Hitler e il vegetarianesimo

Anni fa la lettura del bellissimo The bloodless revolution di Tristam Stuart mi offrì una prospettiva inedita sul vegetarianesimo di Hitler (ma dovrei dire: sull’hitlerismo in generale). Sono tornato sul tema, leggendomi le Conversazioni a tavola di Hitler, per aprire una finestra in un libro che sto scrivendo sul Diavolo e la violenza cristiana.

In questo libro ho parlato del dispositivo diabolico del cristianesimo, cercando di dimostrare i suoi effetti terribili sulla storia dell’Occidente e del mondo intero. Questo non vuol dire, come è naturale, che si tratti dell’unico dispositivo violento dell’Occidente, né che solo l’Occidente abbia dispositivi simili. Come detto nell’introduzione, ritengo che sia urgente ed importante una riflessione sulle radici culturali della violenza, che sono molteplici e in qualche caso intrecciate tra di loro. Di particolare importanza è scoprire radici violente lì dove sono particolarmente occultate; dove pare che vi sia, al contrario, la radice dell’amore e della benevolenza.

Se dovessi citare un caso simile potrei far riferimento all’esaltazione mistica della Natura e delle sue energie, diffusa nei diversi atteggiamenti riconducibili alla sensibilità new age. Una esaltazione che normalmente fa corpo con una fede cieca nelle cure naturali e la convinzione che la malattia non sia che la conseguenza di una qualche forma di alterazione dell’equilibrio naturale. Frequente è anche la scelta vegetariana o vegana, quando non il crudismo.

Una obiezione frequente, nei confronti dei vegetariani, è che anche Hitler era vegetariano. Si obietta che si tratta di un caso particolarmente rozzo di reductio ad Hitlerum e che Hitler era vegetariano non certo per convinzione personale, ma per ragioni di salute. Questo è falso. Hitler era un vegetariano con tendenze crudiste talmente convinto, da desiderare che anche il suo cane da pastore Blondi diventasse vegetariano (p.571). In un certo senso non è falso che fosse per lui questione di salute; ma non si trattava di guarire da qualche disturbo di salute. Hitler considerava innaturale per l’essere umano il consumo di carne e lo associava alla decadenza. I soldati di Cesare, osservava, non mangiavano carne, e così gli antichi vichinghi (p. 114); ed in natura sono più forti e resistenti gli animali vegetariani. In una conversazione sul futuro dell’umanità, dopo aver affermato che le religioni sono destinate al declino, conclude: “Ma c’è una cosa che posso predire a quelli che mangiano carne: il mondo futuro sarà vegetariano” (p.125).

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Antispecisti: nuova specie o nuova setta?

Sono diventato vegetariano nei lontani anni Ottanta, quando di anni ne avevo sedici o diciassette, e nessuno in Italia aveva la minima idea di cosa fossero seitan e tofu. Sono diventato vegetariano per una repulsione verso la violenza sugli animali alimentata dall’aver assistito all’uccisione di maiali e pecore nelle masserie del Gargano, ma è stato decisivo un fattore che era importante per il vegetarianesimo nell’antichità, e che ora sembra scomparso del tutto o quasi: l’ascetismo. In quegli anni studiavo la filosofia indiana, una scoperta decisiva per la mia formazione, e mi ero convinto che fosse necessario, per la mia crescita spirituale, un certo controllo del corpo e delle sue passioni; il vegetarianesimo serviva anche a questo. Confesso che c’era però anche dell’altro, nel mio essere vegetariano in quella prima fase adolescenziale. C’era un certo piacere di distinguermi dalla massa, di affermare la mia singolarità, perfino la mia stranezza, che evidentemente era un momento della mia formazione – autoformazione – individuale.
Mi è tornato in mente quest’ultimo aspetto del mio vegetarianesimo adolescenziale leggendo l’ultimo libro di Leonardo Caffo, giovane filosofo che è tra i punti di riferimento del movimento antispecista italiano: Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi). Per Leonardo Caffo l’antispecismo è una posizione che ha fondamenta solide, difficili da contrastare: “non esistono buone ragioni per il massacro quotidiano di milioni di animali. O almeno, non ne esistono più” (p. 10). Ha ragione. Sul piano razionale, la partita è presto vinta. L’alimentazione dominante nei paesi ricchi è un assurdo etico, ecologico, economico e perfino sanitario. Ma l’essere umano non segue che parzialmente la ragione. Per lo più, il comportamento è il risultato di stimoli che non sono razionali. Ed ecco dunque che l’antispecista, ossia quell’essere umano che cerca di uscire dall’antropocentrismo e considerare il punto di vista dell’animale, si trova ad essere isolato. Raro, dice Caffo (p. 19). Il quale spinge questa singolarità fino a parlare di postumanità ed annunciare “l’alba di una nuova specie” (p. 61). Chi continua a mangiare carne, anteponendo il sapore della cotoletta al rispetto etico della vita non umana, non è solo un soggetto moralmente condannabile. E’ il rappresentante di una umanità che sta per essere superata, la zavorra della specie. Il vegano invece è l’avanguardia della nuova umanità, l’umano che ha conquistato una visione etica superiore, e che per questo non può che distaccarsi dal resto della specie.
In un libro dal titolo simpatico, Il maiale non fa la rivoluzione (Sonda 2013), Caffo, in polemica soprattutto con le istanze politiche dell’antispecismo di Marco Maurizi, aveva avanzato le ragioni di un antispecismo debole, che non associa la causa animale ad altre cause politiche, considerando la lotta per la liberazione animale un momento di una più ampia lotta per la liberazione degli oppressi dal sistema capitalistico, affermando che quella dell’antispecismo “è una lotta non per l’uomo o anche per l’uomo, – ma solo e soltanto per gli animali non umani”. Pur ribadendo il suo antispecismo debole, Caffo si rende ora conto che “il capitalismo è il modo attraverso cui Homo sapiens ha espresso l’antropocentrismo ai danni del pianeta e della diversità” (p,69), per cui l’antispecismo non può che essere anche anticapitalistico: che è come dire che, piaccia o meno, il maiale dovrà farla, la rivoluzione – o almeno dovrà farla qualcuno al suo posto.
Ma come fare la rivoluzione? Il capitalismo è un sistema che si caratterizza per la sua straordinaria plasticità: riesce a trarre vantaggio anche dai suoi oppositori, che se hanno successo hanno anche un mercato. Il capitalismo diversifica l’offerta di beni e servizi: a qualcuno vende la maglia firmata, ad altri la maglia con il volto del Che. Ed ai vegani i prodotti per vegani. La dieta vegana è una tra le tante alternative offerte dal sistema per adeguarsi alla diffusa ideologia del benessere psicofisico: insieme allo yoga, la mindfulness e un bel po’ di roba “olistica”. E’ comprensibile un certo nervosismo di chi è vegano nei confronti di questa appropriazione consumistica di una scelta etica. Probabilmente le conclusioni del libro di Caffo sono il risultato di questo nervosismo. Perché Caffo non dice solo che gli antispecisti rappresentano l’avanguardia di una nuova specie, ma butta giù un progetto per “gestire la speciazione” che è una sorta di vademecum per il postumano vegano, sia pure sotto forma di “esperimento mentale”. Poniamo di essere parte di questa nuova specie. “Come gestiamo questo privilegio?” (p. 92). La risposta è: riunirsi in microcomunità isolate, in sintonia la natura, che seguono uno stile di vita monastico. E così Caffo, che non voleva fare la rivoluzione, né farla fare al maiale, ci conduce nel bel mezzo della controcultura anarco-pacifista, sotto il segno di Thoreau.
Gli ingredienti ci sono tutti. No, non per cambiare il capitalismo, né, purtroppo, per liberare gli animali dallo sfruttamento e dalla riduzione a cose del consumismo. Ci sono tutti gli elementi per creare una setta: la convinzione di essere speciali, diversi, moralmente e spiritualmente superiori agli altri, avanguardia di un nuovo mondo. E’ una cosa che può far sorridere, e che si è tentati di liquidare come antispecismo adolescenziale (l’antispecismo di chi ha bisogno soprattutto di crearsi una identità antagonista), ma non posso fare a meno di considerare, anche, che ricacciare l’altro in una specie inferiore è la premessa di qualsiasi forma di violenza nei suoi confronti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di un antispecista.
Nell’immagine: foto di Timo Stammberger

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 20 dicembre 2017.

Perché è moralmente doveroso non mangiare carne

Sono vegetariano dall’età di sedici o diciassette anni. Erano gli anni Ottanta, ed il vegetarianesimo non era propriamente di moda. Per quello che riesco a ricordare, a spingermi verso quella scelta furono le mie letture di filosofia indiana: la Bhagavadgita, Aurobindo, cose così. A convertirmi al vegetarianesimo è stata, cioè, una motivazione che oggi sembra essere del tutto tramontata: non etica, ma ascetica. Non mangiare carne come forma di rinuncia, di controllo sul proprio corpo e sui propri desideri. Con il tempo questa prima spinta ascetica si è arricchita di motivazioni etiche – risparmiare la vita degli animali, che è dotata di valore – e perfino estetiche (il disgusto per i corpi squartati, per la loro esibizione nelle macellerie, per il tetro allestimento di pezzi di corpi nei piatti). Tra le motivazioni non è mai comparsa quella salutista, che per molti è determinante: sia perché ho l’abitudine di avere convinzioni fondate su conoscenze certe, e non ho conoscenze che mi consentano di affermare con certezza che una dieta vegetariana o vegana è più salutare di una dieta che comprenda la carne, sia perché, per dirla tutta, non mi sono curato mai troppo della mia salute. Ultime sono arrivate le motivazioni politiche, di cui vorrei parlare qui. 

In filosofia morale si distinguono due tipi di azioni: quelle doverose e quelle supererogatorie. Le prime sono quelle che ci si aspetta che tutti compiano; e chi non le compie è colpito dal biasimo (e in qualche caso dalla condanna penale). Le azioni supererogatorie sono invece azioni moralmente ammirevoli, ma che vanno però al di là di quello che si può ragionevolmente chiedere ad una persona media. E’ doveroso pagare le tasse, mentre è un’azione supererogatoria sacrificare la propria vita per il bene di persone sconosciute. Chi lo fa ottiene l’ammirazione di tutti, ma è chiaro che si è trattato di una sua libera scelta, che non obbliga gli altri. La vita del santo si svolge tutta a questo livello, ma è chiaro che i santi vanno venerati, più che imitati. Il problema che vorrei porre è: il vegetarianesimo ed il veganismo che tipo di scelte sono? Sono scelte moralmente doverose o supererogatorie? Ognuno è moralmente tenuto ad essere vegetariano, o è un sacrificio che possiamo lasciare a chi vuole realizzare un suo ideale di perfezione morale? Sono intimamente persuaso, come molti, del valore della vita animale. Se riuscissi a dimostrare al di là di ogni dubbio che la vita animale ha valore, allora la domanda avrebbe una risposta semplice. Se la vita animale ha valore, sopprimerla è un delitto, e dunque il vegetarianesimo/veganismo è moralmente doveroso. Purtroppo, non sono in grado di dimostrare il valore della vita animale. Lo intuisco, ma non so dimostrarlo. Il ragionamento più solido in favore del valore della vita animale mi sembra quello antichissimo del Dhammapada buddhista. Che dice (par. 129): ogni essere vivente ha paura della violenza e della morte e cerca la felicità; per questo, non bisogna uccidere né permettere che altri uccidano. L’animale come me vuole vivere, mostra una volontà di vita, un sì alla vita, che non è diverso dal mio, e che merita rispetto. Ma non sono sicuro di riuscire a difendere questo argomento dalle obiezioni. Mi si potrebbe far notare, ad esempio, che è quella stessa volontà di vita che spinge l’animale, per sopravvivere, a distruggere altre vite. Ed io stesso, quando coltivo l’orto, mi trovo a distruggere esseri viventi che ho arbitrariamente classificato come “erbacce” per far spazio ad altre piante, che soddisfano il mio gusto estetico o il mio palato. Ho parlato di una ragione politica del vegetarianesimo. Una cosa che non sapevo quando sono diventato vegetariano è che essere vegetariani è un modo per affrontare la fame nel mondo. La “fame nel mondo” è, con Auschwitz e l’atomica, uno dei grandi temi umanitari della scuola degli anni Ottanta. Ciclicamente eravamo messi al cospetto di immagini di bambini africani denutriti, per prendere coscienza del nostro benessere e dell’ingiustizia mondiale. Pare che abbia funzionato, almeno con me. Sono pienamente consapevole dell’ingiustizia che è nel nostro benessere, e del legame esistente tra il nostro benessere e la miseria di gran parte del mondo. Il nostro benessere si manifesta, oltre che con uno stile di vita insostenibile (ad esempio l’uso dell’automobile), con un’alimentazione carnea. I paesi industrializzati mangiano una quantità di carne che nessun popolo nella storia ha mai consumato. Per quanto, come ho detto, sia poco in grado di valutare le affermazioni in questo campo, mi pare evidente che i risultati di questo tipo di alimentazione per la salute siano tutt’altro che positivi. Obesità e malattie cardiovascolari sono veri flagelli nei paesi ricchi, e sono ovviamente legati allo stile alimentare. 
Ma il punto è un altro. Il punto è che questo stile alimentare toglie letteralmente il pane di bocca ai poveri. Per produrre una proteina animale occorre consumare una grande quantità di proteine vegetali. E’ un processo ad imbuto, nel quale da un lato di inseriscono i cereali che potrebbero sfamare il mondo intero, e dall’altro fuoriescono le proteine animali che alimentano (e superalimentano) solo il mondo ricco. Se gli allevamenti animali scomparissero, o fossero fortemente ridotti, ci sarebbe terra sufficiente per coltivare cereali ed altri alimenti vegetali sufficienti per dare da mangiare a tutto il pianeta. 
Torniamo dunque alla nostra questione. E’ un principio moralmente condiviso che un’azione che provochi un danno ad un altro essere umano è un’azione moralmente deplorevole, soprattutto se il danno è grave e l’azione è evitabile. Il fatto che questo altro sia lontano non diminuisce la gravità dell’azione. Se io per gioco schiaccio un tasto che fa partire un missile che uccide mille persone in Cina, il mio è un atto immorale. Il fatto che io non veda i mille cinesi – o che i cinesi siano, appunto, cinesi – non rende meno grave la mia azione. Diversa sarebbe la questione se l’atto di uccidere mille cinesi fosse indispensabile per la sopravvivenza mia o dei miei cari o della mia città o del mio popolo. E’ una questione difficile, che però qui non ci riguarda, dal momento che mangiare carne è un atto assolutamente evitabile, senza alcuna grave conseguenza per la salvezza e l’incolumità di chi vi rinuncia. Se dunque la mia azione di mangiare carne è legata alla mancanza di risorse alimentari in grado di sfamare tutti, è per me moralmente doveroso rinunciare alla carne. Si possono fare due obiezioni a questo ragionamento. Qualcuno potrebbe cinicamente obiettare che non gliene importa nulla della vita del bambino etiope, che per lui sono degne di valore solo la vita sua, dei suoi cari e di chi gli è vicino, e che gli altri possono morire. Purtroppo non ho una risposta a questa obiezione. Dovrei dimostrare che la vita umana – di ogni essere umano – ha valore, ma non sono in grado di dimostrarlo, così come non sono in grado di dimostrare il valore della vita animale. Mi pare in generale che sia estremante difficile dimostrare un valore. E’ per questo che quando si parla di valori spesso si giunge alla rissa. Fortunatamente, ho ragione di ritenere che un tale cinismo sia ormai poco diffuso. Molto più diffusa è l’ipocrisia di chi afferma il valore di ogni vita umana solo teoricamente, e solo se non gli costa nulla. La seconda obiezione è la seguente: capisco tutto, sono d’accordo, ma a me la carne piace, e quindi la mangio lo stesso. Non prenderei in considerazione questa obiezione, evidentemente rozza, se non avessi notato che è molto frequente, ed anche in persone tutt’altro che ignoranti. In questo caso la risposta mi sembra abbastanza facile. Immaginiamo che passi una belle ragazza. Mi piace, vorrei possederla. Il mio gusto mi spinge verso di lei. Ho dunque il diritto di fare quello che voglio, o il gusto deve cedere al dovere? E’ evidente che porre il gusto come criterio di scelta del bene e del male porta a conclusioni assurde e socialmente inaccettabili. 
Se quanto detto non è sbagliato, è dunque moralmente doveroso per chiunque viva in un paese ricco mangiare meno carne o non mangiarne affatto. O aggiungere un nuovo senso di colpa ai tanti che affollano la sua coscienza.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 27 maggio 2015.

Perché i ravanelli sì?

Francesco Pullia segnala questo articolo di Claudio Sabelli Fioretti su Io Donna, che presenta una obiezione non infrequente al vegetarianesimo/veganesimo: perché mangiare i vegetali non sarebbe violenza? Ricordo di aver scritto un post sul tema quasi dieci anni fa sul mio vecchio blog, Minimo Karma. Blog che non è più accessibile per l’improvvisa chiusura del server. Grazie a Web Archive sono riuscito a recuperare il post, che ripropongo, dal momento che la mia posizione sull’argomento non è cambiata.


Una sera mi trovavo a casa di un amico molto morale, ecologico, vegetariano e nonviolento: mi stava preparando una cena tutta a base di vegetali. Sul tavolo si allineavano i corpicini gialli, rossi e verdi: carote, pomodori e lattughe. Con le faccine tonde ornate da una lieve barbetta, braccia alzate, fibre vive e gonfie d’acqua, un mazzo di ravanelli agonizzava in un canto: il mio amico ne prese una per le verdi braccine e con un morso ne addentò la rossa testolina. […] Se non bisogna mai uccidere, perché i ravanelli sì?

Questo interrogativo venne posto una decina d’anni fa da Sandro Gindro in un articolo pubblicato su Studi cattolici (389-390, 1993) (e viene citato ora nel bel saggio di Adriano Mariani, Do per cibo il verde dell’erba. Il cristianesimo alla prova della condizione animale, “Quaderni Satyagraha” n. 8, Pisa 2005). Naturalmente la descrizione dei corpicini che agonizzano fa sorridere, ma la domanda non è affatto oziosa. Perché mangiare i vegetali invece degli animali?

La risposta più semplice è che gli animali soffrono ed i vegetali no. E’ una risposta insoddisfacente. Se la sofferenza fosse l’unico argomento contro l’uccisione di animali a scopo alimentare, bisognerebbe approvare l’uccisione indolore di animali allevati in condizioni di vita accettabili. Io sono dell’opinione che vada riconosciuto agli animali un valore intrinseco. Non direi un diritto all’esistenza, perché i soggetti che hanno diritti sono soltanto quelli che fanno parte di una comunità di soggetti giuridici, e questo con ogni evidenza non si può dire degli animali. Proprio per questo, però, si può contestare che gli uomini abbiano il diritto di uccidere gli animali ad uso alimentare. Proprio perché noi possiamo avere diritti solo su chi fa parte di una comunità di soggetti di diritti, non possiamo averne sugli animali, che di tale comunità non fanno parte. Uccidere un animale per cibarsene non è l’esercizio di un diritto, ma un atto di forza. Per trasformarlo in un diritto occorre una metafisica o una mitologia, che attribuisca il creato a Dio e faccia dire a Dio che tutto è finalizzato all’uomo. E’ precisamente la metafisica, la mitologia cristiana e cattolica; la quale anche, ponendo una comunità di uomini ed animali sotto la giurisdizione di Dio, potrebbe consentire di parlare di diritti animali: forse.
Una seconda risposta è che gli animali sono esseri più perfetti dei vegetali. Io contesto questo modo di vedere. Considero vegetali, piante ed alberi gli esseri più perfetti della natura, certamente più perfetti degli animali e dell’uomo. Non c’è nessuno, credo, che non sia stato colto almeno una volta nella vita da un senso di profonda ammirazione al cospetto di un albero; anzi, da un vero sentimento religioso. Non è improbabile, del resto, che alcune tra le prime pratiche religiose siano nate nelle selve, in mezzo a questi esseri meravigliosi. Unici nella natura, i vegetali riescono a vivere senza uccidere altri esseri. Ed a restare immobili, privi di pensiero. Credo che questa condizione – l’immobilità priva di pensiero – sia quanto di meglio possa desiderare un essere tahat ha-shamesh. Non sono lontano dal desiderio di quel poeta zen:

Di tutte le cose del mondo
vorrei essere una patata dolce
appena dissotterrata.

Rinuncerei però all’ultima condizione. Vorrei essere una patata dolce sotterrata, senza il contatto profanante della mano dell’uomo.
E allora: perché i ravanelli sì?
Se fosse possibile una semplice scelta tra vite animali e vite vegetali, sarebbe difficile scegliere. Ma le cose stanno diversamente. La sarcofagia non esclude, anzi implica l’uccisione dei vegetali. La sarcofagia ha bisogno di immensi allevamenti di animali. Questi milioni di animali mangiano vegetali. E quindi la sarcofagia richiede un immenso sterminio di vegetali. Oltre alla distruzione di foreste per far spazio agli allevamenti. Mangiare carne vuol dire distruggere una quantità immensa di sostanze di origine vegetale che potrebbero servire, tra l’altro, all’alimentazione umana, dando un contributo notevole alla soluzione del problema della fame nel mondo.
Volendo formalizzare il discorso, si può dire questo: 1) né gli animali né le piante hanno alcun diritto, in quanto non fanno parte di una comunità di soggetti giuridici; 2) per la stessa ragione, però, non abbiamo alcun diritto né su animali né sulle piante; 3) ogni uccisione di un essere vivente è un atto di forza, e non l’esercizio di un diritto; 4) la sarcofagia comporta la soppressione di vite vegetali e animali, mentre l’alimentazione vegetariana comporta la soppressione delle sole vite vegetali; 5) l’alimentazione vegetariana è quindi preferibile, se non moralmente doverosa.

Le mucche si sono estinte

La mucca come oggetto industriale

Vorrei considerare brevemente una obiezione al vegetarianesimo che mi è stata avanzata recentemente da un collega, docente di scienze naturali. L’obiezione è così formulata: 

Se si diffondesse il vegetarianesimo, molte specie animali – quelle attualmente sfruttate per scopri alimentari – si estinguerebbero. Gli asini, ad esempio, erano quasi estinti; stanno ricominciando a diffondersi da quando si è tornati a mangiare la loro carne e bere il loro latte.

Mi pare che a questo argomento si possa replicare con quattro controargomenti.
1. Cosa vuol dire che una specie non si è estinta? Quando una specie esiste? Richiamiamo alla mente la situazione del film Matrix: gli esseri umani sono sfruttati dalle macchine come semplici fonti di energia, chiusi ed immobili in distese sterminate di baccelli. Si può dire, in quel caso, che la specie umana esiste ancora? E’ lecito dubitarlo, poiché un essere umano non è una batteria. Lo stesso vale anche per gli animali. Il criterio generale è: un essere vivente non è una cosa. Quando viene ridotto a cosa, semplicemente non esiste più come essere vivente. Le mucche ed i polli ridotti a cose dal sistema industriale non esistono più come mucche e polli. Si sono estinti. 

2. Esistono molte specie animali che sono al di fuori del sistema di sfruttamento industriale, senza per questo essere a rischio di estinzione. Non esiste dunque (per fortuna) alcun nesso essenziale tra la mancanza di sfruttamento industriale e l’estinzione di una specie vivente.
3. Se si diffondesse il vegetarianesimo fino al punto di smantellare il sistema industriale di sfruttamento degli animali, si diffonderebbe con esso anche la sensibilità ecologica che ne è alla base. E dunque si tutelerebbe la biodiversità e si difenderebbero le specie a rischio di estinzione.
4. Chi è vegetariano non lo è soltanto perché ama gli animali e vorrebbe liberarli dallo sfruttamento, ma anche perché il sistema industriale di sfruttamento animale è tra le cause principali a) della mancanza di cibo sufficiente per tutti gli esseri umani, b) della compromissione dell’ecosistema. In genere chi si preoccupa di questi due aspetti è anche sensibile alla salvaguardia delle vite animali; tuttavia l’eventuale estinzione di specie animali non è un argomento valido contro i punti a) e b).

Contro la filosofia del mattatoio

Nella seconda metà degli anni Trenta un giovane di Perugia si interrogò sulle possibilità di una opposizione radicale al Regime fascista. Il fascismo – così ragionava – è un sistema politico che si regge su una visione del mondo. In cosa consiste questa visione? In quello che potremmo definire esclusivismo vitalista, vale a dire nella esaltazione di alcuni valori vitali (la giovinezza, l’esuberanza, la forza e la violenza) e nel considerare inferiori coloro che sono privi di questi valori – nel disprezzare il debole, il malato, il portatore di handicap. Per contrastare il fascismo bisogna allora pensare al contrario, portarsi dalla parte degli ultimi e dei deboli, cercare valori opposti a quelli vitalistici. E’ quello che Aldo Capitini (così si chiamava quel giovane) farà per tutta la vita, giungendo ad elaborare una teoria della nonviolenza che è, con ogni probabilità, la più filosoficamente profonda che sia mai stata pensata. Intanto fa subito una scelta pratica: se il fascismo esalta la violenza del più forte sul più debole, lui sceglierà di rispettare ogni forma di vita. Per questo diventa vegetariano, in anni in cui essere vegetariani era considerato una bizzarria assoluta. Gli stessi amici antifascisti vedevano in ciò una sua stranezza, più che una scelta coerente.L’eredità politica di Capitini è stata raccolta dal Movimento Nonviolento, da lui fondato nel 1961. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, non si può dire che abbia molti continuatori. Tra i pochi, occorre annoverare Francesco Pullia, filosofo animalista che del complesso pensiero capitiniano (che comprende anche una teoria del “potere di tutti”) ha ripreso l’aspetto dell’apertura ad ogni essere vivente. In Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza (Mimesis, Udine 2010) Pullia analizzava quella tradizione filosofica che, partendo appunto da Cartesio, nega ogni valore alla vita non umana ed afferma la rigida separazione tra mondo umano e mondo animale. Per il filosofo francese gli animali non erano che automi, macchine prive di vita, di pensiero, di emozioni, come tali liberamente sacrificabili. E’ una convinzione che non si ritrova solo nella filosofia: anche la tradizione religiosa occidentale ha negato qualsiasi valore agli esseri non umani, rimarcano il legame tra uomo e Dio e la sua differenza da ogni altro vivente e dalla natura, che è chiamato a dominare. E se oggi la Chiesa parla di sacralità della vita, è chiaro che si tratta di sacralità della vita umana, mentre tutti gli altri esseri viventi restano privi di un valore intrinseco.

Nell’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II (1995), documento fondamentale del magistero cattolico sul tema della vita, si legge che “la vita è sempre un bene”, ma subito dopo si precisa che non si tratta della vita in generale, ma della vita umana, poiché “la vita che Dio dona all’uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente” (par. 34). Il che non vuol dire che l’uomo possa fare del creato quello che vuole. Dio lo chiama a dominare il creato, ma non a distruggerlo. “Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (cfr. Gn 2, 15) – scrive Giovanni Paolo II – , l’uomo ha una specifica responsabilità sull’ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita; in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future” (par. 42). Come si vede, è negato qualsiasi valore intrinseco alla vita non umana, che resta al servizio della vita umana. L’uomo ha la dignità che gli viene dall’essere immagine di Dio, l’animale no. E se rispetta la vita non umana, non lo fa per rispetto nei suoi confronti, ma per il bene delle generazioni future. Rispettando la natura, l’uomo nell’ottica cristiana e cattolica non rispetta il non umano, ma rispetta sé stesso, poiché la distruzione della natura mette in pericolo la stessa esistenza umana.Nel suo ultimo libro, capitiniano fin dal titolo – Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio (Mimesis, Udine 2012) – Pullia cerca gli spiragli per una filosofia altra all’interno del pensiero contemporaneo, andando oltre la teoria dei diritti degli animali, rappresentata dalle teorie ormai classiche di Tom Regan e Peter Singer. Se Martin Heidegger, considerato a torto o a ragione il più grande pensatore del Novecento, considera l’animale in una luce esclusivamente negativa, come essere “povero di mondo” che vive in una situazione si “sottrazione”, altri grandi pensatori hanno tentato di riconsiderare il dominio umano sulla natura e sui viventi non umani, mettendo alla luce il rapporto esistente tra violenza sui non umani e violenza sugli umani. Max Horkheimer, filosofo della Scuola di Francoforte, descrive la società capitalistica come un grattacielo che ha ai piani più alti i grandi gruppi di potere, alla base i poveri e più sotto ancora, nella cantina, i mattatoi, mentre Jacques Derrida considera arbitraria l’azione di tracciare un limite netto tra umano e non umano e di confinare tutti i non umani nella categoria dell’animale. Ralph R. Acampora parte dal corpo, elemento comune agli uomini ed agli animali, caratterizzato da una medesima vulnerabilità, per pensare una compassione corporea quale fondamento di un’etica interspecifica.

Non manca il contributo di pensatori italiani. Si va dal citato Aldo Capitini, con la sua suggestiva idea di un atto di unità-amore che abbraccia tutti gli esseri viventi e sfida la logica violenta della natura, a Piero Martinetti, filosofo antifascista come Capitini, che già nel ’22, nel suo Breviario spirituale condannava come immorale ogni violenza sugli animali ed affermava l’esistenza di una profonda comunanza tra esseri umani ed animali, ad Edmondo Marcucci, promotore della nonviolenza e del vegetarianesimo, fino ai pensatori di oggi. Tra questi in particolare meritano attenzione Leonardo Caffo e Marco Maurizi. Il primo, giovanissimo (è nato nell’88), considera il rispetto dei non umani come un momento della più generale opera di liberazione della società da ogni forma di oppressione, mentre Maurizi interpreta lo sfruttamento della natura e degli animali quale conseguenza del capitalismo, che ha assoggettato anche l’essere umano. La lotta di classe marxista va per Maurizi estesa anche al mondo animale, e dev’essere intesa come lotta per la liberazione da ogni forma di dominio.

Questo concetto di dominio è forse il concetto-chiave per un’etica interspecifica. E’ importante distinguere il potere dal dominio, che ne è la degenerazione. Il potere ha a che fare con la possibilità. Una persona ha potere se può soddisfare i suoi bisogni. Senza potere la vita stessa è impossibile: già mangiare è un atto di potere. Ora, c’è potere fino a quando questo soddisfacimento dei propri bisogni avviene non in contrasto con il soddisfacimento dei bisogni altrui; il potere è collaborativo: più persone che hanno potere soddisfano insieme i propri bisogni. E’, in fondo, quello che accade normalmente in società. Gli esseri umani si associano per provvedere meglio, insieme, ai bisogni di ognuno. Accade tuttavia che questa comunità si infranga, e che alcuni cerchino di soddisfare i propri bisogni limitando il soddisfacimento dei bisogni altrui. Alcuni vogliono essere di piùde gli altri. E’ così che nasce il dominio.

Lo sfruttamento della natura e degli animali è, per essenza, una forma di dominio: l’essere umano soddisfa i suoi bisogni, essenziali e non essenziali, a costo della vita di miliardi di esseri non umani. Ma non si tratta del dominio dell’essere umano sulla natura, bensì di un aspetto dello stesso dominio di alcuni umani su altri. Il sistema di dominio capitalistico, cioè, assoggetta tanto gli animali quanto gli esseri umani. Per sua natura, il capitalismo è escludente, anche se si presenta come una promessa di liberazione per tutti. Gli abitanti dei paesi ricchi possono vivere soddisfacendo bisogni fittizi, creati dal sistema dei consumi, solo se gli abitanti dei paesi poveri vivono in condizione di sfruttamento (e in condizioni simili sono, ogni giorno di più, ampie fasce della popolazione degli tessi paesi ricchi). I beni sul mercato capitalistico sono prodotti grazie alla manodopera a basso costo della Cina e di altri paesi asiatici. La stessa alimentazione carnea di chi vive nei paesi ricchi è possibile sottraendo risorse alimentari ai paesi poveri.

Non basta, per liberare gli animali, rivendicare i loro diritti. Come osserva lucidamente Pullia, “il diritto è, per sua natura, ambito di ambiguità e di violenza, coniato e plasmato, riconosciuto o negato a seconda del sistema socioeconomico dominante” (p. 70). Il diritto, cioè, non è al di sopra del sistema di dominio, ma ne è condizionato; per cui ci si illude, credendo che il diritto possa contrastarne le logiche. Cercare leggi contro il maltrattamento sugli animali o la vivisezione non basta. Pullia confida piuttosto nel diffondersi di una nuova sensibilità, dimostrata dalla presenza di numerosi movimenti per i diritti degli animali e da manifestazioni come quella contro Green Hill. Perché questa rivoluzione si compia, occorre che vi sia una svolta teoretica, un cambiamento radicale nella nostra visione del mondo che abbandoni il secolare antropocentrismo. Un cambiamento che può cominciare dal ricordare ad ognuno che ogni giorno, ogni ora, ogni istante in ogni parte del mondo si compie un olocausto silenzioso, lo sterminio di miliardi di vite ridotte a cosa, a prodotti da supermercato. I bambini nemmeno riescono più a risalire dal pezzo di carne che hanno nel piatto all’animale da cui quella carne è tratta. Vedono il prodotto, non la struttura di sofferenza che c’è dietro. Gli adulti non sono molto diversi. Sanno che dietro ogni pezzo di carne c’è un animale ucciso, ma in fondo non lo sanno davvero. Spesso non hanno mai visto un mattatoio o un allevamento industriale. Non vedono sia perché il sistema si preoccupa di mettere fuori dalla scena le immagini che disturbano – e le immagini della pubblicità sono al contrario rassicuranti –, sia perché sono condizionati da strutture di pensiero che giustificano qualsiasi violenza, poiché l’animale non è che una cosa.

Si tratta di strutture di pensiero sostanzialmente fragili, che non è difficile scardinare; “ragionamenti” come: “in fondo gli animali sono stati creati da Dio per noi”. Più difficile è combattere gli enormi interessi economici che sono dietro l’industria degli allevamenti, con la sua enorme capacità di condizionare l’opinione pubblica attraverso i mass media e gli investimenti pubblicitari. Il cambiamento, insomma, non è facile. Si tratta di una lotta che ha bisogno del contributo di figure diverse: economisti, pubblicitari, fotografi, documentaristi, scrittori (si pensi a Jonathan Safran Foer). E di filosofi come Francesco Pullia. 

Articolo scritto per Stato Quotidiano.

Vegetarianesimo e demitarianism

La copertina del rapporto
Our Nutrient World

Chi diventa vegetariano (o vegano) lo fa per une delle tre seguenti ragioni: perché ritiene che la vita non umana abbia valore, e che sfruttare, torturare e distruggere miliardi di vite animali sia un crimine; perché considera la dieta carnea dannosa per la salute; perché pensa che la dieta ricca di proteine animali dei paesi ricchi sia una delle cause della fame diffusa nei paesi poveri. La prima ragione è etica, la seconda salutistica, la terza politica. Nel primo caso si tratta di fare qualcosa per gli animali, nel secondo di fare qualcosa per se stessi, nel terzo di fare qualcosa per l’umanità. Naturalmente, una ragione non esclude l’altra, e si può essere vegetariani al tempo stesso per ragioni etiche, salutistiche e politiche.

Delle tre giustificazioni, la prima è probabilmente quella più forte per chi è vegetariano e più debole per chi, essendo vegetariano, cerca di convincere altri a fare la stessa scelta. Percepire lo scandalo della violenza sugli animali è una sorta di rivelazione improvvisa, dopo la quale non si può restare come prima. Ma si tratta, appunto, di una illuminazione. Se qualcuno considera gli animali come delle semplici cose, che possiamo usare a nostro piacimento, o ritiene che siano stati creati da Dio per noi (è un argomento particolarmente puerile, ma molto diffuso), c’è poco da obiettare. Difficile è dimostrare un valore a chi lo nega. Più efficace sembra essere il secondo argomento, poiché siamo in una società fortemente individualistica, in cui molto conta la cura di sé e c’è quasi il mito della salute. Ma molti rifiutano di considerare la salute come il risultato inevitabile di uno stile di vita sano: ci si affida piuttosto all’azione salvifica del farmaco ed all’azione demiurgica del medico. La salute è una cosa che viene ristabilita dallo specialista, quando occorre. E’ appena il caso di notare che si tratta di una illusione: e in genere lo si scopre quando è troppo tardi. Efficace può essere, invece, il terzo argomento, poiché quello della vita umana (di ogni vita umana) è un valore unanimemente riconosciuto, e il diritto alla vita è sancito dalla Dichiarazione dei diritti umani. Il vegetarianesimo come scelta di rispettare la vita non umana ha un carattere supererogatorio, va cioè al di là di ciò che richiede e impone la morale corrente; il vegetarienesimo come scelta salutistica comporta un imperativo ipotetico in senso kantiano (se vuoi stare in salute, allora è meglio non mangiare carne), e dunque non è vincolante per tutti; il vegetarianesimo come scelta politica può essere considerato invece moralmente obbligatorio, poiché quello di non uccidere (esseri umani) è un imperativo categorico, un obbligo al quale nessun essere umano può sottrarsi.
Resta da dimostrare che mangiare carne significhi uccidere, che vi sia un nesso causale tra l’alimentazione carnea dei paesi ricchi e la fame nei paesi poveri. Gli studi non mancano: da Diet for a Small Planet di Frances Moore Lappè (1971) a Ecocidio di Jeremy Rifkin (1992) ed oltre. Una conferma interessante giunge da una recente ricerca commissionata dall’United Nations Environment Programme (UNEP) sulle cause e le conseguenze dell’inquinamento ambientale. Nel rapporto finale, intitolato Our Nutrient World. The Challenge to Produce More Food and Energy With Less Pollution la riduzione (volontaria) del consumo di proteine animali è indicata come uno dei passi necessari per diminuire l’inquinamento ed aumentare la disponibilità di cibo per tutti:

People can lower the consumption of animal protein by eating less frequent meat and dairy. In some coun-tries people are being mobilized to have a “meat-free” day.
Another important route is the reduce portion size. A third way is to shift to poultry meat, as this is usually as-sociated with less pollution than pork and beef.
Finally, approaches have been encouraged that foster a middle path between typical meat consumption in the developed world and vegetarian diets. In the “demitar-ian” approach the aim is to consume half the normal local amount of animal products. (1)

La proposta demitariana, quale soluzione di compromesso tra la dieta carnea e la soluzione vegetariana, è stata avanzata per la prima volta nella Barsac Declaration, esito di un workshop del gruppo di lavoro Nitrogen in Europe (NinE) sulle possibilità di contribuire con il proprio stile di vita alla riduzione delle emissioni di azoto nell’ambiente. Nella dichiarazione si legge:
a. For many developed countries, individuals eat more animal products than is necessary for a healthy balanced diet, so that, for many people, reducing per capita meat consumption has the potential to give significant health benefits;
b. In many developing countries, increased nutrient availability is needed to improve diets, while in other developing countries, per capitaconsumption of animal products is fast increasing to levels which are less healthy and environmentally unsustainable;
c. For the reasons outlined above, reducing per capita consumption of animal products in the developed world has the potential to improve nutrient use efficiency, reduce overall production costs and reduce environmental pollution;
d. While vegetarianism represents an option for some, this remains an unwanted ambition for many people;
e. There is a need to encourage options of medium ambition, making it easier for those who choose to reduce the consumption of animal products. (2)
Questa soluzione di compromesso appare inaccettabile a chi sceglie il vegetarianesimo per ragioni etiche: sarebbe come dire “ammazzate con moderazione”. Ci sono però due aspetti estremamente interessanti di questa impostazione del problema. Il primo è che una riduzione del consumo di carne appare ragionevole a molte persone e non richiede alcuna scelta di fondo: c’è dunque da sperare che, intervenendo con campagne di sensibilizzazione, il demitarianism si diffonda e cambi in modo significativo lo stile alimentare dei paesi ricchi. Il secondo è che, se non si tratta più di difendere la vita gli animali, il cui valore è percepito solo da alcuni, ma di combattere l’inquinamento, la crisi ambientale e la fame nei paesi poveri, allora c’è un preciso obbligo da parte delle istituzioni di intervenire per operare favorire questo cambiamento. Mi sembra che sia questa la strada da percorrere anche per chi, come chi scrive, ritiene che la vita non umana abbia valore intrinseco e che lo sfruttamento industriale degli animali sia un intollerabile scandalo.

(1) Global Partnership on Nutrient Management (GPNM), Our nutrient world. The challenge to produce more food and energy with less pollution, Centre for Ecology and Hydrology (CEH), Edinburgh UK 2013, p. 70.
(2) NinE, The Barsac Declaration: Environmental Sustainability and the Demitarian Diet.