrare nel merito: mi dimostri che quelli non sono bandi ad personam: che si tratta solo di incredibili coincidenze – negano a chi da anni studia con passione il diritto stesso di proporsi al mondo accademico. Ma quello che disgusta particolarmente, in quei bandi, è la sfacciata arroganza, propria di chi sa che tanto nessuno potrà farci nulla. Mancava poco che nel bando si mettesse la descrizione fisica del candidato prescelto.
E’ anche puerile, mi permetta, dire che io l’attacco perché ha ritenuto doveroso “rispondere, dare spiegazioni, cercare di chiarire”. Al contrario. Non ho alcun interesse personale ad attaccarla. L’ho sempre stimata, così come stimo il professor Saverio Russo. L’attacco perché non ha spiegato un bel niente e nega l’evidenza. Un atteggiamento che, mi creda, non le fa onore.

Giuliano Volpe: Mi scusi, ma evidentemente non sono stato chiaro. Io ho precisato, senza fare i nomi evidentemente, che con alcuni docenti (e con le loro scuole) si è consolidato un rapporto di collaborazione negli anni. Docenti che già in passato hanno vinto una selezione per l’affidamento di un dato insegnamento. Il prof. Ciccotti (visto che lei ha fatto il suo nome) tiene un corso di storia del cinema da molti anni, con grande competenza e grandissimo gradimento degli studenti, ed anche con enorme generosità visto che lo tiene gratuitamente pur venendo da lontano. Nel momento in cui la legge Gelimini ci ha impedito di proseguire con il contratto gratuito nelle forme precedenti e ha introdotto l’obbligo della convenzione con altre strutture pubbliche, abbiamo stipulato una convenzione con la Scuola cui afferisce il prof. Ciccotti. Questa è la procedura introdotta dalla legge Gelmini: anch’io la considero per molti versi assurda ma non abbiamo potuto fare diversamente, se volevamo avvalerci ancora della collaborazione del prof. Ciccotti, vista la sua disponibilità a continuare a offrire il suo insegnamento gratuitamente (cosa di cui gli siamo enormemente grati). Lo stesso è avvenuto in altri casi. Ed è quanto fanno anche altre università. L’alternativa, lo ripeto, è chiudere i corsi, mettere a tacere insegnamenti: purtroppo non abbiamo le risorse né per contratti retribuiti né tanto meno per effettuare nuove assunzioni. E’ una cosa che dispiace anche a me, a noi tutti, perché vorremmo potenziare il personale docente dell’Università soprattutto assumendo altri giovani preparati (ora siamo riusciti ad ottenere 17 nuovi posti di ricercatore con fondi regionali, che saranno banditi nei prossimi mesi) e a retribuire adeguatamente i professori a contratto. Se disponessimo di tali risorse ovviamente faremmo bandi nazionali senza alcuna limitazione, come era in passato. In ogni caso, come le ho già detto, anche per evitare situazioni ‘non chiare’, stipuleremo una convenzione con la Direzione Scolastica Regionale (sperando di poterlo fare in tempi ragionevoli) in modo che ai bandi per i contratti di insegnament a titolo gratuito possano partecipare i docenti di tutte le scuole pugliesi. Spero di essere stato chiaro e di non aver dato l’impressione di non voler entrare nel merito.

Antonio Vigilante: Sostanzialmente lei sta ammettendo che da anni ed anni all’Università di Foggia si fanno bandi ad personam perché non è possibile fare diversamente. Ho interpretato male?

Giuliano Volpe: Non è così. Intanto le norme sono cambiate recentemente e abbiamo dovuto/voluto evitare l’interruzione della necessaria continuità didattica, utilizzando lo strumento delle convenzioni previste dalla legge Gelmini. Il prof. Ciccotti, ad esempio, ha partecipato anche in passato a numerosi bandi, sempre con una rigorosa valutazione ex ante dei titoli scientifici e una valutazione ex post della qualità dell’insegnamento. Ad esempio per un bando per restauro fatto in convenzione con la Direzione regionale ai BC ci sono state più domande e una commissione ha valutato i titoli e scelto la persona più titolata.

Antonio Vigilante: Curiosa questa faccenda della continuità didattica. Se uno ha vinto un bando nel 2000, bisogna assicurargli il superamento di tutte le selezioni successive con dei bandi ad personam per garantire la continuità didattica. E se ci fosse nel frattempo qualcuno più preparato di lui? Ma non lo vede proprio, Rettore, lo scandalo di negare a molti, soprattutto giovani, il diritto di partecipare ad una selezione pubblica? Io conosco diversi giovani studiosi di filologia, che avrebbero tutti i titoli per concorrere a quella cattedra, e che non possono perché non insegnano in quel tale liceo. Gli diciamo che non hanno diritto per colpa della legge Gelmini o della continuità didattica?
Vogliamo dirlo allora chiaramente, Rettore, che quei bandi sono semplicemente una farsa, dal momento che si sa già chi deve superare la selezione? Lei lo ha detto esplicitamente, parlando di “consolidati rapporti di collaborazione negli anni”. Diciamolo in modo ancora più esplicito: cari studiosi, lasciate perdere; se non avete consolidato negli anni “rapporti di collaborazione”, non avete nemmeno il diritto di partecipare ad una selezione. Fate le valigie ed andate all’estero.

Aggiornamento

Il Magnifico Rettore Volpe ha deciso di annullare quei bandi:

“Vigilante ha posto un problema reale, che anche noi stiamo cercando di risolvere da tempo con gli strumenti disponibili, senza danneggiare le magrissime risorse e soprattutto la regolarità dei corsi. Abbiamo discusso, ho cercato di spiegare, alla fine lui ha dimostrato fiducia. Ma passare ora per un disonesto e un imbroglione, come sta cercando di fare quel gionale [il riferimento è ad un articolo de “Il Mattino di Foggia”], perché applicando una pessima legge si è cercato di trovare una soluzione per alcuni contratti di insegnamento gratuiti (sottolineo “gratuiti”, senza che Unifg abbia speso un solo euro) grazie alla disponibilità di docenti esterni che da anni generosamente si sacrificano per garantire dei corsi apprezzati dagli studenti, mi sembra un vero paradosso, tipico di questo paese. Altre Università pur con i conti in rosso o in pieno dissesto, hanno continuato a pagare allegramente contatti e supplenze. Noi no. In ogni caso, ho deciso di far annullare quei bandi (che, lo dico solo per completezza di informazione, sono una competenza dei dipartimenti non del rettorato; ma ovviamente mi assumo interamente le mie responsabilità ed è per questo che anche in questa occasione ho messo la faccia senza far finta di niente o senza rispondere, come forse altri ‘più furbi’ avrebbero fatto; considero questo impegno di rendere conto un dovere etico di chi governa), anche a costo di sospendere quegli insegnamenti per quest’anno; ovviamente gli studenti potrebbero avere dei problemi con i loro piani di studio; cercheremo di stipulare nei tempi più rapidi convenzioni con le direzioni scolastiche regionali, di Puglia ed eventualmente anche di altre regioni, in modo che qualsiasi docente in possesso dei titoli scientifici adeguati e disponibile a tenere un corso universitario a titolo gratuito possa partecipare alla selezione” (da Facebook).

Gli strani bandi dell’università di Foggia

Giuliano Volpe
Facciamo che tu sei un filologo. Un filologo bravo, non uno così così. Uno che ha letto un sacco di libri e ne ha scritti una decina. Libri importanti, adottati all’università. Mettiamo che l’università della città in cui vivi bandisce un posto da docente a contratto per l’insegnamento di filologia. Che bello, pensi. Cioè: si tratta di lavorare gratis – si sa che i docenti a contratto lavorano gratis o per due soldi -, ma puoi insegnare le cose che sai, ed insegnare è bello. Poi però leggi il bando e non credi ai tuoi occhi. Anche se hai scritto una decina di libri, non puoi partecipare, perché il bando è riservato ad un gruppo estremamente ristretto di persone: i docenti di un liceo della provincia.
Sembra l’inizio di un racconto surreale, ed invece è quello che accade all’università di Foggia. La quale ha bisogno di docenti di filologia, di storia del cinema e di informatica per la letteratura, ma non li cerca, come sarebbe logico, tra gli studiosi di queste discipline, ma, rispettivamente, tra i docenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia, del liceo “Majorana” di Guidonia e dell’istituto “Don Milani” di Acquaviva delle Fonti.
Una cosa così singolare non ha che due possibili spiegazioni. La prima è che all’università di Foggia sono semplicemente impazziti. Non occorre essere particolarmente perspicaci per capire che più è ampio il numero di persone che partecipano ad una selezione, più è facile selezionare persone che valgono. L’università di Foggia invece va a cercare i suoi docenti in tre sole scuole secondarie, escludendo dalla selezione tutti quelli che insegnano in altre scuole, o non insegnano, o collaborano con l’università. Persone cui viene negato il diritto di partecipare ad una selezione pubblica.

D’altra parte, come fa l’università di Foggia ad essere sicura che al “Roncalli” vi siano dei bravissimi filologi ed al “Majorana” degli esperti di storia del cinema? Non è che si trovano in tutte le scuole figure in possesso di una così alta qualificazione professionale. E che succede se non se ne trova nessuno? Si fa un altro bando, indirizzato al liceo “Paperino” di Rocca Cannuccia? E poi ancora un altro, ed un altro ancora, fino a quando – dopo un anno, magari – per pura fortuna ci si imbatte in una scuola in cui esistono le figure richieste?
La seconda spiegazione possibile è che in realtà l’Università, facendo quei bandi, è andata sul sicuro. Ha indirizzato il bando al liceo “Roncalli” perché sa che lì c’è un docente che potrà insegnare la disciplina. O meglio: che dovrà insegnare la disciplina. Un bando ad personam. Se le cose stessero così, l’agire dell’università non sarebbe una follia. Sarebbe una porcata.
Ho chiesto conto della cosa a Giuliano Volpe, magnifico rettore uscente. Mi ha risposto che le convenzioni con altri enti pubblici – nel caso specifico le scuole – sono l’unico modo per avere docenti a contratto a titolo gratuito, in seguito alla legge Gelmini. Ora, sorvolando sulla vergogna di non pagare nemmeno il caffè o la benzina a professionisti che sono essenziali per il funzionamento dell’università, la legge Gelmini non dice proprio questo. Dice che “Le università, anche sulla base di specifiche convenzioni con gli enti pubblici di ricerca di cui all’articolo 8 del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 dicembre 1993, possono stipulare contratti della durata di un anno accademico” (articolo 23, comma 1). Dunque: le università possono stipulare contratti anche sulla base di convenzioni con enti pubblici; il che non vuol dire che devono necessariamente farlo. E quali sono poi questi enti pubblici? Il Regolameno citato dalla legge Gelmini rimanda a sua volta alla legge 20 marzo 1975, n. 70, che ha in allegato una tabella che elenca questi enti pubblici ed istituzioni di ricerca. Tra gli altri: l’Accademia dei Lincei, il Centro Sperimentale di Cinematografia, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Insomma, non proprio il liceo di provincia. Perché allora l’università di Foggia cerca docenti di filologia non all’Accademia dei Lincei, ma al liceo “Roncalli” di Manfredonia, e docenti di cinematografia non al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma al liceo “Majorana” di Guidonia? Si dirà: ma uno dell’Accademia dei Lincei non viene a Foggia a insegnare gratis, e nemmeno uno del Centro Sperimentale di Cinematografia. Verissimo. Ma cosa fa pensare che possa e voglia venire ad insegnare gratis a Foggia, invece, uno che insegna al “Majorana” di Guidonia?

Qui i tre bandi:
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6493/
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6494/
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6495/

Figure dell’amicizia educativa

Ceramica di Duride
L’antichità greca e romana ci offre con la figura del pedagogo una icona dell’educatore come amico. Il pedagogo non è il maestro (in greco didaskalos), ma colui che accompagna dal maestro il bambino e poi il ragazzo. Del maestro non ha l’autorevolezza, anche perché il pedagogo è uno schiavo, e spesso nemmeno parla bene la lingua, essendo straniero (ed a Roma è lui a diffondere la conoscenza della lingua greca); si tratta tuttavia di una presenza fondamentale per la crescita dei giovani (e il suo condurre il bambino darà il nome alla disciplina che studia l’educazione). Dopo aver accompagnato il giovane dal maestro, si siede con lui ed ascolta la lezione. Una volta a casa il pedagogo – che viene rappresentato per lo più come un vecchio calvo: non a caso lo stesso aspetto del maieuta Socrate – aiuta il giovane a ripetere la lezione che ha ascoltato presso il maestro. Vi sono dunque due lezioni: quella del maestro, ossia di un insegnante autorevole ed autoritario, che può ricorrere e ricorre di fatto anche alla sferza per insegnare, e la lezione domestica del pedagogo. Non escludo che anche quest’ultimo, in un contesto nel quale l’educazione è ampiamente fondata sulla coercizione, usasse qualche volta la sferza, ma la sua condizione di schiavo riduce ampiamente le sue possibilità in questo campo. L’eventuale durezza non cambia la natura della relazione, che consisteva in uno stare-accanto, e non in uno stare-sopra. Anche quando è costretto ad imporsi (tra l’altro spetta a lui insegnare le buone maniere), il pedagogo resta un compagno di strada, uno che guida camminando insieme, ascoltando, consigliando, spesso perorando la causa del giovane presso i genitori, preoccupandosi costantemente del suo bene.

L’oriente buddhista ha una espressione per indicare l’amicizia educativa o spirituale: kalyana-mittata. Nella tradizione pedagogica e religiosa indiana il maestro è il guru, colui che guida dalla oscurità alla luce, la guida spirituale che è per il suo discepolo, che vive con lui, un vero e proprio secondo padre. Il buddhismo, che alcuni considerano non una religione distinta, ma un movimento di riforma dello hinduismo, ha contestato alcuni dei punti centrali della società e della cultura religiosa tradizionale dell’India: il sistema delle caste, i sacrifici animali, le divinità. Nel buddhismo non c’è posto per alcuna fede in un Dio. Si tratta, invece, di una pratica (una terapia, per molti versi) di liberazione dalla sofferenza, che è in primo luogo psicologica. L’esistenza umana è piena di sofferenza: identificare le radici della sofferenza e trovare un modo per tagliarle è lo scopo dell’insegnamento del Buddha. Il quale non va accettato senza una indagine razionale personale. Nel Kalama Sutta il Buddha invita a non fidarsi né della tradizione, né delle scritture, né dei maestri, ma a “sapere da noi stessi”, a cercare la conoscenza che nasce dall’esperienza diretta e dall’esame autonomo.
Se le cose stanno così, è chiaro che la figura del maestro viene ridimensionata. Non sarà più colui cui affidarsi – un tale affidamento non ha valore, ed è anzi pericoloso – ma colui che ci aiuta ed accompagna nella ricerca. Tale è il kalyana-mitta, il “buon amico” di cui parlano diversi sutra buddhisti. Per quanto predichi la benevolenza non solo verso gli esseri umani, ma nei confronti di qualsiasi essere vivente, il buddhismo avverte anche del pericolo che nasce dalla relazione con persone che non seguono la via della saggezza. “Non si frequentino come amici i cattivi: non si frequenti la gente vile. Si abbia dimestichezza coi buoni amici, si frequentino i migliori fra gli uomini!”, dice il Dhammapada (VI, 78; qui ed oltre la traduzione è di Pio Filippani-Ronconi), uno dei testi fondamentali del buddhismo. Se la frequentazione dello stolto allontana dalla via della liberazione e ci precipita nel gorgo del vizio, e dunque della sofferenza (per il buddhismo, la sofferenza è una conseguenza inevitabile del male compiuto), avere accanto una persona virtuosa ci aiuta nella nostra crescita spirituale ed etica. In un altro testo fondamentale del buddhismo, Itivuttaka (I, 17) si legge: “Monaci, per il monaco che [ancora] è un discepolo e non è ancora giunto a padroneggiare la mente, ma che risiede nell’aspirazione per la suprema pace dai vincoli e ne fa un elemento riguardante il mondo esteriore (= la sua vita di relazione), io non vedo altro singolo fattore così giovevole quanto l’amicizia con un buon amico. Monaci, chi ha un buon amico [e consigliere] abbandona ciò che non è giovevole e rende a se stesso possibile conseguire ciò che è giovevole”.
Il buon amico non ha alcun potere, non occupa nessuna posizione gerarchica, non ha insegnamenti da trasmettere; è soltanto una persona buona, liberamente scelta, che ci sta accanto nel difficile ed accidentato cammino verso il bene. E’ l’amicizia fondata sulla virtù di cui parla Aristotele. Chi voglia assumere su di sé l’impresa dell’educazione dovrà essere per colui che intende educare un tale amico. Il che non vuol dire offrire sempre un modello di virtù, rappresentare la perfezione morale, colui che ha raggiunto la meta che l’altro deve raggiungere. Se così fosse, verrebbe meno il cammino comune, e con esso l’amicizia. Il buon amico invece è colui che è in cammino, che sa camminare insieme. La differenza tra l’educatore e il cosiddetto educando sta nel fatto che se il secondo, seguendo gli insegnamenti del Buddha, farà bene a tenersi lontano dallo “stolto”, il primo riuscirà a vedere ed a favorire la crescita in lui di quella “natura Buddha”, quel luminoso germe spirituale che secondo lo stesso insegnamento del buddhismo ognuno di noi ha dentro di sé, per quanto spesso così sepolto dall’ignoranza che sembra impossibile farlo affiorare e germogliare.
Articolo per Il bambino naturale.

Don Milani, Gramsci e i bisogni educativi speciali

Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all´esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d´accusa che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio “socio-economico, linguistico, culturale”); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.
Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l´hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C´è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente – nel senso etimologico: che esclude – borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura. Continue reading “Don Milani, Gramsci e i bisogni educativi speciali”

La palude

Questa mattina con le mie classi – la quarta e la quinta – ho incontrato Francesca Brancati, ex studentessa della mia scuola ed attivista per i diritti LGBT (di lei si sono occupati negli ultimi giorni i giornali per una lettera con la quale ha chiesto pubblicamente alla Barilla di sponsorizzare il suo matrimonio con la sua compagna, quale riparazione per le infelici dichiarazioni di Guido Barilla sulla inopportunità di mostrare una famiglia omosessuale negli spot pubblicitari della sua azienda).
Abbiamo discusso per due ore in quarta, fino alla fine della giornata scolastica: ed i ragazzi hanno mostrato l’interesse che sempre c’è, a scuola, quando non si tratta di girare stancamente intorno al manuale, in vista dell’interrogazione.
Ad un certo punto viene fuori una questione di cui avevano parlato durante la precedente ora di religione: Vendola che stanzia dei soldi per finanziare i cambi di sesso, togliendo fondi ad altri settori della sanità. Non so nulla della cosa, la sento ora per la prima volta: e dunque non commento la notizia, riservandomi di approfondirla.
Giunto a casa, faccio un giro in rete, e trovo i seguenti titoli:
Delibera choc di Vendola: soldi a chi cambia sesso (il Giornale.it)
“Soldi pubblici per cambiare sesso” (Unione Sarda)
Puglia paradiso dei trans (Qelsi Quotidiano)
Vuoi cambiare sesso? Ci pensa Nichi (Libero Quotidiano)
e così via.
Basta qualche altro minuto, per inquadrare la cosa nei suoi giusti termini. E cioè: la giunta regionale ha finanziato con 170.000 euro un servizio di assistenza per le persone transgender che hanno deciso di sottoporsi ad un’operazione per cambiare sesso. Dunque: si finanzia l’assistenza psicologica, non l’operazione. La stessa assistenza psicologica che in Italia viene garantita a una molteplicità di soggetti  – dagli alcolisti ai dipendenti dal gioco d’azzardo, dai tossicodipendenti alle persone obese -, senza che nessuno protesti perché “vengono sottratti soldi alla cura del cancro per aiutare gli obesi, che potrebbero semplicemente decidere di mangiare di meno”.
Se dovessi fare una lista delle cose che mi spaventano di più, metterei ai primi posti questa: la facilità con cui si distorce la verità, l’irresponsabilità con cui si avvelena il clima per rendere impossibile qualsiasi dibattito pubblico che sia fondato sulle cose, e non su fantasie. Esistono in Italia molte persone pagate per questo. Pagate per fare a pezzi la nostra democrazia – perché di questo si tratta, dal momento che non è possibile democrazia senza un dibattito pubblico serio e documentato.
Penso che la scuola, nonostante i suoi tristi e ben noti limiti, possa essere un luogo in cui ci si abitua al rigore, all’esattezza, alla ricerca appassionata della verità. Ed al confronto aperto ed onesto. Non un posto in cui si educa alla democrazia – non credo nell’educare a -, ma semplicemente un luogo in cui si fa pratica di democrazia in un paese sempre più eroso dall’autoritarismo, dal populismo, dal fascismo di ritorno: e dalla semplice, inaffondabile stupidità.

L’esercito nel parco

Comunicato dell’USI-AIT Puglia.

Il Parco dell’Alta Murgia è una vasta area semideserta che si estende tra la BAT (Barletta- Andria-Trani) e la provincia di Bari: un ambiente nel quale vivono, in delicato equilibrio, cinghiali e donnole, volpi e faine, usignoli ed aironi. Un ambiente da preservare dalla speculazione e dall’invadenza umana: non a caso, anni fa, la zona del Parco è stata dichiarata “area protetta”. Ma ci sono vincoli (culturali, paesaggistici, faunistici) che cadono di fronte all’arroganza del potere, ed è così che il delicato ecosistema di un’area unica in Italia può diventare al tempo stesso luogo per una servitù militare. Concetto che vuol dire, in sostanza, che i militari hanno il diritto di far strame di un certo territorio: è cosa loro. Il Parco dell’Alta Murgia diventa, così, il luogo per assurde esercitazioni militari “a fuoco” che, come è facile immaginare, mettono a serio rischio l’equilibrio naturale e rischiano di compromettere il delicato ecosistema della zona. Nella primavera appena trascorsa le esercitazioni hanno coinvolto circa tremila militari – danneggiando non solo l’ambiente e la fauna nella delicata fase della riproduzione – ma anche le realtà economiche che gravitano intorno al Parco. Le proteste dell’Ente Parco, delle associazioni, dei semplici cittadini indignati per questa insensata violenza inflitta al territorio, hanno ottenuto una sospensione delle esercitazioni in programma nel mese di settembre. E’ annunciata tuttavia la ripresa di esercitazioni a fuoco nel poligono di Torre di Nebbia nei mesi di ottobre e novembre.

Per il ministro della Difesa Mario Mauro (che è pugliese) queste esercitazioni, lungi dal mettere in pericolo l’ambiente e la stessa economia della zona, sono una benedizione per l’area: “È vero – ha dichiarato – che sono un onere ma anche lo strumento attraverso il quale viene bonificato continuamente il terreno, vengono erogati dei contributi, se non ricordo male circa 600mila euro nell’arco dell’ultimo anno, e vengono effettuati tutti quei lavori di miglioria del territorio che nel dialogo con tutte le altre Istituzioni locali e egli enti parco contribuiscono a migliorare l’ambiente”. Con un rovesciamento lessicale degno di Orwell il ministro lascia intendere che il modo migliore per “bonificare” l’ambiente ed il terreno circostante sia sparare in un’area protetta e “monetizzarne” il rischio. Per comprendere appieno la risibilità di queste affermazioni basta leggere un’indagine conoscitiva del Centro Studi della Commissione Difesa (non dunque di una associazione … “bolscevica”) del maggio 2008 in merito alle servitù militari.

Dopo aver affermato che le servitù militari possono svolgere una funzione di tutela paesaggistica, impedendo la speculazione edilizia (motivazione che non regge per un’area già protetta), il documento ammette, riferendosi alla Sardegna – una regione nella quale le servitù militari sono estremamente invadenti e nei cui poligoni di tiro si utilizzano, non di rado, proiettili a base di uranio impoverito – che: (…) “l’intensità e la concentrazione delle esercitazioni a fuoco, nonché la sperimentazione di armamenti con uso di combustibili e propellenti, hanno comunque avuto un sensibile impatto ambientale su molti territori della Regione, la cui possibile riqualificazione, in prospettiva, richiederà costose e difficili opere di bonifica e ripristino che, in alcuni casi, non potranno probabilmente essere totalmente soddisfacenti (si pensi al recupero degli ordigni inesplosi giacenti sui fondali marini)”. Questo è quello che le Forze Armate hanno fatto in Sardegna, e questo è quello che – se non saranno fermate per tempo – faranno in Puglia.

L’UNIONE SINDACALE ITALIANA -AIT Puglia chiede l’immediata e definitiva sospensione di tutte le esercitazioni militari nel Parco dell’Alta Murgia e la totale eliminazione della servitù militare nell’area. Si riserva di intraprendere – in concorso con altri soggetti sociali – tutte le iniziative idonee ad impedire lo scempio del territorio e la dilapidazione di risorse che – in tempi di crisi – andrebbero indirizzate a sostenere le fasce di popolazione impoverite da una crisi finanziaria globale che non hanno causato e di cui non hanno alcuna responsabilità.

25 settembre, mercoledì

Al collo. Ho portato per molto tempo una medaglietta d’argento con il simbolo del Kalachakra, alternandola con una moneta da cinquanta leke, un piccolo Buddha di legno, un pendente nepalese con gli occhi del Buddha. Adesso ho un cerchietto di giada. Un buco. Che rappresenta? che significa?. Un buco, nulla di più, nulla di meno. Un buco: l’alfa e l’omega, l’origine e la fine. Da un buco veniamo, in un buco finiremo.  Ma: mi figuro che ci sia anche un buco in cui ficcarsi per svignarsela. Lo strappo nella tela attraverso il quale l’attore si sottrae alla storia. Un buco: l’assenza, il no, la sottrazione. La via di fuga.

L’amicizia educativa

Jean Leon Gerome Ferris, Aristotele
maestro di Alessandro Magno 
L’educazione è una faccenda di amore. Entrare con qualcuno in una relazione educativa – cosa che non accade soltanto nelle situazioni educative formali: a pensarci bene, anche una relazione sentimentale autentica è una relazione educativa, se si intende l’educazione come co-educazione; e l’amore non finisce forse quando non ci si educa più a vicenda? – vuol dire desiderare ardentemente il suo bene, considerare la sua persona come qualcosa di assolutamente prezioso, fare di quel tu, kantianamente, sempre un fine e mai un mezzo, e vigilarsi costantemente per liberarsi da ogni sentimento negativo che possa nascere nei suoi confronti (perché anche l’amore, come ogni luce, ha le sue ombre).
Se una differenza c’è, tra la relazione sentimentale e le altre forme di relazione educativa, è che nel primo caso c’è un coinvolgimento fisico che negli altri casi manca. Ora, l’amore, tolto il sesso, è amicizia. E la relazione educativa è, appunto, una relazione di amicizia. La più alta.
Pare che educatori e pedagogisti di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, siano d’accordo nel disprezzare l’educatore che si pretende amico di suo figlio o del suo studente. E’, dicono, una figura patetica, che rinuncia al suo ruolo nel tentativo di ottenere un riconoscimento ed una soddisfazione tutto sommato narcisistica. C’è una distanza necessaria, assicurano, da tenere nell’educazione; se si annulla questa distanza, pretendendo l’amicizia, si rinuncia semplicemente ad essere educatori.

C’è del vero e del falso, in questa posizione. C’è – è vero – qualcosa di patetico e di ridicolo nell’adulto che scimmiotta l’adolescente, perché è sempre patetico e ridicolo chi cerca di essere quello che non è. Al tempo stesso, c’è della bellezza nella comunicazione tra persone di generazioni diverse, nello scambio culturale, nel confronto non unilaterale ma aperto. Non sempre l’adulto che ascolta la musica degli adolescenti sta cercando di assomigliare a loro; spesso sta semplicemente rifiutandosi di disconfermare l’identità culturale di suo figlio o del suo studente, consapevole che una tale disconferma rende molto difficile qualsiasi dialogo educativo.
Se si pensa il rapporto educativo come un rapporto necessariamente asimmetrico, è evidente che non si può parlare di amicizia educativa, poiché i rapporti di amicizia sono rapporti paritari e simmetrici. Gli amici sono sullo stesso piano; se uno dei due tenta di occupare una posizione di predominio – o la ottiene per un cambiamento di status -, è difficile che l’amicizia continui; certo, non resta la stessa. Ma un rapporto di amicizia non è soltanto simmetrico, è anche dinamico. Quando un’amicizia è autentica, profonda e viva, ha un potere trasformativo. Come gli amanti, gli amici non si limitano a fare cose insieme, a passare del tempo, a divertirsi, ma crescono insieme. Si può considerare la crescita comune come una caratteristica essenziale dell’amicizia, senza la quale essa degenera e diventa qualcosa di inferiore – possiamo parlare, considerando anche le sue implicazioni politiche, di cameratismo.
Afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea che esistono tre forme di amicizia. C’è, in primo luogo, l’amicizia fondata sull’utile, che si ha tra persone che “si amano non per se stessi, ma in quanto deriva loro qualche bene all’uno dall’altro” (1156a). Segue l’amicizia fondata sul piacere, vale a dire il legame che unisce persone che sono reciprocamente gradevoli. Queste due forme di amicizia per Aristotele sono accidentali, perché chi è amato non lo è per la sua essenza, per quello che è, ma per l’utile ed il piacere che procura. Il terzo genere di amicizia è quella fondata sulla virtù. E’ il legame che si stabilisce tra persone buone che ricercano la virtù. Questa è per Aristotele l’amicizia perfetta, ed anche la più durevole, perché la virtù non è mutevole come l’utile o il piacere.
Se è vero quello che afferma Spinoza nell’Etica, e cioè che “il bene, che ognuno che persegue la virtù appetisce per sé, lo desidera anche per gli altri uomini” (IV, proposizione 37), allora colui che cerca la virtù è anche colui che è capace della forma più alta di amicizia. Ora, è esattamente questo il profilo dell’educatore. Che non è colui che possiede la virtù e ne rappresenta l’incarnazione più o meno perfetta, ma appunto una persona che si è incamminata verso la virtù: che cerca senza sosta il bene, che si interroga, che si inquieta per la giustizia. Chi è impegnato in questa ricerca desidera che anche gli altri la condividano, ed è questo desiderio che lo porta ad incontrare profondamente gli altri ed a stabilire con loro rapporti di amicizia. Per questa via chi è in cerca del bene è sempre educatore degli altri.
Bisogna notare, tuttavia, una differenza importante tra l’amicizia educativa e l’amicizia così com’è comunemente intesa. Due amici si sono scelti liberamente e continuano a scegliersi ogni giorno, esattamente come due amanti. Il loro legame è fondato sulla stima reciproca, sul fatto che uno avverte nell’altro la presenza di qualità che lo rendono amabile. Questo non sempre accade in una relazione educativa. Può essere che un insegnante si trovi di fronte degli studenti che non hanno alcuna qualità positiva; che gli appaiano, al contrario, chiusi ad ogni ricerca del bene, cinici, arroganti, con atteggiamenti che fanno nascere in lui sentimenti negativi. Che fare? Come potrà amarli, se non sono amabili?
Un educatore si riconosce per la capacità di avere un duplice sguardo. Da un lato, è capace di guardare il volto dell’altro: ha un’attenzione assoluta per quello che l’altro è qui ed ora, sa interpretare con finezza e profondità le esigenze, i bisogni, le emozioni, le aspirazioni positive e negative della persona che ha di fronte. Dall’altro, non si limita a questo sguardo, ma lo completa e lo supera con un secondo sguardo: quello che gli permette di cogliere l’altro dell’altro. L’educatore, cioè, non vede solo quello che l’altro è adesso, ma anche quello che l’altro può diventare. Negli occhi dello studente cinico scorge l’adulto sincero ed appassionato del bene che quello studente potrà diventare, se aiutato. E questo sguardo ha un carattere liberatorio per coloro su cui si posa. Si può dire che, dal punto di vista spirituale, la bellezza emerge grazie allo sguardo dell’altro; e l’educazione è appunto questo sguardo – amorevole, esigente, inquietante – che fa emergere la bellezza lì dove sembra non esserci.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Il papa dice sì all’incesto, alla poligamia e all’adulterio

Nel messaggio di ieri ai partecipanti alla Settimana Sociale dei Cattolici Italiani papa Francesco ha detto, tra l’altro: “Anzitutto come Chiesa offriamo una concezione della famiglia, che è quella del Libro della Genesi, dell’unità nella differenza tra uomo e donna, e della sua fecondità”. Ma che dice il libro della Genesi sulla famiglia? Come saprete, è quel libro che comincia con “in principio” e racconta della creazione del cielo e della terra e delle stelle che non sono che lampade per illuminare la terra e finalmente dell’uomo e della donna – della donna dalla costola dell’uomo. L’uomo si chiamava Adam, la donna Eva. Adam ed Eva fecero quel fattaccio brutto che i preti ci ricordano ogni santo giorno come se lo avessimo fatto noi, e perciò furono cacciati dal giardino dell’Eden. Precipitati qui sulla terra, cominciarono la faccenda umana, che è piena di lacrime e sangue, ma tra un pianto ed uno stridere di denti pure qualche piacere lo concede: e fu così che Adam pensò di esercitare le virtù del suo organo riproduttivo, e generò Caino ed Abele. Adam ed Eva non dovevano essere granché come educatori – del resto sono i primi genitori della storia, e non è che educare si improvvisa così – a giudicare da quello che combinarono i loro figli; anche se nella faccenda dell’omicidio di Abele il Signore qualche responsabilità pure l’ha, ché non è bello apprezzare Abele e disprezzare Caino. Ma questa è un’altra storia.
Dopo il fattaccio, Caino parte e se ne va nel paese di Nod. Dove, ci informa la Genesi, “conobbe sua moglie e partorì Enoch” (4, 17). Un momento. Secondo la narrazione della Genesi, in questo momento al mondo esistono solo tre persone: Adam, Eva e Caino (Abele è morto, pace all’anima sua). Da dove salta fuori, ora, la moglie di Caino? Le ipotesi sono due. La prima è che in realtà Caino sia partito in compagnia di sua madre Eva, con la quale poi si è sposato ed ha partorito Enoch. La seconda ipotesi è che nel frattempo, anche se il libro non lo dice, Adam ed Eva si sono dati ulteriormente da fare, ed è nata qualche altra figlia, con cui Caino è partito e che ha preso in moglie. In entrambi i casi, comunque, si tratta di incesto. La famiglia secondo la Genesi, dunque, è una famiglia nella quale è lecito l’incesto, considerato invece tabù da praticamente tutti i popoli. Abbiamo detto che il figlio di Caino si chiama Enoch. Enoch a sua volta mette al mondo un figlio. Accoppiandosi con chi? Anche in questo caso, con la madre, che è pure zia, o con una ipotetica sorella. Da Enoch nasce Irad, da Irad Mecuaiel, da Mecuaiel Matusael e da Matusael Lamech. Arrivati a questo punto, il problema delle donne doveva essere stato risolto. Se Caino fu costretto ad accoppiarsi con la madre o la sorella, “Lamech si prese due mogli: una di nome Ada e l’altra di nome Zilla” (Genesi, 4, 19). Andiamo avanti. Dopo Adam e Noè, il vero eroe della Genesi è Abram. Il quale, un bel giorno, ha la visione del Signore, che gli dice: lascia la tua terra e vattene nella terra che io ti mostrerò. Il buon Abram, invece di andare da uno psicologo, prende la moglie e il nipote e le sue cose e parte. Viaggiando viaggiando arriva in Egitto. Qui ha qualche problema alla frontiera, ed allora, da bravo volpone quale è, pensa di usare la moglie – che la Genesi assicura essere bella assai – per essere accettato nel paese. Si accorda dunque con Sarai: dirà di essere non sua moglie, ma sua sorella. La cosa funziona, ma Dio si arrabbia assai e se la prende col faraone, che caccia in malo modo questo spostato e sua moglie. Per quanto avvenente, la povera Sarai non è in grado di avere figli. Questa stramba famiglia ha un modo tutto suo di affrontare i problemi. Se Sara non può avere figli, Abram potrà fare figli con un’altra. Facile, no? E dunque ecco qui la schiava (già, il Signore non ha nulla contro la schiavitù) Agar, pronta a dare il suo utero in affitto al vecchio Abram ed alla sua bella moglie. Eccola, dunque, la bella famiglia della Genesi: incesto, poligamia, prostituzione, adulterio. La nostra società frammentata ed alla deriva ha bisogno della ventata di moralità che viene da questo libro e dei periodici rimbrotti delle autorità religiose che su questo libro fondano il loro potere e la loro autorità.

Educazione e dominio

L’anarchismo è la posizione etica e politica di chi rifiuta ogni forma di dominazione ed assume, se non è già il suo, il punto di vista di chi è vittima di oppressione. Non è una posizione teorica, una filosofia di vita che affermi il valore della libertà o dell’individuo, ma una pratica di liberazione, una lotta per sottrarsi alla presa del dominio e sottrarre tutti coloro che ne sono vittime. Si tratta di qualcosa di più ampio della lotta di classe. L’oppressione dei ricchi sui poveri, dei proprietari dei mezzi di produzione su chi ha solo la propria forza lavoro (di chi deve “vendersi” sul mercato del lavoro) è indubbiamente una delle forme più vistose di dominio; ma non l’unica. C’è dominio ovunque esista una gerarchia, una asimmetria, che comporta sempre una limitazione delle possibilità vitali di chi occupa la posizione inferiore (e, naturalmente, un aumento ingiusto delle possibilità di chi occupa la posizione superiore). C’è dominio nelle relazioni di genere, ovunque la donna venga limitata nelle sue possibilità di espressione o sia ridotta a strumento del piacere maschile. C’è dominio nel mondo culturale, quando culture tradizionali vengono cancellate o deformate dall’imposizione di una cultura altra. In passato, quando la religione era l’aspetto centrale di una cultura, questa imposizione prendeva la forma della conversione religiosa forzata; oggi prende la forma dell’imposizione di una sistema di merci da acquistare e della visione del mondo come un campo di cose da sfruttare ed acquistare.

C’è il dominio sulla natura, nella forma dello sfruttamento indiscriminato della natura (le cosiddette “risorse naturali”), che ha perso ogni sacralità per diventare un immenso ma non inesauribile deposito di cose che servono all’uomo, e c’è il dominio sugli esseri non umani, ridotti anch’essi a cose, oggetti sui quali si può compiere qualsiasi atrocità. E c’è, infine, il dominio sul bambino.
Tutte queste forme di dominio hanno un nesso essenziale tra di loro. C’è un unico dominio che si esprime attraverso il rapporti di produzione, i rapporti politici, lo sfruttamento economico, l’imposizione culturale, la devastazione della natura, l’industrializzazione della vita animale, l’educazione. Si tratta di vie della violenza che nascono tutte da una medesima struttura mentale, che è ben iscritta nella psiche dell’uomo (e della donna) occidentale, e che può essere semplicemente indicata con una piramide. E’ uno schema che nasce, naturalmente, dal modo in cui si è organizzata la produzione, e che a sua volta giustifica quel modi di organizzare la produzione. Platone ed Aristotele, che vivono in un mondo in cui gli schiavi provvedono alle necessità materiali, non hanno nulla da dire contro la schiavitù, che anzi giustificano, così come la giustificherà San Paolo (e senza questa giustificazione il cristianesimo con ogni probabilità oggi non esisterebbe). La visione del mondo greco-cristiana ha al vertice Dio o l’Uno, sotto di lui gli angeli o altri esseri celesti, quindi gli esseri umani, e infine la natura e gli animali. Lo stesso mondo umano è organizzato secondo questo schema: al vertice il re, poi i nobili o la classe dominante, infine i sottomessi. E ancora, all’interno di ognuna di queste classi, una ulteriore gerarchia secondo il sesso e l’età: la donna proletaria è sottomessa al marito, il bambino alla donna. Un mondo piramidale, in cui ognuno è sottoposto a qualcun altro.
Apparentemente le cose oggi sono cambiate. Esistono le democrazie, ossia sistemi sociali, prima che politici, caratterizzati dall’orizzontalità e dall’uguaglianza. All’interno dei sistemi democratici è affermata l’uguaglianza tra uomini e donne e sono stati messi nero su bianco i diritti dei bambini. La realtà tuttavia è diversa. I sistemi democratici sono anche sistemi capitalistici; ora, il capitalismo è, per essenza, un sistema economico violento, la cui logica di incremento costante è incompatibile con le limitazioni imposte dal rispetto dell’etica e dei diritti umani. Se l’economia ha bisogno di un certo metallo che si trova in un paese africano, nessuno scrupolo umanitario impedirà di approvvigionarsi di quel metallo sfruttando un sanguinoso conflitto in atto. Se ci si rende conto che il corpo femminile aiuta a vendere, allora la donna diventerà un semplice corpo, una merce buona per vendere altre merci: con buona pace delle dichiarazioni sui diritti delle donne. Poiché l’economia capitalistica ha bisogno di una classe politica che ne rappresenti gli interessi, la stessa pratica del voto, essenza della democrazia, viene svuotata di significato: i sistemi che si dicono democratici sono sempre più oligarchie sostanziali, nelle quali una casta politica, impermeabile al cambiamento, governa per conto di un ristretto gruppo di magnati della finanza.
L’educazione ha un ruolo chiave nel sistema di dominio. E’ attraverso le relazioni educative che, fin dai primi anni e già in famiglia, si trasmette la struttura mentale propria del dominio. Tranne pochi casi fortunati, il bambino è immerso in un sistema relazionale gerarchico, nel quale occupa una posizione di inferiorità e di subordinazione. Per lunghi anni, dovrà abituarsi a relazionarsi dal prossimo da questa posizione di inferiorità; e quando la società riconoscerà la sua maturità, avrà passato troppi anni in questa posizione di inferiorità per ribellarsi al sistema. Il fatto che milioni di persone accettino una situazione palesemente assurda, quale è la realtà politica anche nei paesi cosiddetti democratici, non si comprende senza questa lunga pratica di sottomissione. Il bambino che si sforza oggi di essere un “bravo bambino”, ossia di conformarsi alle richieste dell’ambiente senza creare problemi, diventerà domani un “bravo cittadino”, legittimando con la pratica periodica del voto un sistema democratico che sempre più viene eroso dall’interno dalla corruzione, dall’affarismo e dalla violenza.

Separare il grano dal loglio

Mi è stata chiesta qualche riflessione in occasione della festa patronale. Il mio è il punto di vista di un non cristiano fortemente critico nei confronti dell’aspetto istituzionale di tutte le religioni e fortemente interessato, invece, all’esperienza mistica ed eretica (due cose, misticismo ed eresia, che spesso coincidono). Avverto sin d’ora il lettore cattolico che nelle righe che seguono troverà pertanto cose sgradevoli: si regoli come meglio crede.
Per riflettere sul senso religioso di una cosa come la festa patronale bisogna prima porsi qualche domanda. Che cos’è la religione? Cosa vuol dire essere religiosi? Quali pratiche sono religiose, e quali no? Cosa distingue il religioso dal non religioso, e il profondamente religioso dal superficialmente religioso?
La risposta più ovvia a questa domanda sembra essere la seguente: religione è entrare in rapporto con Dio o con un Ente trascendente. Che può chiamarsi Yhwh o Allah, Ahuza Mazda o Shiva, essere Uno o molteplice, vicino o lontano, incarnato o disincarnato: ma è il Divino, distinto dall’umano. In realtà le cose non sono così semplici, perché esistono anche religioni, come il jainismo ed il buddhismo, che prescindono dalla divinità. Per un buddhista non si tratta di credere in Buddha (“Se incontri il Buddha per strada, uccidilo”, diceva il grande maestro zen Lin Chi), ma di diventare un Buddha. Fino a quando il Buddha è altro da noi, vuol dire che siamo ancora lontani dalla meta della nostra vita religiosa. Qualcosa di simile avviene anche in certa mistica speculativa cristiana, per la quale bisogna diventare Dio, più che venerare Dio (si pensi a Meister Eckhart), così come nel sufismo di Al-Hallaj, il Cristo dell’Islam, mandato a morte perché affermava di essere diventato la Verità, ossia Dio.
C’è poi la spiritualità, che si può caratterizzare come presa di contatto con sé stessi. Tutte le religioni hanno elaborato quelle che Foucault chiamava tecnologie del sé: dalla confessione all’esicasmo, dallo yoga alla meditazione vipassana dei buddhisti. La persona religiosa si riconosce per la capacità di conoscersi, di raccogliersi, di stabilirsi per così dire in sé stessa, analizzando i moti interiori, le passioni, le emozioni, le inquietudini. Da ciò discende la tendenza di molte persone religiose a chiudersi nella ricerca della perfezione spirituale, allontanandosi dalle cure mondane, ma può anche scaturire una nuova forma di prassi, un impegno più puro.
Se la spiritualità porta al contatto con sé stessi, l’etica ci conduce al cospetto dell’altro. Tutte le religioni predicano la comprensione, il rispetto, l’amore dell’altro. Una persona religiosa – profondamente, autenticamente religiosa – si riconosce per questo: vive intensamente il suo rapporto con l’altro; ha reciso in sé le radici dell’odio ed è capace di un amore che giunge fino agli animali.
Un ultimo aspetto fondamentale della religione è l’aspirazione ad un mondo libero dal male e dalla sofferenza. C’è al fondo della religione una ribellione umanissima contro il dolore che segna l’esistenza umana e tutto il mondo naturale, il rifiuto di considerarli normali, la ricerca di una finale pacificazione universale. E’ l’aspirazione dei profeti ebrei ad una dimensione in cui il lupo possa pascolare con l’agnello, il Regno dei cristiani, l’auspicio buddhista di un mondo in cui i ciechi vedono, i sordi ascoltano, i nudi vengono vestiti e gli affamati trovano cibo.
Essere religiosi significa tutte queste cose. Ma può significate, e spesso significa, anche il contrario di queste cose. In nome della religione, che predica l’amore e la pace, ci si uccide. Succede perché l’altro da amare diventa il membro della propria comunità religiosa; la sfera etica si restringe fino a racchiudere solo i propri correligionari (la umma musulmana, l’ecclesia cristiana, il sangha buddhista), mentre chi ne resta fuori diventa l’infedele, il nemico da combattere. In nome della religione si giustificano le più gravi forme di oppressione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
E’ chiaro, dunque, che quando si parla di religione è importante distinguere, passare al vaglio, separare il grano dal loglio.
Fatta questa lunga premessa, possiamo chiederci: una cosa come la festa patronale cos’è, grano o loglio? La risposta è: loglio. Provo a spiegare perché.
In religione la cosa importante non è, come credono molti, credere o non credere. Quello che conta è la concezione che si ha di Dio o del Divino: in quale Dio si crede. Anche qui bisogna dividere e distinguere il grano dal loglio. C’è un Dio che non è null’altro che la stampella del nostro io, il sostegno metafisico del nostro egoismo, il volto che ci rassicura, che ci dice che siamo il centro dell’universo, che tutto andrà bene perché Dio stesso, l’origine dell’universo, si prende cura delle nostre vicende. All’estremo opposto dell’esperienza religiosa c’è una concezione del Divino che ci costringe ad uscire da noi stessi, a deporre il nostro io come un peso e ad aprirci ad altro. E’ quella che Albert Einstein chiama “religiosità cosmica”. Così la caratterizza in Come io vedo il mondo: “L’individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per contro, riconosce l’impronta sublime e l’ordine ammirabile che si manifestano tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L’esistenza individuale gli dà l’impressione di una prigione e vuol vivere nella piena conoscenza di tutto ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso profondo”. E’ una religiosità che non appartiene alle chiese, quanto agli eretici; qui il credente Francesco d’Assisi sta accanto all’ateo Spinoza.
E’ chiaro che, da questo punto di vista, nulla appare più lontano dalla religiosità autentica del concetto di patrono. Cos’è un patrono? Un personaggio religioso che ha una cura particolare di una comunità ristretta. C’è qualche traccia, in ciò, della predilezione del Dio biblico per il popolo ebraico. Dio, che si vuole creatore di un universo di miliardi di galassie, ognuna delle quali ha un miliardo di stelle, non solo si preoccupa della sorte di una delle infinite specie che vivono su un pianeta periferico di una di queste infinite galassie, ma addirittura elegge, chissà perché, uno solo di questi popoli (e, presentandosi come Dio degli eserciti, lo spinge a combattere e sterminare altri popoli). Difficile immaginare qualcosa di più assurdo. I cattolici ci sono riusciti. Per loro il Divino non si occupa soltanto di un popolo, ma addirittura di una città, di un paese, di un borgo. Non basta credere nella Madonna: occorre che la Madonna si moltiplichi all’infinito, diventando ora bianca ora nera, soccorrendo ora questa ora quella comunità.
I cattolici sono molto sensibili all’idolatria altrui, poco alla propria. In che modo portare in giro una icona, un simulacro del Divino, sia cosa diversa dall’idolatria, è un mistero della fede. E, certo, c’è emozione durante una processione o durante una festa religiosa di questo genere. Ma di che emozione si tratta? Ha a che fare con la religione? Non molto. E’, invece, quella sorta di contagio emotivo che si prova in tutte le manifestazioni collettive, quando si è immersi in una folla e quasi trascinati da essa. In questo caso si esce da sé stessi soltanto per chiudersi in un io più grande, quello della folla. E’ qualcosa di non troppo diverso da ciò che accadeva durante le adunate oceaniche dei regimi totalitari: e non a caso esisteva anche una mistica fascista. Da sempre il potere (o meglio: il dominio) si sostiene anche grazie alla capacità di suscitare emozioni collettive, la cui crescita è direttamente proporzionale alla diminuzione delle capacità riflessive e critiche. L’autentico sentimento – non emozione – religioso è qualcosa di diverso. E purtroppo non è così a buon mercato.

Editoriale per Stato Quotidiano