Vedo solo lo schifo

Suscitano indignazione le immagini del pregiudicato foggiano che con la moglie, anch’essa pregiudicata, ha portato i figli in pellegrinaggio sulla tomba di Totò Riina e Bernardo Provenzano, postando le foto su Facebook e accompagnandole con un testo che grida vendetta: “Per me restano grandi uomini. È un onore essere qui”.

Quando si tratta di fatti sociali, però, è sempre meglio seguire l’indicazione di Spinoza: “non deridere, non compiangere, non maledire ma comprendere”. E per comprendere un qualsiasi fatto sociale bisogna partire sempre dalla stratificazione sociale.

Non siamo tutti uguali, se non retoricamente. Alcuni sono ai vertici della società, altri nel mezzo, altri in basso. E il fatto che si sia in un punto o in un altro è fondamentale per comprendere chi siamo, cosa facciamo e perché.

Non è difficile collocare socialmente il nostro pregiudicato. Basta dare uno sguardo, appunto, al suo profilo Facebook. Ha studiato all’Università di Foggia ed è un libero professionista. Un architetto o un commercialista, si direbbe. Ma più veritiere sono altre due indicazioni, in aperta contraddizione: ha studiato presso “la strada” e lavora presso “La Bella Vita”. Tra i post pubblici c’è questo suo pensiero:

Buongiorno a tutti vedo solo lo schifo che più chifo che no ce ne ti chiamano amici fratelli e poi anno il coraggio di dire che sono di omertà fatemi il piacere che vi schifo da sopra a sotto spero solo che non abbiate mai una difficoltà xche sarà il giorno che vi schifero con ho sempre fatto ciao vvb schifezze..

Il nostro pregiudicato è una persona senza istruzione alcuna e, conseguentemente, senza nessuna vera attività lavorativa. È povero e socialmente escluso. Non ha nessuno strumento per cambiare la sua posizione sociale. In altri termini, è un sottoproletario.

A Marx non piaceva, il sottoproletariato. Lo chiamava Lumpenproletariat, cioè proletariato straccione. Esposto alla violenza, al crimine, gli sembrava del tutto inaffidabile per la prassi rivoluzionaria. Ed aveva ragione. Il sottoproletariato va bene per far film o scrivere libri: non c’è borghese che non si commuova e sia pronto a far le barricate pur di difendere il suo giudizio entusiastico su film come Accattone di Pasolini.

Ora, il sottoproletario ha una collocazione infelice, nella società, ma non per questo vede il mondo in modo diverso. Le sue mete sono esattamente quelle di tutti gli altri. Ogni membro della società desidera raggiungere la meta sociale del successo, a meno che non sia un filosofo – in questo caso desidera raggiungere il successo criticando la società. Non avendo strumenti culturali per mettere in discussione i modelli e i valori sociali, nel sottoproletario questi si presentano nel modo più evidente e ingenuo. Il borghese vuole la macchina potente, ma dissimulerà il suo desiderio di uno status symbol con ragioni più o meno etiche: la macchina più potente è più sicura (le case automobilistiche lo sanno bene, spiegava già Vance Packard ne I persuasori occulti). Il nostro sottoproletario vuole la macchina potente esattamente come status symbol, senza dissimulazioni. Sa che è un simbolo, ed è quel simbolo che desidera.

Le mete sociali, dunque, sono le stesse. Ma come farà a raggiungerle? Robert King Merton ha spiegato che è così che nasce la devianza. C’è un obiettivo sociale condiviso da raggiungere e c’è una via che la società indica per raggiungerlo. Nella nostra società l’obiettivo è il successo, la via è lo studio, il sacrificio, il lavoro. O almeno questa è la narrazione. Ma a qualcuno la via è preclusa. Perché, ad esempio, non riesce a scuola. Viene respinto una volta, poi di nuovo. Potrebbe provare a cominciare con un lavoro: ma un lavoro senza titolo di studio è troppo umile per poter sperare un giorni di arrivare alla meta. Ed allora ecco la scorciatoia. Si potrebbe cominciare, ad esempio, spacciando droga. Molti soldi e subito. Stessa meta, percorso diverso.

Torniamo ora al nostro sottoproletario foggiano. Occupa la posizione sociale più bassa in quella che è con ogni probabilità la peggiore città italiana. Se c’è un ultimo, in Italia, è lui. Che fare? Potrebbe cercarsi un lavoro da cameriere o lavorare nelle campagne. Fatica, sudore, sacrifici. Dignità, per alcuni. Ma vuol dire, in una società spietata come la nostra, esporsi ad umiliazioni continue, a lavori senza contratto, allo sfruttamento più selvaggio. Non si può negare che l’alternativa sia seduttiva. Ma non pare che quest’uomo abbia ottenuto granché riguardo a successo e denaro, a dire il vero. Cosa gliene viene? E qui bisogna considerare un altro bisogno fondamentale: il riconoscimento. Sentire che siamo in un contesto in cui gli altri ci apprezzano, ci riconoscono valore e competenza. Mettersi su quella via dà al nostro sottoproletario un linguaggio – penso di poter dire che la parola omertà era completamente sconosciuta al sottoproletariato foggiano fino a qualche anno fa –, una rete di relazioni, una visione del mondo. Una sottocultura nella quale la sua posizione sociale acquista una prospettiva diversa. Se avesse un po’ di cultura politica potrebbe filosofeggiare sul suo essere un elemento eterogeneo, la pietra scartata della società che diventa elemento di sovvertimento, con buona pace di Marx. Ma se avesse un po’ di cultura politica non sarebbe più un sottoproletario. Da sottoproletario, il massimo che può fare è idolatrare Riina e Provenzano, cercando per questa via di capitalizzare un po’ della loro aura maledetta.

Prima di condannare quest’uomo e sua moglie – qualcuno propone di togliere loro i figli – bisognerebbe chiedersi cos’ha fatto la società per impedire che finisse per umiliare la sua umanità portando fiori sulla tomba di due boss mafiosi. La scuola evidentemente lo ha espulso. I servizi sociali? A Foggia, una città con problemi sociali semplicemente spaventosi, l’assessorato ai servizi sociali è stato affidato dall’ex sindaco Landella a una donna senza alcuna esperienza in campo sociale, con all’attivo un diploma da estetista. Il Comune di Foggia è stato sciolto per mafia; e si direbbe che un sottoproletario mafioso dovrebbe sentirsi a casa in una città governata da una classe politica mafiosa. Così non è. Per la politica foggiana il nostro sottoproletario è carne da macello. Gente il cui voto costa venti euro: e che bisogna mantenere in tale stato miserabile appunto per poterne comprare il voto a un prezzo così basso.

Poi c’è la Chiesa. A giudicare dalle foto postate sul suo profilo Facebook il nostro sottoproletario è molto cattolico. In una di esse posa, tutto in ghingheri, accanto alla statua della Madonna. La Chiesa sembra essere l’unica istituzione sociale con la quale quest’uomo ha buoni rapporti. E pare uno spiraglio importante per aprire la sua sottocultura ad una visione più ampia. Tutt’altro. Quest’uomo può fotografarsi accanto alla statua della Madonna e sulla tomba di un boss mafioso senza alcuna inquietudine perché per il sottoproletariato il cattolicesimo è anch’esso una sottocultura, una religione assolutamente vuota, priva di qualsiasi principio morale o spirituale, centrata su statue, luminarie e fuochi d’artificio. E alla Chiesa va bene così.

Gli unici davvero vivi

Le proteste mondiali dopo l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis dimostrano che anche da una tragedia può venir fuori qualcosa di buono. È urgente che gli Stati Uniti riflettano sui limiti di una democrazia che mostra un volto feroce verso una parte consistente dei suoi cittadini, così come è urgente che in tutto il mondo si rifletta – in modo non retorico – sul persistere del razzismo e della discriminazione.
Se la morte di Floyd ha avuto questo effetto, è stato perché di quell’omicidio c’è stata una testimonianza fotografica. La foto del poliziotto bianco con il piede sul collo dell’uomo nero, con un’espressione sicura, quasi trionfale, incarna in realtà un archetipo dell’inconscio collettivo occidentale e cristiano: il bene, bianco, che prevale sul male, nero; l’arcangelo Gabriele che schiaccia la testa al Diavolo. Se in quella che con ogni probabilità è la sua prima rappresentazione artistica – i mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna – il Diavolo è un angelo che si differenzia dagli altri solo per il colore blu della tunica, ben presto, man mano che si consolida l’iconografia cristiana, tingendo la pelle di Cristo e della Madonna di un improbabile colore pallido e i capelli perfino di biondo, Satana diventerà nero. E il nero diventerà satanico. Ma il dispositivo funziona solo se c’è un contesto narrativo, una demonizzazione retorica della vittima. In questo caso c’era solo un uomo che invocava pietà, ucciso da un uomo senza pietà.[read more]

Quella della scena di Minneapolis è una violenza diretta, che però non ci sarebbe stata senza altre forme di violenza. Violenza diretta è la violenza di un pugno, di un colpo di pistola, di una coltellata. Meno visibile è la violenza culturale. Quella violenza, ad esempio, che in alcuni contesti fa sì che le donne siano considerate meno importanti degli uomini, e quindi costrette alla sottomissione; e quando quella sottomissione non c’è, può accadere la violenza diretta. No, non parlo di Islam. Non solo, almeno. Parlo del nostro Paese. E c’è poi una violenza ancora più sottile. Quella che Johan Galtung chiama violenza strutturale. È la violenza che viene agita non da un singolo o da un gruppo, ma da un intero sistema sociale. C’è qualcuno che soffre, c’è qualcuno che muore, ma ecco, la colpa non è di nessuno. Come nella Dogville di Lars von Trier, la collettività può considerarsi buona ed accogliente; e tuttavia qualcuno muore.
Questa mattina una persona è morta nell’incendio della baraccopoli di Borgo Mezzanone, a Foggia. Dico persona perché al momento non si sa se è un uomo o una donna. Può essere che non lo si sappia mai. Molti dei migranti morti nelle campagne foggiane restano senza nome. Molti anni fa pubblicavo, a Foggia, un foglio libertario che si chiamava Tophet. Nel primo numero buttai giù un elenco dei migranti morti negli ultimi mesi nelle campagne foggiane. Una ventina di persone, per lo più rimaste senza nome. Molti investiti mentre cercavano di raggiungere i terreni nei quali lavoravano, molti morti in circostanze mai chiarite; qualcuno morto di freddo. Il contesto è noto. E per dire le cose come sono, bisogna usare una parola terribile: schiavitù. La usò Fabrizio Gatti, in un reportage sull’Espresso del 2006. Gatti si finse immigrato e fu ingaggiato come bracciante nelle campagne foggiane. Poi raccontò tutto; e il titolo del suo racconto era: “Io schiavo in Puglia”.
Sì, a Foggia c’è la schiavitù. Vera, non metaforica. A Foggia ci sono persone che lavorano in condizioni terribili, sfruttate a sangue, senza il minimo rispetto della loro dignità umana; persone che vivono in baracche di lamiera, in ghetti che, se fossimo meno distratti, sarebbero la vergogna di questo Paese, in ghetti che, se fossimo meno disumani, sarebbero tutti i santi giorni sulle prime pagine dei giornali. Persone che vivono in baracche di legno e lamiera che vanno a fuoco, e li uccidono. Chi li ha uccisi? Chi è stato? A Foggia non c’è solo la schiavitù. C’è qualcosa di cui la schiavitù ha bisogno, senza cui la schiavitù non esisterebbe. Non mi riferisco solo all’indifferenza. A Foggia c’è un razzismo schifoso, un razzismo da Ku Klux Klan, che è qualcosa di diverso da una semplice espressione di ignoranza. È quella violenza culturale senza la quale la violenza strutturale non sarebbe possibile. Non puoi compiere ingiustizia verso qualcuno e al tempo stesso sentirti a posto. Stai facendo il male, e lo sai. Per cavartela con te stesso hai bisogno di disumanizzare l’altro, di scorgere in lui, contro ogni evidenza, non una vittima, ma una minaccia. Hai bisogno di rovesciare la realtà e di vedere in te – in te sfruttatore economico degli uomini e sfruttatore sessuale delle donne – una povera vittima, minacciata dall’invasione di esseri minacciosi e pericolosi. Gli schiavi delle campagne foggiane hanno cominciato da qualche tempo la loro lotta. In una solitudine quasi assoluta, scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, la loro umanità. Accolti dallo scherno, dal disprezzo e dall’odio generale a livello locale; dalla semplice indifferenza a livello nazionale. Loro continueranno a morire, noi a sentirci minacciati da loro. Ma gli unici davvero vivi, in questo Paese in rovina, sono loro.

Gli Stati Generali, 12 giugno 2020.[/read]

24 novembre

Ieri a Foggia sono morti due poveri. Vivevano in una baracca, si scaldavano con un braciere. Li ha uccisi il monossido di carbonio. Non avevano ancora quarant’anni.

Una volta, quando pubblicavo un foglio anarchico che si chiamava Tophet, contai gli immigrati morti tragicamente a Foggia: per lo più investiti a bordo strada, qualcuno – come la romena Claudia Ioana Pop – annegato nelle vasche per l’irrigazione, qualcuno bruciato. Erano decine. Una strage silenziosa, che avveniva, che avviene nell’indifferenza più completa.

In genere quando delle persone sono ridotte a cose senza importanza, c’è un dispositivo di disumanizzazione. Nel mondo antico, afferma Roberto Esposito, era il concetto stesso di cosa, che finiva per inghiottire anche esseri umani. Nel mondo cristiano, sosterrei io da qualche parte se fossi meno pigro, è la figura del Diavolo che consente la disumanizzazione e il massacro. Quello che sconcerta, a Foggia, è che non c’è bisogno di alcun particolare dispositivo per giustificare questo lento massacro. La ferocia è strutturale, si situa ad un livello preculturale, è un veleno che è nell’aria, che si respira parlando, ridendo, andandosene in giro per i centri commerciali. Perfino pregando.

I migranti e il silenzio della politica

Fa sorridere (amaramente) l’ingenuità mostrata dai lavoratori migranti che il 6 maggio manifestavano a Foggia per la dignità e i diritti: in uno dei loro cartelli si rivolgevano al sindaco Landella per chiedergli giustizia per il giovane gambiano morto nell’incendio della sua baracca di legno e lamiera. Avranno pensato che il sindaco è, come tale, il capo di una comunità, ed il capo di una comunità non può disinteressarsi delle violazioni dei diritti elementari che accadono nella sua città. Da Landella, naturalmente, solo silenzio. Ma null’altro che silenzio giunge anche dal principale sfidante di Landella, Pippo Cavaliere. Guardo e riguardo la sua pagina Facebook, che in campagna elettorale è per ogni candidato ormai il principale strumento di propaganda, ma nulla. Non una sola parola, non un link. Per il candidato di sinistra alle elezioni la manifestazione di centinaia di migranti semplicemente non è mai avvenuta. Né mi pare che altri si siano espressi.
Posso comprenderli. L’Italia è ormai un paese in cui il razzismo ha messo solide radici, e Foggia è anche più razzista della media italiana, benché abbia un numero di migranti decisamente inferiore alle città del centro-nord. Sotto elezioni è meglio non compromettersi con questa gente, si rischia di perdere voti. Ma a non compromettersi si rischia qualcosa di peggio: di vincere, ma di non differenziarsi affatto dall’avversario. Di essere diventati di destra, nel tentativo di sconfiggere la destra.

Uno degli argomenti di destra contro i migranti – uno dei pochi che usano quando provano ad argomentare, cosa che non va più molto di moda – è che i migranti sono manodopera a basso costo, che vengono qui solo per essere sfruttati, che l’immigrazione non è altro che racket di esseri umani. Che sia così, almeno a Foggia (o a Rosarno) è difficile negarlo. Ma la conclusione logica di questa premessa non è la negazione dell’immigrazione (che sarebbe, peraltro, la negazione di un fenomeno antico quanto la specie umana: e senza la quale, peraltro, la specie umana nemmeno esisterebbe, almeno non come è adesso), ma la lotta per i diritti dei lavoratori migranti. Se fosse un vero argomento, e non un pretesto, quelli di destra dovrebbero essere al fianco dei lavoratori africani che scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, a cominciare da paga, contratto, alloggio decente e documenti. Solo in questo modo è possibile riportare legalità nelle campagne: e legalità è una delle parole di cui si riempiono la bocca i salviniani (salvo poi difendere a spada tratta il sottosegretario, già pregiudicato per bancarotta fraudolenta, accusato di corruzione).
Dietro il silenzio dei “politici” foggiani di fronte a quella manifestazione – un silenzio riempito dalle scomposte eruttazioni dei tanti frustrati da social network, degli infelici che vivono d’odio – c’è un duplice fallimento. Il fallimento, la miseria morale di una destra che si riempie la bocca dei valori cristiani tradizionali, ma non riesce a vedere nel nero che crepa in una baracca un essere umano; ed è un fallimento che prescinde dal successo elettorale. Chi costruisce il suo successo personale sull’odio e sul razzismo è un fallito come essere umano ed è un fallito come politico. Ed è il fallimento di una sinistra che per calcolo elettorale dimentica i fondamenti stessi di qualsiasi politica di sinistra: l’uguaglianza, la liberazione di tutti cercata, rivendicata, costruita faticosamente a partire da chi sta peggio.
Dietro il silenzio dei “politici” c’è il fallimento di una intera città, che tira a campare tra una partita di calcio e un panino in piazza (“un bilancio entusiasmante” per Libando, annuncia il sindaco Landella), senza davvero sapere dove sta andando – dove vuole andare.

L’Attacco, 9 maggio 2019

Una città che non sa sognare i propri figli

“Ciascuno cresce solo se sognato”. E’ il bellissimo verso conclusivo di una poesia di Danilo Dolci, che compendia con straordinaria efficacia tutto il suo impegno educativo e sociale. E che vale, da solo, più di qualche tomo di pedagogia, una disciplina che oscilla tra un vacuo moralismo e una non meno vacua ricerca del nuovo. Vuol dire, quel verso, che non puoi educare nessuno se non hai la capacità di interpretare le sue possibilità; se non sai vedere nel ragazzino rozzo e violento di oggi la persona onesta, buona, pacifica che potrà essere domani. Diseducare è invece prendere il dato attuale e considerarlo definitivo.
La figura di Dolci sta uscendo da qualche anno dall’oblio nel quale era precipitata dopo la sua morte, nel 1997, e quel verso è oggi perfino un po’ abusato. Ma non è un male. Basterebbe, da solo, ad avviare una discussione pubblica sull’educazione. Non è forse vero che educare significa sognare quello che saranno i nostri figli? E siamo davvero capaci di farlo? Sappiamo sognare le nuove generazioni?

Negli ultimi giorni – mentre le forze dell’ordine arrestavano alcuni pericolosi, e giovanissimi, rappresentanti della innominata mafia locale – il principale tema di discussione a Foggia è stato quello di alcune ragazzine, anzi bambine, che terrorizzavano i passanti in centro, con aggressioni gratuite. Sono diventate, queste bambine di cui non era difficile indovinare il profilo sociale, il primo problema della città. E sui social la città ha riservato loro quella ferocia che in genere riserva agli extracomunitari. Riporto qualche commento; mi piacerebbe, perché qualcuno dovrebbe cominciare ad assumersi la responsabilità sociale delle sue azioni, riportare anche i nomi, ma mi limiterà al genere. “Linciatele” (donna), “Bruciatele vive” (uomo), “Pestatele a ste bestie” (donna), “Ste puttanelle… andrebbero massacrate di sberle” (uomo), ” A queste zoccole prima ai genitori è [sic] poi a loro un bel paliatone se denunciano ancora paliatone è [sic] poi portarle su un’isola a pane e acqua” (uomo), “Linciare no e il minimo una volta prese si portano al centro della piazza via lanza e subiscono cio [sic] che loro facevano alle loro vittime, cosi la prossima volta ci pensano di nn ronpere [sic] il cazzo alle persone ste cesse” (uomo; una donna dice di concordare: sul suo profilo c’è una foto in cui sventola una bandiera della pace); “saranno future bestie, figlie di bestie” (donna). Eccetera.
Ho detto che questa è la ferocia che in genere si riserva agli extracomunitari. Non mi sorprende. Nei commenti è chiara la percezione della provenienza sociale delle bambine. E il nuovo razzismo, per me, non è altro che questo: odio verso chi vive situazioni di esclusione sociale. Un odio che è performativo: crea a sua volta maggiore esclusione sociale, in una spirale tragica.
Una verità elementare è che non siamo noi a decidere quello che siamo. Non, certamente, a dieci o dodici anni. Siamo il risultato di un contesto. La famiglia, certo; ma anche la città. Un bambino che a dodici anni conosce solo la violenza è il risultato di una città in cui molte cose non vanno. Una città in cui la ricchezza è distribuita in modo diseguale, tanto per cominciare. In cui alcuni sono ricchi, moltissimi sono poveri, alcuni sono poverissimi. E’ un problema che riguarda tutti i paesi occidentali (negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata a causa delle politiche neoliberiste), e colpisce città come Foggia più di altre. La povertà genera disagio, ignoranza, abbandono, che a sua volta genera altra povertà, anzi miseria. A spezzare questa spirale dovrebbe pensare la politica. Ma avere masse di disperati da manipolare, il cui voto costa un pacco di pasta o poco più, fa comodo. E allora lasciamo stare le cose così. 
Dolci chiamava un sistema simile clientelare-mafioso. Un sistema che trasuda rabbia e violenza, in cui il sogno di molti – espresso in pubblico, senza pudore, sapendo di trovare consenso – è poter linciare o dar fuoco a qualcuno. Purché sia debole. Un migrante o una bambina di dodici anni, poco importa. 
Articolo pubblicato su l’Attacco, 12 febbraio 2019.

Lettera aperta a un leghista foggiano

Gentile Joseph Splendido,

fino a qualche giorno fa ignoravo la sua esistenza; ieri l’altro mi sono imbattuto per caso nel suo profilo Facebook. C’era un video dell’incendio che qualche giorno fa ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, uno dei luoghi in cui una concezione feudale dei rapporti di lavoro – Fabrizio Gatti parlava semplicemente di schiavitù – costringe a vivere i lavoratori africani delle campagne della Capitanata. Baracche di lamiera e legno che spesso vanno a fuoco, come è successo lo scorso anno al Gran Ghetto di Rignano, dove sono morti tra le fiamme due braccianti del Mali, mentre ad agosto dodici braccianti hanno perso la vita mentre tornavano dal lavoro in uno dei tanti furgoni privi dei requisiti minimi di sicurezza con i quali il caporalato gestisce gli spostamenti dei lavoratori-schiavi. L’incendio dell’altro giorno ha fatto diversi feriti, alcuni gravi. Sul suo profilo lei ha commentato così: “La nostra Puglia continua a subire l’onta dell’illegalità e dell’immigrazione clandestina”. Ha ragione. E’ motivo di vergogna che esistano clandestini, e che siano costretti a vivere in baracche che vanno a fuoco. Ho qualche dubbio però sul fatto che si tratti di qualcosa che la Puglia subisce. Ma vorrei parlarle di un’altra cosa. Continue reading “Lettera aperta a un leghista foggiano”

Victory

Qualche mese fa quelli di una famosa agenda mi hanno chiesto di scrivere un articolo su Foggia – la città in cui sono nato e da cui sono andato via da qualche anno – per la loro rivista. Volevano una sorta di guida, ma viva: ed appassionata. Restammo d’accordo che ci saremmo risentiti, ma come spesso accade non ci siamo risentiti. Ed è un peccato, perché mi sarebbe piaciuto scriverlo, quell’articolo. Soprattutto in questi giorni prenatalizi. Mi sarebbe piaciuto, davvero, parlare del meraviglioso albero, pieni di luci, messo davanti alla villa comunale, per comunicare la gioia del Natale e fare comunità. Avrei detto della pista di pattinaggio, una bella novità di quest’anno, che lascia perplesso qualcuno: non è che con l’insolito caldo di questo dicembre il ghiaccio finirà per sciogliersi? Avrei detto del nuovo meraviglioso mega-centro commerciale, che ha avuto un leggero inciampo – autorizzazioni che mancano, cose così: robetta burocratica – ma che riaprirà senza alcun dubbio, e porterà lavoro a centinaia di foggiani, e tanti nuovi negozi colorati a rendere più piacevoli le vite dei foggiani. Avrei detto dell’isola pedonale piena di gente, dello struscio serale, trepido e appassionato, di una comunità che si riversa in strada per appropriarsi della città. Avrei detto. Provate a dirlo sotto Natale, che Foggia è una città brutta, anzi la più brutta città d’Italia, come disse quello scrittore famoso. E provate a parlare di statistiche, di qualità della vita: eccetera.

Questo avrei scritto.

Poi, avrei parlato di Victory Uwangue. Ha ventitré anni, Victory. Dovrei dire aveva, perché Victory è morta, ma dico che li ha perché Victory è qui, accanto a me, mentre scrivo. Victory è nigeriana, e lo si capirebbe dal nome, se non lo sapessimo. Quasi tutti i nigeriani che ho conosciuto avevano questi nomi: Victory, Destiny, Goodluck. Nomi di gente che vuole crederci. Tutti i nigeriani che ho conosciuto avevano storie terribili da raccontare. La storia di Victory finisce a Foggia, anzi a Borgo Mezzanone. Ufficialmente questo borgo, creato dal fascismo per attuare la sua politica dei borghi rurali, fa parte del territorio di Manfredonia, anche se dista solo quindici chilometri da Foggia. Qui Victory vive in un ghetto, in uno dei ghetti nei quali vivono – languono, lottano, soffrono – i lavoratori-schiavi che vengono a lavorare nei campi del Foggiano.

Qui Victory sabato scorso è stata uccisa. Il suo cadavere, nudo, è stato dato alle fiamme, ma molto più probabilmente è stata bruciata viva. La foto del suo corpo nudo e semi-carbonizzato gira in rete. L’ho trovata in un blog nigeriano, ma si trova facilmente anche sui siti italiani. Nel blog nigeriano trovo tra i commenti: “They must investigate that matter. That’s if the lady is not a prostitute”. I commenti dei foggiani non sono pervenuti. I siti di informazione locale hanno dato la notizia, che però non interessa granché. Sui social è silenzio. Gli amici, per lo più gente di sinistra, discutono animatamente del nuovo governo Gentiloni e soprattutto del nuovo ministro dell’istruzione che mente sul suo titolo di studio. Sempre al ghetto di Borgo Mezzanone, e sempre la scorsa settimana, è morto bruciato un altro ragazzo di vent’anni, Ivan Miecoganuchev. La stufa ha dato fuoco alla sua capanna fatta di legno e cartone. Sono cose che succedono. Si sa, del resto, che questi stranieri fanno cose strane e terribilmente pericolose. Come quella romena – Claudia Ioana Pop, si chiamava – che quasi dieci anni fa, nel 2007, morì nel tentativo di lavarsi in una vasca per l’irrigazione, quelle cose simili a piscine che si trasformano in trappole mortali per le pareti lisce e ripide. Aveva ventisette anni e un figlio di quattro. Ricordo il suo nome perché avevo provato ad immaginarmela viva, proprio come sto facendo ora con Victory, il cui nome ricorderò tra dieci anni, e con Ivan.

Claudia Ioana, Victory, Ivan. Tre nomi per decine di vittime senza nome, donne uccise e abbandonate ai bordi della strada, lavoratori investiti mentre cercavano di raggiungere i campi in bicicletta, uomini e donne morti sul lavoro, ragazzi morti nell’incendio delle loro capanne. Abbiamo perso, Victory. Hai perso tu, ha perso chi ti ha ucciso, ha perso chi guarda dall’altra parte. Ho perso io, che scrivo di te, e che non ho saputo fare nulla di meglio che andarmene.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 15 dicembre 2016.

Da un’altra parte

Ho ottenuto il trasferimento a Siena. Da settembre si ricomincia da un’altra parte.
Ci sono due tipi di persone che, in genere, vanno via da Foggia: quelli che lo fanno per necessità e quelli che lo fanno per scelta. I primi sono per lo più proletari e vanno via per lavoro: e partono con profonda nostalgia, e pensano ogni giorno a come tornare; ed in genere tornano, dopo qualche anno, e si sentono felici di essere tornati in quella che non ha mai smesso di essere la propria casa. Quelli che partono per scelta sono per lo più figli della buona borghesia, e vanno via per studiare, e non provano per la città che disprezzo e vergogna; e se tornano, lo fanno con il senso di sconfitta di chi non è riuscito a realizzarsi in posti migliori.
Poi ci sono quelli che vanno via per tristezza.
Molti anni fa discutevo di Foggia con un’amica, oggi affermata scrittrice a Roma, in una circolare (il bus cittadino). Parlavamo di questo: andare o restare. Lei, che studiava a Milano, diceva di Foggia tutto il male possibile; io difendevo le ragioni del restare qui, nonostante tutto. Un ragazzino ci ascoltava, attento. La sua fermata arrivò a Candelaro, uno dei quartieri più infelici di una città infelice. Prima di scendere ci lanciò uno sguardo intenso, poi sorrise e disse: “Comunque Foggia è forte”. Lo disse in italiano, perché noi stavamo parlando in italiano – ma si capiva che la frase avrebbe acquistato il suo senso pieno solo in dialetto.
Per molto tempo ho pensato allo sguardo, al sorriso, alle parole di quel ragazzino. Ho pensato che sì, Foggia è forte: più forte della mafia che la soffoca, più forte della politica che la umilia, più forte della povertà, dell’ignoranza, della cialtronaggine che la consumano. E’ forte, pensavo, di una forza difficile da comprendere, forse misteriosa, certo sfuggente. Ed ho cercato di farmi forte di questa forza. Consideravo Foggia come un bambino fragile, malato, che però ce la farà, perché vuole vivere con tutto sé stesso: e che bisogna aiutare con tutte le cure possibili perché quel suo telos, che è bene, non sia travolto e spento dal male. Oggi penso di non poter fare nulla per quel bambino, e che anzi il prendermene cura o il semplice preoccuparmi per lui finirebbero per uccidere anche me e chi mi sta accanto.
Molti anni fa un anziano stava in un bar. Era il suo compleanno, stava festeggiando con gli amici. Nulla di che: un caffè, qualche pasticcino. Davanti al bar ci fu un agguato mafioso; l’anziano fu colpito da una pallottola vagante: e morì. Il sindaco – che era un fascista, e nell’indifferenza di tutti aveva fatto costruire due enormi fasci nella piazza principale della città – si disse indignato, ed annunciò una grande manifestazione pubblica di protesta. Che non ci fu mai. Mai.
Imparai allora due cose, ampiamente confermate da quello che è successo poi. La prima è che Foggia è una città in cui puoi morire per caso, per una pallottola vagante. La seconda è che questo, a Foggia, è naturale: rientra nell’ordine delle cose che un foggiano è disposto ad accettare senza inquietarsi troppo.
La mafia a Foggia si chiama società. Non è un caso.
Amo Foggia profondamente. L’amo come si ama la città in cui si è nati, in cui vivono le persone che si amano, in cui ci si è innamorati. Ma è un amore ferito, ormai: e rischia di incancrenire, e diventare qualcosa di peggio dell’odio. E’ l’amore disperato, angosciato, doloroso che si prova per una donna che ci ha traditi: e che – lo sappiamo – lo farà ancora, e ancora, e ancora.
I ragazzi dello Scurìa dicono che le città sono di chi le ama. Hanno ragione, anche se sui manifesti elettorali qualche mese fa si leggevano cose non troppo diverse. Hanno ragione: le città sono di chi le ama. Anzi: di chi sa amarle. Come le donne. Non basta amarle, o volerle amare. Bisogna saperle amare, essere in grado di renderle felici, ed essere felici con loro. Un amore ferito non serve a nessuno: né a loro (le città e le donne), né a noi.

Per essere una città, non un omile

Articolo pubblicato su Stato Quotidiano.
Sul suo blog Lettere Meridiane Geppe Inserra scrive una lettera aperta ai candidati a sindaco ed ai loro elettori, invitandoli alla lettura di Danilo Dolci, “uno dei più straordinari pensatori e intellettuali cui il nostro Paese abbia dato i natali”. Poiché ho dedicato allo studio di Dolci, e più in generale della nonviolenza, non pochi anni della mia vita, vorrei provare a ragionare sulla situazione attuale della città e sulle sue prospettive future dal punto di vista della filosofia-prassi della nonviolenza; farò poi quattro proposte a chi si candida a guidarla nei prossimi anni.
Come ricorda Inserra, Danilo Dolci distingueva la città dall’omile. Con quest’ultimo termine indicava la degenerazione della città che si verifica quando le persone non stanno davvero insieme, ma semplicemente si ammassano un uno stesso luogo; vivono l’uno accanto all’altro, ma ognuno pensa a sé. La città diventa omile quando perde lo spazio pubblico, la democrazia vera, la gentilezza, la civiltà, la forza dei legami interpersonali.
Sono d’accordo con Geppe Inserra quando scrive che Foggia è “sempre meno città, sempre più omile”. Si tratta di una degenerazione che colpisce non solo la nostra città, ed è anzi legata allo sviluppo del capitalismo, con la mercificazione dei rapporti umani, l’egoismo crescente, la diffusione di non-luoghi spersonalizzanti (il centro commerciale che prende il posto della piazza). Basti pensare a quello che accade a Verona, una città il cui sindaco vieta, pena una multa, di offrire cibo ai clochard. Una città in cui si vieta ad un essere umano di dare da mangiare ad un altro essere umano che ha fame non è più una città. Ha smarrito quei tratti di civiltà, di urbanità che da sempre si associano alla città. Il modo in cui si trattano coloro che sono ai margini è un segno sicuro della degenerazione di una città in omile.
La tradizione nonviolenta ha un modo piuttosto semplice per valutare l’efficacia dei programmi politici ed economici. Il criterio più diffuso per valutare la crescita di una comunità è il PIL, la ricchezza complessiva. Ma il PIL non ci dice nulla sulla distribuzione di questa ricchezza: può essere (come in effetti è) che della maggiore ricchezza si avvantaggino solo alcuni. Per Gandhi bisogna invece considerare non la ricchezza complessiva, ma la condizione di coloro che stanno peggio. L’orizzonte della nonviolenza è quello di tutti; se uno solo resta escluso, c’è ingiustizia e violenza. Nel programmare politiche economiche bisogna partire da chi sta peggio. Gandhi coniò un termine per questo obiettivo: sarvodaya, benessere di tutti.
A Foggia non è difficile individuare chi sta peggio. E’ una città in cui molti, moltissimi soffrono; molte famiglie vivono ben al di sotto della soglia di povertà, molti bambini crescono in grotte al di sotto del livello stradale, mentre altri vivono nei container. Le loro condizioni sono peggiorate negli ultimi anni, un po’ per la crisi economica che ha colpito i deboli più degli altri, un po’ per l’indifferenza della classe politica.
Vengo alle proposte ai candidati.
Prima proposta. Dare una casa alle persone che da più di dieci anni vivono nei container di Campo degli Ulivi ed alle famiglie che occupano le grotte nel Quartiere Settecentesco, requisendo le case sfitte. E’ una soluzione legalmente praticabile, come dimostra la vicenda giudiziaria di Sandro Medici, Susi Fantino e Andrea Catarci, presidenti dei municipi romani che nel 2007 hanno requisito 250 case sfitte per darle a chi non aveva casa, e che sono stati assolti con sentenza confermata in Cassazione. Si tratta di attuare la Costituzione.
Seconda proposta. In una città come Foggia, con gravissimi problemi sociali, l’assessorato-chiave è quello ai servizi sociali. Non si può dire che negli ultimi anni questo ruolo delicatissimo sia stato ricoperto da persone preparate, in possesso di competenze sul campo e capaci di visione progettuale. La seconda proposta è dunque quella di affidare l’assessorato ai servizi sociali non ad un politico, ma ad un operatore sociale che abbia lavorato negli ultimi anni a contatto con le situazioni di bisogno e di marginalità. Le persone non mancano, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Terza proposta. Dolci ha descritto e denunciato il sistema clientelare, ossia lo scambio di favori tra politico ed elettore che nella realtà siciliana (e non solo) coinvolge anche la mafia (per questo parla di sistema clientelare-mafioso). A Foggia per molti il voto è questo: uno strumento per ottenere qualcosa. Si tratta di una miseria alimentata da politicanti abilissimi nello sfruttare lo stato di bisogno, capaci di costruirsi vere e propri feudi elettorali nei quartieri più poveri. Il politico è in fondo disprezzato: è il porco che va al municipio per mangiare, ed a cui si può spillare qualche favore.
Per cambiare questa mentalità è indispensabile inaugurare una nuova prassi di trasparenza e di confronto. Occorre che il politico si presenti costantemente al giudizio dei cittadini, che gli dia conto del suo operato ed ascolti le sue richieste o proteste. La proposta è, dunque, che chi si candida si impegni, in caso di elezione, a tenere mensilmente o ogni due mesi un incontro pubblico in ogni quartiere, e segnatamente nei quartieri più poveri (Quartiere Settecentesco, Candelaro, Borgo Croci), per comunicare le cose fatte, ascoltare le esigenze, raccogliere le proteste.
Quarta proposta. Ho detto del peggioramento delle condizioni di vita dei poveri. E’ un peggioramento che porta inevitabilmente ad un certo imbarbarimento, evidente forse nel Quartiere Settecentesco più che altrove, e nei ragazzi più che negli adulti. Chi ne volesse conferma può visitare piazza tavuto, l’infelice slargo in via Crispi, a due passi da Palazzo Dogana, che qualche anni fa i ragazzi del quartiere hanno ridotto in frantumi la notte di capodanno, e che l’amministrazione Mongelli non ha voluto ricostruire.
Non conosco che due modi per reagire all’imbarbarimento. Il primo è migliorare le condizioni economiche e di vita, cosa che si potrà fare (almeno come primo passo) dando una casa a chi languisce in una grotta o in un container. Il secondo è l’educazione. La mia quarta proposta è quella di impegnarsi a combattere l’imbarbarimento e il degrado dei quartieri più poveri realizzando strutture educative e culturali: doposcuola, biblioteche di quartiere, centri per l’apprendimento e l’educazione degli adulti, centri sociali. Un assessore ai servizi sociali competente, come quello auspicato, lavorerà naturalmente in questa direzione: ma non potrà far nulla, se non vi sarà l’impegno dell’intera amministrazione a sostenerlo con le necessarie risorse economiche.
Su queste quattro proposte chiedo ai candidati di prendere pubblicamente posizione nei modi che preferiscono.

Il groviglio di Piazza Mercato

Foto ripresa dal sito www.ispastrutture.it
Tra le ragioni per le quali la vita è un groviglio c’è il fatto che le ciambelle raramente riescono col buco. Il che vuol dire che c’è uno scarto tra il progetto e la sua esecuzione, tra l’idea e la sua concretizzazione, tra quel che si vorrebbe fare – spesso con le migliori intenzioni – e quello che si riesce davvero a fare.
Una ciambella penosamente malriuscita è stato l’incontro di domenica mattina tra il sindaco ed i cittadini per discutere del futuro di Piazza Mercato. Nelle intenzioni del sindaco doveva essere un bel momento di democrazia partecipata: cosa rara di questi tempi, rarissima a Foggia, e quanto mai opportuna in campagna elettorale. Ne ė venuta fuori invece una gazzarra delle peggiori, che ha messo a dura prova la flemma mongelliana: a un certo punto ha dovuto far la voce grossa (per quanto sia possibile far la vice grossa a Mongelli) per imporre ordine e disciplina.
Le contestazioni più dure sono state per l’ex assessore Maria Rosaria Lo Muzio, che ha preso la parola per ricordare che quella piazza oggi tanto contestata quando era ancora un progetto venne apprezzata in una mostra a Bruxelles e inserita dalla Fondazione Agnelli tra trenta opere di grandi architetti italiani. Dal pubblico la interrompono: “Ci vuole un coraggio… No, fa schifo questa piazza”. Eppure non aveva tutti i torti, l’ex assessore. La piazza progettata e la piazza realizzata, quello che doveva essere e quello che è stata ed è, sono due cose diverse. Ancora una volta lo scarto, il groviglio. Nelle intenzioni di chi l’ha progettata, quella piazza doveva essere un centro di aggregazione sociale, ospitare iniziative culturali, diventare uno dei luoghi più vivi del cuore storico della città. Se è andata diversamente, la responsabilità non è di chi l’ha progettata, ma di chi non è riuscito a farla funzionare. E’ molto triste, ed è un indice del degrado civile e non solo politico della città, che non si riesca a Foggia a far funzionare uno spazio culturale (si pensi, oltre a Piazza Mercato, all’abbandono delle strutture di parco San Felice), mentre a Manfredonia con i fondi della Regione hanno trasformato il mercato del pesce in un laboratorio culturale che, affidato ad una cooperativa, ospita ogni giorno concerti, corsi di musica, mostre d’arte, convegni e conferenze.

Oggi si vorrebbero abbattere le contestate strutture metalliche della piazza – il “trenino” – e lasciare solo la pavimentazione. Anche qui rischia di esserci uno scarto, e tra i peggiori, tra il progetto e la sua realizzazione. Perché il dato più impressionante che è emerso dall’incontro di domenica è l’altissimo malessere della gente di quel quartiere, di quel centro storico che è diventato, dicono, terra di nessuno. Il timore, fondato, è che, liberata dalle strutture metalliche, quella piazza finisca per diventare un buco nero nel bel mezzo del centro storico, un pisciatoio e vomitatoio a due passi dalla cattedrale.
All’incontro di domenica mattina è intervenuta anche una ragazza dai capelli rossi. Il problema del centro storico non si risolve, ha detto, facendo le multe, ma dando ai giovani degli spazi, perché quello che accade è sintomo di un disagio. Il sindaco s’è detto d’accordo: “Ci vogliono le multe, ma ci vogliono anche altre cose”. Quali altre cose? E’ una domanda difficile, ed è proprio dal modo in cui riesce a rispondere ad una domanda del genere che si può valutare l’operato di una amministrazione. E’ certo che con l’amministrazione Mongelli sono mancate sia le multe che le “altre cose”. E indubbiamente smantellare una struttura che doveva essere uno spazio culturale, invece di lavorare per ripristinarla e farla funzionare, mettendo a tacere gli opposti egoismi, appare come una sconfitta della politica delle “altre cose”.
Articolo per Stato Quotidiano.

Se il sindaco non risponde (e cancella chi lo critica)

Gianni Mongelli, sindaco di Foggia
Il sindaco di Foggia, Gianni Mongelli, mi ha cancellato dai suoi contatti Facebook. Ha fatto esattamente quello che avrei fatto io se qualcuno dei miei contatti avesse scritto sulla mia pagina le cose che ho scritto io sulla pagina del sindaco. L’ultima delle quali è stata che Mongelli non risponde sulla sua pagina Facebook perché non è in grado di mettere insieme dieci parole senza fare errori ortografici. Constatazione difficilmente contestabile – basta rileggere qualcuna delle rare testimonianze autografe mongelliane -, ma sicuramente antipatica. E tuttavia io non sono il sindaco di Foggia. Questa cosa – il non essere sindaco di Foggia – qualche vantaggio l’ha. Essendo un privato cittadino, posso permettermi qualche libertà che un cittadino pubblico non può permettersi. Tra queste, quella di cancellare da Facebook chi non mi piace.
Devo confessare che non ho mai compreso per quale ragione Mongelli abbia voluto aprire una pagina Facebook. Nell’era dei social network, la politica si fa anche su Facebook e su Twitter. I social network sono il luogo virtuale in cui i politici incontrano i cittadini, con le loro richieste reali, e si sforzano di dare risposte. Mongelli no. Apre la sua pagina Facebook e la abbandona a sé stessa. Interviene solo, di tanto in tanto, per augurare buongiorno o buon Natale. Se qualcuno gli dice ciao, risponde ciao. Se qualcuno gli fa una domanda politica, tace. Se qualcuno gli fa una critica, tace. Se qualcuno gli fa una richiesta, tace. Se qualcuno gli fa una segnalazione, tace. Chiunque acceda alla pagina Facebook di Mongelli, si fa di lui questa idea: il sindaco che tace. E’, più o meno, l’impressione che chiunque può farsi dell’amministrazione passeggiando per la città. Una città in cui la politica tace.

Diamo uno sguardo agli ultimi interventi sulla pagina del sindaco. Qualcuno pubblica la foto del pronao della villa comunale, imbrattato dalle scritte, e chiede di dare dignità a uno dei simboli della città. Il sindaco non risponde. Altri fanno notare che nonostante l’ordinanza che vietava la vendita dei botti, la città in questi giorni è stata piena di baracche abusive di venditori di botti. Mongelli non ha nulla da dire. Un’altra cittadina chiede che si permetta di pagare la Tares fino alla fine di gennaio. Mongelli tace. Un cittadino protesta perché gli abitanti dei palazzi di nuova costruzione passeranno le vacanze natalizie senza gas e riscaldamenti. Mongelli non ha nulla da dire.
Sia chiaro: non tutti quelli che intervengono sulla pagina del sindaco lo fanno con educazione e rispetto, né tutte le richieste sono sensate, né tutte le responsabilità sono del sindaco. Ma se la risposta è, invariabilmente, il silenzio, tutto diventa indifferente. La bacheca, che doveva essere il luogo del confronto, diviene un muro delle lamentazioni sul quale lo sfogo volgare e scomposto e la critica ragionata, l’insulto e la segnalazione di un disagio reale hanno lo stesso peso specifico. L’impressione – mi si passi l’immagine un po’ forte – è quella delle chiacchiere nella stanza del morto. Con la differenza che i parenti raccolti intorno alla salma in genere parlano bene del defunto. In questo caso, invece, per lo più ne parlano male.
Devo confessare che quando ho scoperto che Mongelli mi ha cancellato dei suoi contatti ho sorriso. Ed ho pensato: oh, dunque esiste. Mongelli respira, è vivo. C’è. E tuttavia penso che non vada bene se un sindaco cancella un cittadino dai suoi contatti. Immaginiamo la scena al di fuori di un social network. Il sindaco sta al Comune. La gente va al Comune, con le sue domande. “Sindaco, la Tares”. “Sindaco, ci manca il riscaldamento”. “Sindaco, non ho la casa”. Il sindaco tace. La gente continua a protestare, ed il sindaco continua a tacere. Finché, a un certo punto, ha uno scatto di orgoglio. Decide di fare qualcosa. Rispondere? No, troppo difficile. Chiama i vigili urbani e fa allontanare uno a caso. Diciamo il più antipatico, anche se non il più violento.
Ammetto che si tratta di un paragone un po’ forzato. Per fortuna, la pagina Facebook del sindaco non è il Comune, ed essere cancellati dai contatti non è la stessa cosa che essere allontanati con la forza dai vigili. Ma la sostanza non cambia molto. C’è un sindaco che non vuole sentire chi lo critica. Che chiude la comunicazione.
Anche chi è meno duro nei confronti di Mongelli riconosce che non ha grandi capacità comunicative. E considera questa come una pecca trascurabile, un peccato veniale.
Bisogna intendersi su cosa vuol dire comunicare. Per molti la comunicazione che ha a che fare con la politica è la stessa comunicazione della pubblicità: consiste nel saper vendere un prodotto. Il politico comunicatore è uno che sa vendersi. Sa come atteggiarsi, come parlare, come vestirsi. Sa dire le parole giuste, sa risultare gradevole e positivo.
Mongelli non è un grande comunicatore in questo senso. Non sa scegliere le parole; di più: non è in grado nemmeno di pronunciare la nostra lingua in modo corretto. E devo ammettere che, per quanto mi infastidisca che un sindaco non sappia esprimersi correttamente in italiano, la cosa me lo rende quasi simpatico. Non amo i comunicatori-imbonitori.
Ma la comunicazione ha a che fare con la politica anche in un altro senso, più vero e più profondo. Comunicare è ascoltare e parlare; c’è vera comunicazione solo se ci sono queste due cose insieme. Per questo il politico comunicatore, così come è comunemente inteso, non è in realtà un comunicatore ma, appunto, un imbonitore. Il politico autentico ascolta le domande e poi cerca di dare delle risposte serie. Non solo: riesce anche a far comunicare gli altri. La vera politica si riconosce da questo: elimina i blocchi comunicativi, fa circolare le idee e le domande, apre uno spazio pubblico per il confronto. E’ in questo secondo senso, più vero, che Mongelli non è un buon comunicatore. E non solo perché non sa usare un social network e cancella chi gli dà fastidio.
Come altre città meridionali, Foggia ha vissuto e vive la miseria di una politica da pitocchi, del voto di scambio e del clientelismo, che sempre porta all’abbandono ed al degrado. Una fotografia scattata in uno dei tanti quartieri degradati della nostra città potrebbe essere intitolata “Effetti del cattivo governo in città”, come l’affresco di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. Per i foggiani dei Quartieri Settecenteschi o di Candelaro il politico è il santo in paradiso al quale scroccare la cena elettorale o la promessa di lavoro. Il rapporto con il politico è di reciproco sfruttamento: ed è un rapporto privato, fatto di incontri al chiuso, di cose sussurrate tra quattro pareti. Un sindaco di rottura in questa città dovrebbe combattere soprattutto questa logica. Passare dalla comunicazione privata alla comunicazione pubblica. Andare nei quartieri, una volta al mese o anche meno spesso, ed incontrare la gente. Ascoltare le lamentele, raccogliere le richieste, rispondere alle critiche. Avviare la stagione del confronto. Educare alla cittadinanza reale persone che sono state ridotte da decenni di miserabile politicanteria a vendersi il voto per un pacco di pasta. Andare nei posti del degrado – che a Foggia sono tanti – e cercare insieme una via d’uscita.
Mongelli non è stato e non è nulla di tutto questo.

Dove vogliamo andare?

Il centro commerciale Mongolfiera di Foggia
Settant’anni fa i bombardamenti che rasero al suolo Foggia, facendo migliaia di vittime (il numero esatto è controverso, ma certo si tratta di diverse migliaia). A chi chiedeva le ragioni dell’accanimento sulla nostra città degli anglo-americani, questi rispondevano, pare, con l’argomento del compasso. Si punti un compasso su Foggia, dicevano; si traccerà intorno un’area che comprende l’Italia meridionale ed i Balcani: ossia una zona di altissima importanza strategica per le operazioni militari.
A distanza di sessant’anni l’argomento del compasso torna nelle parole di Bernardo Marinelli, amministratore delegato della Genera Consulting. Intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, dice: “Fissate un compasso su Foggia e allargate il raggio, vi renderete conto che la grande ricchezza di questa città è la sua posizione geografica”. Da un lato, il Foggiano è facilmente raggiungibile dal Barese, ma anche da parte della Lucania e della Campania; dall’altro, si tratta di una zona interessata da un forte flusso legato alle attrattive turistiche del Gargano ed a quelle più o meno religiose di San Giovanni Rotondo. E’ la zona ideale, insomma, per sistemare una impresa economica ambiziosa. E quella della Genera Consulting, gruppo marchigiano, è ambiziosissima: più di duecentocinquanta milioni di investimento e mille e cinquecento posti di lavoro per un grande parco acquatico, con ipermercato, hotel, terme eccetera. Il progetto prevede anche un parco archeologico che ingloberebbe l’area della tomba della Medusa, attualmente in stato di abbandono.
Due cambiamenti importanti per la nostra città sono stati negli ultimi anni la nascita del primo ipermercato, La Mongolfiera, e più recentemente quella della Città del Cinema. Due strutture con le quali la piccola città di provincia ha provato l’ebbrezza del non-luogo. Il successo è stato immediato e privo di oscillazioni. La Mongolfiera è diventata meta di vere e proprie gite – gente che arriva dalla provincia e passa nell’ipermercato tutta la giornata -, la Città del cinema è riuscita ad attirate anche chi il cinema non l’ha mai amato. Le conseguenze per la città non sono state lievi. Molti piccoli negozi hanno chiuso i battenti, incapaci di fronteggiare la concorrenza della grande distribuzione. Il negozietto di quartiere della nostra infanzia è diventato sempre più un ricordo sbiadito. Gli stessi supermercati soffrono, schiacciati dagli ipermercati. La nascita della Città del Cinema ha provocato la chiusura di quasi tutti i cinema cittadini: il Capitol, l’Ariston, il Cicolella (il Falso Movimento ha chiuso per altre ragioni, sostituito dalla Sala Farina, che benché parrocchiale si sforza di mantenere la tradizione del buon cinema).
Quello che sta succedendo, a Foggia e altrove, è che la città si sta progressivamente svuotando in favore di strutture dedicate interamente al consumo. E’ l’anima stessa della nostra società, il consumo; l’acquisto è il rituale sacro che la tiene in vita, il gesto che dà senso all’individuo e lo lega alla collettività. Se questo è ciò che conta, allora i luoghi più significativi saranno quelli nei quali meglio potrà realizzarsi il rituale del consumo. La trasformazione della città in palinsesto semicancellato dalle vetrine dei negozi non è più sufficiente. Essa cede al luogo del consumo puro o del puro divertimento (che è anch’esso consumo). L’ipermercato è il luogo nel quale l’individuo si abbandona felicemente alla massa e in essa di oblia. Ne è attratto come la farfalla dal fuoco, come il mistico da Dio. In questo abbandono prova un piacere particolarissimo, il piacere di chi compie la sua missione. Perché, come avvertiva Baudrillard, nella società dei consumi il consumo non è un diritto o un piacere, ma un dovere del cittadino.
Se il progetto venisse approvato ed andasse in porto, si accelererebbe una movimento che già procede per conto suo, apparentemente inarrestabile, e che può essere caratterizzato come la periferizzazione del centro. La città diventa satellite della sua periferia. La gente passa sempre più tempo nelle grandi aree commerciali al di fuori del centro abitato; la città come luogo di scambio umano diventa poco significativa, poiché poco significativo è lo scambio umano. La realizzazione di una grande area dedicata al consumo ed al divertimento favorirebbe la trasformazione della città in semplice luogo da attraversare per andare altrove, un quasi dormitorio privo di interesse, in cui qualche attrattiva riuscirebbe ad avere soltanto la via centrale con i negozi alla moda.
Ho usato poco fa le parole sviluppo e progresso come se fossero sinonimi. Per Pasolini, come è noto, non lo erano. Lo sviluppo era quello che volevano gli industriali che producono merci e beni, ed hanno bisogno di gente che li compri; il progresso lo volevano gli altri: gli operai, i contadini, gli intellettuali. Ha ancora senso, oggi, questa distinzione? Esistono ancora persone che vogliono il progresso? E’ evidente che il consumo non è più, solo, una faccenda da industriali. Il consumo non lo vuole solo chi produce beni inutili. Esso, come detto, è ormai un dovere sociale oltre che una necessità psicologica.
La più grande trasformazione italiana dell’ultimo secolo, quella del “boom economico” della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta del secolo scorso, si è svolta con una rapidità ed una forza di persuasione che non ha quasi incontrato ostacoli. Pasolini è stato tra i pochissimi a tentare di opporsi, e non è probabilmente azzardato scorgere nella sua morte tragica ed avvolta ancora nel mistero un segno dello scacco di chi cerca di fronteggiare, a mani nude e con la sola forza della sua intelligenza, dinamiche tanto più grandi di lui. Se ci chiediamo cosa resta del suo impegno – e di quello di tanti altri: ad esempio il mite ed inquieto Alex Langer – ci imbattiamo in qualche domanda: dove vogliamo andare? siamo sicuri di volere questo sviluppo? è questa davvero la società che vogliamo?
Queste domande sono oggi al centro del dibattito economico, filosofico e sociologico: basti pensare ad autori come Serge Latouche, Amartya Sen, Vandana Shiva. Autori che si interrogano sui limiti dello sviluppo e sulle sue contraddizioni. E tuttavia, benché molti di questi autori siano conosciuti anche al di fuori della cerchia dei cosiddetti intellettuali, le loro idee stentano a suscitare un dibattito pubblico.
Un cambiamento importante come quello legato alla creazione di una grande area commerciale a ridosso della città non può essere affidato soltanto alla classe politica. Ogni cambiamento dovrebbe essere discusso, analizzato, soppesato. E dietro questa discussione dovrebbe esserci la riflessione più ampia sulle domande di cui s’è detto. Dove vogliamo andare? Una comunità che non si interroga su questo – che non trova i luoghi ed i modi per farlo – è condannata a subire i cambiamenti che la riguardano. Per essere precisi, non è nemmeno più una comunità, ma una ossimorica massa fatta di atomi che nulla hanno in comune tra loro. E’ appena il caso di notare che questo dovrebbe essere il compito della politica: interrogare, suscitare domande e cercare insieme le risposte, avviare il dialogo e favorire l’autocoscienza. Chiedere incessantemente: dove vogliamo andare? Ove manchi questo inesausto interrogare, si può esser certi che siam in presenza di cattiva politica: quella che non fa il bene comune, ma persegue gli interessi privati.
Editoriale per  Stato Quotidiano.