Žižek e il buddhismo

Nel suo ultimo libro tradotto in italiano, Evento (Utet, Torino 2014), Slavoj Žižek ripropone la tesi, già presentata in Credere (Meltemi, Roma 2005) del Buddhismo come “perfetto supplemento ideologico del capitalismo” (p. 75). Il mondo, spiega, va troppo veloce, ed è difficile tenersi al passo. “Il ricorso al Taoismo o al Buddismo offre una via d’uscita da questa difficile situazione, più efficace di un disperato rifugiarsi nelle vecchie tradizioni: anziché cercare di fronteggiare il ritmo accelerato del progresso tecnologico e dei mutamenti sociali, si dovrebbe piuttosto rinunciare allo sforzo di mantenere il controllo su ciò che accade, rigettandolo come espressione della moderna logica di dominazione” (ibidem). La meditazione buddhista è il modo migliore per vivere nel mondo capitalistico salvaguardando la salute mentale (ivi, p. 76).

Ora, chiunque conosca un po’ il pensiero buddhista, sa che più che di buddhismo occorre parlare di buddhismi – esattamente come, parlando di cristianesimo, occorre distinguere non solo il cattolicesimo dal protestantesimo o dai Testimoni di Geova, ma anche Tommaso d’Aquino da Eckhart, Müntzer da Calvino. Žižek invece non solo ignora la complessità del pensiero e delle scuole buddhiste, ma addirittura considera equivalenti buddhismo e taoismo, evidentemente accomunati dall’essere tradizioni orientali.

Una approssimazione non minore, nel ragionamento di Žižek, riguarda il capitalismo. Cos’è il capitalismo? Si può ricondurre davvero ai mutamenti tecnologici ed al mutamento sociale? Non c’è altro? La base del capitalismo è il consumismo. Il sistema capitalistico si regge sull’acquisto di beni di consumo. L’acquisto si basa a sua volta sul desiderio. Una società capitalistica è una società nella quale le persone desiderano beni di consumo e li acquistano. Senza questi soggetti desideranti, il capitalismo crollerebbe.

Come è noto, il buddhismo parte da una diagnosi della condizione umana, considerata piena di sofferenza e di disagio (dukkha). Questo disagio, nell’analisi del Buddha, nasce esattamente dal desiderio. La liberazione dalla sofferenza è possibile solo se ci si libera dal desiderio, incluso il desiderio stesso di ottenere il nirvana. Il soggetto buddhista è un soggetto non desiderante, e come tale poco utile al sistema capitalistico.

Affermare, come fa Žižek, che l’illuminazione buddhista è “il completo distacco interiore dalla realtà materiale” (p. 74) – per cui l’atto sessuale di un “illuminato” non sarebbe troppo diverso dall’osservare l’amplesso tra due sex toys – significa avere una percezione molto approssimativa di quella pratica centrale nel buddhismo che è la meditazione. Che non consiste nel distacco dal mondo materiale, ma al contrario proprio nel contatto costante con sé stessi ed il mondo. La meditazione vipassana si propone di condurre alla costanza presenza mentale: qualunque cosa faccia, un buddhista dev’essere pienamente presente, ed a questo lo abitua la meditazione.

Žižek continua notando la convergenza tra la dottrina buddhista del non-sé ed i risultati delle neuroscienze, che “ci stanno dicendo che la nozione di ‘Sé’ come soggetto libero e autonomo è una mera illusione di prospettiva” (p. 76). E’ vero, ed è la dimostrazione che, per quanto sia anch’esso pieno di superstizioni (o cose che appaiono tali ad uno sguardo superficiale), il buddhismo resta la religione che meglio si accorda con la scienza. Ma per Žižek la rinunzia ad un sé “libero e responsabile” (p. 84) è impossibile, e costringe il buddhismo ad una serie di vicoli ciechi. Il nirvana cambia solo il nostro atteggiamento verso la realtà, o cerca di trasformare la realtà in modo che gli esseri siano davvero felici? Come si conciliano la concezione del non-sé e l’azione etica in favore dell’altro? Se l’altro è un non-sé, perché provare compassione verso di lui? Come distinguere l’illuminazione raggiunta attraverso la meditazione dalla felicità raggiunta attraverso “pillole magiche (che si tratti di false credenze o di surrogati chimici)” (p. 83)?

Il primo apparente vicolo cieco nasce dall’ignoranza dei rapporti che, nel buddhismo, esistono tra processi mentali e realtà fenomenica. Secondo la dottrina della genesi interdipendente (o coproduzione condizionata), la sofferenza, la vecchiaia e la morte sono gli ultimi anelli di una catena che si origina dall’ignoranza (avidya), ossia da un’errata percezione della realtà. Superare l’ignoranza, vedere la realtà per quello che è, significa dunque cambiare la realtà stessa. E’ per questo che i buddhisti, dopo aver meditato, esprimono l’augurio che la loro pratica possa contribuire al risveglio ed alla liberazione dalla sofferenza di tutti gli esseri viventi. Il buddhismo cerca dunque di cambiare effettivamente il mondo affinché tutti gli esseri siano felici; per usare un’espressione di Shantideva (Bodhicaryavatara, III, 32), esso imbandisce “il banchetto della felicità, che sazia tutti coloro che vi convengono” (trad. Claudio Cicuzza).

L’altra questione è più complessa. Perché agire in favore di un essere vivente, se la sua esistenza è vuota? Dal punto di vista della vacuità, il dolore non esiste, perché non esiste il soggetto sofferente. Perché allora dovremmo provare compassione? Per rispondere bisogna considerare la distinzione, che Žižek sembra ignorare, tra verità assoluta e verità relativa, propria del buddhismo mahayana. Il punto di vista assoluto è quello della vacuità: e da questo punto di vista nulla esiste di sostanziale. Con il linguaggio della scienza contemporanea potremmo dire che, da un punto di vista assoluto, nessuna delle forme che osserviamo quotidianamente esiste. Non esistono i corpi, ma un fluttuare di atomi e di particelle subatomiche. E tuttavia noi viviamo in un mondo fatto di corpi. Se confondessimo i due piani, e pretendessimo di muoverci nel mondo come se i corpi non esistessero, la vita diventerebbe molto difficile. Sul piano della verità relativa i corpi esistono, e bisogna tenerne conto. E lo stesso vale per la sofferenza. Il Dhammapada, il testo fondamentale dell’etica buddhista, dice che non bisogna uccidere nessun essere vivente perché ognuno di essi, come noi, ha paura della sofferenza e della morte. “Tutti temono il bastone / tutti sono atterriti dalla morte. / Considerando gli altri come se stesso, / un uomo non dovrà né uccidere né far uccidere” (Dhammapada, X, 1; trad. Claudio Cicuzza). Un’etica altissima, che fonda il rispetto dell’altro (e qui si tratta non dell’altro umano, ma di qualsiasi essere vivente) sulla reciprocità. Ma il presupposto di questo discorso è che, appunto, esiste l’altro, che è come me, che cerca la felicità ed incontra la sofferenza.

La vacuità, afferma Nagarjuna, uno dei più grandi pensatori del buddhismo mahayana, è come un serpente: se lo si afferra male, uccide. Commentando queste parole, Candrakirti spiega che chi conosce realmente la vacuità evita i due errori di sostanziarla, ossia di concepire la vacuità come un essere, e di rifiutare la verità relativa del mondo, passando dal percepire l’esistenza del mondo (posizione dell’uomo comune) al percepirne l’inesistenza. “Non rifiutando poi la verità relativa del mondo – paragonabile a un’immagine riflessa – non rifiuta nemmeno l’atto e il suo frutto, il bene e il male morali ecc.” (Prasannapada, XXIV, 11, trad. Raniero Gnoli).

Quello che si perde è il valore metafisico dell’etica. Il pensiero occidentale ha tentato per secoli di fondare metafisicamente l’etica: di dimostrare, cioè, che la nostra azione morale ha profonde rispondenze nel seno dell’universo; che chi fa il bene si ricongiunge, con il suo atto, all’origine stessa del mondo. Questo tentativo è entrato in crisi nel pensiero post-hegeliano. A credere che al fondo dell’essere ci sia il Bene sono ormai solo i credenti, e con difficoltà sempre maggiori. Per il buddhismo, l’essere è vuoto: e sul vuoto è difficile costruire un’etica.

In filosofia morale possiamo distinguere due questioni: quella della determinazione del bene morale e quella della giustificazione del bene morale. Il primo problema consiste nel capire cosa è bene e cosa è male. Nel caso del buddhismo, il bene è rispettare ogni forma di vita, evitando di compiere violenza nei suoi confronti. E’ l’etica dell’amore universale (metta). Ma perché rispettare ogni forma di vita? Come abbiamo visto, il Dhammapada risponde che occorre farlo perché ogni essere vivente, come noi, cerca la felicità. Ma questo è il punto di vista relativo. Dal punto di vista assoluto, non ci sono né io, come cercatore di felicità, né quell’essere. L’etica ha dunque un valore relativo; al tempo stesso, però, essa è una via che conduce verso la visione della vacuità. Nella interpretazione buddhista, che mi sembra vera, il male nasce dall’io. E’ l’ego che, guidato dal proprio istinto di autoconservazione, sottomette a sé ogni alterità e ne fa un semplice strumento. Del resto, dopo Nietzsche e Freud lo stesso pensiero occidentale non nutre molta fiducia nei confronti del soggetto. Il soggetto “libero e responsabile” di Žižek è invece pronto a qualsiasi crudeltà pur di affermare sé stesso. Quando compie il bene, è perché un soggetto più grande di lui – Dio o lo Stato o il Padre – lo costringe.

Nell’ottica buddhista, il bene nasce quando l’ego molla la presa. Man mano che esso si fa evanescente, viene superata anche la radice del male. Il bene non ha alcuna sostanzialità, non si sottrae al vuoto, come tutto il resto; di per sé, è un concetto come gli altri, mentre la conoscenza assoluta è al di là di ogni distinzione concettuale. Nella realtà relativa in cui gli esseri soffrono, riconoscere e rispettare la loro sofferenza vuol dire fare un passo oltre l’ego, ossia oltre la realtà relativa stessa. L’etica è quella pratica che, ancorata nel relativo, ci conduce oltre la verità relativa nella quale tutto sembra assoluta, verso quella verità assoluta nella quale tutto è relativo.

L’ultima questione che inquieta Žižek è, dal punto di vista buddhista, un falso problema. Come distinguere l’illuminazione autentica da un’illuminazione provocata da false credenze o sostanze chimiche?, chiede. In realtà, il buddhismo stesso fa ricorso a “false credenze”, o a qualcosa di molto simile. Nella terminologia buddhista si chiamano upaya, “mezzi abili”. Nel Sutra del loto la loro funzione viene spiegata con l’apologo del padre di famiglia che convince i figli ad abbandonare la loro casa in fiamme dicendo loro che fuori dalla casa li aspettano dei giochi bellissimi. Se venisse inventata una pillola che conduce rapidamente all’illuminazione, essa potrebbe rientrare senz’altro in questi “mezzi abili”.

17 ottobre, venerdì

Le strade erano insignificanti, spesso brutte. Ma ognuna di quelle strade era impastata di me. Ogni volta che attraversavo ognuna di quelle strade, mi aggiungevo al mio passato. Sulla via della stazione ero accompagnato, ad esempio, da un ragazzino che andava alla libreria Nuova Minerva ad acquistare la sua prima copia del “De Rerum Natura” di Lucrezio. Ed ero lui, e no: e non lo ero essendolo.
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un’ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c’è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l’ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.

Dodici tesi per una scuola conviviale

Vorrei dare il mio contributo alla discussione sulla possibilità di una scuola diversa, avviata da Paolo Mottana (25 idee per una scuola diversa), presentando dodici tesi che costituiscono il nucleo di un libro che sto scrivendo, ed il cui titolo sarà La scuola conviviale. L’aggettivo conviviale fa riferimento da un lato al Convivio platonico e dall’altro alla convivialità di Ivan Illich (La convivialità). Si tratta, in breve, di ripensare la scuola – la scuola pubblica – mettendo al centro due cose: le relazioni, che devono essere aperte, simmetriche, dialogiche, ed il rapporto tra scuola e mondo economico-sociale, che non deve essere di riproduzione, ma di ripensamento critico, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di realizzazione umane.
Sarò grato a chi vorrà discutere le tesi.

Prima tesi

La scuola conviviale è fondata sul dialogo non solo tra studenti e docenti, ma degli studenti tra loro. Studenti e docenti costituiscono una comunità che apprende, studia, ricerca e cresce insieme.

Seconda tesi

La scuola conviviale fa dunque a meno della relazione asimmetrica tradizionale tra docenti e studenti, ed instaura invece una simmetria dinamica, perché tesa verso la crescita comune. Il darsi del tu è il segno esteriore, ma non superficiale, di questo cambiamento.

Terza tesi
La scuola conviviale è una scuola serena, nella quale gli inevitabili conflitti vengono affrontati con gli strumenti del dialogo e della ragione. La serenità, l’armonia, la bellezza che sono elementi indispensabili di una situazione educativa saranno espressi anche esteriormente nell’ambiente dell’aula.


Quarta tesi

La scuola conviviale è un laboratorio di critica sociale. Questo non vuol dire che a scuola si debbano insegnare concezioni critiche verso il sistema e cercare di formare dei rivoluzionari: ciò sarebbe indottrinamento. Vuol dire, invece, che nella scuola si discute in modo aperto e critico del sistema sociale, economico, assiologico. Il problema del rapporto tra scuola e mondo esterno di risolve così: la scuola è il luogo in cui il mondo esterno viene passato al vaglio della critica. Il sistema sociale ed economico ha una straordinaria pervasività; alla scuola spetta il compito di rifiutarsi di essere una delle tante agenzie pubblicitarie del capitalismo, ed offrire agli studenti visioni del mondo alternative.

Quinta tesi
La scuola conviviale mette tra parentesi tutti i sistemi ideologici, religiosi, assiologici. Il suo atteggiamento di fondo è la scepsi, intesa come ricerca. Come tale, è rigorosamente laica, anche se non anti-religiosa.
Sesta tesi
La scuola conviviale riflette criticamente su sé stessa in quanto istituzione, configurandosi come meta-scuola.
Settima tesi
La scuola conviviale non si considera l’unico luogo in cui sia possibile un apprendimento reale ed una crescita umana completa. Ritiene, invece, che sia possibile imparare ovunque, e che la scuola sia solo uno dei tanti luoghi di apprendimento possibile.
Ottava tesi
La scuola conviviale è aperta ai saperi tradizionalmente esclusi dalla scuola, anche per ragioni di classe.
Nona Tesi
La scuola conviviale è aperta al contributo di molteplici soggetti. Sa che ascoltare le persone è uno dei modi migliori per imparare e crescere. E dunque ascolta il contadino, l’operaio, la casalinga, il commerciante, l’immigrato e così via.
Decima tesi
La scuola conviviale non è eurocentrica, ma guarda con interesse a tutte le culture del mondo. La scuola conviviale considera criticamente tutti i contenuti culturali, cercando diverse interpretazioni, punti di vista alternativi, fonti minori.
Undicesima tesi
La scuola conviviale considera il sapere come contributo al bene comune.
Dodicesima tesi
La scuola conviviale si occupa dell’educazione spirituale non meno che dell’educazione intellettuale.
Articolo scritto  per Comune-info.

Sul terrore di Dio

Impacchettando i libri per il trasloco, vien fuori una vecchia edizione Newton Compton della Nascita della tragedia di Nietzsche, ormai rovinata dall’umidità. Nell’antiporta la mia firma, ancora con le maiuscole (dall’età di diciassette anni firmo con le iniziali minuscole) e la data: 1988. Sedici anni.
Nell’ultima pagina trovo una annotazione sicuramente posteriore, che per quello che riesco a ricordare rientra nel progetto post-adolescenziale di un libro che doveva intitolarsi Sul terrore di Dio. Eccola.

Più profondo d’ogni rito e d’ogni preghiera, più prossimo all’essenza del reale d’ogni contemplazione, è quello sguardo sconsolato sul maestoso dolore degli enti che si concreta nel presentimento d’un Dio capriccioso e terribile. Io non sono, qui, il padrone dell’Essere; io non sono che un ospite, uno che deve prendere congedo; mi fanno compagnia il dolore e la gioia, la fuga e la mancanza: così parla l’uomo che vive e soffre in sé quel momento originario della religione che chiamo “terrore di Dio”. L’uomo religioso è l’antitesi dell’uomo dell’età della tecnica: se quest’ultimo pensa alla realtà come producibilità, fa dipendere da sé la natura e le cose, orgoglioso della sua capacità di dare ordine a tutto, l’altro, il sofferente Giobbe, conosce i propri limiti, osserva lo scorrere degli eventi con calma e rassegnazione, conosce il Dio che non domina e travaglia.

Israele nel deserto

Con ogni probabilità, il passo più terribile della Bibbia – una raccolta di testi in cui non mancano i passi terribili: violenti, atroci, osceni – è quello del libro dei Numeri (in ebraico Be-Midbar, “Nel deserto”) in cui Mosè comanda di sterminare donne e bambini. Consideriamo il contesto. Il popolo del Signore è accampato nel deserto, in una località chiamata Sittim. Qui gli ebrei si mettono a “trescare con le figlie di Moab”, partecipando ai loro sacrifici religiosi ed adorando i loro dèi. Il Signore si arrabbia ed ordina a Mosè di far impiccare tutti i capi del popolo, per placare la sua ira. E’ singolare che i cristiani, che lamentano (ed a ragione) le persecuzioni cui in diverse parti del mondo sono sottoposti coloro che si convertono al cristianesimo, ritengano sacro un libro in cui si parla di impiccare chi pratica la libertà religiosa – perché di questo si tratta. Ma procediamo. Un certo Fineas, sommo sacerdote, scopre che un ebreo ha portato nella sua tenda una moabita, e non ci pensa due volte: prende una lancia e li uccide. Il Signore è talmente contento per il suo gesto – l’assassinio di due innocenti – che fa cessare la sua ira su Israele. Non prima, però, di aver massacrato 24.000 persone (Numeri, 25, 1-9). L’edizione che sto citando, quella curata da Bernardo Boschi per le Edizioni Paoline, spiega in nota che questo Fineas “testimonia la radicale ed esemplare fedeltà della sua classe allo Jahvismo nello spirito della Tradizione Sacerdotale”. Un gran brav’uomo, insomma.
La storia non finisce qui. Gli ebrei hanno tradito Dio, e la carneficina non è sufficiente. Occorre la vendetta. Di cosa siano colpevoli i poveri moabiti non è ben chiaro: usando lo stesso criterio, oggi, i seguaci di qualsiasi religione si potrebbero ritenere in diritto di muover guerra e massacrare chiunque faccia proselitismo presso di loro, a cominciare dai cristiani. Mosè manda contro i madianiti un esercito di dodicimila uomini, che massacrano tutti i maschi, incendiano le città, depredano tutto. Ma i capi dell’esercito risparmiano i bambini e le donne. Per umanità, immagino. Mosè tuttavia si arrabbia: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Furono esse, per suggerimento di Balaam, a stornare dal Signore i figli d’Israele nel fatto di Peor e ad attirare il flagello sulla comunità del Signore. Ora uccidete ogni maschio fra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si sono unite con un uomo le lascerete vivere per voi” (Numeri, 31, 15-17). Tralasciamo quest’ultima notazione, anch’essa terribile (è facile immaginare la fine delle ragazze vergini), e chiediamoci: di cosa sono davvero colpevoli le donne? Cosa hanno fatto, per essere uccise? Hanno seguito la loro religione, esattamente come gli ebrei seguono la loro. Il massacro di queste donne, a battaglia vinta, è un semplice crimine di guerra. Ma soprattutto la domanda è: cosa hanno fatto i bambini? Cosa? Perché massacrarli? Non esiste nessuna ragione. Se il massacro delle donne è un crimine di guerra, il massacro dei bambini è un crimine di guerra al quadrato.
Mi è tornato in mente questo passo guardando un video raccapricciante, disponibile su Internet, nel sito di OummaTv, la televisione dei musulmani francesi. Il video riprende una manifestazione di ebrei, felici per gli attacchi contro i palestinesi. Cantano cori da stadio. A un certo punto intonano: “Il n’y aura pas d’école demain, on a tué tous les enfants”. Non ci sarà scuola domani, abbiamo ucciso tutti i bambini.
E’, questa, la cosa più spaventosa che ho visto e sentito da gran tempo. Sono sicuro che non sono molti gli ebrei felici per il massacro dei bambini palestinesi, e tuttavia il fatto che una simile barbarie sia possibile, sia pure presso pochi esaltati, dà da pensare. Chi ha letto la Bibbia, sa che c’è un filo rosso che unisce questi cori alla storia sacra di un popolo che ha dovuto strappare con la violenza ad altri popoli la terra promessa dal suo Dio.
Prima che mi si accusi di antisemitismo (una accusa sempre pronta contro chiunque metta in discussione le politiche sioniste), aggiungo che il massacro palestinese mi ha fatto venire in mente un altro testo che appartiene alla tradizione dell’ebraismo. Si tratta di un libretto di Chaim Nachman Bialik, lo scrittore ucraino considerato il poeta nazionale di Israele. Nel 1903 avviene un terribile pogrom a Kishinev, attuale capitale della Moldavia. In due giorni vengono uccisi quarantanove ebrei, mentre cinquecento sono i feriti. Di fronte ad una tale devastazione si resta senza parole. Ma Bialik è un poeta, un grande poeta. E le parole le trova. Nella città del massacro, il poemetto scritto per raccontare, per piangere, per denunciare il pogrom, è poesia pura, vibrante, che tocca le corde più intime e commuove profondamente. Comincia con queste parole, Bialik: “Un cuore di ferro e acciaio, freddo, duro e muto, / batte in te, vieni uomo! / entra nella città del massacro, devi vedere con i tuoi occhi, / toccare con le tue mani…” (trad. R. A. Cimmino). E nel resto del poemetto il lettore in effetti vede con i suoi occhi e tocca con le sue mani l’orrore.
I versi più intensi dell’opera sono quelli nei quali Bialik descrive la Shekinah, “nera, stanca, disperata”, che piange in silenzio. Quella di Shekinah è una delle concezioni più affascinanti della teologia e della mistica ebraica. Il termine deriva dal verbo shakan, abitare: indica dunque la presenza, la dimora di Dio sulla terra. Una manifestazione di Dio che ha i caratteri del mistero e della gloria, nella tradizione. Ma con Bialik avviene un cambiamento importante. La Shekinah, la gloriosa manifestazione di Dio, ora si limita a stare accanto alle vittime. Subisce la loro stessa sofferenza, accetta su di sé il dolore degli afflitti. Il pensiero va anche a quella pagina memorabile de La Notte in cui Elie Wiesel racconta di un bambino impiccato ad Auschwitz. “Dov’è Dio?”, chiede qualcuno. E Wiesel scrive: “E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”.
C’è una straordinaria rivoluzione teologica in queste parole. Dio non è più nei cieli, non si manifesta più nella distanza e nella potenza, ma sta accanto a chi soffre. Chi soffre in questo caso è il popolo eletto, ma il passo verso un Dio che sta con chiunque soffra è breve. E’ una intuizione – questa di un Dio dei poveri, dei deboli, degli afflitti – che si affaccia in diverse tradizioni religiose: dal cristianesimo (e non a caso alcuni cabalisti troveranno affinità tra la Shekinah e il Cristo) allo hinduismo, con l’idea del Daridranarayana, “Dio nei poveri”, che si trova in Vivekananda en Gandhi. La considero la più alta concezione religiosa dopo quella del Dio-non Dio di Meister Eckhart.
Le parole di Bialik si potrebbero leggere, in questi giorni, come un canto che dice la tragedia delle migliaia di palestinesi massacrati dall’esercito israeliano. Un ebreo ha trovato le parole per dire l’indicibile, ed ora quelle parole non gli appartengono più, come non appartengono più al solo popolo ebraico. Rappresentano il contributo del popolo ebraico alla comune umanità: dire la tragedia, raccontare l’orrore, pensare un Dio che sta con la vittima. La concezione della Shekinah, liberata da ogni nazionalismo, può mettere gli ebrei in condizione di avvertire l’umanità offesa dalle bombe, di percepire il Divino negli occhi delle vittime. Di superare quella etnolatria, quella esaltazione violenta dell’identità nazionale che esige lo sterminio del nemico, che si esprime in quel passo del libro dei Numeri.
In una guerra non sempre colui che ha vinto è il vincitore effettivo. Le conseguenze di una vittoria possono essere devastanti. Credo che sia questo il rischio attuale per Israele. Potrà continuare a sterminare la popolazione civile palestinese, con il tacito assenso della comunità nazionale. Ma il prezzo da pagare sarà un imbarbarimento di cui i cori di cui ho detto sono un indizio tangibile e preoccupante, insieme ad altri. A prevalere sarà il Dio degli Eserciti, violento e capriccioso, che esige lo sterminio di donne e bambini. Sarà quella demonizzazione biblica dell’altro che nella storia occidentale ha agito al di fuori dell’ebraismo, e di cui gli stessi ebrei sono stati vittime. Sarà quella crisi religiosa che sempre precede e causa la crisi e la decadenza generale (civile, morale, politica) di un popolo. Che lo conduce nuovamente be-midbar, nel deserto.

L’immagine è tratta da Footnotes in Gaza di Joe Sacco.

Editoriale per Stato Quotidiano.

I matrimoni su Mercurio

Una mattina che osserva Mercurio, il misteriosissimo cavaliere di Béthune s’imbatte in un uomo che gli porge un microscopio filosofico, col quale riesce ad osservare la vita degli abitanti sul pianeta. L’uomo è un Rosacroce che gli propone di entrare nell’Ordine. Dopo una singolare iniziazione, gli affida la Relazione sul mondo di Mercurio, che il cavaliere dovrà tradurre dall’arabo (lingua che lo stesso Rosacroce gli ha insegnato con le sue arti magiche). Apprendiamo così dall’ignoto autore arabo e dal suo traduttore Béthune che Mercurio è abitato da uomini alti come ragazzini di quindici anni, che sono governati da un imperatore inviato dal Sole, che curano con la massima attenzione la propria spiritualità, considerando degni di servire solo coloro che non hanno sviluppato a sufficienza i loro talenti (colpa grave anche perché sul pianeta i talenti possono essere acquistati come da noi i gioielli, o anche solo frequentando e diventando allievi di coloro che li possiedono), che parlano con gli animali usando la lingua dei segni: e che hanno un sistema matrimoniale particolarmente efficace ed intelligente. Poiché amano la diversità, mai potrebbero legarsi per tutta la vita ad una persona. Per questo i matrimoni hanno una durata limitata. Nelle case in cui vi sono ragazze in età da marito, esiste una appartamento ben arredato, che si chiama Sphinx. Quando due giovani si piacciono, chiedono ai genitori di lei l’uso dell’appartamento per conoscersi fisicamente. All’uscita dall’appartamento, possono dire di essersi sbagliati, o stipulare il contratto che segue.

Traduco da: Béthune (chevalier de), Relation du monde de Mercure, Barillot et fils, Genève 1750, t. 1, pp. 113-117.
_____

I contratti sono sempre composti da pochissimi articoli. Il primo concerne gli abiti, i gioielli, i mobili che si mettono in comune: regola anche i vantaggi che uno fa all’altro, e che ognuno di loro deve ritirare alla contratto.

Il secondo stabilisce un arbitro, uomo o donna a scelta delle due parti, davanti al quale si porteranno le contestazioni domestiche o altri piccoli fastidi matrimoniali: questo arbitro è giudice sovrano, è condanna all’ammenda o a qualche pena usitata chi gli sembra che abbia torto.
Il terzo regola il numero di piccole scappatelle coniugali o di vere e proprie infedeltà, che sono obbligati a perdonarsi l’un l’altro per conservare la pace nel ménage: durante i primi tre mesi non è gran cosa, ed è più per precauzione che per necessità che se ne fa menzione nel contratto; ma in seguito ciascuno fa uso del suo diritto, e soprattutto le dame, anche se fosse solo, dicono, per non far prescrivere un privilegio che considerano il fiore più bello della loro corona.
Oltre a queste bricconerie autorizzate, ne scappano altre, durante un matrimonio di due anni, non previste dal contratto: ma in genere non vi si bada più che ad errori di ortografia.
In ragione di ciò, fin dal giorno dopo le sue nozze, una donna può civettare, far moine, parlare a bassa voce, provocare, uscire sola, tornare tardi, farsi riaccompagnare e anche, in caso di bisogno, dormire fuori casa: le basta dare ragioni plausibili della sua assenza, come, ad esempio, “mi sono divertita”, “il divertimento mi ha trattenuta”, “mi sono lasciata trascinare dal piacere”. Ciò è normalmente ben accettato, ma quando si trova un marito stizzoso, la donan è libera di fare il broncio e dire: “Oh! ecco come siete, non si può fare nulla che voi non troviate cattivo, e per farvi contento bisognerebbe farsi seppellire in una camera e non vedere nessuno per tutta la vita. Raramente si giunge a tanto, ma male che i bisticci domestici non vanno oltre ciò.
Il quarto articolo esorta i coniugi a non mostrarsi mai trascurati l’uno all’altro, nemmeno a letto: anche l’estrema nudità, dicono, è suscettibile di essere adeguatamente ornata con qualche oggetto semplice e di buon gusto.
Quando il termine del contratto, vale a dire i due anni di matrimonio, sono passati, le due famiglie si riuniscono accompagnate da un Giudice di Polizia. Questo pubblico ufficiale si presenta per dar atto ai coniugi della libertà reciproca che essi hanno di stipulare tra loro un nuovo contratto o di separarsi: è odrinariamente quello che accade. Allora per are una forma materiale alla dissoluzione del contratto si presenta all’uomo e alla donna una pagliuzza e gli si ordina di spezzarla per marcare la loro volontà di separarsi. A quanto pare è da lì che Moliere ha tratto il suo proverbio:
Una paglia spezzata tra gente d’onore conclude un affare.
Immagine 1: particolare del frontespizio.
Immagine 2: illustrazione all’antiporta.

Da un’altra parte

Ho ottenuto il trasferimento a Siena. Da settembre si ricomincia da un’altra parte.
Ci sono due tipi di persone che, in genere, vanno via da Foggia: quelli che lo fanno per necessità e quelli che lo fanno per scelta. I primi sono per lo più proletari e vanno via per lavoro: e partono con profonda nostalgia, e pensano ogni giorno a come tornare; ed in genere tornano, dopo qualche anno, e si sentono felici di essere tornati in quella che non ha mai smesso di essere la propria casa. Quelli che partono per scelta sono per lo più figli della buona borghesia, e vanno via per studiare, e non provano per la città che disprezzo e vergogna; e se tornano, lo fanno con il senso di sconfitta di chi non è riuscito a realizzarsi in posti migliori.
Poi ci sono quelli che vanno via per tristezza.
Molti anni fa discutevo di Foggia con un’amica, oggi affermata scrittrice a Roma, in una circolare (il bus cittadino). Parlavamo di questo: andare o restare. Lei, che studiava a Milano, diceva di Foggia tutto il male possibile; io difendevo le ragioni del restare qui, nonostante tutto. Un ragazzino ci ascoltava, attento. La sua fermata arrivò a Candelaro, uno dei quartieri più infelici di una città infelice. Prima di scendere ci lanciò uno sguardo intenso, poi sorrise e disse: “Comunque Foggia è forte”. Lo disse in italiano, perché noi stavamo parlando in italiano – ma si capiva che la frase avrebbe acquistato il suo senso pieno solo in dialetto.
Per molto tempo ho pensato allo sguardo, al sorriso, alle parole di quel ragazzino. Ho pensato che sì, Foggia è forte: più forte della mafia che la soffoca, più forte della politica che la umilia, più forte della povertà, dell’ignoranza, della cialtronaggine che la consumano. E’ forte, pensavo, di una forza difficile da comprendere, forse misteriosa, certo sfuggente. Ed ho cercato di farmi forte di questa forza. Consideravo Foggia come un bambino fragile, malato, che però ce la farà, perché vuole vivere con tutto sé stesso: e che bisogna aiutare con tutte le cure possibili perché quel suo telos, che è bene, non sia travolto e spento dal male. Oggi penso di non poter fare nulla per quel bambino, e che anzi il prendermene cura o il semplice preoccuparmi per lui finirebbero per uccidere anche me e chi mi sta accanto.
Molti anni fa un anziano stava in un bar. Era il suo compleanno, stava festeggiando con gli amici. Nulla di che: un caffè, qualche pasticcino. Davanti al bar ci fu un agguato mafioso; l’anziano fu colpito da una pallottola vagante: e morì. Il sindaco – che era un fascista, e nell’indifferenza di tutti aveva fatto costruire due enormi fasci nella piazza principale della città – si disse indignato, ed annunciò una grande manifestazione pubblica di protesta. Che non ci fu mai. Mai.
Imparai allora due cose, ampiamente confermate da quello che è successo poi. La prima è che Foggia è una città in cui puoi morire per caso, per una pallottola vagante. La seconda è che questo, a Foggia, è naturale: rientra nell’ordine delle cose che un foggiano è disposto ad accettare senza inquietarsi troppo.
La mafia a Foggia si chiama società. Non è un caso.
Amo Foggia profondamente. L’amo come si ama la città in cui si è nati, in cui vivono le persone che si amano, in cui ci si è innamorati. Ma è un amore ferito, ormai: e rischia di incancrenire, e diventare qualcosa di peggio dell’odio. E’ l’amore disperato, angosciato, doloroso che si prova per una donna che ci ha traditi: e che – lo sappiamo – lo farà ancora, e ancora, e ancora.
I ragazzi dello Scurìa dicono che le città sono di chi le ama. Hanno ragione, anche se sui manifesti elettorali qualche mese fa si leggevano cose non troppo diverse. Hanno ragione: le città sono di chi le ama. Anzi: di chi sa amarle. Come le donne. Non basta amarle, o volerle amare. Bisogna saperle amare, essere in grado di renderle felici, ed essere felici con loro. Un amore ferito non serve a nessuno: né a loro (le città e le donne), né a noi.

L’angelo della buona borghesia

Rovistando tra le bancarelle d’un mercatino mi è capitato, di recente, di ritrovare uno dei non molti libri letti al tempo delle scuole medie: Le scapole dell’angelo di Giovanna Righini Ricci (1973). Ricordo che il libro, che era una lettura scolastica, inaspettatamente mi piacque, al punto che della stessa autrice lessi anche, vincendo la mia assoluta antipatia per la lettura, Là dove soffia il mistral, un romanzo ambientato nella Camargue, che mi piacque ancor di più. L’ho preso dunque, il libro; e l’ho riletto. A metà della vita queste riletture servono a ricostruire il puzzle della propria identità, a capire perché – per quali influenze – siamo diventati quello che, nel bene o nel male, siamo. In qualche caso, anche, a capire nonostante chi e nonostante cosa siamo diventati quello che, nel bene e nel male, siamo.

Il romanzo di Righini Ricci è la storia di un gruppo di ragazzini in età da scuola media in una metropoli del nord. Vero protagonista è Lorenzo, un immigrato meridionale – ed all’immigrazione rimanda l’immagine di copertina, la foto di una donna con un bambino alla stazione, ingombra di valigie: lo stereotipo del meridionale con la valigia di cartone. E’ un bravo ragazzo, questo Lorenzo, ma parecchio disadattato, con una inopportuna nostalgia per il paesello natale da cui si libererà solo dopo aver scoperto, durante una breve vacanza, che anch’esso ha subito le trasformazioni imposte dalla modernità
Il messaggio del libro è naturalmente positivo, progressivo, rassicurante. Questi ragazzetti, che parlano come un libro stampato (anche Lorenzo e la sua famiglia proletaria), sono bravi giovani, alle prese con l’incomprensione dei genitori, le difficoltà di costruirsi una personalità, la città anonima e tutti gli altri problemi attuali degli anni Settanta (e Ottanta). Prendiamo Lorenzo. Si imbatte, un giorno, in una banda di teppisti che lo malmenano e gli strappano il giacca; ma il giorno dopo fa un incontro più piacevole: una ragazzetta più piccola di lui che a scuola lo vede così conciato e, come nulla fosse, tira fuori dalla borsa ago e filo e si mette a rammendargli la giacca. Questa ragazzina, che si chiama Rossella, è uno dei personaggi positivi del romanzo. E’ ancora una bambina, ma è già molto religiosa, e riesce a trascinare il riluttante Lorenzo ad un incontro spirituale, momento importante della sua maturazione personale.
Quando la piena del fiume travolge la case dei poveri, questi ragazzetti costituiscono una squadra di volontari e si adoperano per liberare dal fango la tipografia del quartiere, mentre le proteste della gente ottengono la costruzione di uno scolmatore che impedirà nuovi allagamenti. La fabbrica in cui lavorano i genitori di Lorenzo chiude i battenti, ma anche qui si tratta di una crisi solo momentanea: grazie all’intervento dei politici, e probabilmente all’interessamento del ricco e potente padre di uno dei ragazzetti, la fabbrica viene rilevata da un’altra azienda, e tutti i posti di lavoro sono salvi.
L’apoteosi si ha nel finale. Il nostro Lorenzo è travagliato dal dubbio di non aver collaborato con le forze dell’ordine nella soluzione di un caso che riguarda il fidanzato della sorella. Per sgravarsi la coscienza, va dal commissario e vuota il sacco. E trova un uomo buono e paterno, che gli fa la lezione di vita: “Devi imparare ad avere un po’ più fiducia in te stesso, in noi, nel tuo prossimo, nella bontà della legge, nella vita insomma!”. Parole sante: Lorenzo esce dal commissariato che è un altro: positivo, fiducioso, con voglia di fare. Certo, spiega l’autrice in nota, quando Lorenzo sarà più maturo capirà che “le istituzioni umane hanno anche delle carenze”, ma per il momento è importante “uscire dalle nebbie del dubbio, trovare il proprio posto nel mondo” (corsivo dell’autrice).
Il nostro Lorenzo lo trova, alla fine, il suo posto nel mondo. Vince il dubbio e guarda con fiducia al futuro: “Fra un mese ci sono gli esami. Se tutto va bene, forse potrò iscrivermi a un Istituto Professionale. L’insegnante di italiano mi ha comunicato che posso concorrere per una borsa di studio e non è detto che non ce la faccia: in fondo l’italiano è il mio forte”.
Tra le cose che colpiscono di più, in questo libro, è la rappresentazione della vita scolastica. Nella classe di Lorenzo nessun professore fa lezione; tutti coordinano civilissimi dibattiti su tematiche di attualità. Bello, ma falso. E’ la scuola come dovrebbe essere, ma non come è stata ed è. Cosa è stata ed è la scuola italiana ce lo dice invece la conclusione. Benché sia forte in italiano, il nostro Lorenzo non potrà aspirare al liceo, ma solo – e forse – ad un istituto professionale. Lui, immigrato meridionale e figlio di operai, è un proletario, ed il liceo è per la buona borghesia. Il posto nel mondo degli uni e degli altri è diverso. Dev’essere grazie alla lettura di questo libro se non mi sono meravigliato molto quando, alla fine degli esami delle medie, benché come il nostro Lorenzo fossi abbastanza forte in italiano, lessi sul diploma la raccomandazione di frequentare l’istituto professionale.

Gabriel de Foigny, o la rivendicazione del desiderio

Mappa di Jan Hanssonius del 1657

Il paradiso esiste, ed è terribile. Così si può sintetizzare il messaggio enigmatico e sconcertante di quella che Andreas H. Voigt ha definito la prima utopia anarchica della storia: La Terre Australe connue che Gabriel de Foigny pubblicò a Ginevra nel 1676. L’autore è l’incarnazione del perfetto libertino, blasfemo e donnaiolo, dalla vita travagliata e maledetta. Finito in un convento francescano, ne viene rigettato perché umano, troppo umano – gli piacciono le donne, per farla breve. A Ginevra cerca protezione convertendosi al cristianesimo, ma il problema sessuale continua a travagliarlo, insieme ad una qualche tendenza all’ubriachezza: seduce cameriere e vomita durante i sacri riti. Dopo il carcere, l’inevitabile penitenza in un convento della Savoia, dove muore nel 1692 (era nato nel 1630).

Come lui, il protagonista del suo romanzo utopistico, Jacques Sadeur, è un diverso: un ermafrodito, per la precisione. Questa singolarità fisica, insieme alla circostanza della morte dei suoi genitori nel tentativo di salvarlo durante un naufragio, fanno di lui un essere maledetto, destinato a cercare la sua terra altrove, attraverso una serie impressionante di nuovi naufragi, fino all’approdo – dopo l’ennesimo naufragio – alla Terra Australe. Che sia una terra diversa dalle altre, Sadeur lo capisce piuttosto presto. Si tratta di una terra abitata da ermafroditi, infatti: la terra nella quale la sua mostruosità è normale, ed i cui abitanti considerano anzi mostruosa la divisione dei sessi. L’ermafrodito è l’uomo completo, perfetto. Al di fuori di questa condizione (apprende Sadeur conversando con un vecchio abitante del paese) non è possibile alcuna vera razionalità, poiché la ragione può essere esercitata pienamente solo da chi è in possesso della pienezza del proprio essere. Quale ragione possono esercitare dei mezzi uomini come quelli che abitano l’Europa? Lo stesso può dirsi dell’amore. L’amore degli ermafroditi è pieno e completo perché completamente spirituale, privo di ogni tentazione carnale. E’ pura benevolenza. Gli ermafroditi hanno in orrore il sesso, si riproducono di nascosto e considerano grave qualsiasi cenno alle faccende sessuali durante la conversazione. Hanno in orrore la carne e le sue faccende.
Sono esseri liberi, gli ermafroditi. Vanno in giro nudi, possiedono tutto ciò che occorre alla loro sopravvivenza ma non accumulano nulla, credono che l’essenza dell’uomo sia la libertà, e che togliergliela significhi ridurlo allo stato animale. Per questo non hanno autorità. Non ne hanno bisogno: essendo esseri razionali, seguono facilmente all’unisono ciò che vedono essere il bene, a differenza dei mezz’uomini, che hanno solo un barlume di ragione e per questo sono in contrasto su tutto. La via della ragione, si sa, è una via piana: ed ecco che gli industriosi ermafroditi spianano tutte le montagne del paese. Niente ascensioni mistiche. In fatto di religione, seguono il più apprezzabile buon senso. A che negare Dio? Bisogna essere ciechi per negare che vi sia un Principio. E tuttavia, che dire di questo Principio? Basta dire che c’è, il resto è chiacchiera – o oscenità. Gli ermafroditi credono nello Haab, l’Incomprensibile, ma una legge inviolabile proibisce di parlarne, perché troppo facilmente l’uomo può dire del Principio qualcosa di inesatto, o peggio di offensivo. Di Dio non si parla, conclude il vecchio interlocutore di Sadeur. La migliore religione è non parlare di Dio. Cosa veramente buona e giusta, viene da dire: l’avesse capito per tempo, l’Europa, non avremmo avuto le guerre di religione. Per tempo l’aveva capito il Taoismo: chi conosce il Tao non parla del Tao, dice il Tao-Te Ching (cap. LVI). E non si è mai sentito di crociate in nome del Tao. Forse perché un Principio sfuggente non può essere invocato come Signore degli Eserciti, né puoi farlo finire nel motto Gott mit uns.
Fin qui – soprattutto per quest’ultima discrezione riguardo alle cose sacre – questa Terra Australe pare un paradiso. E invece, a sentire il vecchio che fa da guida a Sadeur, è un inferno. O meglio, sono gli ermafroditi che ci stanno con l’inferno dentro: pensano che la vita sia una brutta faccenda, e che morire sia meglio che vivere. Per questo tutti si davano la morte, finché per legge è stato stabilito che ci si può uccidere solo dopo una certa età, e solo dopo aver trovato qualcuno che prenda il proprio posto. L’essere umano – sostengono – è fatto di carne e spirito, elementi inconciliabili e sempre in lotta tra loro. La vita è questa lotta sfiancante. La morte è il gradito riposo.
Il problema, ahimé, è quello della carne. Gli ermafroditi non accettano la corporeità, rifiutano il sesso, mangiano i frutti della natura ma lo fanno vergognandosi. Sono esseri spirituali in lotta con la carne. O, se si preferisce: esseri razionali che combattono le passioni e l’irrazionale. Come succede, questa lotta ha aspetti crudeli. Gli australiani hanno diversi nemici: i grandi uccelli urg, ma soprattutto il popolo dei Fondin, che essi combattono senza alcuna pietà, abbandonandosi ai peggiori massacri. In questo paradiso infelice, Sadeur finirà per essere condannato a morte, con due capi d’accusa: aver provato pietà per qualche donna dei Fondin – tra i Fondin vi sono le donne più belle che abbia mai visto – ed aver suscitato eccitazione sessuale. Il desiderio e la comprensione sono le due colpe di Sadeur, che riuscirà ad evitare la morte solo fuggendo rocambolescamente dal suo paradiso a cavalcioni di un uccello urg – che mi piace considerare, in questo contesto, una icona del desiderio. E forse il messaggio di questa strana utopia, di questo singolare viaggio immaginario è che la ragione senza il desiderio rende l’uomo feroce ed infelice. Cosa che forse il tormentato Gabriel de Foigny aveva constatato prima nel convento francescano e poi nella austera Ginevra calvinista.

Gramellini e il grembiulismo

Massimo Gramellini se la prende con “il pool sicuramente formidabile di pedagogisti” che a Torino habbo deciso di eliminare dalle scuole materne i grembiuli. Dare addosso ai pedagogisti, ritenuti responsabili di tutti i mali del sistema educativo italiano – come se avessero un potere immenso, e quelli che prendono le decisioni non vedessero l’ora di aggiornarsi sulle ultime idee pedagogiche – è ormai una moda. Una moda contro la quale non protesto, perché una categoria che sceglie come propri rappresentanti dei soggetti come Michele Corsi (presidente della Società Italiana di Pedagogia) merita questo ed altro.
Vediamo il ragionamento di Gramellini, piuttosto. I suoi argomenti sono due. Il primo è che il grembiule serviva ad eliminare le differenze economiche e sociali, a partire dall’abito. Il secondo è che la creatività ha bisogno “di un limite da infrangere, essendo la trasgressione la condizione naturale in cui il talento individuale si esprime”.
Il primo argomento sembra avere una sua plausibilità, ma non mi convince. Io l’ho portato, il grembiule, alle elementari; non mi pare che questo abbia contribuito granché ad eliminare le differenze sociali ed economiche. A scuola, grembiule o meno, ognuno sa perfettamente chi sei. Bastano le scarpe, per mostrare le differenze sociali; o quello status symbol che è ormai lo zaino. Dunque il grembiule semplicemente non serve a questo scopo.

Il secondo argomento ha qualcosa di inquietante. Dice, Gramellini, che se vogliamo che i bambini sviluppino la creatività, dobbiamo cominciare col negarla. Cosa diventerebbe, la scuola, applicando questo criterio? Gran parte delle cose che si fanno a scuola sono in effetti poco creative. Facciamo contento Gramellini: eliminiamo quelle poche che sono rimaste. Eliminiamo il disegno, il gioco, il raro dialogo tra alunni e maestri. Stendiamo sull’aula una cappa ancora più scura. E perché poi limitarsi alla creatività? Il ragionamento evidentemente sarà valido anche per altre cose. La libertà, ad esempio. Vogliamo degli adulti liberi? Ma la libertà passa attraverso la trasgressione. E dunque facciamo una scuola bella autoritaria, pieghiamo gli studenti sotto il peso di regole e divieti, rendiamogli la vita impossibile. I più si spezzeranno la schiena, ma qualcuno si ribellerà.
C’è nel discorso di Gramellini quell’errore che chiamo paradigma dell’imbuto, e che è ben presente anche nei discorsi dei pedagogisti. Consiste nel ritenere che l’educazione sia quell’azione che trasformare questa-persona-qui in una persona-ideale, pensata da noi. Vogliamo un adulto creativo, e dunque neghiamo la creatività ai bambini. Il discorso non fila semplicemente perché esiste un rapporto necessario tra mezzi e fini, ma non andrebbe bene nemmeno se si stabilisse di fare una scuola creativa per avere degli adulti creativi. La scuola dev’essere un luogo creativo per un’altra ragione: perché la creatività ci fa stare bene. E’ questo il paradigma della situazione, che contrappongo al paradigma dell’imbuto.
L’educazione accade quando, qui ed ora, delle persone fanno insieme delle cose significative; quando sono felici, vive, pienamente in rapporto con sé stesse e con gli altri. Mi sfugge quale contributo possa dare a questa piena esperienza di sé e dell’altro il grembiule. Che mi pare, piuttosto, il simbolo esteriore di quel livellamento ed appiattimento che rappresenta se non lo scopo manifesto, certo il risultato effettivo di tanta scuola italiana.

Nishitani Keiji,La religione e il nulla

Nishitani Keiji e Martin Heidegger
La religione e il nulla di Nishitani Keiji è il capolavoro di uno dei più grandi pensatori giapponesi contemporanei. Scrive nell’introduzione al’edizione italiana (Città Nuova, Roma 2004) James W. Heisig: “Bisogna leggere Nishitani con sospetto ed occhio critico, ma bisogna leggerlo. E, dopo, bisogna aprire un dialogo con questo sconosciuto” (p. 24).
Cos’ha da offrire questo sconosciuto con cui bisogna dialogare? Niente di meno di una lettura del nichilismo alla luce della tradizione filosofica del buddhismo zen.
La religione è affrontata da Nishitani non nell’ottica del rapporto tra Dio e l’uomo né in quella del sacro, ma in una prospettiva più ampia: religione è la vera consapevolezza della realtà, intendendo con ciò non solo il nostro diventare consapevoli della realtà, ma il realizzarsi della realtà stessa nella nostra consapevolezza della realtà. Non si tratta, in altri termini, di conoscenza filosofica, ma di un movimento integrale della mente e del corpo. Non a caso, spiega, l’esigenza religiosa si fa presente e pressante quando la nostra esistenza perde senso, e noi stessi diventiamo la domanda: perché sono? E’ evidente fin d’ora la connessione tra la religione e il nulla. E’ quando il nulla appare sullo sfondo della nostra esistenza che entriamo nella sfera religiosa, che si apre per noi un dubitare totale che è inizio del movimento verso la consapevolezza.
L’Occidente ha dubitato, con Cartesio, dell’esistenza di tutto, fuori che del soggetto; il soggetto, anzi, è l’origine di ogni certezza. E’ questo che Nishitani chiama “campo della coscienza”, che distingue un dentro ed un fuori, un soggetto ed un oggetto, con una distinzione che permane anche nell’autocoscienza, perché anch’essa comporta il porsi davanti a se stessi come una cosa da osservare. Nemmeno nell’autocoscienza l’uomo è a contatto con se stesso. Perché ciò avvenga, occorre oltrepassare il campo della coscienza e quello degli enti, occorre sporgersi nel nihilum, conquistare un dubitare più radicale di quello cartesiano, che giunge a mettere in questione il soggetto stesso. E’ una esperienza religiosa: Nishitani parla di “samadhi” e “grande morte”, seguendo la terminologia zen; il lettore cristiano può pensare alla “notte oscura dell’anima” di Giovanni della Croce. Nella posizione del nihilum il soggetto si scopre colpevole, sorprende al suo fondo un male, una corruzione radicale, la cui consapevolezza però rende possibile la redenzione. Nella prospettiva del nihilum ogni ente è infinitamente distante dagli altri, irrimediabilmente solo.
L’esistenza che si apre al nulla è disperata, e tuttavia la disperazione, il nulla non sono l’ultima verità sull’uomo. Dalla grande morte nasce l’uomo nuovo: e nasce non fuggendo dal nulla, ma attraversandolo, andando oltre il nulla: giungendo alla vacuità. “Una valle insondabilmente profonda all’interno di un infinito cielo aperto, ecco il rapporto tra nihilum e vacuità” (p. 139). La vacuità, spiega Nishitani, non è realtà di cui si possa dare rappresentazione oggettiva. E’, invece, una prospettiva. Non si tratta di percepire in qualche luogo un vuoto, ma di realizzare il nulla ed il vuoto come tutt’uno con l’essere. Non ci sono un essere ed un nulla sul cui rapporto si debba riflettere, ma un essere-eppure-nulla che supera ogni logica dualistica.
Nel campo della vacuità ogni ente accade nella sua natura propria (tathata), ogni cosa torna alla sua terra natia. Se nel campo nel nihilum tutti gli enti sono assolutamente, disperatamente soli e separati, nel campo della vacuità tutti gli enti sono uno. La vacuità è la grande apertura nella quale tutti gli enti si incontrano. L’Occidente ha pensato l’Uno, ma c’è per Nishitani una differenza essenziale: l’Uno occidentale è una Ragione assoluta che oltrepassa le singolarità, mentre l’Uno del campo della vacuità appare dopo aver attraversato il campo del nihilum, e proprio per questo si disperde costantemente, all’infinito. L’Uno è il centro di una circonferenza da cui si partono infinite linee che intersecano le circonferenze della sensibilità e della ragione in infiniti punti. Questo vuol dire che ogni punto della circonferenza – ogni ente, cioè – è “permanentemente immerso in un abisso senza fondo” (p. 190). Vuol dire anche che ogni ente è il centro. Ogni ente è il centro di tutte le cose, il punto da cui si dipartono le linee infinite degli enti, superata la distinzione tra fenomeno e cosa in sé.
Dal punto di vista religioso, il campo della vacuità è il luogo della liberazione, del distacco, della consapevolezza. Quando l’uomo giunge al fondo della propria esistenza, al di là della ragione speculativa, scopre l’infinità della finitezza, vale a dire la radicalità della finitezza stessa. E’ quella consapevolezza che il buddhismo esprime con la figurazione della “ruota del divenire” e con l’idea della trasmigrazione, nei confronti della quale Nishitani opera una demitizzazione, interpretandola come segno dell’abissalità del nihilum che è al fondo dell’esistenza. La liberazione dalla ruota del divenire, insegna il buddhismo, avviene con il nirvana. Il passaggio dal samsara al nirvana, dal ciclo delle esistenze alla liberazione, non è altro che la conversione dal campo del nihilum alla vacuità. La particolare logica del buddhismo non consente però di pensare una liberazione come fuga dal samsara. Il nirvana non è un luogo diverso dal samsara; al contrario: vivere il nirvana è vivere la vita di sempre, stare nel samsara senza chiedere nulla, qualcosa di molto simile alla “vita senza perché” di Eckhart (le affinità tra Eckhart e lo zen sono studiate in Italia da padre Luciano Mazzocchi e Jiso Forzani). Questo vuol dire anche accettare tutto ciò che accade, considerare l’essere di ogni cosa tutt’uno con il suo dover essere, con il suo dharma. Già Dogen aveva avvertito nello Shobogenzo (Bussho) che l’essere non nasconde nulla in riserve occulte. Non c’è nessun mondo perfetto da contrapporre a quello in cui siamo. L’essere è quello che dev’essere.
Il campo della vacuità è, insomma, il campo di un assoluto sì alla vita, conquistato dopo aver attraversato il deserto del nihilum. E’ anche, però, il campo dell’amore religioso. L’esistenza nel campo della vacuità è caratterizzata dal non-ego. Superata l’autocentricità e la persona, l’uomo nega se stesso e trova il proprio fine in tutti gli altri esseri. Con un’espressione che colpisce, Nishitani sostiene che la persona, il sé “deve diventare una cosa per tutti gli altri esseri” (p. 337): in realtà, infatti, nella posizione della vacuità l’uomo non è qualcosa di umano. Uccidendo se stesso, però, il sé uccide anche gli altri (lo stesso Buddha, secondo il famoso detto di Lin-chi), perché si pone al di fuori del campo in cui esistono soggetti diversi. Nel campo della vacuità non esiste l’ego mio, né quello altrui. Ogni ente, nel campo della vacuità, è centro: di qui un conflitto assoluto, inaudito tra infiniti enti-centri. A ragione Eraclito parlava, dunque, del conflitto come padre di tutte el cose. Ma nella misura in cui tale conflitto è tra enti che non sono enti, tra non-seità, esso è anche assoluta, inaudita armonia. E’ uno scontro, ma è anche compenetrazione amorevole. E’ guerra, ma è anche gioco. “Gioco è qui la pratica zen e la pratica zen è gioco: questo sorgivo gioco è sorgiva serietà, e viceversa” (p. 325).
E’ un gioco che avviene fuori dal tempo, perché nel campo della vacuità anche il tempo soggiace alla logica della concentrazione in uno: ogni istante è il centro del tempo e contiene tutti gli altri istanti. E’ superato così lo stesso eterno ritorno di Nietzsche, cui Nishitani attribuisce grande importanza, come realizzazione della grande morte, presentazione temporale del nihilum in cui l’essere si mostra come pura impermanenza, e la cui circolarità tuttavia riporta anche all’adesso, all’attimo presente. L’eterno ritorno è il punto di conversione alla vita, una volta raggiunta la massima negazione possibile. Tale conversione non fu possibile a Nietzsche perché “la volontà di potenza, la posizione finale di Nietzsche, è ancora concepita come qualcosa chiamata ‘volontà’. Finché viene considerata un’ entità chiamata ‘volontà’, essa non perde completamente la sua connotazione di essere un altro da noi e così non può diventare qualcosa grazie a cui possiamo veramente diventare consapevoli di noi stessi nella nostra sorgente” (p. 292).
E’ piuttosto chiara la intrepretazione di Nishitani della situazione contemporanea. L’Occidente è giunto, con il nichilismo e Nietzsche, alla posizione del nihilum, disperante e precaria, prossima ad una conversione di cui però è incapace. Completare questa conversione, accompagnare il passaggio dal nihilum alla vacuità, dalla disperazione al gioco, è il contributo del pensiero buddhista alla crisi attuale.
Ci sono tre modi di leggere questo libro. Il primo è quello di leggerlo come un confronto tra la tradizione culturale, filosofica e religiosa giapponese e quella occidentale. Si considereranno, allora, i giudizi sul cristianesimo, su Cartesio, su Eckhart, su Nietzsche, su Sartre; e qua e là potrà risultare qualche incomprensione, qualche azzardo ermeneutico, qualche forzatura. Il secondo modo è di leggerlo come una espressione di un pensiero altro, di cui bisogna sforzarsi di comprendere la peculiarità, facendo qualche sforzo anche per la comprensione del lessico filosofico, che, come succede, solo parzialmente può essere tradotto in una lingua diversa. Il terzo modo è quello di considerare La religione e il nulla come un’opera da meditare, come uno strumento per compiere quella radicale ricerca di sé in cui consiste forse l’essenza della filosofia non meno che della religione.

Fontenelle [?], Lettera sulla nudità dei selvaggi

Immagine tratta da: Barone di Lahontan, Illustrations de Mémoires de l’Amérique septentrionale… Les Frères l’Honoré La Haye 1704.

Come già fecero tanti prima di lui, e come tanti altri faranno dopo, nel 1674 S. van Doelvelt si mette in viaggio per terre sconosciute, alla ricerca di fama ed avventura. Dopo l’immancabile provvidenziale naufragio, approda in una delle terre del mondo d’Utopia: si tratta, questa volta, dell’isola di Ajao, ovvero la Repubblica dei Filosofi. L’abitano degli uomini saggi, adoratori della ragione e della Natura: e per giunta materialisti, atei e comunisti. Noi adoreremmo loro, se non fosse per una certa crudeltà verso i loro schiavi – i quali sono i vecchi abitanti dell’isola di Ajao, gente indolente e superstiziosa, che certo merita di essere schiacciata così come l’errore dev’essere distrutto dalla ragione.

L’avventura di van Doelvelt è raccontata da Fontenelle nella sua Repubblica dei Filosofi, uscita a Ginevra nel 1768: uno dei tanti romanzi utopistici della Francia moderna, dalla Histoire de Calejava (o meglio, dalla utopia proto-femminista di Christine Pizan) a quella Icaria di Etienne Cabet in cui qualcuno vedrà una precisa anticipazione e prefigurazione onirica dell’Unione Sovietica.
In appendice al romanzo utopistico c’è una divertente lettera sulla nudità dei selvaggi, scritta in risposta ad alcuni quesiti di una ignota Madame. Il suo ignoto autore tocca temi di non poca importanza, con una licenziosità così garbata che, quando giunge ad affermare che il coso che noialtri abbiamo tra le gambe è un Dio, e la cosa che quelle lì hanno tra le loro gambe è il suo tempio, a nessuno, sono certo, vien voglia di protestare.
Traduco da: Bernard Le Bouyer de Fontenelle, La République des philosophes, ou Histoire des Ajaoiens, Genève, s.n., 1768, pp. 164-199.
Lettera a Madame la Marchesa di *** sulla nudità dei selvaggi
Madame,
non so come rispondere alla lettera che mi avete fatto l’onore di scrivermi, né come trattare questo argomento della nudità dei selvaggi, senza offendere la vostra modestia: l’argomento è molto delicato; mi asterrò dalle oscenità, ma non so se potrò tenersi al riparo da idee oscene.
Come, dite voi, è possibile sopportare, senza arrossire di vergogna, la presenza di uomini e di donne tutti nudi? Come è possibile vedere nelle chiese, senza distrarsi, delle cose simili? In che modo i ministri del Signore, che non tollerano che si stia in chiesa senza avere il seno e le braccia coperti, possono permettere che quelle genti entrino nel tempio e le donne portino scoperto un seno che nelle giovani ballonzola come degli agnelli sul prato, e che gli uomini, la cui carnagione e l’espressione naturale dei muscoli annunciano e promettono i felici effetti del vigore maschile? Come può avvenire ciò senza che il bel sesso ne sia turbato e i maschi ne siano eccitati, senza offendere il pudore che possediamo dalla nascita e che è naturale? Voi siete sicura, Madame, che non può essere altrimenti. L’esperienza tuttavia distrugge le vostre ragioni, e mostra che ciò che si chiama pudore non deve essere considerato al rango delle idee che chiamiamo innate, e che non è che un effetto della educazione, del costume e dell’uso.
Se la Natura avesse donato all’uomo qualche parte realmente vergognosa, da non esporre alla vista, essa è troppo saggia per non averlo dotato al contempo di qualche altra parte, con cui coprirle e nasconderle alla vista. Solo quando hanno imparato le conseguenze della nudità e l’idea che ci si forma del pudore, i bambini cominciano ad arrossire come i loro genitori e i loro maestri.
Prova che questo pudore è effetto dell’educazione è il fatto che il bel sesso non arrossisce vedendo nei quadri dei bambini che rappresentano degli amorini, dei quali nulla è nascosto; ma tutti protesterebbero, se questi amorini fossero femmine. Si cammina tranquillamente in un giardino pieno di belle statue tutte nude, che rappresentano fauni ed atleti, senza esserne turbati e senza arrossire. Un grande principe, che aveva fatto coprire con dei pampini fatti di tufo, fece dire a una Dama: Oh, che belle cose vedremo quest’autunno, quando le foglie cadranno!
Si guarda con una sorta di indignazione chi conserva nel suo studio dei quadri o delle incisioni che contengono delle nudità considerate oscene, mentre si ammirano un Ercole, una Venere Medicea, ed altre divinità dell’antichità pagana, esposte agli occhi del pubblico, in palazzi i cui proprietari sono di primo rango tra i ministri della religione. Convenitene, Madame, si tratta degli effetti dell’educazione, del costume, della prevenzione. Ecco una prova ancora più efficace: voi non arrossite certamente, Madame, nell’esporre allo sguardo ed all’ammirazione pubblica il vostro bel viso cosparso di rose, i vostri begli occhi e tutte le grazie con le quali la Natura vi ha favorito, mentre la più bella ottomana, non dico la sultana del serraglio, ma la sposa di un semplice maomettano, crederebbe di aver perso il proprio onore, se un uomo diverso dal marito vedesse il suo viso. Salendo in battello sul Nilo da Alessandria al grande Cairo, ho visto spesso delle egiziane che venivano ad attingere acqua e si gettavano sulla testa l’orlo della camicia per coprirsi il viso, a rischio di mostrare ai nostri occhi ciò che voi sareste addolorata, Madame, di mostrare a chiunque al mondo.
In altri paesi, non è meno vergognoso per le donne mostrare i piedi, che spesso storpiano ferrandoli, per renderli più piccoli. Gli Azenagi, popolo del Senegal, coprono le loro bocche con più cura delle parti naturali. Forse che il viso, la bocca, i piedi di queste genti sono parti vergognose, che non si osa mostrare senza offendere il pudore e perdere l’onore? No, certamente, mi direte voi, per chi non abbia un tale sentimento e creda, al contrario, che sia bello e naturale mostrarli, come anche abbellirli ed aumentarne le attrattive; e voi vi burlate, ed a ragione, delle idee ridicole di questi popoli. Essi, al contrario, credono che certe idee debbano essere innate nelle loro donne, come voi credete che sia naturale coprire le altre parti del vostro bel corpo.
Se il pudore fosse qualche cosa di naturale in noi, Adamo ed Eva, creati nudi nel paradiso terrestre, sarebbero arrossiti per il loro stato, mentre la vergogna li ha sorpresi solo dopo il loro peccato, ed il pudore, che noi consideriamo una virtù, fu quasi una punizione per la loro disobbedienza. Allora coprirono la loro nudità con una foglia di fico – non dispiaccia a quelli che, pensando che una tale foglia fosse troppo piccola, la sostituirono con una foglia di banano, che misura da cinque e dieci piedi di lunghezza su due di larghezza. Io dico che una tale foglia non era necessaria, li avrebbe indubbiamente imbarazzati, se l’avessero presa come primo pezzo dell’armatura d’un cavaliere, come si esprime Rabelais, vale a dire per usarla come brachetta: d’altra parte, donarle una così larga copertura significa fare torto ad Eva, e quand’anche Adamo fosse stato simile al Dio di Lampsaco, una tale foglia gli sarebbe stata larga. La Camisa dei Caraibici, come già vi ho fatto notare, Madame, non è più grande di una normale foglia di fico, eppure copre interamente la loro nudità: e lo straccio che gli uomini portano attaccato alle reni non è largo che quattro pollici; il resto del loro corpo è nudo, ma non se ne vergognano.
E perché dovrebbero arrossire? Prima dell’invenzione delle arti e dei mestieri, prima che si fabbricassero le stoffe, gli uomini non andavano nudi? E questo uso di andar nudo è dovuto durare molto a lungo, perché nei tempi eroici gli Ercole, gli Alcide e gli altri eroi della Grecia originaria erano coperti solo con pelli di leone o di altre bestie che avevano ucciso, e le cui spoglie usavano come abbigliamento più che come trofeo. Queste pelli coprivano loro le spalle, ma non potevano bastare per coprire le nudità: è così almeno che li si rappresenta. A questo proposito, Madame, permettete che vi racconti un piccolo aneddoto. Diverse dame e cavalieri di fermarono davanti alla statua di un Ercole antico, e dopo averla analizzata ed ammirata, uno dei cavalieri volle imprudentemente far loro osservare che un difetto, che consisteva in un errore di proporzione: “Oh! ribatté una dama del gruppo, se voi foste tutto nudo come questo Ercole, con il freddo che fa, probabilmente troveremmo in voi ancor meno proporzione.”
Non sono soltanto i Caraibici che vanno nudi; sono tutti i popoli che si trovano in quel vasto continente: i rigori delle zone glaciali, la varietà di quelle temperate e gli ardori di quella torrida non sono riusciti a far prendere loro degli abiti. Solo i selvaggi del nord del Canada si coprono con alcune pelli, quando il paese è pieno di nevi e di ghiaccio; il loro corpo avvezzo alle intemperie li rende quasi insensibili al freddo dell’inverno, e lo stesso corpo abituato ai grandi calori gli impedisce di avvertire i raggi brucianti del sole: poiché tutte le piume, tutti i ninnoli che usano i Messicani e i Peruviani sono bizzarrie che non li difendono né dal freddo né dal caldo e che, lasciando scoperte tutte le parti del loro corpo, non fanno che velare quelle che si chiamano naturali.
Tutti gli Africani vanno ugualmente nudi. Gli Ottentotti del Capo di Buona Speranza non sono coperti che della sporcizia e degli orridi escrementi degli animali, di cui si cospargono il loro corpo. Se si cercasse con più cura, si scoprirebbe che molti Asiatici vanno ugualmente nudi; soprattutto, si troveranno nelle Indie Orientali i Brahmini e i Fachiri, e nell’Impero Ottomano i Dervisci, gli uni e gli altri tipi di uomini religiosi che, giunti a un punto di pretesa santità, vanno impunemente nudi in pubblico. Da ciò che dico consegue che quasi la metà degli uomini che sono sulla terra vanno nudi senza vergognarsi della loro nudità; e quindi ciò che chiamiamo pudore non è una cosa innata in noi.
Quei popoli che sono abituati a vedere scoperte tutte le parti del corpo umano non sono più turbati di quanto lo siamo noi vedendo il volto di una donna. Quale ragione infatti c’è per nascondere alcune parti del corpo e mostrarne altre? Quelle che nascondiamo, si dirà, sono gli scarichi naturali del cormo umano, che giustamente si ha vergogna di mostrare. Ma la bocca, il naso, le orecchie, non sono sudici come le altre parti? Le esalazioni spesso infette, gli sputi, il muco non sono più disgustosi dei liquidi che escono dalle parti naturali?
C’è qui certamente qualche altra ragione. Perpetuare la specie umana non dovrebbe essere più vergognoso che conservare l’individuo. Il filosofo Cinico aveva le sue buone ragioni per dire che poteva tranquillamente concepire un uomo in pubblico, così come mangiava in strada quando aveva fame. L’azione che conserva la specie umana dovrebbe essere più nobile, ed in effetti lo è. Quante feste, quanto giubilo, quante cerimonie anche religiose si fanno in occasione delle nozze? E qualcuno ignora a che scopo ci si sposa? Tutti sanno quale atto ne segue, ne abbiamo delle idee chiare e distinte; tuttavia le leggi dell’onore e del pudore ci impediscono di nominarlo e di praticarlo in pubblico. E’ una cosa che si confida in segreto, ed è un crimine violare il segreto; non se ne può parlare che con giri di parole; ci si nasconde con cura per compiere un’azione di cui poi ci si gloria; si ha vergogna di procreare in pubblico un bambino, eppure si è tutti felici, tutti gloriosi per averlo fatto; si pronunciano arditamente i nomi di tutti i crimini, uccidere, rubare, assassinare, crimini che distruggono il genere umano; ci si vergogna di nominare ciò che lo conserva, che lo perpetua: quale è la ragione di una bizzarria, di una varietà così grande di sentimenti riguardo ad una stessa azione?
Ecco, Madame, cosa credo. Il pensiero o il fatto di confessare le nostre imperfezioni e le nostre debolezze, causa ciò che chiamiamo vergogna: ognuno cerca di allontanare da sé questa confessione, fino a che gli è possibile; e benché non dipenda da noi essere belli e ricchi, noi ci vergogniamo della bruttezza e della povertà, o di qualche infermità naturale che abbiamo. E’ lo stesso se non abbiamo alcune qualità che convengono al nostro stato: il soldato si vergogna della sua viltà, il dottore della sua ignoranza, il marchese della sua rozzezza; ma l’uomo di paese non ha alcuna vergogna d’essere grossolano, l’uomo di chiesa si evitare i pericoli della guerra, i nobili di essere ignoranti; un damerino si gloria di fare il simpatico appresso al bel sesso, mentre un magistrato si crederebbe disonorato, se facesse la stessa cosa. Da ciò deduco che la vergogna consiste in ciò che marca una differenza con i nostri simili, tanto riguardo al corpo quanto riguardo allo spirito.
Ciò non mette capo a niente, direte; esporre agli occhi del pubblico ciò che è naturale e uguale in tutti gli uomini non dovrebbe essere vergognoso, perché non in ciò non c’è nulla che possa mortificare il nostro amor proprio e il desiderio interiore che abbiamo di meritare la stima degli uomini.
Perché allora è vergognoso mostrare certe parti del nostro corpo, mentre ci gloriamo di esporre le altre? Non possono essere una prevenzione, un costume, l’effetto dell’educazione, delle idee che ci sono state inculcate, che ci fanno arrossire quando mostriamo scoperti il ventre, il seno, le natiche, nei paesi in cui si usano gli abiti. Queste ragioni fanno ugualmente trovare vergognoso mostrare il viso, la bocca, i piedi, presso i popoli in cui è proibito mostrarli.
Piuttosto, direte voi, avviene che gli uomini, ciascuno nel proprio cantone, si sono posti delle leggi ed hanno imposto una punizione, un disprezzo per chi le viola, di modo che sia increscioso non conformarsi ad esse. Nei paesi in cui sono prescritti gli abiti, dove c’è il costume e la regola di coprire i corpi, si ha vergogna di comparire nudi e di mostrare le parti che si è convenuto di nascondere: di più, in certi paesi non è possibile comparire in pubblico che con gli abiti propri di ogni stato; un prete, un magistrato arrossirebbero se dovessero comparire in pubblico con gli abiti da paesano o da cavaliere, o un galantuomo vestito e acconciato da donna; ed il monaco che sarebbe disonorato se portasse la spada ed il pennacchio in Francia e in Italia sembrerebbe arditamente in stato di guerriero in Inghilterra ed Olanda. Le Maomettane Arabe, Beduine, sarebbero considerate infami in una città della Turchia, se vi comparissero a viso scoperto, mentre sono donne molto oneste nei loro Douar (1), quando mostrano il viso, le braccia e una parte del corpo nudi.
La vergogna non consiste dunque nel comparire nudi o vestiti, ma nel violare le leggi, gli usi, i costumi stabiliti dalle leggi proprie di ciascun paese: di conseguenza i selvaggi e gli altri popoli, in cui vige la nudità, possono andare nudi senza arrossire, senza vergognarsene, senza offendere il pudore, perché non contravvengono a nessuna legge e seguono i costumi stabiliti.
Cerchiamo, Madame, qualche altra buona ragione che abbia portato a stabilire il pudore e la vergogna di andare nudi. Gli uomini, nelle loro idee differenti, considerano come virtù ciò che gli altri stimano come vizio: non c’è vergogna nel comparire in pubblico fuori di sé presso gli Svizzeri e i Tedeschi, mentre in Spagna si perde l’onore se ci si ubriaca; derubando i passanti si è puniti alla ruota in certi paesi, mentre presso gli Arabi Saraceni è motivo di gloria essere trovati cariche delle spoglie dei viaggiatori; e così per mille altre azioni degli uomini. Ma il matrimonio è sembrato una cosa assolutamente necessaria alla società in tutti i popoli: agli uni è stata ordinata una sola donna, mentre agli altri è stata permessa la poligamia, e presso tutti è stata ricercata l’unione delle famiglie. Il dettaglio del vantaggio del matrimonio è troppo lungo da esporre: per goderne si è creduto che bisognasse renderlo politico e religioso, e permettere onestamente con una cerimonia pubblica l’atto che segue necessariamente il matrimonio e lo rende sacro; e per ovviare agli abusi che questo atto, naturale e necessario alla propagazione, conservazione, moltiplicazione della specie umana avrebbe potuto comportare se fosse stato troppo frequente e troppo pubblico, si è stabilita ovunque una legge, una convenzione: che i piaceri dell’amore si prendano in segreto.
Si sono visti dei Legislatori che, nell’intento di rendere quest’atto più fruttuoso, non permettevano ai giovani coniugi di vedersi che in segreto e quadi furtivamente, essendo vergognoso per loro essere sorpresi, anche solo in conversazione familiare, con le loro spose, e ciò in base a questo assioma: Noi amiamo ciò che ci è proibito.
Altri popoli hanno reso esecrabili le donne nel tempo della loro indisposizione periodica, ritenendo sudicio tutto ciò che toccano. Le cerimonie religiose degli abati Banier e Mascrier (2) contengono tutte le leggi su questo argomento, ma ripetute così spesso e con tanta affettazione, che annoiano e disgustano: vi si trova un accanimento su questo tema che irrita e annoia, e sarebbe così anche se questi sette volumi in folio, che questi abati hanno fatti stampare, si riducessero della metà, che sarebbe poi il loro giusto valore. Il motivo di tutte queste leggi contro l’impurità delle donne non può derivare che da una idea fisica, poiché se ci si avvicina alle donne in questo periodo di infermità si fanno dei bambini malati; e per evitare queste spiacevoli conseguenze, si è fatto tutto il possibile per allontanare gli uomini dalle loro donne, quando loro sono in quel periodo: per meglio riuscirvi si sono unite le leggi politiche, quelle dell’onestà, quelle della proprietà, alle terribili leggi religiose che, presso tutti i popoli, costringono gli uomini al loro dovere e li costringono ad eseguire la legge.
Le stesse leggi politiche che hanno voluto che l’atto non fosse troppo frequente, temendo di renderlo infruttuoso, e mille altre buone ragioni hanno stabilito la legge della purezza, della buona creanza, dell’onestà: si sono dichiarati impudenti, lussuriosi, impudichi e anche infami coloro che violano queste leggi; ne è seguito un orrore verso quelli che si accoppiano pubblicamente ed agli occhi di tutti. Lo stesso Sant’Agostino, nel suo libro La città di Dio (3), crede che sia impossibile consumarlo in pubblico. Ecco come lo spiega: perdonatemi, Madame, questo latino è necessario per provare ciò che dico; ma, poiché voi non lo intendete, ecco, Madame, la traduzione che ne fa Michel Montaigne nei suoi Saggi (4).
“Come io penso, è per una opinione delicata e rispettosa che un grande Autore religioso ritiene che tale azione sia così necessariamente occulta ed alla vergogna, che nella licenza degli accoppiamenti dei cinici non riesce a persuadersi il desiderio giungesse al suo compimento, ma che ci si limitasse a rappresentare dei movimenti lascivi, giusto per mantenere l’impudenza della professione della loro scuola, e che per far gonfiare ciò che la natura aveva costretto e ritirato avessero bisogno di cercare l’ombra.”
Illum (Diogenem) vel alios qui hoc fessisce referuntur, potius arbitror concumbentium motus dedisse oculis hominum nescientium quod sub pullio gereretur, quam humano premente conspectu potuisse illam peragi voluptatem; ibi enim philosophi non erubescant videri se velle concumbere ubi libido ipsa erubesceret surgere.
Questo latino è licenzioso almeno quanto il francese di Montaigne.
Si è voluto che quest’atto si compisse in segreto e che di conseguenza si nascondessero le parti che servono a questo atto, pensando che le nudità sono capaci di saziarci prima del tempo e disgustarci. A noi piace indovinare: e i quadri più licenziosi ci eccitano meno di uno che rappresenti un letto con con le tendine perfettamente chiuse, ma da cui fuoriescano quattro piedi, due rivolti verso l’alto e due rivolti verso il basso. Malgrado ciò, non si è potuto fare a meno di dare a queste parti un nome eccellente e molto bello; le si è chiamate parti naturali, con le quali la Natura opera la più nobile delle sue opere, la più utile delle sue operazioni, che è la conservazione della specie, la moltiplicazione del genere umano. Montaigne dice che bisognerebbe chiamare bruti coloro che definiscono brutale tale azione, cui la Natura ci spinge così vivamente.
Si sono rese queste parti rispettabili e onorabili da parte di tutti rendendole simili a certi Re Indiani, che conservano la venerazione e la specie di adorazione che i loro sudditi hanno per loro solo rendendosi quasi invisibili ai loro occhi; si è voluto che fossero sempre nascoste. In effetti è degno di considerazione il fatto che i maestri di questo mestiere ordinano, come rimedio alla passione amorosa, la vista del corpo nudo che si cerca; per raffreddare la passione basta vedere liberamente ciò che si ama. “Un tale, dice Ovidio, per aver visto allo scoperto le parti segrete che amava s’è trovato d’un colpo libero da ogni passione.” Montaigne fa ancora una bella riflessione: “Tutti corrono per assistere alla morte di un uomo, e nessuno per vederlo nascere: si cerca un vasto campo per compiere battaglie che distruggono il genere umano, e ci si mura in qualche cavità profonda per formarlo e produrlo.”
Quando queste parti onorevoli sono state deificate, con il nome di Dei dei Giardini, sono stati fatti dei simulacri molto piccoli, ben lontani dalle loro dimensioni naturali: è così che li vediamo negli studi dei curiosi antiquari. Non si è permesso che tale Dio apparisse in trionfo, o troppo attraente per il sesso femminile, affinché le ragazze non se ne curassero troppo, e le donne non avessero troppa voglia di possederlo; affinché tutte potessero dire:
Giammai un così fragile stiletto
ci fece soccombere.
Quindi si è coperto d’orrore a tutte le rappresentazioni nelle quali questo Dio potesse essere visto in procinto di entrare nel suo tempio, per fare lui stesso o ricevere delle libagioni. E’ state chiamato osceno e impudico tutto ciò che potesse darne l’idea, sia con delle rappresentazioni che con dei discorsi. Le posture dell’Aretino, che si vedono in Vaticano, non ne sono state esentate, nonostante la santità del palazzo. Così sono stati coperti di vergogna e di disonore a tutti coloro che tengono dei discorsi che descrivono o rappresentano il compimento o l’accingersi all’atto; si è nascosto, si è velato con tutta la cura possibile non solo l’ingresso nel tempio, ma anche i boschi che lo circondano: perché questi tempi del corpo umano sono, come le pagode o i templi degli idoli dei Baniani e degli Indiani Orientali, sempre circondati da un boschetto. Si è concepito un orrore per la sporcizia e le periodiche zozzure che escono da questo tempio così caro, così necessario, per il quale, non so perché, si è ispirato al tempo stesso tanto rispetto e tanto orrore.
Ecco, Madame, a cosa penso, le ragioni che hanno fatto stabilire presso quasi tutti i popoli la legge di coprire le nudità, le parti naturali, e di esercitare di nascosto l’atto della generazione. E nondimeno è opera bellissima in sé dare la vita a un essere eccellente come l’uomo; e le parti che servono a questo scopo non hanno nulla di meno vergognoso e laido delle altre. Adamo ed Eva avevano torto di arrossire della loro nudità; erano soli al mondo, formati l’uno per l’altra dalla mano del Creatore. Queste parti avevano peccato meno della bocca che era servita a mangiare il frutto proibito: è quella che bisognerebbe punire, da cui ci vengono tanti mali. Ma, forse, dopo il peccato di Adamo queste parti si sono trovate in uno stato o troppo trionfante o troppo umile, il che, in un modo o nell’altro, ha indotto Adamo ed Eva ad arrossire. Bisogna ancora sapere in quale dei due stati si trovava Noè allorché il vino lo fece uscire di senno, e per quale ragione Cam si fece beffa di lui: fu per aver visto l’ardore o la fiacchezza del padre?
Per finire questa lettera vi dirò, Madame, che è certo che tutti nasciamo nudi; che i nostri primi progenitori, nell’infanzia del mondo, dovettero restare in questo stato di nudità, e di conseguenza abituare i loro occhi a certi oggetti, che erano loro indifferenti come lo sono ai bambini ed ai popoli che sono abituati a vederli; e che solo molto tempo dopo ci si è cominciati a vestire. Ascoltiamo Montaigne:
“Certo, quando mi immagino l’uomo tutto nudo (sì, quel sesso che sembra aver ricevuto più bellezza), le sue tare, la sua dipendenza dalla natura, le sue imperfezioni, trovo che abbiamo molte più ragioni di qualsiasi altro animale di coprirlo. Siamo scusabili per aver preso in prestito ciò che la Natura ha dato loro più che a noi, di ornarci delle loro bellezze e di nasconderci sotto le loro spoglie di lana, di piume, di pelo, di seta. Del resto, notiamo che siamo gli unici animali i cui difetti offendono i compagni, gli unici che si nascondono le azioni naturali della propria specie.”
Sono, forse, queste ragioni vergognose per l’uomo, che lo hanno fatto acquisire l’abitudine e l’hanno costretto ad usare degli abiti ed a coprire le parti naturali e quelle del suo corpo che ha creduto di dover nascondere alla vista. Quante donne sarebbero indispettite comparendo nude, e quanto perderebbero mostrando al naturale quelle parti imbellettate, che sanno così bene abbellire, e che sono spesso la maggior parte del loro finto merito!
Sono stati accusati di estrema impudenza i debosciati che si spogliano gli uni davanti agli altri, mischiando anche i differenti sessi ed esponendo le loro nudità agli occhi di tutti. Sono state considerate con orrore quelle sette religiose, ma abominevoli, che per imitare i primi uomini si spogliano interamente dei loro abiti e che nelle loro assemblee religiose pregano tutti nudi e al tempo stesso si uniscono indifferentemente gli uni con gli altri, senza distinzioni di parentela, volendo osservare esattamente il precetto della legge: Crescete e moltiplicatevi.
Ma mi accorgo che sto insensibilmente entrando in argomenti astratti, che non sono di gusto delle dame; e che, mentre mi ero proposto di scrivere una lettera scherzosa per divertire una persona di spirito come voi, Madame, sto diventando filosofo e politico, e mi sto toccando argomenti della religione, che bisogna sempre rispettare e di cui bisogna parlare il meno possibile, temendo di smarrirsi e di imbatterci in gente rispettabile di qualsiasi popolo e in ministri della religione, quale che sia, che non sappiano stare allo scherzo: e così taccio, assicurandovi che l’uso che autorizza la nudità dei Caraibici non ha nulla di immodesto, impudente, disonesto presso di loro, nello stato di pura natura che hanno conservato; e che, se voi foste abituata come noi, ammirereste il loro buono stato, la pelle liscia e lucida, la loro sanità perfetta, senza che altre idee offendano il vostro pudore e la vostra modestia: perché vi assicuro, Madame, che tutto è solo costume, prevenzione, effetto dell’educazione, e che non c’è niente di innato in noi.
Ho l’onore di essere, ecc.
(1) Villaggio (N. d. T.)
(2) Allude alla Histoire Générale des Cérémonies, moeurs et coutumes religieuses de tous les peuples du monde, (7 volumi, Paris, Rollin 1741) degli abati Banier e Mescrier (N. d. T.).
(3) Lib. XIV, cap. 20.
(4) Lib. II, cap. 12.

abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, Sulla dolcezza

Acquaforte di Eugène André Champollion

Nella storia del pensiero politico, l’abate di Saint-Pierre conta per il suo Progetto per rendere la pace perpetua in Europa (1712), che anticipa la più nota riflessione di Kant; progetto che affidava la pace europea ad una assemblea di stati, nella quale le controversie venissero risolte attraverso l’arbitrato, e che aveva, come notò Rousseau, un solo, grande limite: ai sovrani non interessa la pace, poiché la guerra ne rende più stabile il potere. In questo scritto degli ultimi anni, quel modello di conciliazione razionale delle controversie, che proponeva agli stati, è esteso a tutti i rapporti umani. La pace, che non giunge dalla volontà del politico, può nascere dal diffondersi di un nuovo atteggiamento umano, da una generale rinuncia all’animosità nelle dispute, siano esse intellettuali, religiose o economiche.

Traduco da: abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre,  De la douceur, Briasson, Paris 1740, pp. 3-11.
___
In un grande spirito, la dolcezza è prova di grandezza d’animo.
La dolcezza è la virtù meglio ricompensata in questo mondo.
Dal momento che considerano vergognoso cedere con dolcezza, anche se occorre più ragione e più coraggio per cedere che per resistere, la maggior parte degli uomini fanno i bambini.

Quelli che non hanno abbastanza forza per cedere con dolcezza, si piccano spesso di essere fermi; ma quando questa fermezza è priva di ragione, non è più una virtù, non è che umore, rigidità, testardaggine, falso eroismo.
La dolcezza suppone l’equanimità e la tranquillità dell’anima, a volte ne è l’effetto ed altre la causa.

La dolcezza non ci rende indifferente ai piaceri, ma qualche volta ci spinge a fare qualche sacrificio per l’amicizia e la riconoscenza.
L’uomo impaziente e maldestro si inganna molto spesso sui mezzi per stabilire ad assicurare il suo dominio e la sua autorità; egli trova degli ostacoli quando usa delle maniere altezzose, minacciose, per effetto dell’impazienza: cambierebbe modi, avrebbe dei modi dolci se facesse attenzione al fatto che lui stesso ama essere dominato dalla dolcezza.
Si suppongano gli uomini in qualsiasi stato di superiorità, di padre, di signore, di re: è la dolcezza dei loro modi che dà il fondamento più solido alla loro autorità, come la dolcezza di coloro che sono subordinati è il miglior modo di conciliarsi con i superiori.
La violenza di certe imprese fa nascere degli ostacoli che solo la dolcezza può superare.
Gli uomini hanno cominciato a gioire tranquillamente dei loro beni nei tempi in cui i loro costumi si sono addolciti.
Per quale fatalità gli uomini, che avrebbero potuto mettere a profitto la loro felicità, il vantaggio di essere riuniti nel corpo sociale, non si sono occupati, il più delle volte, che a infastidirsi, a nuocersi reciprocamente? Mancano di conoscere il loro più grande interesse, di essere dolci; manca la dolcezza nelle relazioni umane.
In mancanza di armi, ci vantiamo di altri mezzi: ci diffondiamo in discorsi ingiuriosi, seminiamo scritti satirici; e quale è il frutto delle nostre collere? I colpi che diamo ci attirano le offese che riceviamo, cosa triste e tanto più spiacevole perché è opera nostra, quando manchiamo di dolcezza e di pazienza.
L’uomo dolce gioisce di una sorte molto tranquilla: non ferisce l’amor proprio degli altri, non ne urta le passioni, nelle avversità non lo si vede scoppiare in lamenti, nella prosperità non dimentica il proprio passato; quando un uomo volubile gli fa i capricci, egli se l’aspetta: legge gli effetti nelle cause, e considera i cattivi trattamenti, come le ingiurie, nulla più che le conseguenze di un temperamento che è stato smascherato.
In altre occasioni l’uomo dolce, se insultato, sospetta di essersi attirato lui stesso le ingiurie che subisce.
L’aria modesta e attenta, i gesti misurati, il tono moderato, la favella un po’ lenta, le parole graziose, gli occhi bassi; tutto serve a esprimere il carattere della donna dolce.
La dolcezza ci annuncia il rispetto, l’approvazione, la confidenza, la considerazione, la sottomissione, l’obbedienza, il desiderio di piacerci, la gaiezza: come può non piacerci più delle altre virtù?
La dolcezza marcia insieme alla presenza di spirito, decisiva in ogni sorta di lotta.
Non confondiamo la dolcezza virtuosa con quelle insipide compiacenze servili, che sono piuttosto segni di piccineria e di debolezza.
Colui i cui costumi sono dolci, è ai nostri occhi uomo di quasi tutte le virtù; si è dolci perché si è equi, perché si è giusti, perché si è disinteressati, perché si è pazienti ed indulgenti.
Nulla di più opposto alla dolcezza, nulla le dispiace più della collera; questo carattere annuncia da una parte ogni sorta di ingiustizie, e dall’altra ogni sorta di sventura e di dispiacere della vita.
L’uomo dolce non commetterà che mancanze lievi in società.
L’uomo virtuoso che non è dolce e che ci ha urtato con la sua rudezza, non può riconciliarsi con noi grazie alla pratica delle altre virtù. E’ nobile e generoso, ma noi non siamo l’oggetto della sua benevolenza; mantiene le promesse, ma noi non abbiamo preso alcun impegno con lui.
I vizi ingiusti eccitano il nostro odio e lo giustificano, ma quanto ai difetti, sembra che abbiano diritto alla indulgenza delle persone che hanno della dolcezza nei rapporti umani.
L’uomo dolce si trova facilmente contento degli altri, e ciò è il vero segreto per farsi apprezzare lui stesso.
Che sarà di una assemblea dalla quale sia stato bandito lo spirito della dolcezza? Sarà una assemblea di uomini che non sanno che temersi, combattersi ed odiarsi.
Le persone dolci riescono più facilmente delle altre a convenire nella discussione di una questione.
Senza questa dolcezza, le dispute invece di chiarire le questioni non servono che a inasprirle, ad alienare gli spiriti.
L’uomo dolce fa ordinariamente parlare la lingua del cuore, lingua ben superiore e ben più eloquente di quella dell’ingegno.
In un conflitto di opinioni, l’uomo dolce è ben più vicino al vero di colui che si lascia trasportare dalla collere, o da qualche altra passione.
Dicendovi “io non sono ancora della vostra opinione”, l’uomo dolce disputa poco, vi lascia la vostra opinione, e non vi toglie la speranza di accettarla, un giorno; così non ferisce l’amor proprio.
La misura della stima che si ha per l’uomo dolce dà la misura di quanto si cerca di piacergli e di farsi apprezzare da lui.
L’uomo dolce durante la disputa prende i colpi e non li restituisce. Egli ci insegna che la differenza di opinioni non deve turbare il buon ordine della società: spesso bisogna solo darsi credito gli uni con gli altri per qualche tempo, per pensare un giorno allo stesso modo.
Il vantaggio dell’uomo che ha dei costumi dolci è che sembra agire secondo la volontà altrui, quando non fa che accontentare se stesso.
La compiacenza che noi abbiamo verso l’uomo dolce è il frutto delal compiacenza che lui ha verso di noi.
La dolcezza è una via più sicura per conquistare la maggior parte degli uomini, più sicura della via dei favori.
L’esempio di Socrate presso gli antichi e di San Francesco di Sales presso i moderni ci dimostra che la dolcezza può conquistarsi ad un livello altissimo, malgrado un temperamento brusco e petulante. E’ vero che occorrono coraggio e costanza per rilevare, durante cinque o sei mesi, i minimi moti d’impazienza che precedono una collera vergognosa, poiché irragionevole.
La dolcezza che procura all’uomo la calma e la tranquillità, tiene il suo spirito preparato a gustare giorno dopo giorno i piaceri innocenti, sia della vita campestre sia della vita della capitale, ognuno nella sua condizione.
Senza questa calma, frutto naturale della dolcezza, nello spirito non c’è che agitazione, ansia per i mali futuri, dolore per i mali presenti, una sorta di febbre continua, per cui senza dolcezza non c’è felicità, e più si è dolci, più si è felici: “Beati mites”.
Poiché non è possibile avere una grande dolcezza senza avere molte virtù, non si raccomanderà mai troppo ai bambini la pratica della dolcezza.
Se sono molto dolci, si guarderanno bene dall’offendere i loro compagni.
Se saranno molto dolci, perdoneranno facilmente le offese che riceveranno dai loro compagni.
Se daranno molto dolci, saranno sempre disposti alla piacevolezza.
Quale accordo c’è nei rapporti umani, quando non si teme di essere offesi e quando si trovano gli altri disposti a farci piacere!

Georges Etiévant, Dichiarazioni

Etiévant in una stampa popolare

Un vero duro, Georges Etiévant. Il 16 gennaio del 1898 aggredisce con ventidue coltellate un poliziotto, altre sedici le riserva ad un collega che corre a soccorrerlo. Lo portano al posto di polizia, ma si dimenticano di perquisirlo: c’è ancora tempo per un colpo di pistola al secondo agente. Ha trentatré anni. Lo condannano a morte, con pena commutata nei lavori forzati a vita. Gli è andata bene. O male, dipende dai punti di vista. Morirà non troppo tempo dopo.
Un vero filosofo, Georges Etiévant. Qualche anno prima, nel 1892, aveva rubato della dinamite che serviva al più famoso Ravachol. Al tribunale che lo processa presenta una dichiarazione difensiva che è, in realtà, una durissima accusa. Questo giovane tipografo la sa lunga: contesta il diritto stesso di giudicare. Il diritto, si sa, ha una sua rozzezza; per funzionare ha bisogno di categorie che all’occhio del filosofo appaiono fragili, evanescenti. Perché un contratto sia valido, occorre che vi siano dei soggetti, e che questi soggetti restino uguali a sé stessi nel tempo. Perché mai, altrimenti, dovrebbe obbligarmi un contratto, se a firmarlo è stato uno che non sono io – e cioè: un io che non è il mio io attuale? Il diritto ha bisogno del soggetto; ma la filosofia sa che il soggetto è finzione. Il diritto ha bisogno, per giudicare, della responsabilità e della libertà. Anch’esse finzioni. L’imputato Etiévant ha le sue ragioni: quel che facciamo non è che il risultato di ciò che abbiamo percepito e delle reazioni che queste percezioni hanno suscitato in noi. Ho ucciso. Perché? E’ sorto in me un odio, che ha le sue cause. Certo, avrei potuto resistere a quell’odio. L’avrei fatto senz’altro, se avessi avuto in me una forza capace di resistere; se non l’ho fatto, evidentemente quella forza non l’avevo: e di ciò che non ho, non posso essere responsabile. Ecco dunque l’assurdo di ogni tribunale. Per giudicare un uomo, accusa Etiévant, bisognerebbe conoscere alla perfezione le percezioni che hanno agito su di lui e le reazioni che esse hanno suscitato; bisognerebbe, in altri termini, essere quell’uomo. Nessuno può giudicare un altro. Aggiungerei che nemmeno noi stessi siamo in grado di giudicarci, perché il nostro essere ci accade come, fuori di noi, accade la pioggia o il vento.
E’ un uomo contro tutti, Etiévant. Nella seconda parte della sua dichiarazione rivendica il suo diritto di ribellarsi. Con la nascita, acquisiamo il diritto di vivere e di essere felici. Abbiamo polmoni per respirare, occhi per vedere, gambe per camminare. Ma, ecco: nasciamo in un mondo che non ci appartiene. Facciamo due passi, ma dobbiamo arrestarci perché c’è un confine: oltre, è proprietà di qualcuno. Il mondo è stato fatto a pezzi, e questi pezzi appartengono a qualcuno, e questo qualcuno non siamo noi. Il diritto di godere del nutrimento, dell’aria, del sole, della terra, ci viene negato. Lo stesso diritto alla vita viene calpestato. Possiamo sopravvivere solo se ci sottomettiamo ai padroni della terra, se accettiamo le loro condizioni – se accettiamo la schiavitù. Ma noi siamo nati per ben altro. Nascendo, abbiamo acquisito il diritto su tutto, ed in questo consiste la nostra dignità.
C’è ancora spazio, nella dichiarazione di Etiévant, per l’immagine di un mondo libero dallo sfruttamento, dalla proprietà, dalla stratificazione sociale. Una immagine che nella mente del giovane tipografo era circondata e sostenuta dalle certezze della scienza, e che oggi sopravvive in un’area singolare della nostra coscienza inquieta, in cui quel che resta della religione s’incontra con quel che resta della politica.

Traduco da: Georges Etiévant, Declarations, Au bureau des “Temps Nouveaux”, Paris 1898.
______

Nessuna idea è innata in noi: esse ci vengono tutte con l’aiuto dei sensi, dall’ambiente in cui viviamo. Ciò è talmente vero che, se ci manca un senso, non possiamo farci alcuna idea dei fatti corrispondenti a quel senso. Ad esempio, mai un cieco dalla nascita potrà farsi una idea della diversità di colori, perché gli manca la facoltà necessaria per percepire l’irradiamento degli oggetti. Inoltre, seguendo le nostre attitudini, che abbiamo dalla nascita, possediamo, sia in un ordine di idee che nell’altro, una facoltà di assimilazione più o meno grande, che proviene dalla più o meno grande facoltà di ricettività che noi abbiamo su tale soggetto. E’ così, ad esempio, che alcuni apprendono facilmente la matematica ed altri hanno una maggiore attitudine per la linguistica. Questa facoltà d’assimilazione che è in noi può svilupparsi in una proporzione che varia all’infinito di persona in persona, a seguito della molteplicità di sensazioni analoghe percepite.
Ma, così come, se ci serviamo quasi esclusivamente delle nostre braccia, queste acquisteranno più forza, a spese di altre membra o parti del nostro corpo, e diventeranno più adatte a svolgere il loro ruolo, mentre le altre lo saranno meno; ugualmente, più la nostra facoltà di assimilazione si eserciterà in seguito ad una molteplicità di sensazioni analoghe sviluppate in un ordine di idee, più, relativamente all’insieme delle nostre facoltà, presenteremo una forza di resistenza all’assimilazione di idee che provengano da un ordine avverso. E’ così che, se siamo arrivati a credere che tale cosa o tale idea sia vera e buona, qualsiasi idea contraria ci urterà ed opporremo alla sua assimilazione una resistenza molto forte, mentre essa sembrerà ad un altro così naturale e giusta che, in buona fede, non potrà immaginarsi che qualcuno possa pensarla diversamente. Di tutti questi fatti abbiamo esempi ogni giorno, e non credo che se ne contesti seriamente l’autenticità. Posto ed ammesso questo, e poiché ogni azione è la risultante di una o più idee, diventa evidente che, per giudicare un uomo, per giungere a conoscere la responsabilità di un individuo nel compimento di un atto, bisognerebbe conoscere ciascuna delle sensazioni che hanno determinato il compimento di quell’atto ed apprezzarne l’intensità, sapere quale facoltà ricettiva o quale forza di resistenza ciascuna di esse ha potuto incontrare in lui, così come il lasso di tempo durante il quale egli è stato sotto l’influenza di ciascuna prima, di molte poi, e di tutte alla fine.
Ora, chi vi darà la facoltà di percepire e di sentire ciò che gli altri percepiscono e provano, o hanno percepito o provato? come potrete giudicare un individuo se non potete conoscere esattamente la cause determinanti delle sue azioni? E come potrete conoscere queste cause, tutte queste cause, così come la loro reciproca relatività, se non siete in grado di penetrare negli arcani della sua mentalità e identificarvi con lui, in modo tale da conoscere alla perfezione il suo io? Per farlo, bisognerebbe conoscere il suo temperamento meglio di quanto, spesso, si conosce il proprio; di più: avere un temperamento simile, sottomettersi alle stesse influenze, vivere nello stesso ambiente nello stesso lasso di tempo, unico modo per rendersi conto del numero e della forza delle influenze di questo ambiente, comparativamente alla facoltà di assimilazione che queste influenze hanno potuto incontrare in quell’individuo.
E’ dunque impossibile giudicare i nostri simili, a causa della impossibilità in cui ci troviamo di conoscere con esattezza le influenze cui essi obbediscono e la forza delle sensazioni che determinano le loro azioni, comparativamente alle loro facoltà di assimilazione o alla loro capacità di resistenza. Ma se questa impossibilità non esistesse, non non arriveremmo, al massimo, che a renderci conto esattamente del gioco delle influenze cui essi hanno obbedito, dei rapporto reciproci tra loro, della più o meno grande ricettività nel subire queste influenze, ma non potremmo da ciò conoscere la loro responsabilità nel compimento di un atto, per questa buona e magnifica ragione, che la responsabilità non esiste.
Per rendersi conto della inesistenza della responsabilità, basta considerare il gioco delle facoltà intellettuali nell’uomo. Perché la responsabilità esistesse, occorrerebbe che la volontà determinasse le sensazioni, così come esse determinano l’idea, e l’idea l’azione. Ma, al contrario, sono le sensazioni che determinano la volontà, che la fanno nascere in noi e che la dirigono. Poiché la volontà non è altro che il desiderio che abbiamo di compiere una cosa destinata a soddisfare uno dei nostri bisogni, vale a dire a procurarci una sensazione di piacere e ad allontanare da noi una sensazione di dolore, e, di conseguenza, bisogna che queste sensazioni siano o siano state percepite perché nasca in noi la volontà. E la volontà, creata dalle sensazioni, non può essere cambiata se non da nuove sensazioni, vale a dire che essa può prendere un’altra direzione, perseguire un altro scopo, solo se delle sensazioni nuove fanno nascere in noi un nuovo ordine d’idee o modificano in noi l’ordine delle idee preesistente. Ciò è stato riconosciuto da tutti i tempi, e voi stessi lo riconoscete tacitamente, poiché, in definitiva, far perorare davanti a voi il pro e il contro non è provare che sensazioni nuove, che vi giungono attraverso l’udito, possono far nascere in voi la volontà di agire in un modo o in un altro, o modificare la vostra volontà preesistente? Ma, come ho detto all’inizio, se ci siamo abituati, in seguito ad una lunga successione di idee analoghe, a considerare questa cosa o questa idea come buona e giusta, qualsiasi idea contraria ci urterà, e noi opporremo una grande forza di resistenza alla sua assimilazione.
E’ per questa ragione che le persone anziane adottano meno facilmente delle idee nuove, atteso che nel corso della loro esistenze hanno percepito una molteplicità di sensazioni provenienti dall’ambiente in cui sono vissute, e che le hanno portati a considerare come buone le idee conformi alla concezione generale di questo ambiente sul giusto e l’ingiusto. E’ ancora per questa ragione che la nozione di giusto ed ingiusto è variata senza fine nel corso dei secoli e che anche ai nostri giorni differisce stranamente in base da clima a clima, da popolo a popolo ed anche da uomo a uomo. E dal momento che queste diverse concezioni non possono essere che relativamente giuste e buone, dobbiamo concludere che una grande porzione, se non la totalità dell’umanità, sbaglia ancora a questo riguardo. E’ ciò che ci spiega ugualmente perché un argomento che comporta il convincimento dell’uno lascia l’altro indifferente.

Ma, in un modo o nell’altro, colui che l’argomento avrà impressionato non potrà fare in modo che la sua volontà non sia determinata in un senso, e colui che l’argomento avrà lasciato indifferente non potrà fare in modo che la sua volontà non resti la stessa, e di conseguenza l’uno non potrà non agire in un modo e l’altro nel modo contrario, a meno che nuove sensazioni non vengano a modificare la loro volontà.

Benché ciò abbia l’aria di un paradosso, noi non compiamo alcuna azione buona o cattiva, per quanto minima essa sia, che non siamo forzati a fare, atteso che ogni atto è il risultato della relatività che c’è tra una molteplicità di sensazioni che ci vengono dall’ambiente in cui viviamo e la più o meno grande facoltà d’assimilazione che essa può incontrare in noi. O, dal momento che non possiamo essere responsabili della più o meno grande facoltà d’assimilazione che è in noi, relativamente a un ordine di sensazioni o a un altro, né dell’esistenza o dell’inesistenza delle influenze provenienti dall’ambiente in cui viviamo e delle sensazioni che ce ne vengono, più che della loro relatività e della nostra più o meno grande facoltà di ricettività o di resistenza, non non possiamo essere responsabili del risultato di questa relatività, atteso che essa è non solo indipendente dalla nostra volontà, ma anche che essa ne è determinante. Dunque, qualsiasi giudizio è impossibile e qualsiasi ricompensa, come qualsiasi punizione, è ingiusta, per quanto minima essa sia, e per quanto grandi possano essere il bene o il male compiuti.

Non è dunque possibile giudicare gli uomini, e nemmeno le azioni, a meno di avere un criterio sufficiente. Ora, questo criterio non esiste. In ogni caso, non lo si potrà trovare nelle leggi, perché la vera giustizia è immutabile e le leggi cambiano. Per le leggi vale quello che vale per tutto il resto. Se le leggi sono buone, a che deputati e senatori per cambiarle? E, se sono cattive, a che magistrati per applicarle?
Per il fatto stesso di essere nato, ciascun essere ha il diritto di vivere e di essere felice. Questo diritto di andare, di venire liberamente nello spazio, il suolo sotto ai piedi, il cielo sulla testa, il sole negli occhi, l’aria nel petto – questo diritto primordiale, anteriore a tutti gli altri diritti, imperscrittibile e naturale – lo si contesta a milioni di esseri umani.
Questi milioni di diseredati ai quali i ricchi hanno preso la terra – la madre nutrice di tutti – non possono fare un passo a destra o a manca, mangiare o dormire, godere in una parola dei loro organi. soddisfare i loro bisogni e vivere, senza il permesso di altri uomini; la loro vita è sempre precaria, alla mercé dei capricci di coloro che sono diventati i loro padroni. Non possono andare e venire nel grande dominio umano senza incontrare ad ogni passo una barriera, senza essere fermati con queste parole: non andate in questo campo, appartiene a un tale; non andate in questo bosco, appartiene a questo qui; non cogliete questi frutti, non pescate questi pesci, sono proprietà di quello là.
E se domandano: Ma allora, noi cosa abbiamo? Niente, si risponde loro. Voi non avete niente – e per mezzo della religione e delle leggi si plasma il loro cervello affinché accettino senza mormorare questa evidente ingiustizia.
Le radici delle piante assimilano il succo della terra, ma il prodotto non è per voi, si dice loro. La pioggia vi bagna come gli altri, ma non è per voi che essa fa crescere i raccolti, ed il sole splende per dorare le messi e maturale i frutti di cui non godrete.
La terra gira intorno al sole e presenta alternativamente ciascuna delle sue facce all’influenza vivificante di quell’astro, ma questo grande movimento non si fa a profitto di tutte le creature, perché la terra appartiene agli uni e non agli altri, degli uomini l’hanno comprata con il loro oro ed il loro argento. Ma non quali sotterfugi, dal momento che l’oro e l’argento sono contenuti nella terra con questi metalli?
Come può essere che una parte possa valere quanto il tutto?
Come può essere che, comprando la terra con il loro oro, essi siano proprietari anche di tutto l’oro? Mistero!

E queste foreste immense, seppellite dopo milioni di secoli dalle rivoluzioni geologiche, non possono averle comprate, né averle ereditate dai loro padri, perché allora non c’era ancora nessuno sulla terra! E tuttavia a loro appartiene tutto, dalle viscere della terra e dal fondo dell’oceano fino alle più alte cime dei grandi monti – è stato affinché questo qui potesse dare una dote a sua figlia, che queste foreste un tempo sono cresciute; è stato affinché quell’altro potesse donare un palazzo alla sua amante che hanno avuto luogo le rivoluzioni geologiche. Ed è stato per permettergli di tracannare lo champagne che queste foreste si sono convertire lentamente in carbon fossile.
Ma se i diseredati domandassero: Come faremo a vivere, se non abbiamo diritto a niente? Rassicuratevi, si risponderebbe loro: i possidenti sono brava gente, e se siete un poco saggi e obbedite a tutte le loro volontà, vi permetteranno di vivere, ed in cambio voi lavorerete i loro campi, gli farete dei vestiti, costruirete le loro case, tosare le loro pecore, potare i loro alberi, costruire delle macchine, dei libri; in una parola, procurare loro tutti i godimenti fisici e intellettuali ai quali essi soli hanno diritto. Se i ricchi hanno la bontà di lasciarvi mangiare il loro pane, di bere la loro acqua, dovete ringraziarli infinitamente, perché la vostra vita appartiene a loro nel tempo stesso che le resta.

Voi non avete diritto di vivere che grazie alla loro compiacenza, ed a condizione che lavoriate per loro. Essi vi dirigeranno; essi vi guarderanno lavorare e godranno dei frutti del vostro lavoro, perché ne hanno diritto. Tutto ciò che metterete in opera nella vostra produzione appartiene ugualmente a loro. Quando loro, nati al vostro stesso tempo, domineranno tutta la loro vita, voi obbedirete; mentre loro potranno riposarsi all’ombra degli alberi, poetizzare al mormorio della sorgente, vivificare i loro muscoli nelle onde del mare, ritrovare la salute alle fonti termali, godere del vasto orizzonte sulla cima delle montagne, entrare in possesso del dominio intellettuale dell’umanità e conversare così con i possenti seminatori d’idee, gli infaticabili cercatori dell’aldilà – voi, appena usciti dalla prima infanzia, forzati dalla nascita, cominciare a trascinare il vostro fardello di miseria, dovete produrre perché altri consumino, lavorare perché altri possano vivere nell’ozio, morire di fatica perché altri possano vivere nella gioia.
Mentre loro possono percorrere in ogni senso il grande dominio, godere di tutti gli orizzonti, vivere in comunione costante con la natura e attingere a quella sorgente inesauribile della poesia le più delicate e dolci sensazioni che l’essere possa provare, – voi non avrete per orizzonte che le quattro mura delle vostre mansarde, delle vostre fabbriche, del bagno penale o della prigione; voi, macchine umane la cui vita si riduce a un atto sempre uguale, ripetuto indefinitamente, dovrete ricominciare ogni giorno il turno, fino a che un meccanismo si rompe in voi o, vecchi e logorati, vi si getta in una cunetta, perché non fate più guadagnare abbastanza.
Guai a voi se la malattia vi stronca, se, giovani o vecchi, siete troppo deboli per produrre per i padroni. Guai a voi se non trovate nessuno per cui prostituire il vostro cervello, le vostre braccia, il vostro corpi: cadrete di abisso in abisso; i vostri stracci saranno un crimine, un obbrobrio i vostri crampi allo stomaco, la società intera vi getterà l’anatema e l’autorità, intervenendo legge alla mano, vi griderà: Guai ai senza casa, a chi non ha un tetto per coprirsi la testa, a chi non ha un giaciglio per riposare le sue membra doloranti, guai a chi si permette di avere fame quando gli altri hanno mangiato troppo, guai a chi ha freddo quando gli altri hanno caldo, guai ai vagabondi, guai ai vinti! Essa li picchierà per essersi permessi di non avere niente, mentre tutti gli altri hanno tutto. E’ giustizia, dice la legge. E’ un crimine, rispondiamo noi: ciò non deve essere, ciò deve cessare d’esistere, poiché non è giusto.
Per troppo tempo gli uomini hanno accettato come regola morale l’espressione della volontà dei forti e dei potenti; per troppo tempo malvagità degli uni ha trovato complicità nell’ignoranza e nella vigliaccheria degli altri; per troppo tempo gli uomini sono rimasti sordi alla voce della ragione ed hanno scambiato la menzogna con la verità. Ed ecco la verità: Cos’è la vita, se non un perpetuo movimento di assimilazione e disassimilazione che incorpora agli esseri le molecole della materia sotto le sue diverse forme e che presto li strappa per combinarli in mille nuovi altri modi; un movimento perpetuo di azione e reazione tra l’individuo e l’ambiente naturale circostante, che si compone di tutto ciò che non è lui; questa è la vita. Per la sua azione continua, l’insieme degli esseri e delle cose tende continuamente ad assorbire l’individuo, alla disgregazione del suo essere, alla sua morte.
La natura non fa del nuovo se non con il vecchio, di continuo distrugge per creare, non fa mai uscire la vita se non dalla morte, e bisogna che uccida ciò che è, per dar vita a ciò che sarà. La vita non è dunque possibile per l’individuo che attraverso una sua perpetua reazione sull’insieme degli esseri e le cose che lo attorniano. Non può vivere che a condizione di combattere la disassimilazione che gli fa subire tutto ciò che esiste, attraverso l’assimilazione di nuove molecole che deve chiedere in prestito a tutto ciò che esiste.
Così gli esseri, a qualsiasi gradino della scala degli esseri si trovino, dagli zoofiti fino agli uomini, sono provvisti di facoltà che permettono loro di combattere la disassimilazione dei loro organi incorporando nuovi elementi presi in prestito dall’ambiente in mezzo al quale vivono. Tutti sono provvisti di organi più o meno perfetti destinati ad avvertirli della presenza di cause che possano condurre a una brusca disassimilazione del loro essere. Tutti sono provvisti di organi che permettono loro di combattere l’influenza disorganizzatrice degli elementi.
Perché avrebbero tutti questi organi, se non dovessero servirsene? Se non avessero il diritto di farne uso?
Perché i polmoni, se non per respirare? Perché gli occhi, se non per vedere? Perché un cervello, se non per pensare? Perché uno stomaco, se non per digerire il nutrimento? Sì, è così: per i nostri polmoni, abbiamo il diritto di respirare; per il nostro stomaco, abbiamo il diritto di mangiare; per il nostro cervello, abbiamo il diritto di pensare; per la nostra lingua, abbiamo il diritto di parlare; per le nostre orecchie, abbiamo il diritto di ascoltare; per i nostri occhi, abbiamo il diritto di vedere; per le nostre gambe, abbiamo il diritto di andare e venire.
E noi abbiamo diritto a tutto ciò perché, per il nostro essere, abbiamo il diritto di vivere. Mai un essere ha organi più potenti di quelli che deve avere; mai un essere ha una vista troppo acuta, un orecchio troppo fine, una parola troppo facile, un cervello troppo vasto, uno stomaco troppo buono; delle gambe, delle zampe, delle ali o delle pinne troppo forti.
Così, per le nostre gambe abbiamo diritto a tutto lo spazio che possiamo percorrere; per i nostri polmoni, a tutta l’aria che possiamo respirare; per il nostro stomaco, a tutto il nutrimento che possiamo digerire; per il nostro cervello, a tutto ciò che possiamo pensare e assimilare dei pensieri degli altri; per la nostra facoltà di parola, a tutto ciò che possiamo dire; per le nostre orecchie, a tutto ciò che possiamo ascoltare, e abbiamo diritto a tutto ciò perché abbiamo diritto alla vita e tutto ciò costituisce la vita. Sono qui i veri diritti dell’uomo! Nessun bisogno di decretarli: essi esistono, come esiste il sole.
Essi non sono scritti in alcuna costituzione, in alcuna legge, ma sono scritti con caratteri incancellabili nel gran libro della natura, e sono imperscrittibili.
Dall’acaro all’elefante, dal filo d’erba fino alla quercia, dall’atomo fino alla stella, tutto lo proclama. Ascoltate la grande voce della natura; essa vi dirà che tutto in essa è solidale, che il movimento generale eterno, che è la condizione della vita nell’universo, si compone del movimento generale eterno di ciascuno dei suoi atomi, che è la condizione della vita di ciascuna delle creature.
I movimenti delle creature infinitamente piccole come quelli delle creature infinitamente grandi si ripercuotono e reagiscono indefinitamente gli uni sugli altri. E, poiché tutto reagisce su di noi, noi abbiamo diritto a reagire su tutto, poiché abbiamo il diritto di vivere, e la vita è possibile solo a questa condizione.
Per il fatto stesso di essere nati, noi diventiamo comproprietari dell’universo intero, ed abbiamo diritto a tutto ciò che è, a tutto ciò che è stato ed a tutto ciò che sarà. Ognuno di noi acquista dalla nascita il diritto a tutto, senza altri limiti che quelli che la natura stessa gli ha posto, vale a dire il limite delle sue facoltà di assimilazione.
Ora, voi dite: E’ mio questo campo, è mio questo bosco, è mia questa sorgente, sono miei questo stagno, questa prateria, questo raccolto, questa casa; a voi, io rispondo: Quando farete in modo che la vostra proprietà, frazione di questo grande tutto che, con la sua azione costante sui miei organi mi spinge, come fare anche voi, verso la tomba, cessi di spingermi, io riconoscerò in voi i soli ad avere il diritto di goderne.
Quando farete in modo che le influenze disgregatrici della natura agiscano solo su di voi, voi solo avrete il diritto di attingere dalla natura ciò con cui compensare quello che la natura vi toglie. Ma fino a quando l’umidità agirà su di me come su di voi, la sorgente e lo stagno saranno miei come vostri.
Finché non riuscirete a impedire al calore del sole di farmi traspirare come voi, esso maturerà frutti e raccolti per noi come per voi.
Sapete che un uomo di vent’anni non ha in lui una sola delle molecole che lo costituivano dieci anni prima; così, quando farete in modo che, sia per la pioggia che per il vento o in qualsiasi altro modo, ciò che è stato mio non s’incorpori alle vostre proprietà, voi avrete il diritto di impedirmi di incorporare a mia volta ciò che mi viene dalle vostre proprietà.
Ma, poiché non avrete potuto fare in modo che noi, i senza parte, i paria, viviamo senza assimilare costantemente gli elementi che prendiamo nel grande tutto, noi avremo diritto come voi a questo grande tutto ed a ciascuna delle sue parti, perché noi siamo nati come voi, siamo simili a voi, abbiamo degli organi e dei bisogni come voi, abbiamo diritto alla vita ed alla felicità come voi.
Se fossimo una specie di animali inferiori a voi, comprenderei questa esclusione: la nostra organizzazione ed il nostro modo di vivere sarebbero differenti; ma, poiché siamo organizzati come voi, siamo uguali a voi ed abbiamo diritti come voi sulla universalità dei beni.
E se mi dite che tale cosa è vostra perché l’avete ereditata, vi risponderò che coloro che ve l’hanno lasciata non avevano il diritto di farlo. Essi avevano il diritto di godere della universalità dei beni durante la loro vita, come noi abbiamo il diritto di goderne durante la nostra, ma essi non avevano il diritto di disporne dopo la loro morte, poiché, così come con la nascita acquistiamo il diritto a tutto, così con la morte perdiamo ogni diritto, perché allora non abbiamo più bisogno di niente.
Con quale diritto quelli che hanno vissuto vorranno impedirci di vivere?
Con quale diritto un aggregato di molecole vorrà impedire alle sue molecole di riaggregarsi in un modo piuttosto che un altro? Con quale diritto ciò che fu vorrà ostacolare ciò che sarà? Perché un uomo che durante la sua vita, che non è stata che un minuto nell’immensità del tempo, ha abitato un angolo di terra, potrà disporne per l’eternità? C’è nulla di più stupido di questa pretesa d’un essere effimero che fa delle donazioni perpetue a degli esseri, a delle istituzioni passeggeri?
Noi non dobbiamo rispettare queste pretese di persone che vogliono vivere quando sono morte, che vogliono avere diritto a tutti i beni, quando non ne hanno più bisogno, e che vogliono disporre dopo la loro morte di cose di cui avevano diritto di disporre solo secondo i loro bisogni durante la loro vita.
E se mi dite che essi avevano diritti di disporne, perché era parte del prodotto del loro lavoro che avevano economizzato, vi rispondo che se essi non hanno consumato tutto il prodotto del loro lavoro, è perché hanno potuto farne a meno; se non ne avevano bisogno, non ne avevano bisogno, e di conseguenza non potevano disporne in vostro favore, e cedervi dei diritti che non avevano.
Il diritto cessa dove si ferma il bisogno.
Ugualmente, se mi dite che quella cosa è vostra perché l’avete comprata, vi rispondo che quelli che ve l’hanno venduta non avevano il diritto di vendervela. Essi avevano il diritto di goderne secondo i loro bisogni, come noi abbiamo il diritto di goderne secondo i nostri. Essi avevano il diritto di alienare la loro parte di godimento della vita, non di alienare la nostra; potevano rinunciare alla loro felicità, non alla nostra, e noi non dobbiamo rispettare delle transazioni che sono avvenute al di fuori di noi e contro il nostro diritto.
La natura ci dice: Prendi, e non: compra. In qualsiasi acquisto, c’è un truffatore e un truffato – uno che trae profitto dalla transazione, mentre l’altro viene leso. Ma se ciascuno prende secondo il proprio bisogno, nessuno è leso, atteso che ciascuno, avendo così ciò di cui ha bisogno, ha anche tutto ciò cui ha diritto.
La transazione commerciale è certamente una delle principali cause di corruzione dell’umanità.
Non è inutile rimarcare a questo riguardo che tutto ciò che nel funzionamento sociale attuale è contrario alle regole della filosofia naturale è, al tempo stesso, fonte di mali e di crimini, e che se tutti gli individui avessero a loro disposizione l’universalità dei beni, ciò che occorre loro per vivere ed essere felici, e cui quindi hanno diritto, i nove decimi ei crimini sarebbero soppressi, perché essi hanno per movente ciò che voi chiamate furto.
Bisogna convincersi bene di questa verità, che dal momento che un uomo vende qualcosa, vuol dire che non ne ha bisogno; che allora non ha il diritto di disporne e impedire a coloro che ne hanno bisogno di impossessarsene, atteso che, per il fatto stesso che ne hanno bisogno, ne hanno diritto!
Come il furto, la prostituzione scomparirebbe con l’applicazione delle nostre teorie filosofiche. Perché mai una donna si prostituirà, quando avrà a disposizione tutto ciò che potrà assicurare la sua esistenza e la sua felicità? E come un uomo potrà comprarla, se non potrà darle che ciò che ella avrà diritto di avere? E così tutti i crimini, tutti i vizi, spariranno perché saranno scomparse le loro cause.
L’essere umano è sano e completo solo grazie al libero esercizio della sua piena volontà.
Da dove vengono la menzogna, la doppiezza, l’astuzia, se non dalla coercizione di alcuni su altri? sono le armi dei deboli, e i deboli vi ricorrono solo perché i forti li costringono a farlo.
La menzogna non è il vizio di chi mente, ma di colui che lo costringe a mentire. Eliminate la costrizione, la coercizione, il castigo, e vedrete se chi mente non dirà la verità.
Che gli uni la smettano di contestare agli altri il diritto alla vita, alla felicità, e la prostituzione, l’assassinio scompariranno, perché gli uomini nascono tutti ugualmente liberi e buoni. sono le leggi sociali che li rendono cattivi e ingiusti, schiavi o padroni, spogliati o spogliatori, carnefici o vittime. Ogni uomo è un essere autonomo, indipendente; è per questo che l’indipendenza di ognuno dev’essere rispettata. Ogni attentato alla nostra libertà, ogni costrizione imposta è un crimine che chiama alla rivolta.
So bene che il mio ragionamento non assomiglia per niente all’economia politica insegnata da M. Leroy Beanlieu, né alla morale di Malthus, né al socialismo cristiano di Leone XIII che predica la rinuncia alle ricchezze in mezzo a cumuli d’oro e l’umiltà proclamandosi il primo di tutti. So bene che la filosofia naturale urta contro tutte le idee ricevute, sia religiose, sia morali, sia politiche. Ma il suo trionfo è assicurato, perché essa è superiore a qualsiasi teoria filosofica, a qualsiasi concezione morale, perché essa non rivendica alcun diritto per gli uni che non rivendichi ugualmente per gli altri, ed essendo assoluta uguaglianza, porta in sé l’assoluta giustizia. Essa non si piega alle circostanze del tempo e del luogo – e non proclama alternativamente buona o cattiva la medesima azione.
Essa non ha nulla in comune con quella morale dalla doppia faccia che ha corso presso gli uomini di questo tempo, e che fa in modo che una cosa sia buona o cattiva secondo le latitudini e le longitudini.
Essa non proclama, per esempio, che il fatto di impossessarsi di una cosa e di non lasciare al suo posto altro che il cadavere del precedente possessore è al tempo stesso cosa orrenda e sublime. Orrenda, se succede nei dintorni di Parigi, sublime se accade a Hué o a Berlino. E poiché essa non ammette punizione né ricompensa, essa non reclama, nel primo caso, la ghigliottina per gli uni, l’apoteosi per gli altri. Essa sostituisce a tutte le innumerevoli e mutevoli regole morali inventate dagli uni per asservire gli altri, e che per il loro stesso numero e la loro stessa mutevolezza dimostrano di essere fragili, la giustizia naturale, immutabile regno del bene e del male, che non è opera di nessuno, ma risulta dall’organismo intimo di ognuno. Il bene è ciò che è buono per noi, ciò che ci procura delle sensazioni di piacere, e poiché sono queste sensazioni che determinano la volontà, il bene è ciò che vogliamo, il male ciò che è cattivo per voi, ciò che ci procura sensazioni dolorose, ciò che non vogliamo. “Fa’ quel che vuoi”, questa è l’unica legge che la nostra giustizia riconosce, perché essa proclama la libertà di ciascuno nella uguaglianza di tutti.
Coloro che pensano che nessuno vorrebbe lavorare, se non vi fosse costretto, dimenticano che l’immobilità è la morte – che abbiamo delle forze da spendere per rinnovarle senza fine, e che la salute e la felicità si conservano solo a prezzo dell’attività -, che nessuno vorrebbe essere infelice o malato, tutti dovranno occupare i loro organi per gioire di tutte le loro facoltà, perché una facoltà di cui non si faccia uso non esiste più ed è una parte di felicità in meno nella vita dell’individuo.
Domani come oggi, come ieri, gli uomini vorranno essere felici, sempre spenderanno la loro attività, sempre lavoreranno, ma, dal momento che il lavoro di tutti produce ricchezza sociale, la felicità di tutti e di ciascuno sarà aumentata, e ciascuno potrà godere così del lusso cui ha diritto, e il superfluo non esisterà più, e tutto ciò che esisterà sarà necessario.
L’uomo non è solo ventre, è anche cervello: ha bisogno di libri, di quadri, di statue, di musica, di poesia, come ha bisogno di pane, d’aria e di sole; ma, così come nella sua consumazione deve essere solo limitato dalla sua capacità di consumare, così nella sua produzione deve essere limitato solo dalla sua capacità di produrre e, consumando secondo i suoi bisogni, non deve produrre che secondo le proprie forze. Ora, chi meglio di lui potrà conoscere i suoi bisogni? Chi meglio di lui potrà conoscere le sue forze? Nessuno; di conseguenza, l’uomo deve produrre e consumare solo secondo la sua volontà.
L’umanità ha sempre avuto la coscienza latente che non sarà mai felice e che tutte le belle qualità della natura umana non potranno sbocciare che nel comunismo.
Così l’età d’oro degli antichi era fondata sulla proprietà comune, e mai è venuto in mente alle nature elitarie che, presso di loro, poetizzavano il passato, che la felicità degli uomini fosse compatibile con la proprietà individuale. Essi sapevano per intuizione o per esperienza che tutti i mali e tutti i vizi dell’umanità derivano dall’antagonismo degli interessi creato dall’appropriazione individuale, non limitata ai bisogni, e mai hanno sognato una società senza guerre, senza omicidi, senza prostituzione, senza crimini e senza vizi, che non fosse ugualmente senza proprietari.
E’ perché noi non vogliamo più né guerre né omicidi, né prostituzione né vizi né crimini, che lottiamo per la libertà e la dignità umana. Malgrado tutti i bavagli, la parola della verità rimbomberà sulla terra, e gli uomini sobbalzeranno nel sentirla; si alzeranno al grido della libertà per essere gli artefici della propria felicità. Noi siamo forti della nostra stessa debolezza, qualunque cosa possa avvenire di noi, vinceremo!
Il nostro asservimento insegna agli uomini che hanno diritto alla rivolta, il nostro imprigionamento, che hanno diritto alla libertà, e dalla nostra morte impareranno che hanno diritto alla vita.
Quando noi torneremo in prigione e voi tornerete alle vostre famiglie, gli spiriti superficiali penseranno che noi siamo i vinti. Errore! Noi siamo gli uomini del futuro e voi siete gli uomini del passato.
Noi siamo il domani e voi siete lo ieri. E non è in potere di nessuno impedire che il minuto che passa ci avvicini al domani e ci allontano dall’ieri. Lo ieri ha sempre voluto sbarrare la strada al domani, ed è sempre stato vinto nella sua stessa vittoria, perché il tempo che ha impiegato a vincere l’ha avvicinato alla sua sconfitta.
E’ lui che ha fatto bere la cicuta a Socrate, che ha fatto abiurare Galilei con la tortura, che ha bruciato Jean Huss, Etienne Dolet, Guglielmo da Praga, Giordano Bruno, che ha ghigliottinato Hébert, Babeuf, che ha imprigionato Blanqui, che ha fucilato Flourens e Ferré. Come si chiamavano i giudici di Socrate e di Galileo, di Jean Huss, di Guglielmo da Praga, di Giordano Bruno, di Etienne Dolet, di Hébert, di Bebeuf, di Blanqui, di Flourens, di Ferré? Nessuno lo sa: sono il passato, erano già morti quando vivevano. Non hanno avuto nemmeno la gloria di Erostrato, mentre Socrate è eterno, Galileo è ancora in piedi, Jean Huss esiste, Guglielmo da Praga, Giodano Bruno, Etienne Dolet, Hébert, Babeuf, Blanqui, Flourens, Ferré vivono.
Saremo felici nella nostra disgrazia, trionfanti nella nostra miseria, vincitori nella nostra sconfitta. Saremo felici qualunque cosa ci capiti, perché siamo certi che al soffio delle idee innovatrici altri esseri arriveranno alla verità, altri uomini riprenderanno la nostra missione interrotta e la porteranno a compimento; infine, che verrà un giorno in cui l’astro che dora le messi splenderà sull’umanità senza eserciti, senza cannoni, senza frontiere, senza barriere, senza prigioni, senza magistratura, senza polizia, senza leggi e senza dio, liberi infine intellettualmente e fisicamente, e che gli uomini, riconciliati con la natura e con sé stessi, potranno, nell’armonia universale, soddisfare la loro sete di giustizia.
Che importa che l’aurora di questo grande giorno sia imporporata dai bagliori dell’incendio, che importa che al mattino di questo giorno la rugiada sia insanguinata!
Anche la tempesta è utile per purificare l’atmosfera. Il sole è più brillante dopo il temporale.
Splenderà, sarà raggiante il bel sole della libertà, e l’umanità sarà felice.
Allora, mettendo ognuno la sua felicità al riparo nella felicità di tutti, nessuno farà più del male, perché nessuno avrà interesse a far del male.
L’uomo libero nella umanità affrancata potrà camminare senza intralci di conquista in conquista, a vantaggio di tutti, verso l’infinito senza limiti dell’intellettualità.
L’enigma moderno: Libertà, Uguaglianza, Fraternità, posto dalla Sfinge della Rivoluzione, una volta risolto – sarà l’Anarchia.

[/read]

Le false domande del burocrate ministeriale

Da qualche anno nella mia pratica di insegnamento (ossia: nella mia pratica didattica ed educativa) faccio uso della maieutica reciproca di Danilo Dolci. In concreto, vuol dire che appena possibile metto le sedie in cerchio e pongo ai miei studenti un tema di cui discutere (spesso lo propongono loro). Le regole semplici della maieutica reciproca vogliono che il conduttore del seminario favorisca la discussione senza assolutamente imporre il proprio punto di vista, o orientarla in una direzione a lui gradita. E’ questa, mi pare, la più grande difficoltà della maieutica reciproca a scuola. Essa richiede una ridefinizione del ruolo del docente. Abituato da sempre a far lezione, deve ora ridursi, farsi da parte: far parlare gli studenti. Non moralizzare, non giudicare. Se sente cose mal argomentate, può invitare ad argomentare meglio; se sente elogiare la mafia, può invitare a spiegare meglio perché la mafia è una cosa buona: ma senza emettere giudizi o condanne.
Alla maieutica reciproca corrisponde una particolare concezione della scuola e dell’educazione. Per la prima, mi piace l’espressione scuola conviviale, pensando sia al Convivio platonico che ad Illich. Quanto alla seconda, confesso che abolirei il termine stesso, sostituendolo con la parola sinagogia, che vuol dire educarsi insieme. Ritengo, infatti, che si abbia il diritto di educare qualcuno ad una sola condizione: quella di lasciarsi al contempo educare. L’educazione non è un’azione che un soggetto compie su un oggetto, ma un movimento comune di due o più soggetti.
Una scuola conviviale è, dunque, una scuola in cui ci sono molte domande e si cercano insieme le risposte. Nella scuola in genere le domande sono domande retoriche. Domande che hanno già una risposta, che è in possesso del docente. Quando un docente fa una domanda, sa già come lo studente dovrà rispondere. C’è la risposta esatta e la risposta sbagliata. In termini psicologici, si può dire che la scuola favorisce il pensiero convergente, non quello divergente. Il che non vuol dire, come potrebbe sembrare, educare all’oggettività, ma abituare al conformismo ed alla pigrizia mentale. E’ la scuola del manuale e del professore come interprete del manuale, che concepisce il sapere come un pacchetto preconfezionato da consegnare allo studente, un boccone da mandare giù senza masticarlo troppo.
Dopo aver insegnato per un anno scienze sociali con questo metodo, ho accompagnato i miei studenti di quinta agli esami di Stato. La seconda prova di scienze sociali (al Liceo delle Scienze Sociali: liceo che dal prossimo anno non esisterà più) prevede che gli studenti svolgano due quesiti a scelta tra quattro proposti. In ogni quesito c’è un testo, seguito da alcuni punti da trattare. Questo è il terzo quesito della traccia di quest’anno:

«Nel dibattito pubblico attuale c’è una parola che ricorre in modo sistematico: visibilità. Non c’è riunione di azienda, pubblica o privata, non c’è riunione all’università o negli organismi sociali in cui non ci si preoccupi di rendere visibile l’azione esercitata o che non ci si dimostri consapevoli della necessità di rendersi visibili per attirare l’attenzione. Non c’è partito politico o dirigente che non se ne prenda cura con puntiglio e continuità. L’insieme delle pratiche sociali si confronta attualmente con le regole, o piuttosto, con le esigenze, spesso paradossali, della mediatizzazione permanente. Nelle società occidentali del XIX secolo l’intimo doveva essere taciuto. In queste stesse società, un rovesciamento dei valori induce oggi ad abbandonarsi a un’esibizione dell’intimo per poter esistere. Nella nostra società l’invisibile vuole dire insignificante e oltre l’inesistente. […] Il visibile e l’immagine fanno indietreggiare l’invisibile, che da quel momento è screditato, ritenuto inutile.»
Nicole AUBERT e Claudine HAROCHE, Essere visibili per esistere: l’ingiunzione alla visibilità, in N. AUBERT e Cl. HAROCHE (a cura di), FARSI VEDERE. La tirannia della visibilità nella società di oggi, Giunti Editore, Firenze-Milano 2013
Esponi le tue riflessioni sul testo sopra riportato e rispondi alle seguenti domande:
– come e perché l’esigenza di visibilità ha assunto nella nostra società un’importanza fondamentale?
– si può parlare di una domanda di legittimità e/o di riconoscimento?
– è solo negativa l’esigenza di visibilità?
– al cartesiano “Penso, dunque sono” si è sostituito un “Mi vedono, dunque sono”?

Ecco all’opera la scuola trasmissiva. C’è un testo di due sociologi che presenta una tesi che, come ogni tesi nel campo delle scienze sociali, si può e si deve discutere. Se si fosse proposto semplicemente agli studenti di analizzare e commentare la traccia, sarebbe stato un ottimo esercizio. Ma chi ha pensato la traccia voleva qualcosa di diverso. Non voleva che gli studenti ragionassero per conto loro, usando anche le cose studiate, sul testo proposto. Aveva invece in mente uno svolgimento del quesito: il suo. Le quattro domande che seguono il testo non sono vere domande. Servono a indirizzare lo svolgimento in una certa direzione. Se le prime due domande paiono legittime, la terza già contiene una tesi (la visibilità è anche positiva), mentre l’ultima è un invito a consentire senz’altro con la tesi, peraltro tutt’altro che originale e piuttosto moralistica, del burocrate ministeriale: al cogito si è sostituito il “mi vedono, dunque sono”. Ho anche l’impressione che il burocrate (che dimentica, se non altro, l’esse est percipi di Berkeley) non abbia troppa stima dei nostri studenti, perché la “riflessione” proposta e così accuratamente favorita ha l’aria più di una chiacchiera televisiva che di una approfondita analisi sociologica. 

L’inferno e l’ossessione della violenza

André Gonçales, L’Inferno
Una delle domande più tormentose della filosofia – che è la disciplina che si occupa delle domande tormentose: e che è, per questo, una disciplina in via di estinzione – può essere così formulata: ammesso che si riesca a capire, per qualche via, cos’è il bene, ed a distinguerlo nettamente dal male, per quale ragione dovremmo fare il bene e non fare il male? Perché, insomma, dovremmo essere buoni?
Un primo modo per rispondere a questa domanda consiste nel dire che chi fa il bene è felice, mentre chi fa il male si condanna all’infelicità. E’ quello che sostiene Socrate nel Gorgia platonico: “Io dico che chi è onesto e buono, uomo o donna che sia, è felice, e che l’ingiusto è malvagio e infelice” (470E; trad. G. Reale). Una tesi che contesta con veemenza il sofista Callicle, per il quale bene è “lasciar crescere i propri desideri il più possibile” (491E) e “togliersi il gusto di tutto ciò di cui continuamente gli possa venir voglia” (492A), fare quello che si vuole senza curarsi del bene e del male.

Socrate è l’eroe della filosofia occidentale, almeno fino a Nietzsche. Da Nietzsche in poi, le tesi di Callicle hanno preso decisamente il sopravvento. Che essere buoni serva ad essere felici è oggi una tesi decisamente debole; di più: alla filosofia l’uomo buono pare sospetto. Bisogna interrogarlo sulla sua bontà, fare la genealogia delle sue inclinazioni, scoprire il male dietro la sua facciata buona. L’uomo buono, in pace con sé stesso, è un brav’uomo, uno superficiale e mediocre, un borghesotto che non è mai cresciuto abbastanza da fare i conti con la sua stessa ombra.
Tra i non molti sostenitori della tesi socratica c’è papa Francesco, che nell’udienza generale dello scorso 11 giugno, parlando del timore di Dio, ha dichiarato: “Quando una persona vive nel male, quando bestemmia contro Dio, quando sfrutta gli altri, quando li tiranneggia, quando vive soltanto per i soldi, per la vanità, o il potere, o l’orgoglio, allora il santo timore di Dio ci mette in allerta: attenzione! Con tutto questo potere, con tutti questi soldi, con tutto il tuo orgoglio, con tutta la tua vanità, non sarai felice.” Può succedere, naturalmente. Anzi, succede spesso. Il mondo è pieno di persone ricche e potenti che sono infelici. Ma non va meglio con i buoni, ammesso che esistano da qualche parte. Per quelli della mia generazione, ci sono due figure emblematiche per l’uno e l’altro caso. Una è quella di Raul Gardini, il potentissimo imprenditore che si suicidò nel 1993, in seguito ad una storia di tangenti. L’altra è quella, nobilissima, di Alex Langer, il politico che si suicidò nel 1995, a conclusione di una vita spesa per il dialogo e la pace. Nel computer di Langer, dopo la sua morte, è stato ritrovato un file con una serie di domande che mettono a nudo la sua purezza morale, ma anche il tormento della sua coscienza. Tra queste: “Vivresti effettivamente come sostieni che si dovrebbe vivere?”. E: “Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?”. Domande che dicono quanto sia difficile, oggi, vivere socraticamente. La voce di Callicle-Nietzsche ormai è interiorizzata, diventa l’intima inquietudine dell’uomo buono mai sicuro della sua bontà.
Probabilmente nemmeno il papa crede davvero alla tesi socratica, se subito dopo, in quell’udienza, sente la necessità di puntellarla con una seconda tesi. I buoni sono felici e i cattivi infelici, ma non solo; i cattivi, si sappia, andranno all’inferno. Nulla di nuovo: è a dottrina cattolica. Il discorso ha fatto parlare, però, perché papa Francesco, questa volta, ha individuato i cattivi nei corrotti, nei trafficanti di uomini e nei fabbricanti di armi. E’ sicuramente un segno positivo che i cattolici siano giunti ad individuare il male nella corruzione e della progettazione della guerra, dopo che per secoli se la sono presa con gli eterodossi, gli atei ed i ragazzini che si masturbavano. Meglio tardi che mai. Ma il discorso di papa Francesco fila? Direi di no.
Delle due l’una: o chi fa il bene è felice e chi fa il male è infelice, o chi fa il bene è infelice, ma può consolarsi pensando che otterrà una ricompensa nell’aldilà, mentre i malvagi saranno puniti. Se il bene è autogratificante, per così dire, non c’è alcun bisogno di credere o sperare nel paradiso e nell’inferno. Ma c’è un altro problema, più grave. Non si tratta della non esistenza dell’inferno, ma della sua desiderabilità. Ammettiamo pure che esista l’inferno, ossia un luogo in cui, come insegna la dottrina cattolica, i cattivi vengono puniti in eterno per il male che hanno fatto. E’ desiderabile un esito simile, una simile uscita dalla storia? E’ desiderabile che, a compimento della vicenda umana, si abbia in eterno la distinzione tra i buoni ed i cattivi? Il teologo Vito Mancuso, commentando il discorso di papa Francesco su la Repubblica del 13 giugno, sostiene che si tratta di “una convinzione universale”, e cita il Libro dei morti egiziano. E’ vero, il bisogno di vedere il bene premiato ed il male punito è un bisogno universale. E’ un bisogno che attraversa tutta la Bibbia e la inquieta. Perché l’ingiusto prospera e il giusto soffre? E’ la domanda di Qohelet e di Giobbe. Ed è interessante notare che alla domanda di Giobbe Dio non risponde mostrandogli la sua giustizia e ragionevolezza, ma al contrario umiliandolo, mettendo a nudo la sua pochezza nell’economia dell’universo. La sua risposta, cioè, è: chi sei tu per fare questa domanda?
Ma c’è un’altra aspirazione cui forse possiamo riconoscere una qualche universalità. E’ l’aspirazione a portarsi in una posizione di prossimità nei confronti di chi opera il male, di vedere anche in lui un fratello, di desiderare il suo bene e la sua felicità nonostante il male che ha fatto a noi stessi. E’ l’aspirazione che costituisce il momento più alto del Vangelo e ne fa un testo nobile anche per il non credente. E’ l’aspirazione che, cinquecento anni prima di Cristo, fa dire al Buddha che, nel caso in cui del malfattori ci facessero a pezzi, noi ci rivolgeremo loro “con una mente intrisa di gentilezza amorevole e, a partire da quella persona [chi ci sta facendo a pezzi], pervaderemo il mondo con una mente intrisa di gentilezza amorevole, una mente immensa, grande, incommensurabile, priva di inimicizia e priva di malevolenza” (Kakacupamasutta, trad. F. Sferra).
Ora, per chi giunga a questa percezione l’idea dell’inferno è intollerabile. Che qualcuno, per aver operato il male, debba essere condannato in eterno, soffrire senza fine e senza possibilità di evoluzione, è un’idea che non dà pace e soddisfazione, ma tormento all’uomo buono. La bontà radicale – la bontà della mente immensa del buddhismo o dell’amore del nemico evangelico – non tollera alcuna separazione dei buoni dai cattivi, poiché la separazione stessa è diabolica, è male: è una ferita che non consente di parlare di salvezza, né di compimento.
Chiedere l’inferno, la resa dei conti, sia pure per i fabbricanti di armi, rivela una concezione del bene per smontare la quale non occorre l’acume genealogico di un Nietzsche. Non è difficile scorgere in un angolo il rancore, la rabbia, la voglia di rivalsa: la violenza. E’ importante riflettere sul fatto che la nostra più o meno universale aspirazione alla giustizia è stata frustrata da una più o meno universale pratica della violenza. Per l’Occidente cristiano la tentazione di mandare qualcuno all’inferno prima del tempo è stata irresistibile: la nostra storia è una storia di guerre, di massacri, di esecuzioni. C’è motivo di credere che la dissacrazione dell’altro, implicita nella convinzione che alcuni, alla fine dei tempi, abbiano in destino di essere torturati in eterno, abbia qualcosa a che vedere con questa tradizione di violenza, dalla quale dovremo cercare di liberarci (e forse la domanda più importante della filosofia – questa disciplina in estinzione – oggi è: da dove viene la violenza da cui siamo ossessionati? e come possiamo liberarcene?).

Articolo apparso su l’Attacco del 19 giugno, con il titolo Il confine tra bene e male e la difficiloltà (oggi) di vivere socraticamente.

Materialismo mistico

Se dovessi sintetizzare con un’espressione la visione cui sono giunto, nessuna mi sembrerebbe più efficace di questa (pur con i limiti di tutte le definizioni): materialismo mistico. Materialismo, perché non credo in nessuna essenza o sostanza spirituale. Non credo in Dio, non credo nell’anima, non credo negli angeli e nei demoni. Credo che la cosiddetta materia sia tutto quel che c’è, e che il pensiero non sia che un suo epifenomeno, ed in nessun modo una sostanza separata ed autosufficiente. Non credo nella vita dopo la morte, nel paradiso e nell’inferno; non credo nemmeno nel karma e nella rinascita.
D’altra parte, sono ben lontano dal considerare la materia al modo del senso comune: come la solidità delle cose, la pesanteur – il corpo, anzi i corpi. A voler essere paradossali, si potrebbe dire che la materia non è nulla di materiale, senza per questo diventare qualcosa di spirituale. La base materiale delle cose è sostanziata di vuoto. Vuoto è gran parte dell’atomo, vale a dire la struttura di tutto quello che esiste. Ogni cosa che vediamo è tessuta di vuoto. Ogni scena che vediamo non è che una interpretazione dovuta alla opacità dei nostri organi di senso. Vedo questa scrivania, questo muro, questa finestra, l’albero sul balcone e le rondini che volano nel cielo di giugno perché non sono in grado di percepire l’autentica struttura delle cose, vale a dire gli atomi. Se potessi farlo, nulla più di tutto questo esisterebbe. Scomparirebbe il mondo, ma scomparirebbe anche l’io. Perché l’io non è che il correlato del mondo. L’io esiste come soggetto che percepisce il mondo; la materialità delle cose, comunemente intesa come solidità e forma, è la membrana esteriore che lo sorregge e gli permette di esistere. 
Ecco dunque la base più solida del misticismo. Non Dio, non una qualsiasi entità spirituale trascendente, ma la stessa base delle cose, la natura vuota della materia. Considerare l’essere vuoto delle cose suscita un grande terrore. L’io si ritrae con spavento. Oltre questo spavento, c’è la liberazione.

9 maggio, venerdì

Aprile ci ha traditi, con le sue nuvole il suo freddo le sue piogge, ma a maggio l’aula non ci trattiene. Ci troviamo un posto nell’erba, in un angolo all’ombra. L’erba è stata tagliata da poco, c’è un buon odore di camomilla. Seminario maieutico. Il cerchio è imperfetto, perché qualcuna non se la sente di sedersi nell’erba, ha paura di sporcarsi i jeans o di essere presa d’assalto dagli insetti o dalle lucertole; ma va bene anche così. Il tema è: quali sono le nostre paure? Lo hanno scelto loro. E vengono fuori una ad una, le nostre paure: di morire, di soffrire, ma anche di fare del male agli altri; ed ancora: di deludere o di non essere all’altezza delle situazioni. La nostra fragilità, messa lì sul prato, appoggiata sull’erba tagliata da poco, sulla terra odorosa di camomilla, quasi non fa paura. Cosa possiamo fare?, chiedo. Ma la risposta è già lì. Quello che possiamo fare lo stiamo già facendo. 

Per essere una città, non un omile

Articolo pubblicato su Stato Quotidiano.
Sul suo blog Lettere Meridiane Geppe Inserra scrive una lettera aperta ai candidati a sindaco ed ai loro elettori, invitandoli alla lettura di Danilo Dolci, “uno dei più straordinari pensatori e intellettuali cui il nostro Paese abbia dato i natali”. Poiché ho dedicato allo studio di Dolci, e più in generale della nonviolenza, non pochi anni della mia vita, vorrei provare a ragionare sulla situazione attuale della città e sulle sue prospettive future dal punto di vista della filosofia-prassi della nonviolenza; farò poi quattro proposte a chi si candida a guidarla nei prossimi anni.
Come ricorda Inserra, Danilo Dolci distingueva la città dall’omile. Con quest’ultimo termine indicava la degenerazione della città che si verifica quando le persone non stanno davvero insieme, ma semplicemente si ammassano un uno stesso luogo; vivono l’uno accanto all’altro, ma ognuno pensa a sé. La città diventa omile quando perde lo spazio pubblico, la democrazia vera, la gentilezza, la civiltà, la forza dei legami interpersonali.
Sono d’accordo con Geppe Inserra quando scrive che Foggia è “sempre meno città, sempre più omile”. Si tratta di una degenerazione che colpisce non solo la nostra città, ed è anzi legata allo sviluppo del capitalismo, con la mercificazione dei rapporti umani, l’egoismo crescente, la diffusione di non-luoghi spersonalizzanti (il centro commerciale che prende il posto della piazza). Basti pensare a quello che accade a Verona, una città il cui sindaco vieta, pena una multa, di offrire cibo ai clochard. Una città in cui si vieta ad un essere umano di dare da mangiare ad un altro essere umano che ha fame non è più una città. Ha smarrito quei tratti di civiltà, di urbanità che da sempre si associano alla città. Il modo in cui si trattano coloro che sono ai margini è un segno sicuro della degenerazione di una città in omile.
La tradizione nonviolenta ha un modo piuttosto semplice per valutare l’efficacia dei programmi politici ed economici. Il criterio più diffuso per valutare la crescita di una comunità è il PIL, la ricchezza complessiva. Ma il PIL non ci dice nulla sulla distribuzione di questa ricchezza: può essere (come in effetti è) che della maggiore ricchezza si avvantaggino solo alcuni. Per Gandhi bisogna invece considerare non la ricchezza complessiva, ma la condizione di coloro che stanno peggio. L’orizzonte della nonviolenza è quello di tutti; se uno solo resta escluso, c’è ingiustizia e violenza. Nel programmare politiche economiche bisogna partire da chi sta peggio. Gandhi coniò un termine per questo obiettivo: sarvodaya, benessere di tutti.
A Foggia non è difficile individuare chi sta peggio. E’ una città in cui molti, moltissimi soffrono; molte famiglie vivono ben al di sotto della soglia di povertà, molti bambini crescono in grotte al di sotto del livello stradale, mentre altri vivono nei container. Le loro condizioni sono peggiorate negli ultimi anni, un po’ per la crisi economica che ha colpito i deboli più degli altri, un po’ per l’indifferenza della classe politica.
Vengo alle proposte ai candidati.
Prima proposta. Dare una casa alle persone che da più di dieci anni vivono nei container di Campo degli Ulivi ed alle famiglie che occupano le grotte nel Quartiere Settecentesco, requisendo le case sfitte. E’ una soluzione legalmente praticabile, come dimostra la vicenda giudiziaria di Sandro Medici, Susi Fantino e Andrea Catarci, presidenti dei municipi romani che nel 2007 hanno requisito 250 case sfitte per darle a chi non aveva casa, e che sono stati assolti con sentenza confermata in Cassazione. Si tratta di attuare la Costituzione.
Seconda proposta. In una città come Foggia, con gravissimi problemi sociali, l’assessorato-chiave è quello ai servizi sociali. Non si può dire che negli ultimi anni questo ruolo delicatissimo sia stato ricoperto da persone preparate, in possesso di competenze sul campo e capaci di visione progettuale. La seconda proposta è dunque quella di affidare l’assessorato ai servizi sociali non ad un politico, ma ad un operatore sociale che abbia lavorato negli ultimi anni a contatto con le situazioni di bisogno e di marginalità. Le persone non mancano, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Terza proposta. Dolci ha descritto e denunciato il sistema clientelare, ossia lo scambio di favori tra politico ed elettore che nella realtà siciliana (e non solo) coinvolge anche la mafia (per questo parla di sistema clientelare-mafioso). A Foggia per molti il voto è questo: uno strumento per ottenere qualcosa. Si tratta di una miseria alimentata da politicanti abilissimi nello sfruttare lo stato di bisogno, capaci di costruirsi vere e propri feudi elettorali nei quartieri più poveri. Il politico è in fondo disprezzato: è il porco che va al municipio per mangiare, ed a cui si può spillare qualche favore.
Per cambiare questa mentalità è indispensabile inaugurare una nuova prassi di trasparenza e di confronto. Occorre che il politico si presenti costantemente al giudizio dei cittadini, che gli dia conto del suo operato ed ascolti le sue richieste o proteste. La proposta è, dunque, che chi si candida si impegni, in caso di elezione, a tenere mensilmente o ogni due mesi un incontro pubblico in ogni quartiere, e segnatamente nei quartieri più poveri (Quartiere Settecentesco, Candelaro, Borgo Croci), per comunicare le cose fatte, ascoltare le esigenze, raccogliere le proteste.
Quarta proposta. Ho detto del peggioramento delle condizioni di vita dei poveri. E’ un peggioramento che porta inevitabilmente ad un certo imbarbarimento, evidente forse nel Quartiere Settecentesco più che altrove, e nei ragazzi più che negli adulti. Chi ne volesse conferma può visitare piazza tavuto, l’infelice slargo in via Crispi, a due passi da Palazzo Dogana, che qualche anni fa i ragazzi del quartiere hanno ridotto in frantumi la notte di capodanno, e che l’amministrazione Mongelli non ha voluto ricostruire.
Non conosco che due modi per reagire all’imbarbarimento. Il primo è migliorare le condizioni economiche e di vita, cosa che si potrà fare (almeno come primo passo) dando una casa a chi languisce in una grotta o in un container. Il secondo è l’educazione. La mia quarta proposta è quella di impegnarsi a combattere l’imbarbarimento e il degrado dei quartieri più poveri realizzando strutture educative e culturali: doposcuola, biblioteche di quartiere, centri per l’apprendimento e l’educazione degli adulti, centri sociali. Un assessore ai servizi sociali competente, come quello auspicato, lavorerà naturalmente in questa direzione: ma non potrà far nulla, se non vi sarà l’impegno dell’intera amministrazione a sostenerlo con le necessarie risorse economiche.
Su queste quattro proposte chiedo ai candidati di prendere pubblicamente posizione nei modi che preferiscono.

24 aprile, venerdì

Poco fa, mentre Happy faceva i suoi bisogni, un ragazzino sulla bici all’amico: “Io lo conosco, salsiccia”.
Quando avevo tredici o quattordici anni conoscevo un tale che chiamavano salsiccia. Aveva un po’ la faccia da fesso, e per questo lo chiamavano salsiccia. Poi crebbe, e il fatto di avere la faccia da fesso ed essere chiamato salsiccia cominciò a fargli male. Si fece crescere i capelli, ma restava la faccia da fesso. Allora divenne metallaro, con le borchie e tutto il resto. Ma continuavano disperatamente a chiamarlo salsiccia. Allora cominciò a fare a botte con chi lo chiamava salsiccia. Non so com’è andata a finire, ma secondo me lo chiamano ancora salsiccia.
Anche Giuseppe – il mio compagno di banco alle superiori – aveva la faccia un po’ così. Non proprio da fesso: da ragioniere, ecco. Un ragioniere un po’ furbo, con una nuance maliziosa nel ripiegarsi del labbro, ma pur sempre un ragioniere. Ma lui si pensava altro. Era anche lui metallaro, e pensava di essere la reincarnazione di Jimi Hendrix, poiché era nato lo stesso giorno della sua morte. Lo chiamavamo Napoleone, perché era basso, credo. Non gli faceva piacere. Lo faceva soffrire, anzi, la distanza tra quello che voleva essere e quello che era. Tra la sua Selbstdarstellung di musicista rock e la sua quotidianità di ragazzino con la faccia da ragioniere destinato ad un impiego alla Posta. Tra gli assoli di Jimi hendrix e quello che usciva dalla sua chitarra prototipo bianca.
Giuseppe ha risolto la distanza gettandosi dal balcone di casa sua. Se fosse ancora vivo, credo che lo chiamerebbero ancora Napoleone.
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe. 

פֶּסַח

Dio non può morire: se muore, non è Dio. Se muore e risorge, il Dio che risorge non è lo stesso Dio che è morto – è qualcosa di radicalmente altro.
Con la croce, Dio muore, una manciata di secoli prima dell’annuncio di Nietzsche. Il Cristo che risorge è altro: è l’Uomo che si fa Dio. Il senso del cristianesimo è questo: Dio muore e l’Uomo prende il suo posto. Così comincia la storia occidentale, che è storia dell’umanesimo come ateismo.
Pasqua è una festa atea.

Student voice

In occasione della Settimana dell’educazione, che dev’essere una faccenda legata alla visita del papa alle scuole, o qualcosa del genere, nella sala docenti della mia scuola hanno piazzato una scatola con la scritta “La scuola che vorrei”. E’ il contenitore degli elaborati volontari, ed anonimi, degli studenti su quel tema. Poiché la scatola è aperta, chiunque può attingere e leggere. Ed io ho attinto e letto, tra le altre cose, questo biglietto che da solo vale, mi pare, più di tanti tomi di pedagogia:

Come appendice e completamento, valga la conclusione di quest’altro biglietto:

(Ad onor del vero i miei studenti da quando è iniziata la primavera hanno assaporato più di una volta il piacere di far lezione sull’erba.)

Joseph Tusiani e Pasquale Soccio

Joseph Tusiani
Molti anni fa (dodici? tredici?) frequentavo la casa d’un filosofo e scrittore prossimo ai novant’anni, dal profilo reso ascetico dall’età, quasi del tutto cieco. Il mio lavoro – perché di un lavoro si trattava – consisteva nel leggergli i libri e giornali, nel commentarli con lui e nello scrivere ciò che lui dettava; in particolare, nel metter mano ad un brogliaccio dal quale sarebbe venuto fuori un libro sul mito e Giambattista Vico. Sporadicamente, mi capitava di fargli da segretario. 
Una mattina gli lessi una lettera di Eugenio Garin, alla quale si propose di rispondere immediatamente. Ed io avrei dovuto prestargli le mie mani. Ora, le lettere di Garin, scritte da lui o non so da chi, erano ammirevoli per il nitore, l’eleganza, la bellezza della scrittura, oltre che per il contenuto; e Garin era un autore sulle cui pagine avevo passato non poche giornate. La mia scritture invece era, ed è, penosamente contorta, sofferta, esasperata ed esasperante. Insomma, temevo un esito disastroso. E temevo bene: ché il timore mi fece per giunta sudare la mano, e mille sbavature s’aggiunsero a rendere completo il disastro. 
Quel filosofo e scrittore si chiamava Pasquale Soccio. Mi è tornata in mente, quella spiacevole mattina degli anni Novanta, leggendo ora le Lettere di Joseph Tusiani a Pasquale Soccio (1974-1993), pubblicate dalle Edizioni del Rosone per celebrare i novant’anni di Tusiani.

Devo confessare che non ho mai amato molto Tusiani. Persona di straordinaria cultura, ci mancherebbe; grande poeta in latino e grande traduttore in inglese di classici italiani: ma circondato, almeno qui, da quella stessa quasi-santificazione che a molti rendeva antipatico lo stesso Soccio (dimenticato poi rapidamente dopo la morte), da quella piaggeria che in genere si mostra verso la falsa grandezza, e che spesso finisce per mortificare anche la grandezza vera.
Mi piacciono, invece, queste lettere. Mi piace lo stile, accurato senza essere artefatto, ma più ancora la sincerità dell’affetto, la sintonia intellettuale, la sensibilità comune per la terra garganica, con le sue dolcezze e le sue asprezze. La prosa di Soccio voleva essere poesia, e spesso lo era davvero. Qua e là si divertiva a disseminare i suoi scritti di endecasillabi. Tusiani, lettore attentissimo e sensibile, prontamente li ritrova e li segnala in Lucera minore (“Come in regale volontaruio esilio, / nelle sere d’0estate e nei meriggi… / gli occhietti d’oro della camomilla”) e nel libro sul convento di San Matteo. Ma le stesse lettere di Tusiani tendono alla poesia ed all’endecasillabo. Tra tutti, mi sembrano degni di nota questi versi finali d’una lettera in endecasillabi datata New York, 30 giugno 1980:
Ah, non m’è giunta risposta a due lettere
e per due brevi istanti (poi fugati
dalla certezza del tuo vivo raggio)
mi son sentito in luogo oscuro e solo;
ma finalmente, pochi giorni or sono,
di te m’ha scritto novità gioiose
il gran pittore delle mie radici.
Ei ti dirà, se presto tu lo veda,
che la frase blasfema conclusiva
mi fu dettata da malinconia –
quella nebbia sottile e insidiosa
che, grazie alla tua luce che mi salva,
or che ti scrivo più non so che sia.
E’ un endecasillabo anche la firma: Un abbraccio dal tuo Joseph Tusiani.

I nomi e il Nome

Scrive Tommaso da Celano nella Vita prima che Francesco d’Assisi raccoglieva ogni scritto che trovava, anche se di argomento profano, “riponendolo in luogo sacro o almeno decoroso, nel timore che vi si trovasse il nome del Signore, o qualcosa che lo riguardasse”. Ed a chi gli chiedeva come mai conservasse con tale religioso rispetto anche i libri dei pagani,rispose: “Figlio mio, perché tutte le lettere possono comporre quel nome santissimo; d’altronde, ogni bene che si trova negli uomini, pagani o no, va riferito a Dio, fonte di qualsiasi bene” (Tommaso da Celano, Vita Prima, XXIX, 462-463, in Fonti Francescane, Edizioni Messaggero – Movimento francescano, Padova-Assisi 1983, p. 475).
Non è forse esagerato affermare che in quest’abitudine del frate di Assisi
si trova uno dei suoi più alti insegnamenti; un insegnamento che ci è necessario quanto il pane e l’acqua.
Si ricorda, come uno degli episodi più luminosi della vita di Francesco, la sua missione tra i saraceni nel pieno di un conflitto di cui ben si conoscono le asprezze e le crudeltà. In realtà non fu una missione di pace. Francesco non andò dal sultano per parlare con lui: andò a predicare. A portarlo nel campo avverso non fu l’intento di cercare un’intesa, un dialogo con il nemico, ma la ricerca del martirio. Leggendo l’episodio nella Leggenda maggiore di Bonaventura da Bagnoregio si è colpiti piuttosto dalla saggezza e dal buon senso del sultano, che rifiuta la prova propostagli dal frate per la conversione del suo popolo – buttarsi nel fuoco -, e lo rimanda dai suoi, non senza avergli prima offerto del denaro da distribuire ai cristiani poveri.
Il Francesco che raccoglie gli scritti dei pagani ha compiuto un progresso enorme, rispetto al Francesco che aspirava al martirio. Ha compreso una cosa fondamentale: il rispetto del diverso. E’ questo, insieme al meraviglioso sentimento della natura, a fare di lui un uomo (un santo, per chi ha la fede) moderno.
L’Occidente ha mandato al rogo i libri, spaventato dalle verità che contenevano. E dal rogo dei libri si è passati al rogo delle persone.
L’Occidente ha voluto una sola Verità, un solo Libro. In quel gesto di Francesco c’e’ la crisi di ogni fanatismo. Come nel suo splendido Cantico il mondo torna a colorarsi, così in quel gesto torna ad essere possibile il dialogo, l’umano parlarsi ed ascoltarsi.
Dalla violenza contro i libri si passa sempre alla violenza contro le persone; e viceversa: dal rispetto per i libri nasce il rispetto per le persone.
Anche le lettere dei libri pagani possono comporre il nome di Dio, dice Francesco. E se ognuno di noi fosse una lettera? Se il mondo fosse un poema grandioso, composto da tante lettere quanti sono i viventi? Un tale poema non andrebbe inteso come perfettissima opera in endecasillabi e terzine, ma come un libero fluire di significati, pieno di imperfezioni formali, ma pure bello e gioioso nell’insieme.
Racconta ancora Tommaso da Celano che Francesco, quando dettava qualcosa, “non permetteva che si cancellasse alcuna lettera o sillaba, anche se superflua o errata”. E voleva dire, forse, che nessuno è realmente errato, che nessuno va cancellato. Che e’ preferibile un Tutto imperfetto, pieno di lettere fuori posto (o apparentemente fuori posto) ad una Perfezione raggiunta a costo di cancellature, soppressioni, violenze.

Giustizia e diritti

La giustizia, scrive Simone Weil, consiste “nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini” (La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, p. 47). E “viene fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: ‘Perché mi viene fatto del male?'”.
Il diritto, per Weil, è altra cosa. Esso nasce dalla domanda: “Perché l’altro ha più di me?”.
Per Weil bisogna distinguere il grido della giustizia da quello dei diritti: ascoltare il primo e mettere a tacere il secondo “con la minore brutalità possibile, servendosi di un codice, dei tribunali e della polizia” (p. 48). Il che vuol dire che la ricerca dell’uguaglianza, per Weil, dev’essere repressa con la forza dallo Stato.
Ci sono due limiti in questo discorso. Quello più evidente è che mi si fa del male, se le disuguaglianze economiche non mi consentono di vivere una vita degna. Un povero è una vittima, non uno che prova invidia; ed esiste una violenza sistemica che non è meno grave della violenza diretta. Il limite meno evidente è la considerazione del solo essere umano. Anche agli animali viene fatto del male. Anzi, soprattutto a loro. E, se non hanno parola, tuttavia gridano. Non è anche il loro grido un fondamento della giustizia?
(Solita compresenza, nelle pagine di Weil, di idiozie e di cose sublimi. In questo stesso libretto ci sono cose esatte sulla dimensione transpersonale del bene.)

L’educazione è pace

E’ uscito il mio libro L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (Edizioni del Rosone), con una presentazione di Paolo Vittoria, che è anche il direttore della nuova collana Praxis, in cui il libro compare.
Dalla quarta di copertina:
“L’unico modo per favorire il sorgere di future generazioni di persone giuste, vere, democratiche è quello di creare per loro fin d’ora situazioni che siano libere dall’intossicazione del falso, dalla competizione egoistica, dall’ipocrisia, dalla sopraffazione. Gran parte dell’educazione consiste nel far entrare aria pulita – moralmente, intellettualmente pulita – nelle situazioni umane.”

Glasperlenspiel #1

“Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice.”
Giacomo Leopardi, Dialogo di Malambruno e Farfarello, in Operette Morali.
“Analogamente, o monaci, tutto ciò che non è vostro abbandonatelo. Quando lo avrete abbandonato, ciò sarà per voi di vantaggio e felicità per lungo tempo. E cosa non è vostro? La forma materiale non è vostra… La sensazione non è vostra… La percezione non è vostra… Le formazioni non sono vostre… La coscienza non è vostra. Quando avrete abbandonato tutto ciò, ne riceverete vantaggio e felicità per lungo tempo.”
Alagaddupamasutta, in La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori, Milano 2001, p. 248.
“Ma questo come può avvenire?
Elimina ogni cosa.”
Plotino, Enneadi, V, 3, 17, trad. G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, p. 855.

Il culto paradossale della croce

L’Adam era in principio presso Dio, nel paradiso. Il suo peccato è consistito nel mangiare dall’albero del bene e del male. Sono propenso a credere che il peccato non sia consistito nell’aver disubbidito, ma semplicemente nell’atto in sé. Dio, cioè, non minaccia, ma avverte riguardo alle conseguenze di un atto in seguito al quale le cose non saranno più come prima.
Ora, cosa cambia? La conoscenza del bene e del male è esattamente ciò che rende possibile la conoscenza di Dio. Poiché Dio è Bene, è impossibile conoscere Dio senza distinguere il bene dal male. L’atto dell’Adam è dunque ciò che rende possibile il culto di Dio. Ed è questo il peccato. Nel momento in cui l’Adam vede Dio come buono e gli rende culto, il paradiso dell’unità è perso. E comincia la storia.
Morendo sulla croce, Dio si sottrae come Dio-Buono, ossia come Dio tout court. Cerca di porre fine alla caduta dell’uomo distruggendosi come Dio, morendo come Dio: aprendo l’epoca dell’ateismo, ossia dell’essere-in-Dio che rende impossibile ogni culto di Dio. Ma le tenebre, dice Giovanni, non hanno accolto la luce. Ed è cominciata l’epoca del nuovo culto. Il culto, paradossale, della croce, ossia del Dio che è morto. 

Abilitazione

“Il candidato presenta un numero adeguato di monografie originali e organiche. La sua produzione scientifica si occupa principalmente della tradizione del pensiero non violento di ispirazione religiosa nella realtà italiana del XX secolo. In particolare il candidato si è occupato del pensiero e dell’opera di Danilo Dolci e di Aldo Capitini cui ha dedidato due monografie informate e esaustive, in particolare la prima che presenta, accanto ad una ricostruzione storica accurata, una seconda parte interamente dedicata al concetto di maieutica elaborato da Danilo Dolci con chiari riferimenti filosofici al pensiero di Socrate. Inoltre ha preso in esame l’opera del fondatore del pensiero e della pratica della non violenza nel Novecento, il Mahatma Gandhi, con una monografia approfondita e interessante. Presenta altresì traduzioni da Kropoktin e altri interventi su questioni legate alla pratica della non violenza. Il profilo del candidato risulta coerente con i criteri stabiliti dalla commissione nella seduta di insediamento. La commissione dichiara a maggioranza il candidato abilitato alla II fascia di insegnamento di Filosofia Morale.”