16 marzo, lunedì

Cercando aria, luce e colori, mi sono spinto questa mattina con il mio cane per i colli senesi, sui quali la primavera, indifferente alla nostra angoscia, sta cominciando a celebrare la sua festa. Nessuno per strada; solo, di là dai cancelli, due uomini impegnati nella potatura degli ulivi. “Taglia più in basso, lì” le uniche parole sentite. Per il resto il silenzio morbido e gentile dei colli. E i rospi.
Questo è il periodo della mattanza dei rospi. S’azzardano sull’asfalto e vengono falciati da un mostro di acciaio che nulla sa di loro. Restano lì, un ammasso di sangue e carne, fino a quando i raggi del sole non cominciano la loro operazione alchemica. In capo a qualche giorno, di loro non resta resta una sagoma di grigia e rinsecchita; qualche giorno ancora, e svanisce anche la forma – la tragica persistenza di una parvenza di vita, perfino di volontà.
Mi hanno seguito per tutta la mia esplorazione dei colli, queste cose, fino a quando ho ceduto al loro invito alla riflessione. Sì, non siamo forse anche noi così? Possiamo davvero ritenerci diversi da un rospo, nell’economia dell’universo? Non siamo fatti fuori anche noi, da un momento all’altro? E resta di noi qualcosa di diverso, nonostante la premura dei superstiti? Continue reading “16 marzo, lunedì”

La vita oltre la morte

C’è vita dopo la morte?, mi chiedi.
Certo. Quando tu sarai morto, tutto continuerà ad andare esattamente come prima: ci saranno fiori in primavera e neve d’inverno, si costruiranno ponti e muri, si verseranno molte lacrime e ci saranno molte risate.
Ma io non ci sarò, non sarà la mia vita, dici.
Esatto. Non sarà la tua vita: ma sarà vita. La vita oltre la tua vita. La vita oltre te. E tu vincerai la morte, se vivrai fin da adesso in quella vita che non è la tua vita. In quella vita che non è te.

7 ottobre, sabato

Le accarezzavo le orecchie e la testa. Negli ultimi cinque anni della mia vita accarezzarle le orecchie e la testa è stato il modo per ancorarmi a qualcosa di buono, di dolce, di bello. Accarezzarle le orecchie e la testa mentre lei chiudeva gli occhi per godersi quel momento. Ma questa notte non c’era nulla di dolce, né di bello. Solo l’oscena ingiustizia di assistere alla sua agonia senza poter far nulla. Vederla andare, senza saperla davvero accompagnare. Perché quando le accarezzavo la testa lei era già altrove. Strappava alla morte ogni respiro, lottando con tutta sé stessa. Finché voler vivere non è stato più sufficiente.
Si muore. Lo so. Sabbe sankhara anicca. Me lo ripeto mille volte al giorno. Ho sentito morire molte persone, e molte mi erano care. Ma mai una morte mi è sembrata così ingiusta, così inaccettabile.
La morte di un cane. Sì. Un semplice cane. Soltanto un cane. Ma negli occhi di quel cane – negli occhi di Happy – c’era tutto il dolore, la dignità, la pazienza, la compassione dell’umanità offesa.

27 giugno, martedì

Gli atti vitali sono terribili. Mangiare, uccidere, scopare. Ma il più terribile di tutti è dormire. Ora ci sono, ora non ci sono più. Io per me stesso non sono una sicurezza. Il mio essere è intermittente. Il mio essere è inaffidabile. Il mio essere ha un vuoto al centro.
Questa intermittenza dell’io è il grande tabù del pensiero, ciò che è sconveniente da pensare, ciò di cui non bisogna parlare (לָמָּה תָמוּת, בְּלֹא עִתֶּךָ.). Dove sei, chi sei, cosa sei quando non ci sei? è la domanda fondamentale.
E’ solo attraverso il nihilum, dice Nishitani, che si giunge al vuoto.

24 giugno, sabato

Penseremmo di avere un corpo, se il nostro corpo scomparisse nel nulla per sette, otto, nove ore al giorno? Penseremmo addirittura di essere un corpo? No, dirai. Anche perché siamo abituati ad identificarci non con il corpo, ma con quella che una volta si chiamava anima: l’io, la coscienza. Ma la coscienza, ecco, è esattamente quella cosa che scompare per sette, otto, nove ore al giorno. Possiamo dire di avere una coscienza? O addirittura di essere una coscienza?

20 giugno, martedì

Mi siedo a gambe incrociate sul trifoglio, chiudo gli occhi per meditare, ma giusto qualche minuto, poi smetto perché ho voglia di guardare il prato e gli alberi e l’asino e le capre. Un’ape, poi un’altra, poi un’altra ancora, sui fiori di trifoglio. Il pavone mi passa accanto, attraversa un rigagnolo, si avvia verso la sua casetta di legno – placido.
Un idillio perfetto, infranto da un bassotto senza nome – lo chiameremo Scibbolet – che forse spaventato dal verso del pavone scappa sulla strada sterrata. Una ragazza bionda lo guarda, non sa se inseguirlo, poi compaiono due donne e lei dice che è lì, Scibbolet si è avviato da quella parte. Le due donne corrono e dopo qualche minuto tornano con Scibbolet in braccio. Si torna all’idillio. Una quindicina di bambini di quattro o cinque anni si stendono sull’erba, con i loro costumini, poi cominciano a giocare. Si lanciano l’un l’altro palloncini ripieni di acqua. Sono felici, molti ricorderanno questo come uno dei giorni più belli della loro infanzia.
E’ perfetto, penso.
Mi correggo: sarebbe perfetto se io non ci fossi.

8 marzo, mercoledì

Per qualche ora ho provato a rientrare in Facebook. Nel giro di pochi minuti sono stato risucchiato in un vortice di imbecillità.
Mi è finita sotto mano la foto di Capitini alla marcia della pace, con il cartello “Unità con tutti per sempre”. No, Aldo. Il tuo paradiso è il mio inferno. Alla larga da tutti, per sempre. E piuttosto: unità con il Ciò. तत्त्वमसि.

25 agosto, giovedì

Siedo sul balcone. Davanti ho la valle, di là dalla valle il paese. Quasi tutte le case sono spente, qualcuna ancora s’aggrappa all’ultima luce. Non un solo cane abbaia, nulla parla. Dietro le case il cielo. Due stelle verticali, una rosseggia, l’altra è fredda. Altre stelle sparse a caso. Respirano, ansimano.
Mentre la cagna che vive con noi raspava nei cespugli, prima, ho pensato a me vecchio. Alla vita che ti fa man mano più solo, più sopravvissuto. E poi uccide anche te.
Guardo le stelle  con il peso di questa condanna: della solitudine, della morte. Sento la mano fredda della notte che mi attraversa da parte a parte, e so che vivere è lasciarsi abitare dal nulla.
Quando anche questa casa non sarà più, avrò dentro questo balcone sul cielo, sulle stelle, sul nulla.

1 gennaio, venerdì

Il primo obiettivo del 2016 era raggiungere piazza del campo in tempo per la mezzanotte. Ci siamo fatti di corsa via Camollia e via Banchi di sopra, con una bottiglia di spumante e due bicchieri. Meno cinque, quattro, tre. L’uno è arrivato che eravamo a palazzo Tolomei. Niente. Siamo riusciti a mettere piede a piazza del campo che il 2016 era già vecchio di tre o quattro minuti. La piazza era gremita come nel giorno del palio, e sul palco un gruppo pugliese suonava la tarantella. La tarantella: quella musica che è bella per un minuto, due minuti: e poi induce stati di coscienza alterata. Fortunatamente dopo un po’ hanno smesso: trovarmi in una folla di persone in stato di coscienza alterata è uno dei miei incubi (trovarmi in una folla in generale, a dire il vero). 

A mezzanotte e mezza è cominciata la silent disco. Comincio il 2016 sapendo cos’è una silent disco. Funziona che ti ficchi nel carnaio, se non ti schiacciano riesci a raggiungere uno stand dove lasci un tuo documento, poi ti rificchi nel carnaio e se non ti schiacciano riesci a raggiungere un secondo stand dove paghi quindici euro e ti danno una cuffia. Ti metti la cuffia nelle orecchie, ti rificchi nel carnaio e ti trovi un posto in cui puoi ballare senza morire schiacciato. Con la tua cuffia. Tu e la tua musica. E così gli altri. Tutti ballano con la loro cuffia: e chi guarda non sente nulla.

Provo a far notare alla mia dolcissima metà che la musica è sempre stata quella cosa che uno suona ed altri ascoltano insieme, ed ascoltando insieme si sentono insieme, e questa cosa che ognuno ascolta la sua musica è… non mi viene un aggettivo: ma è la notte di capodanno, e non si può far filosofia. Guardo dunque la scena, che sta tra The Walking Dead e The Leftovers, meditando di cambiare specie. E raggiungendo il mio primo, meraviglioso risultato del 2016: fare tappezzeria a piazza del campo.

27 dicembre, domenica

Lui. Loro. Io? Lui: si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere. Si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere: e chiede l’elemosina. Ha un bicchiere in mano, e allunga la mano verso i passanti, cercando di non cadere. Orribilmente deforme. Loro: loro passano, orribilmente euformi, e ridono e parlano e guardano le bancarelle di Natale e le vetrine dei negozi e il grande albero di Natale in fondo al corso, davanti alla villa comunale. Loro vanno: è la loro natura, quella di andare. Io? Io guardo lui e loro. Ed ho voglia di piangere. Lui è una delle comparse della vita. Uno di quelli che conosci, ci sono da sempre, ma non sapresti dire il loro nome: ma ci sono, li conosci, fanno parte della tua vita. Aveva una forma, una volta. Era un essere umano. Parlava poco, per quello che ricordo: ma era un essere umano. Cosa lo ha ridotto così? Che è successo? Quando s’è perso, e come? E perché nessuno lo guarda? Perché nessuno ha voglia di piangere? 
Era da tanto che il Natale non era così bello, dicono. Così luminoso, così festoso. Così.

25 ottobre, domenica

Alla sinagoga di Pitigliano una signora è incredula: ma davvero il marito dovrà indossare quello strano cappellino per entrare? ma che cosa inaudita! Le spiego che non c’è nulla di particolarmente strano: nella sinagoga gli uomini mettono la kippah, come nelle moschee le donne mettono il velo. Ah, ma io in moschea non ci andrò di certo, dice la signora.
All’ingresso del ghetto ci sono due soldati con il mitra spianato. Il ghetto di Pitigliano lo chiamano “la piccola Gerusalemme”, ed in effetti sembra di stare a Gerusalemme. Anche se qui gli ebrei rimasti si contano con le dita delle mani.

24 ottobre, sabato

Milano, zona duomo. Un senegalese vende quei libretti che prendevo spesso a Bari, davanti alla Feltrinelli. Gli chiedo di farmi dare uno sguardo per vedere se c’è qualcosa che non ho. Ne prendo tre: venti euro. Il ragazzo è entusiasta dell’affare. Ti regalo dei braccialetti, dice. No, dico, lascia stare. Sì, dai, dice. Ti do un braccialetto per ogni figlio che hai. Quanti figli hai? Nessun figlio. Ah: e si rattrista per un attimo, come se gli avessi confessato di avere una grave malattia. Poi riconquista il sorriso, mi regala comunque tre braccialetti colorati e mi ringrazia quasi l’avessi salvato da morte certa.
Trenta passi più in là scopro che uno dei libri ha una pagina stampata e una no. Per un attimo penso che sarebbe bello scrivere le pagine non stampate. Un attimo dopo concludo che sarebbe ancora un’attività con un telos: havel havalim.
Alla stazione, seduto di fronte alla Feltrinelli, improvvisamente mi sembrano tutti morti. Paura. Angoscia. Liberazione.

3 gennaio, sabato

Nell’autobus. Due ragazzine sui vent’anni, sedute di fronte ad una vecchia. Una delle due le rivolge la parola: “Signora, che bella quella sciarpa”. La signora ha una sciarpa orribile con tutti i colori dell’arcobaleno. “Ah, grazie”. “Dove l’ha comprata?”. “Al mercato del mercoledì”. E cominciano la conversazione. Che strano, penso: una ragazzina parla con una vecchia. Perché? Ipotizzo: magari vuol fare pratica dell’italiano (ha un marcato accento inglese). Poi mi correggo: ma certo, sarà dei mormoni, sta cercando nuovi adepti. Ma no – dice una parte di me o un altro io in me o un ha-shatan interiore – sei troppo cinico e vedi il male ovunque. Metto a tacere il foro interiore, che comincia ad essere affollato, concentrandomi su due ragazze ed una bambina che parlano albanese. Cerco di capire cosa si dicono, ma la mia conoscenza dell’albanese non è granché. Riconosco solo il bukur che la bambina ripete più volte. Bukur: bello. Guardo un po’ fuori dal finestrino la campagna senese. Già, bello. Bukur, shumë bukur. Finché, per quel singolare meccanismo che ci porta a fare attenzione alle cose per noi significative anche quando stiamo pensando ad altro, colgo l’espressione “chiesa mormone”. La ragazza ha scoperto le carte, e sta spiegando alla vecchina che la loro chiesa si trova in un certo posto, dopo averle lasciato degli opuscoli.
Giunge la loro fermata. Le due ragazze (solo ora vedo che hanno sul petto un tesserino della chiesa) mandano baci alla vecchina ed escono in fretta, con l’espressione di chi ha appena compiuto una rapina. La vecchia, fino ad un attimo prima sorridente, ha ora il viso stanco. Sembra affranta, per un attimo ho l’impressione che stia per avere un attacco di panico. Si toglie il cappello di lana, respira. Tutto torna normale. Normale.
Normale: che qualcuno rivolga la parola ad un estraneo solo per usarlo; questo, nella nostra società, è normale. Rivolgere la parola ad un estraneo solo per parlare con lui, senza alcun altro fine, penso, sarebbe una cosa davvero rivoluzionaria. Chiedere della sciarpa, e dei figli, e di tutto quanto il resto, solo per conoscere, per stringere legami, per gettare ponti oltre le mura del nostro io. Ma, ecco, se lo facessimo, pure useremmo l’altro: ci servirebbe per fare la rivoluzione. E il mondo torna a sembrarmi un groviglio, mentre salto giù dall’autobus e mi avvio verso casa.

Una teoria

“Prof, ma ce l’ha una teoria?”, mi chiede Lahcen. Non è la prima volta che me lo chiede. La prima volta ho tergiversato, e così vorrei fare anche ora: ma lui insiste. “Ce l’ha o no?”. “E’ complesso”, provo a dire. “Non so se riuscirei a spiegarti adesso”. Ma lui insiste. E allora azzardo. “Tu al mattino ti svegli e per tutta la giornata vivi in una certa realtà. Ecco, la mia teoria dice che c’è un’altra realtà; o meglio, che tu potresti vedere la realtà in un modo del tutto diverso. E che in questo modo del tutto diverso c’è pace”. Lo guardo, convinto che non ci abbia capito nulla. Ma lui mi assicura: “Sì, prof, ho capito”. Chissà.

17 ottobre, venerdì

Le strade erano insignificanti, spesso brutte. Ma ognuna di quelle strade era impastata di me. Ogni volta che attraversavo ognuna di quelle strade, mi aggiungevo al mio passato. Sulla via della stazione ero accompagnato, ad esempio, da un ragazzino che andava alla libreria Nuova Minerva ad acquistare la sua prima copia del “De Rerum Natura” di Lucrezio. Ed ero lui, e no: e non lo ero essendolo.
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un’ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c’è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l’ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.

Da un’altra parte

Ho ottenuto il trasferimento a Siena. Da settembre si ricomincia da un’altra parte.
Ci sono due tipi di persone che, in genere, vanno via da Foggia: quelli che lo fanno per necessità e quelli che lo fanno per scelta. I primi sono per lo più proletari e vanno via per lavoro: e partono con profonda nostalgia, e pensano ogni giorno a come tornare; ed in genere tornano, dopo qualche anno, e si sentono felici di essere tornati in quella che non ha mai smesso di essere la propria casa. Quelli che partono per scelta sono per lo più figli della buona borghesia, e vanno via per studiare, e non provano per la città che disprezzo e vergogna; e se tornano, lo fanno con il senso di sconfitta di chi non è riuscito a realizzarsi in posti migliori.
Poi ci sono quelli che vanno via per tristezza.
Molti anni fa discutevo di Foggia con un’amica, oggi affermata scrittrice a Roma, in una circolare (il bus cittadino). Parlavamo di questo: andare o restare. Lei, che studiava a Milano, diceva di Foggia tutto il male possibile; io difendevo le ragioni del restare qui, nonostante tutto. Un ragazzino ci ascoltava, attento. La sua fermata arrivò a Candelaro, uno dei quartieri più infelici di una città infelice. Prima di scendere ci lanciò uno sguardo intenso, poi sorrise e disse: “Comunque Foggia è forte”. Lo disse in italiano, perché noi stavamo parlando in italiano – ma si capiva che la frase avrebbe acquistato il suo senso pieno solo in dialetto.
Per molto tempo ho pensato allo sguardo, al sorriso, alle parole di quel ragazzino. Ho pensato che sì, Foggia è forte: più forte della mafia che la soffoca, più forte della politica che la umilia, più forte della povertà, dell’ignoranza, della cialtronaggine che la consumano. E’ forte, pensavo, di una forza difficile da comprendere, forse misteriosa, certo sfuggente. Ed ho cercato di farmi forte di questa forza. Consideravo Foggia come un bambino fragile, malato, che però ce la farà, perché vuole vivere con tutto sé stesso: e che bisogna aiutare con tutte le cure possibili perché quel suo telos, che è bene, non sia travolto e spento dal male. Oggi penso di non poter fare nulla per quel bambino, e che anzi il prendermene cura o il semplice preoccuparmi per lui finirebbero per uccidere anche me e chi mi sta accanto.
Molti anni fa un anziano stava in un bar. Era il suo compleanno, stava festeggiando con gli amici. Nulla di che: un caffè, qualche pasticcino. Davanti al bar ci fu un agguato mafioso; l’anziano fu colpito da una pallottola vagante: e morì. Il sindaco – che era un fascista, e nell’indifferenza di tutti aveva fatto costruire due enormi fasci nella piazza principale della città – si disse indignato, ed annunciò una grande manifestazione pubblica di protesta. Che non ci fu mai. Mai.
Imparai allora due cose, ampiamente confermate da quello che è successo poi. La prima è che Foggia è una città in cui puoi morire per caso, per una pallottola vagante. La seconda è che questo, a Foggia, è naturale: rientra nell’ordine delle cose che un foggiano è disposto ad accettare senza inquietarsi troppo.
La mafia a Foggia si chiama società. Non è un caso.
Amo Foggia profondamente. L’amo come si ama la città in cui si è nati, in cui vivono le persone che si amano, in cui ci si è innamorati. Ma è un amore ferito, ormai: e rischia di incancrenire, e diventare qualcosa di peggio dell’odio. E’ l’amore disperato, angosciato, doloroso che si prova per una donna che ci ha traditi: e che – lo sappiamo – lo farà ancora, e ancora, e ancora.
I ragazzi dello Scurìa dicono che le città sono di chi le ama. Hanno ragione, anche se sui manifesti elettorali qualche mese fa si leggevano cose non troppo diverse. Hanno ragione: le città sono di chi le ama. Anzi: di chi sa amarle. Come le donne. Non basta amarle, o volerle amare. Bisogna saperle amare, essere in grado di renderle felici, ed essere felici con loro. Un amore ferito non serve a nessuno: né a loro (le città e le donne), né a noi.

9 maggio, venerdì

Aprile ci ha traditi, con le sue nuvole il suo freddo le sue piogge, ma a maggio l’aula non ci trattiene. Ci troviamo un posto nell’erba, in un angolo all’ombra. L’erba è stata tagliata da poco, c’è un buon odore di camomilla. Seminario maieutico. Il cerchio è imperfetto, perché qualcuna non se la sente di sedersi nell’erba, ha paura di sporcarsi i jeans o di essere presa d’assalto dagli insetti o dalle lucertole; ma va bene anche così. Il tema è: quali sono le nostre paure? Lo hanno scelto loro. E vengono fuori una ad una, le nostre paure: di morire, di soffrire, ma anche di fare del male agli altri; ed ancora: di deludere o di non essere all’altezza delle situazioni. La nostra fragilità, messa lì sul prato, appoggiata sull’erba tagliata da poco, sulla terra odorosa di camomilla, quasi non fa paura. Cosa possiamo fare?, chiedo. Ma la risposta è già lì. Quello che possiamo fare lo stiamo già facendo. 

24 aprile, venerdì

Poco fa, mentre Happy faceva i suoi bisogni, un ragazzino sulla bici all’amico: “Io lo conosco, salsiccia”.
Quando avevo tredici o quattordici anni conoscevo un tale che chiamavano salsiccia. Aveva un po’ la faccia da fesso, e per questo lo chiamavano salsiccia. Poi crebbe, e il fatto di avere la faccia da fesso ed essere chiamato salsiccia cominciò a fargli male. Si fece crescere i capelli, ma restava la faccia da fesso. Allora divenne metallaro, con le borchie e tutto il resto. Ma continuavano disperatamente a chiamarlo salsiccia. Allora cominciò a fare a botte con chi lo chiamava salsiccia. Non so com’è andata a finire, ma secondo me lo chiamano ancora salsiccia.
Anche Giuseppe – il mio compagno di banco alle superiori – aveva la faccia un po’ così. Non proprio da fesso: da ragioniere, ecco. Un ragioniere un po’ furbo, con una nuance maliziosa nel ripiegarsi del labbro, ma pur sempre un ragioniere. Ma lui si pensava altro. Era anche lui metallaro, e pensava di essere la reincarnazione di Jimi Hendrix, poiché era nato lo stesso giorno della sua morte. Lo chiamavamo Napoleone, perché era basso, credo. Non gli faceva piacere. Lo faceva soffrire, anzi, la distanza tra quello che voleva essere e quello che era. Tra la sua Selbstdarstellung di musicista rock e la sua quotidianità di ragazzino con la faccia da ragioniere destinato ad un impiego alla Posta. Tra gli assoli di Jimi hendrix e quello che usciva dalla sua chitarra prototipo bianca.
Giuseppe ha risolto la distanza gettandosi dal balcone di casa sua. Se fosse ancora vivo, credo che lo chiamerebbero ancora Napoleone.
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe. 

Venerdì, 31 gennaio

Ieri una collega mi ha chiesto come mai sono stato in malattia. Le ho detto del mal di schiena. “Alla nostra età succede”, ha detto. Alla nostra età. La sua, la mia. C’è un’età che ora è anche la mia nella quale succede di star male per il mal di schiena. E succedono tante altre cose.
Ma queste cose – ed è questo l’essenziale – succedono al di fuori. Nel corpo, ma al di fuori. Nel corpo, ma al margine di qualcosa che resta identico, immutato: che si rifiuta di appartenere alla nuova età, semplicemente perché non ha a che fare con altro che con questo-presente-qui, che non è più giovane o più vecchio di alcun altro presente.
“Ogni istante del tempo può essere denominato ‘monade di eternità'”, dice Nishitani.

31 ottobre, giovedì

“Questa è la scuola”, dice la ragazza nigeriana al figlio. Si chiama Destiny, il bambino. Avrà un anno, sta cominciando a parlare, e guarda il mondo con occhi grandi. L’autobus è fermo davanti alla scuola elementare, imbottigliato nel traffico. “Questa è la scuola. Quando ti fai grande tu vai a scuola. La scuola è buona”, dice la ragazza nigeriana al figlio.
Cinque minuti dopo sono davanti alla scuola in cui insegno. I ragazzi sono tutti nel piazzale, anche se è tempo di entrare. Non entrano. E’ sciopero.
Faccio per entrare. Una delle due porte è sbarrata dalla saracinesca. “Che succede?”, chiedo. “Ci buttano le uova”. Dentro il fetore di uova marce è insopportabile.
Ci buttano le uova.
La scuola è buona.

25 settembre, mercoledì

Al collo. Ho portato per molto tempo una medaglietta d’argento con il simbolo del Kalachakra, alternandola con una moneta da cinquanta leke, un piccolo Buddha di legno, un pendente nepalese con gli occhi del Buddha. Adesso ho un cerchietto di giada. Un buco. Che rappresenta? che significa?. Un buco, nulla di più, nulla di meno. Un buco: l’alfa e l’omega, l’origine e la fine. Da un buco veniamo, in un buco finiremo.  Ma: mi figuro che ci sia anche un buco in cui ficcarsi per svignarsela. Lo strappo nella tela attraverso il quale l’attore si sottrae alla storia. Un buco: l’assenza, il no, la sottrazione. La via di fuga.

8 agosto, giovedì

A conti fatti, non è il dolore. Il dolore è un momento – e il più delle volte non è nemmeno dolore, e poi il corpo ha le sue stranezze, basta poco per immaginare che questo braccio non sia il mio braccio, per sentire che questo braccio non è il mio braccio. Altra cosa è l’umiliazione, la resa: abdicare alla dignità. Sentire che qualcosa è cambiato, che non sei più quello di prima: che è cominciato per te un processo di cosificazione. E che se li lasci fare, presto sarai radicalmente altro. Sei in balìa d’altri, la tua forza di volontà è quasi una bestemmia per l’ordine medico-salvifico. Che tu possa dire no, è cosa non prevista. Tu hai da essere un corpo che non si ribella. Materia docile. Paziente: null’altro che paziente.
Altra cosa è l’umiliazione, la resa. Non è la periferia, ma il centro di te. Non puoi rinunciare alla tua dignità senza rinunciare a te stesso. E forse qui c’è la prova decisiva: rinunciare alla stessa dignità per rinunciare a sé; affidarsi davvero all’ordine medico-salvifico quale passaggio oscuro verso l’illuminazione. Abbandonarsi all’anestesia sperando di non risvegliarsi più in questo corpo, con questo nome. In un corpo, con un nome.

29 aprile, lunedì

Questa mattina ho accompagnato i miei studenti ad una specie di partita del cuore: gli studenti di un istituto tecnico contro gli ospiti di una casa di accoglienza per extracomunitari. Prima della partita la preside tenta di prendere la parola. I suoi studenti la sommergono di fischi. Penso: dev’essere una pessima preside, per essere odiata così dai suoi studenti anche dopo aver organizzato una cosa del genere. Ma mi sbaglio. Nella mia carriera di docente (mi si passi l’ossimoro) ho visto gli studenti degli istituti tecnici e professionali fischiare e dileggiare chiunque. Ci sono passato anch’io, una volta che mi lasciai malauguratamente coinvolgere in un incontro con i poeti locali (mi si passi questo secondo ossimoro). Perché lo fanno? La risposta è, forse, nelle cose che dicevano qualche giorno fa le mie studentesse di prima. Che, cioè, chi studia è un “Pierino”. Usano il termine esattamente nel senso del “Pierino del dottore” di don Milani. Pierini sono i professori, più Pierini sono quelli che scrivono libri e che fanno conferenze per parlare agli altri. E i Pierini vanno fischiati (perché nemici di classe? può essere).

Seduto tra gli spalti ho finito di leggere Storia di un corpo di Pennac. Correndo il rischio di mettermi a piangere davanti ai miei studenti. La storia del declino inesorabile, e inesorabilmente doloroso, di un corpo colpisce alcune delle mie paure più radicate. Non la paura della morte, ma la paura del consumarsi del corpo e del dolore. Se ci rifletto meglio, mi accorgo che non è proprio del dolore che ho paura. Sono in grado di sopportare il dolore, se è una cosa che viene dal mio corpo – come i terribili mal di schiena che a volte (ma fortunatamente non succede da due anni) mi costringono all’immobilità. Vi vedo quasi un richiamo alla consapevolezza, per dirla buddhisticamente. No, a terrorizzarmi è il dolore che viene dal di fuori; o anche solo il fastidio: basta che ci sia qualcuno che fa qualcosa con il mio corpo. Mi spaventano le pur banali analisi del sangue – e mi basta nominarle o sentirle nominare per flettere automaticamente il gomito (come sto facendo ora), quasi a difendermi dall’intrusione di un ago immaginario. Ciò di cui ho terrore è essere in balìa di altri. Che qualcuno faccia del mio corpo qualcosa, mentre non sono cosciente. Terrore di dover essere operato, più di ogni altra cosa. Essere operato: essere oggetto per l’altro. Corpo, null’altro che corpo.
Tornando dallo stadio ho visto due poliziotti che indicavano educatamente, facendo anche un disegno su un pezzo di cartone, la strada ad un ragazzo africano. Devo ricordamene quando mi succederà di discutere di poliziotti.

24 gennaio, giovedì

Ha mangiato ma non le basta, gira inquieta alla ricerca di cibo, mi fissa con un’aria mesta quando mangio, in attesa di un boccone pietoso. Pare che sia l’esser stati randagi, l’aver girovagato per anni, e ora trovi da mangiare ora no, e quando trovi non fermarti ma mangia anche per quando non ce n’è, e cerca sempre, cerca perché può essere che per molto tempo non si trovi nulla – pare che l’esser stati randagi non sia revocabile. Si resta randagi per sempre, con una fame che non si estingue, che brucia e brucia e brucia.
E’ così che vivono molti. Randagi, un tempo; ora hanno una casa e un affetto, ma restano affamati, alla ricerca di un boccone, di qualcosa che quieti la voragine di dentro, ed ogni boccone è insufficiente, ogni sorriso diventa presto pianto, ogni gioia si converte in dolore, e scorre nelle vene come acido.

6 gennaio: epifania

Stavo salendo su una strada di montagna. Non le Alpi, nemmeno l’Appennino. Una di quelle strade del nostro Gargano, che salgono attorcigliandosi intorno al monte. Man mano che procedevo il panorama si allargava: e respiravo. Ad un certo punto – per una di quelle incoerenze senza le quali i sogni non sarebbero sogni – mi sono trovato ad attraversare un lembo di mare, l’impidissimo tra le rocce. Ho tolto le scarpe per procedere nell’acqua. Ma le scarpe mi si sono immediatamente riempite di granchi. Ne toglievo uno, e subito ne spuntava un altro. Ho capito presto che avrei combattuto all’infinito la mia battaglia contro i granchi: e che non sarei andato oltre.
Mi sono svegliato. La stanza era buia. Sentivo respirare. Ho pensato che fosse mia sorella. Quando ero ragazzino io e i miei fratelli dormivamo in cucina: io e mio fratello in un letto  a castello, mia sorella in un letto singolo, oltre il tavolo della cucina. Sono qui, mi sono detto; qui a casa dei miei, con i miei fratelli. L’incoscienza del risveglio, in quell’attimo in cui ancora non è stato caricato il programma dell’io. Un attimo, appunto. Poi sono diventato quel che sono: un uomo che ha appena compiuto quarantun’anni.
Questo sbalzo temporale mi ha lasciato una sensazione difficile da definire, confusa, impastata di molte cose, tra le quali la nota rilevante era una certa amarezza.
Io non credo nel pensiero, e non credo nei nomi. Quando pensiamo siamo alla superficie di noi stessi, nello sforzo – inutile? – di renderci intellegibili agli altri. Quel che siamo è al di là dei nomi e del pensiero. Siamo come uno gettato in mare, che fa grandi sforzi per restare a galla, ma presto viene sommerso dai flutti e va a fondo. Cerchiamo di tenerci a galla afferrandoci ai nomi ed ai concetti, ma quello che siamo è un fiume senza forma, nel quale costantemente siamo sommersi.
C’era questo, dunque: io non io, quarantenne di quindici anni, nel mio letto di morte. Io non sono quello, ma non sono nemmeno questo. E: io sono questo, e quello. तत्त्वमसि. Io qui, nella forbice del non essere, del non qui. Tra la nascita e la morte. La non nascita e la non morte.