Cercando aria, luce e colori, mi sono spinto questa mattina con il mio cane per i colli senesi, sui quali la primavera, indifferente alla nostra angoscia, sta cominciando a celebrare la sua festa. Nessuno per strada; solo, di là dai cancelli, due uomini impegnati nella potatura degli ulivi. “Taglia più in basso, lì” le uniche parole sentite. Per il resto il silenzio morbido e gentile dei colli. E i rospi.
Questo è il periodo della mattanza dei rospi. S’azzardano sull’asfalto e vengono falciati da un mostro di acciaio che nulla sa di loro. Restano lì, un ammasso di sangue e carne, fino a quando i raggi del sole non cominciano la loro operazione alchemica. In capo a qualche giorno, di loro non resta resta una sagoma di grigia e rinsecchita; qualche giorno ancora, e svanisce anche la forma – la tragica persistenza di una parvenza di vita, perfino di volontà.
Mi hanno seguito per tutta la mia esplorazione dei colli, queste cose, fino a quando ho ceduto al loro invito alla riflessione. Sì, non siamo forse anche noi così? Possiamo davvero ritenerci diversi da un rospo, nell’economia dell’universo? Non siamo fatti fuori anche noi, da un momento all’altro? E resta di noi qualcosa di diverso, nonostante la premura dei superstiti? Continue reading “16 marzo, lunedì”
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La vita oltre la morte
C’è vita dopo la morte?, mi chiedi.
Certo. Quando tu sarai morto, tutto continuerà ad andare esattamente come prima: ci saranno fiori in primavera e neve d’inverno, si costruiranno ponti e muri, si verseranno molte lacrime e ci saranno molte risate.
Ma io non ci sarò, non sarà la mia vita, dici.
Esatto. Non sarà la tua vita: ma sarà vita. La vita oltre la tua vita. La vita oltre te. E tu vincerai la morte, se vivrai fin da adesso in quella vita che non è la tua vita. In quella vita che non è te.
7 ottobre, sabato

Le accarezzavo le orecchie e la testa. Negli ultimi cinque anni della mia vita accarezzarle le orecchie e la testa è stato il modo per ancorarmi a qualcosa di buono, di dolce, di bello. Accarezzarle le orecchie e la testa mentre lei chiudeva gli occhi per godersi quel momento. Ma questa notte non c’era nulla di dolce, né di bello. Solo l’oscena ingiustizia di assistere alla sua agonia senza poter far nulla. Vederla andare, senza saperla davvero accompagnare. Perché quando le accarezzavo la testa lei era già altrove. Strappava alla morte ogni respiro, lottando con tutta sé stessa. Finché voler vivere non è stato più sufficiente.
Si muore. Lo so. Sabbe sankhara anicca. Me lo ripeto mille volte al giorno. Ho sentito morire molte persone, e molte mi erano care. Ma mai una morte mi è sembrata così ingiusta, così inaccettabile.
La morte di un cane. Sì. Un semplice cane. Soltanto un cane. Ma negli occhi di quel cane – negli occhi di Happy – c’era tutto il dolore, la dignità, la pazienza, la compassione dell’umanità offesa.
27 giugno, martedì
Gli atti vitali sono terribili. Mangiare, uccidere, scopare. Ma il più terribile di tutti è dormire. Ora ci sono, ora non ci sono più. Io per me stesso non sono una sicurezza. Il mio essere è intermittente. Il mio essere è inaffidabile. Il mio essere ha un vuoto al centro.
Questa intermittenza dell’io è il grande tabù del pensiero, ciò che è sconveniente da pensare, ciò di cui non bisogna parlare (לָמָּה תָמוּת, בְּלֹא עִתֶּךָ.). Dove sei, chi sei, cosa sei quando non ci sei? è la domanda fondamentale.
E’ solo attraverso il nihilum, dice Nishitani, che si giunge al vuoto.
24 giugno, sabato
Penseremmo di avere un corpo, se il nostro corpo scomparisse nel nulla per sette, otto, nove ore al giorno? Penseremmo addirittura di essere un corpo? No, dirai. Anche perché siamo abituati ad identificarci non con il corpo, ma con quella che una volta si chiamava anima: l’io, la coscienza. Ma la coscienza, ecco, è esattamente quella cosa che scompare per sette, otto, nove ore al giorno. Possiamo dire di avere una coscienza? O addirittura di essere una coscienza?
20 giugno, martedì
Mi siedo a gambe incrociate sul trifoglio, chiudo gli occhi per meditare, ma giusto qualche minuto, poi smetto perché ho voglia di guardare il prato e gli alberi e l’asino e le capre. Un’ape, poi un’altra, poi un’altra ancora, sui fiori di trifoglio. Il pavone mi passa accanto, attraversa un rigagnolo, si avvia verso la sua casetta di legno – placido.
Un idillio perfetto, infranto da un bassotto senza nome – lo chiameremo Scibbolet – che forse spaventato dal verso del pavone scappa sulla strada sterrata. Una ragazza bionda lo guarda, non sa se inseguirlo, poi compaiono due donne e lei dice che è lì, Scibbolet si è avviato da quella parte. Le due donne corrono e dopo qualche minuto tornano con Scibbolet in braccio. Si torna all’idillio. Una quindicina di bambini di quattro o cinque anni si stendono sull’erba, con i loro costumini, poi cominciano a giocare. Si lanciano l’un l’altro palloncini ripieni di acqua. Sono felici, molti ricorderanno questo come uno dei giorni più belli della loro infanzia.
E’ perfetto, penso.
Mi correggo: sarebbe perfetto se io non ci fossi.
8 marzo, mercoledì
Per qualche ora ho provato a rientrare in Facebook. Nel giro di pochi minuti sono stato risucchiato in un vortice di imbecillità.
Mi è finita sotto mano la foto di Capitini alla marcia della pace, con il cartello “Unità con tutti per sempre”. No, Aldo. Il tuo paradiso è il mio inferno. Alla larga da tutti, per sempre. E piuttosto: unità con il Ciò. तत्त्वमसि.
25 agosto, giovedì
Siedo sul balcone. Davanti ho la valle, di là dalla valle il paese. Quasi tutte le case sono spente, qualcuna ancora s’aggrappa all’ultima luce. Non un solo cane abbaia, nulla parla. Dietro le case il cielo. Due stelle verticali, una rosseggia, l’altra è fredda. Altre stelle sparse a caso. Respirano, ansimano.
Mentre la cagna che vive con noi raspava nei cespugli, prima, ho pensato a me vecchio. Alla vita che ti fa man mano più solo, più sopravvissuto. E poi uccide anche te.
Guardo le stelle con il peso di questa condanna: della solitudine, della morte. Sento la mano fredda della notte che mi attraversa da parte a parte, e so che vivere è lasciarsi abitare dal nulla.
Quando anche questa casa non sarà più, avrò dentro questo balcone sul cielo, sulle stelle, sul nulla.
1 gennaio, venerdì
Il primo obiettivo del 2016 era raggiungere piazza del campo in tempo per la mezzanotte. Ci siamo fatti di corsa via Camollia e via Banchi di sopra, con una bottiglia di spumante e due bicchieri. Meno cinque, quattro, tre. L’uno è arrivato che eravamo a palazzo Tolomei. Niente. Siamo riusciti a mettere piede a piazza del campo che il 2016 era già vecchio di tre o quattro minuti. La piazza era gremita come nel giorno del palio, e sul palco un gruppo pugliese suonava la tarantella. La tarantella: quella musica che è bella per un minuto, due minuti: e poi induce stati di coscienza alterata. Fortunatamente dopo un po’ hanno smesso: trovarmi in una folla di persone in stato di coscienza alterata è uno dei miei incubi (trovarmi in una folla in generale, a dire il vero).
A mezzanotte e mezza è cominciata la silent disco. Comincio il 2016 sapendo cos’è una silent disco. Funziona che ti ficchi nel carnaio, se non ti schiacciano riesci a raggiungere uno stand dove lasci un tuo documento, poi ti rificchi nel carnaio e se non ti schiacciano riesci a raggiungere un secondo stand dove paghi quindici euro e ti danno una cuffia. Ti metti la cuffia nelle orecchie, ti rificchi nel carnaio e ti trovi un posto in cui puoi ballare senza morire schiacciato. Con la tua cuffia. Tu e la tua musica. E così gli altri. Tutti ballano con la loro cuffia: e chi guarda non sente nulla.
Provo a far notare alla mia dolcissima metà che la musica è sempre stata quella cosa che uno suona ed altri ascoltano insieme, ed ascoltando insieme si sentono insieme, e questa cosa che ognuno ascolta la sua musica è… non mi viene un aggettivo: ma è la notte di capodanno, e non si può far filosofia. Guardo dunque la scena, che sta tra The Walking Dead e The Leftovers, meditando di cambiare specie. E raggiungendo il mio primo, meraviglioso risultato del 2016: fare tappezzeria a piazza del campo.
27 dicembre, domenica
7 novembre, sabato
25 ottobre, domenica
24 ottobre, sabato
3 gennaio, sabato
Giunge la loro fermata. Le due ragazze (solo ora vedo che hanno sul petto un tesserino della chiesa) mandano baci alla vecchina ed escono in fretta, con l’espressione di chi ha appena compiuto una rapina. La vecchia, fino ad un attimo prima sorridente, ha ora il viso stanco. Sembra affranta, per un attimo ho l’impressione che stia per avere un attacco di panico. Si toglie il cappello di lana, respira. Tutto torna normale. Normale.
Normale: che qualcuno rivolga la parola ad un estraneo solo per usarlo; questo, nella nostra società, è normale. Rivolgere la parola ad un estraneo solo per parlare con lui, senza alcun altro fine, penso, sarebbe una cosa davvero rivoluzionaria. Chiedere della sciarpa, e dei figli, e di tutto quanto il resto, solo per conoscere, per stringere legami, per gettare ponti oltre le mura del nostro io. Ma, ecco, se lo facessimo, pure useremmo l’altro: ci servirebbe per fare la rivoluzione. E il mondo torna a sembrarmi un groviglio, mentre salto giù dall’autobus e mi avvio verso casa.
Una teoria
“Prof, ma ce l’ha una teoria?”, mi chiede Lahcen. Non è la prima volta che me lo chiede. La prima volta ho tergiversato, e così vorrei fare anche ora: ma lui insiste. “Ce l’ha o no?”. “E’ complesso”, provo a dire. “Non so se riuscirei a spiegarti adesso”. Ma lui insiste. E allora azzardo. “Tu al mattino ti svegli e per tutta la giornata vivi in una certa realtà. Ecco, la mia teoria dice che c’è un’altra realtà; o meglio, che tu potresti vedere la realtà in un modo del tutto diverso. E che in questo modo del tutto diverso c’è pace”. Lo guardo, convinto che non ci abbia capito nulla. Ma lui mi assicura: “Sì, prof, ho capito”. Chissà.
17 ottobre, venerdì
Le strade erano insignificanti, spesso brutte. Ma ognuna di quelle strade era impastata di me. Ogni volta che attraversavo ognuna di quelle strade, mi aggiungevo al mio passato. Sulla via della stazione ero accompagnato, ad esempio, da un ragazzino che andava alla libreria Nuova Minerva ad acquistare la sua prima copia del “De Rerum Natura” di Lucrezio. Ed ero lui, e no: e non lo ero essendolo.
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un’ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c’è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l’ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.
Da un’altra parte
9 maggio, venerdì
24 aprile, venerdì
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe.
20 febbraio, giovedì
Venerdì, 31 gennaio
Ieri una collega mi ha chiesto come mai sono stato in malattia. Le ho detto del mal di schiena. “Alla nostra età succede”, ha detto. Alla nostra età. La sua, la mia. C’è un’età che ora è anche la mia nella quale succede di star male per il mal di schiena. E succedono tante altre cose.
Ma queste cose – ed è questo l’essenziale – succedono al di fuori. Nel corpo, ma al di fuori. Nel corpo, ma al margine di qualcosa che resta identico, immutato: che si rifiuta di appartenere alla nuova età, semplicemente perché non ha a che fare con altro che con questo-presente-qui, che non è più giovane o più vecchio di alcun altro presente.
“Ogni istante del tempo può essere denominato ‘monade di eternità'”, dice Nishitani.
31 ottobre, giovedì
25 settembre, mercoledì
8 agosto, giovedì
29 aprile, lunedì
24 gennaio, giovedì
Ha mangiato ma non le basta, gira inquieta alla ricerca di cibo, mi fissa con un’aria mesta quando mangio, in attesa di un boccone pietoso. Pare che sia l’esser stati randagi, l’aver girovagato per anni, e ora trovi da mangiare ora no, e quando trovi non fermarti ma mangia anche per quando non ce n’è, e cerca sempre, cerca perché può essere che per molto tempo non si trovi nulla – pare che l’esser stati randagi non sia revocabile. Si resta randagi per sempre, con una fame che non si estingue, che brucia e brucia e brucia.
E’ così che vivono molti. Randagi, un tempo; ora hanno una casa e un affetto, ma restano affamati, alla ricerca di un boccone, di qualcosa che quieti la voragine di dentro, ed ogni boccone è insufficiente, ogni sorriso diventa presto pianto, ogni gioia si converte in dolore, e scorre nelle vene come acido.
6 gennaio: epifania
Stavo salendo su una strada di montagna. Non le Alpi, nemmeno l’Appennino. Una di quelle strade del nostro Gargano, che salgono attorcigliandosi intorno al monte. Man mano che procedevo il panorama si allargava: e respiravo. Ad un certo punto – per una di quelle incoerenze senza le quali i sogni non sarebbero sogni – mi sono trovato ad attraversare un lembo di mare, l’impidissimo tra le rocce. Ho tolto le scarpe per procedere nell’acqua. Ma le scarpe mi si sono immediatamente riempite di granchi. Ne toglievo uno, e subito ne spuntava un altro. Ho capito presto che avrei combattuto all’infinito la mia battaglia contro i granchi: e che non sarei andato oltre.
Mi sono svegliato. La stanza era buia. Sentivo respirare. Ho pensato che fosse mia sorella. Quando ero ragazzino io e i miei fratelli dormivamo in cucina: io e mio fratello in un letto a castello, mia sorella in un letto singolo, oltre il tavolo della cucina. Sono qui, mi sono detto; qui a casa dei miei, con i miei fratelli. L’incoscienza del risveglio, in quell’attimo in cui ancora non è stato caricato il programma dell’io. Un attimo, appunto. Poi sono diventato quel che sono: un uomo che ha appena compiuto quarantun’anni.
Questo sbalzo temporale mi ha lasciato una sensazione difficile da definire, confusa, impastata di molte cose, tra le quali la nota rilevante era una certa amarezza.
Io non credo nel pensiero, e non credo nei nomi. Quando pensiamo siamo alla superficie di noi stessi, nello sforzo – inutile? – di renderci intellegibili agli altri. Quel che siamo è al di là dei nomi e del pensiero. Siamo come uno gettato in mare, che fa grandi sforzi per restare a galla, ma presto viene sommerso dai flutti e va a fondo. Cerchiamo di tenerci a galla afferrandoci ai nomi ed ai concetti, ma quello che siamo è un fiume senza forma, nel quale costantemente siamo sommersi.
C’era questo, dunque: io non io, quarantenne di quindici anni, nel mio letto di morte. Io non sono quello, ma non sono nemmeno questo. E: io sono questo, e quello. तत्त्वमसि. Io qui, nella forbice del non essere, del non qui. Tra la nascita e la morte. La non nascita e la non morte.