L’immagine è tratta da Footnotes in Gaza di Joe Sacco.
Editoriale per Stato Quotidiano.
Blog di Antonio Vigilante
Editoriale per Stato Quotidiano.
Foto ripresa dal sito www.ispastrutture.it |
Dino Frisullo |
Cos’è la politica? A giudicare dall’operare della classe politica italiana – ma altrove non va diversamente – negli ultimi decenni, bisognerebbe rispondere così: è il movimento che distacca il centro della società dalla periferia. Grazie all’opera della politica e dei politici, ci sono un numero ristretto di persone che hanno denaro, prestigio, potere, e molte altre persone che non ne hanno. La politica, come la guerra secondo Eraclito, “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”. E’ sufficiente considerare la distribuzione delle ricchezze in Italia e nel mondo per constatare i risultati di questa politica. Secondo dati della Banca d’Italia, il 10% delle famiglie italiane possiedono il 45% delle ricchezze del nostro paese. Nel mondo va anche peggio: secondo uno studio delle Nazioni Unite, il 2% della popolazione mondiale possiede più della metà della ricchezza mondiale complessiva.
Calcio per strada (www.maidirecalcio.com) |
Editoriale per Stato Quotidiano.
Tutto è merce, tutto si può comprare e vendere, anzi tutto si deve comprare e vendere. Anche gli esseri umani.
Tutto, in quanto merce, è superficie, apparenza, vetrina. Vivere vuol dire stare nella vetrina ed attrarre i clienti: sedurre, portare con sé. Nessuno è escluso dal gioco universale della seduzione. Ad un corpo non è concesso di diventare vecchio. Occorre che si mantenga sempre giovane, perché non cessi di sedurre. Anche a costo di diventare ridicolo. Donne di quarant’anni si gonfiano le labbra a dismisura, uomini di settant’anni ottengono dalla chirurgia un volto finto in cambio delle loro rughe autentiche. Questo si chiama, oggi, bellezza: il tentativo disperato, triste, patetico di sedurre, di costringere a volgere lo sguardo, di imporre la propria presenza. Una degenerazione della bellezza e del suo senso. Se la bellezza autentica porta sempre con sé una scheggia di sofferenza con la quale ci ferisce e ci commuove, dandoci il presentimento di un altrove, la bellezza sguaiata delle merci, che spesso confina con il mostruoso, tiene avvinti al qui ed ora, è la negazione di ogni trascendimento, avanza una arrogante pretesa di appagamento totale. Continue reading “Educare nella società delle merci”
George Carlin |
Una delle prime cose che un bambino impara a scuola – se non l’ha prima imparato in famiglia – è che le parole non sono tutte uguali: esistono parole e parolacce, parole buone e parole cattive. Le prime vanno bene, le seconde no. Un bambino può e deve chiedere alla maestra di andare in bagno; non può e non deve chiederle di andare al cesso. Se lo fa, la maestra lo richiama. Se insiste, la maestra comincia a preoccuparsi: c’è nel bambino qualcosa che non va.
In occasione della Giornata Internazionale di rom e sinti, il presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di giovani rappresentanti di queste due comunità. Il post con il quale ha comunicato l’iniziativa sulla sua pagina Facebook ha dato il via ad una serie tanto prevedibile quanto preoccupante di commenti razzistici. Ne cito solo alcuni a caso: “propongo la cittadinanza onoraria rom per la signora Boldrini. così almeno si dimetterà da italiana”; “paradossalmente difenderesti anche un rom che ti stuprasse.. è la loro cultura… o che ti rubasse in casa.. (hanno milioni proventi dai furti) e sussidi????… tu sei strana… e pericolosa… una mente perversa… se non pensassi che sei italiana… mi preoccuperei… sei una scoria un pericolo per la nazione… tu Monti Napolitano dovreste essere giudicati per ‘Alto Tradimento'”; “Siate fieri della vostra identita’….(che non avete)!! Siate fieri di quello che fate,(quindi rubare)…il 90% degli Italiani non li vuole…ma sono qua e li manteniamo pure!!! Che schifo!!!!”; “Tanto un altro paio di anni e andremo a cacciarli con i forconi!!! (intendo i nostri politici)”. Ho detto che era una reazione prevedibile.
Basta che si tocchi, o che si sfiori soltanto, l’argomento dei rom, per suscitare una catena di reazioni palesemente razzistiche. Basta attaccare i rom per essere immediatamente confortati dall’approvazione generale, così come basta difenderli per ritrovarsi disperatamente soli. Essere rom in Italia, oggi, vuol dire essere in pericolo. Esiste una tensione latente, che in qualsiasi momento può esplodere e portare alla caccia al rom. La cronaca degli ultimi anni offre non pochi esempi: dalle aggressioni in seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani, nel 2007, ai raid punitivi dell’anno seguente a Ponticelli, Napoli, dopo un controverso tentativo di rapimento di una bambina da parte di una ragazzina rom fino all’aggressione al campo rom delle Vallette, a Torino, nel gennaio del 2012, motivato dalla violenza sessuale ai danni di una ragazzina torinese da parte di due uomini rom. Violenza sessuale mai esistita, come si scoprirà poi: la sedicenne si era inventata tutto per coprire un rapporto sessuale con un fidanzatino italiano.
Quando si parla di rom, non si va troppo per il sottile. Gli organi d’informazione sbattono il mostro in prima pagina, i cittadini indignati recuperano immediatamente fiaccole e bastoni, pronti alla strage. Nel rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo un paragrafo a parte, nella sezione che riguarda il nostro paese, è riservato ai rom. Non è difficile comprendere le ragioni di questo odio così radicato e così difficilmente scalfibile. I rom rappresentano in Italia una minoranza particolarmente vulnerabile, priva di difese. Pur essendo presenti sul nostro territorio da secoli, i rom non sono ancora riconosciuti come minoranza etnica. Pur essendo stati sterminati insieme agli ebrei nei campi di concentramento, non sono inseriti nella commemorazione annuale della Giornata della memoria. Lo sterminio dei rom – il Porrajmos – è un evento rimosso dalla memoria collettiva. Non se ne parla a scuola, non ne riferiscono i libri di storia. Perché presentare i rom come vittime, ecco, non ci piace. Ci piace immaginarli colpevoli di ogni nefandezza. Ci piace credere che i rom rubano i bambini, ad esempio. Anche se uno studio fatto da ricercatori dell’Università di Verona ha dimostrato che nessuna delle quaranta accuse di rapimento di bambini a carico di rom dal 1986 al 2007 ha portato a condanne: tutte accuse infondate (1). Un caso a dire il vero c’è. Tristissimo. Quello di Angelica Varga, la ragazza del caso di Ponticelli cui ho accennato. Condannata a tre anni e otto mesi quando aveva appena sedici anni in base alla sola accusa dell’unica testimone, la madre della bambina. Nessun altro testimone, nessuna prova. Condannata in base alla testimonianza di quella che, secondo il giornalista Giulio Di Luzio, era la figlia di un camorrista (e la camorra aveva interesse affinché i rom venissero cacciati da Ponticelli) (2).
Tacciono, i giornali, dei bambini rom sottratti dalla polizia e di cui le famiglie non hanno saputo più nulla, come ha denunciato l’europarlamentare Viktória Mohácsi; e tacciono anche sui raid notturni nei campi, dei sequestri di persona, delle violenze dei poliziotti che risultano da testimonianze raccolte dalla stessa europarlamentare. Sono fragili, dunque. E la loro fragilità attira irresistibilmente le tensioni collettive. In particolare nei periodi di crisi economica, quando aumenta la frustrazione, sono un capro espiatorio fin troppo comodo – anche per i politici. Mentre i padroni della finanza continuano i loro giochi sulla pelle di milioni di persone, ci si illude che basti dar fuoco a qualche campo rom perché le cose vadano meglio. “Siate orgogliosi della vostra identità e appartenenza. Sempre nel rispetto delle cultura degli altri, ma con la consapevolezza che avete un patrimonio da far conoscere e da tutelare”, ha detto Boldrini incontrando i giovani rom. Parole che per molti suonano come una provocazione. Identità? Orgoglio? Patrimonio? “No Signora Boldrini hanno un patrimonio da restituire… tutto quello che hanno rubato agli italiani… e non solo a loro…”, ha commentato qualcuno. I rom sono furto, e null’altro. A nessuna cultura si nega il riconoscimento di un qualche valore, tranne che a quella rom.
I furti. Sono davvero tutti ladri, i rom? No, naturalmente. Nessun rom è ladro? Nemmeno. Alcuni rom sono ladri, altri no. Proprio come gli italiani. Quando un italiano ruba, nessuno si sogna di attribuire il suo furto alla cultura italiana, come invece accade con i rom. E nessuno si sogna di considerare corresponsabile tutta un’etnia per le colpe di uno solo. C’è una lettura della realtà rom che può aiutarci a superare qualche pregiudizio, e consiste nel mettere da parte, per un momento, l’etnia, e considerare invece la classe sociale. A quale classe sociale appartengono i rom? Non sono borghesi, naturalmente; ma non sono nemmeno proletari. Sono sottoproletari, appartengono a quel “proletariato straccione” (Lumpenproletariat) costituito da disoccupati o sotto-occupati di cui parlava Marx. Persone al di fuori del ciclo produttivo che vivono di espedienti, privi di coscienza politica.
Ora, proviamo a leggere la realtà rom in quest’ottica. Confrontiamo i rom con un certo sottoproletariato napoletano o più in generale meridionale, ad esempio. Ci sono differenze? No. I mali sono gli stessi, i tentativi di porvi rimedio anche. Sia chiaro: non intendo, ora, criminalizzare il sottoproletariato per assolvere i rom. I crimini dei sottoproletari sono, spesso, il risultato di una prolungata indifferenza di chi dovrebbe curare il bene comune e invece fa gli interessi di chi ha di più. Interi quartieri abbandonati a sé stessi, tranne che nei periodi elettorali, quando torna comoda l’esistenza di una massa di disperati il cui voto si può acquistare con qualche pacco di pasta. Bambini che crescono in case fatiscenti, a volte in vere e proprie grotte senz’aria né luce, mentre con la compiacenza delle amministrazioni si costruiscono nuovi palazzi – case che i poveri non vedranno mai. Servizi sociali inesistenti, mentre si moltiplicano i centri commerciali. Ed uno Stato che è sempre pronto a sperperare per il carcere i soldi che non ha voluto investire per aiutare i poveri a vivere più dignitosamente.
Ma c’è ancora una differenza, qualcosa che fa del rom un sottoproletario sui generis. Il sottoproletariato, pur vivendo ai margini del sistema economico, ne condivide la logica, i rituali, i miti, le narrazioni. Nel sistema capitalistico il sottoproletario ha gli stessi desideri del proletario e del borghese. Come loro, è principalmente un consumatore. Ogni status symbol è da lui avidamente desiderato, quando non acquistato contraendo debiti. Pur disponendo di poco denaro, non disconosce la centralità assoluta del denaro nella vita individuale e comune. Il suo modo di vivere, se potesse, sarebbe esattamente lo stesso di quello di un borghese. Non così i rom. In una società capitalistica i rom vivono in modo non capitalistico. Non sono consumatori, come dimostra il fatto che nessun pubblicitario li ha mai considerati un target valido per qualche prodotto. Non condividono i valori dominanti della carriera, della ricerca dello status, dell’affermazione personale. Soprattutto, non condividono l’individualismo, che è essenziale per il capitalismo, e la mercificazione di ogni cosa. In un campo rom le relazioni umane sono ancora più importanti del denaro. La vita al campo si regge sullo scambio di prestazioni gratuite, sulla solidarietà e il sostegno reciproco. E’ questo legame che i rom considerano la loro più grande ricchezza – chiedendosi, ad esempio, come facciano i gagè, i non rom, ad abbandonare i genitori anziani in un ospizio. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa da insegnare; e così ogni popolo. Anche il popolo rom. E quello che ha da insegnare – quello che noi possiamo imparare – è forse qualcosa di molto importante: come sopravvivere al capitalismo ed alla sua universale mercificazione.
Note
(1) S. Tosi Cambini, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma 2008.
(2) G. Di Luzio, Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione, Ediesse, Roma 2011.
E’ triste, nel paese che ha dato i natali a Maria Montessori, dover scrivere ancora oggi un articolo per confutare l’opinione che gli schiaffi possano essere educativi. E’ triste ma necessario, poiché si tratta di una convinzione ancora ben salda e diffusa, come lo è la pratica corrispondente. Ho avuto modo di constatare che si tratta di una convinzione diffusa anche tra i giovani, ed in particolare tra quei giovani che, per gli studi intrapresi, si troveranno con ogni probabilità a lavorare in futuro nel sociale ed in campo educativo.
Vorrei provare a spiegare per quale motivo ritengo che questa convinzione sia una bestialità pedagogica, e che la pratica corrispondente sia una violenza inaccettabile. Faccio notare, per cominciare, che nessun soggetto può essere preso a schiaffi impunemente. Una donna non può essere presa a schiaffi dal marito, un lavoratore non può essere preso a schiaffi dal suo superiore, un cliente importuno non può essere preso a schiaffi dal commesso, e così via. Nemmeno il giudice, dopo aver letto la sentenza, può prendere a schiaffi l’imputato, e lo stesso vale per le guardie carcerarie. Perché una persona condannata, poniamo, per omicidio non può essere presa a schiaffi, mentre un bambino che ha mangiato di nascosto la cioccolata sì? Perché nella nostra società il detenuto resta, nonostante la condanna, un essere umano dotato di dignità (ed è giusto che sia così); il bambino no. Il bambino è un essere umano a metà, per così dire; per quanto sia grande l’amore che affermiamo di provare per lui, non siamo disposti a riconoscergli piena umanità e piena dignità. Altrimenti mai ci sogneremmo di prenderlo a schiaffi.
Si dirà: ma il bambino non è, appunto, un uomo; non ha ancora sviluppato le sue capacità. E questo è un motivo per negargli dignità? Seguendo questa logica, bisognerebbe dunque prendere a schiaffi i portatori di handicap, le persone con ritardo mentale, i malati, i vecchi ormai spenti. Invece pensiamo il contrario: qualsiasi atto di violenza verso questi soggetti viene considerato particolarmente grave proprio perché si tratta di soggetti deboli. Perché non vale lo stesso con i bambini?
Nel caso dei bambini, la violenza ha l’alibi dell’educazione. Bisogna a questo punto chiedersi cos’è educazione. Senza farla troppo lunga, possiamo con ragionevole approssimazione dire che educare vuol dire aiutare una persona a crescere ed a diventare una persona completa. Ora, chi schiaffeggia un bambino è guidato da questa concezione dell’educazione? Lo dubito. Per chi usa lo schiaffo come risorsa pedagogica educare è evidentemente una cosa diversa: fare in modo che il proprio figlio faccia quello che lui vuole, che ubbidisca, che non dia fastidio, che si lasci guidare dall’esterno. Tutto questo ha naturalmente ben poco a che fare con l’educazione intesa nel suo senso autentico. Un bambino che non dà fastidio, che ubbidisce ai genitori, che si lascia guidare non è un bambino educato. Può essere, al contrario, un bambino infelice, incapace di esprimere i suoi bisogni, inibito. Un bambino che diventerà un adulto conformista, una persona priva di originalità e incapace di scelte autonome.
Lo schiaffo rivela dunque un tragico equivoco di fondo riguardante l’educazione. Si pensa che educare significhi modellare dall’esterno, mentre vuol dire creare le condizioni perché il bambino prenda forma da sé; che voglia dire far tacere, mentre vuol dire dare la parola. Perché vi sia educazione occorre una disposizione preliminare: la capacità di mettersi dalla parte del bambino, di ascoltarne e rispettarne i bisogni. L’adulto che ricorre alla violenza interpreta al contrario il rapporto educativo a partire da sé stesso, dalle sue esigenze, da quello che vuole o non vuole che il bambino faccia. Il bambino come essere autonomo per lui semplicemente non esiste. E dunque non esiste l’educazione.
E’ interessante, poi, che anche coloro che affermano il valore educativo dello schiaffo si guardino bene dal riconoscere ad altre figure educative il diritto di prendere a schiaffi il loro figlio. Genitori che schiaffeggiano normalmente i bambini sono pronti a correre a scuola a protestare se vengono a conoscenza della minima violenza fatta ai loro figli dagli insegnanti. Perché? Se lo schiaffo educa, e l’insegnante educa, l’insegnante dovrebbe poter ricorrere allo schiaffo. E’ un semplice sillogismo. Se si nega agli insegnanti il diritto di schiaffeggiare i bambini, è perché si sa in fondo che non è affatto vero che lo schiaffo educa. Il genitore sa bene, anche se lo nega, che si tratta di una violenza, e pensa di essere l’unico ad avere il diritto di compiere quella violenza. C’è, al fondo, una concezione pericolosissima: l’idea che il bambino sia proprietà della famiglia, che può farne quello che vuole. Un genitore può picchiare il bambino, l’insegnante no, perché il bambino è cosa del genitore, non dell’insegnante.
Ma cosa succede a un bambino che viene preso a schiaffi? Proviamo a guardare le cose dal punto di vista del bambino. Immaginiamo che abbia sei o sette anni. Il suo corpo è minuscolo rispetto all’ambiente ed al corpo di quelli che ha intorno. E’ un nano in un mondo di giganti. Questo è il primo aspetto da considerare: l’impotenza fisica. Il bambino, per la sua inferiorità corporea, si sente debole ed indifeso, in balia dei grandi, che possono fare di lui quello che vogliono. La mano di un adulto è gigantesca per lui. E’ un po’ come, per noi, essere colpiti da un essere mostruoso.
Chiunque riceva violenza sviluppa sentimenti negativi: l’impressione di essere stato vittima di una ingiustizia, la rabbia, la paura. La paura è in particolarmente devastante; meglio la rabbia della paura. Un bambino di quell’età considera i propri genitori come un modello.
Non, si badi, per quello che dicono, ma per quello che fanno. Questa è una cosa fondamentale. Non educhiamo con le parole, educhiamo con i fatti. Se prendiamo a schiaffi un bambino, è poi assolutamente inutile dirgli che la violenza è sbagliata. Con le nostre azioni gli stiamo dicendo il contrario, e per i bambini contano le nostre azioni, non le nostre parole. Ecco dunque una delle conseguenze di questa pedagogia bestiale: il bambino che subisce violenza diventa violento; gli schiaffi ricevuti a casa li restituisce a scuola ai compagni. L’insegnante chiama poi i genitori e si lamenta del comportamento del bambino; ed a casa il genitore punisce il bambino per aver preso a schiaffi il compagno prendendolo a sua volta a schiaffi. Il circolo vizioso continua.
In sostanza, ricorrendo allo schiaffo il genitore baratta lo sviluppo sereno di suo figlio per qualche momento di tranquillità. Qualche momento, non di più. Perché è una illusione credere che il bambino educato a suon di schiaffi vanga su davvero tranquillo ed ubbidiente. Al contrario. In anni di lavoro educativo ho avuto modo di osservare una costante: i bambini più irrequieti (e spesso violenti) sono quelli che vengono educati nel modo più rude. Non occorre essere dei pedagogisti per capire il perché. Il bambino è come una spugna: assorbe dall’ambiente. Ed in particolare, ovviamente, dall’ambiente familiare. Se in quest’ambiente c’è malessere relazionale, il bambino crescerà con questo stesso malessere. Se in una famiglia i conflitti si affrontano con la violenza fisica o verbale, il bambino affronterà i conflitti in questo modo. Inutilmente i genitori gli diranno che non dovrà fare così. Per ottenere un diverso comportamento, dovrebbero cambiare clima familiare. Cosa molto più difficile che dare uno schiaffo ad un bambino o rimproverarlo.
I bambini hanno bisogno di un clima sereno, hanno bisogno di osservare quotidianamente esempi di rispetto reciproco, di ascolto, di amore. Hanno bisogno dell’esempio di adulti che siano in grado di affrontare i conflitti in modo costruttivo. Hanno bisogno di delicatezza, di cura, di armonia. Diamo loro invece minacce, punizioni, regole inutili, perfino violenza fisica. Ogni volta che educhiamo un bambino abbiamo la possibilità di cambiare (in modo infinitesimale, ma non per questo non significativo) il mondo oppure di confermare le sue strutture di dominio. A noi la scelta.
E’ nota la facilità con cui sui social network si diffondono notizie non controllate e citazioni attribuite con grande leggerezza a questo o quel personaggio, che mai si sarebbe sognato di dire cose simili. In questi giorni ha avuto grande diffusione un presunto appello di Papa Francesco ad evitare la mattanza degli agnelli per Pasqua. Un appello che nasce in realtà interamente da un equivoco. Le parole citate non sono del papa, ma di una associazione animalista che, felicitandosi per le parole dette dal papa in occasione della festa di San Giuseppe – una omelia nella quale ha invitato ad essere custodi del creato -, ha invitato gli italiani a non mangiare agnello per Pasqua.
Come si spiega la bufala? Si tratta di un meccanismo frequente in campo religioso: ci si forma una certa idea di cosa è e di cosa dovrebbe fare o dire un sant’uomo, e quando qualcuno, per alcuni suoi tratti, ci sembra che possa incarnare questa idea, compiamo senz’altro la proiezione: gli facciamo dire e fare ciò che ci sembra che dovrebbe dire e fare. Benché papa Francesco sia stato eletto da poco, il meccanismo è già all’opera. Nell’immaginario dei credenti (e anche di qualche non credente) Francesco è già il papa buono: e dal papa buono ci si aspetta che faccia e che dica certe cose. Che magari non ha fatto o detto
Cosa pensa realmente papa Francesco su molti temi, può aiutare a comprenderlo il volume Il cielo e la terra, un dialogo con il rabbino Abraham Skorka pubblicato da Mondadori ed uscito in edicola con La Repubblica. Si tratta di una vera e propria summa del pensiero di papa Bergoglio: Dio, il potere, la donna, l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, il matrimonio tra persone omosessuali, eccetera. Leggendolo si può capire perché, ad esempio, è molto improbabile che in futuro possa davvero invitare a non mangiare agnelli a Pasqua. Un pensiero che ricorre nel libro è quello del dominio dell’uomo sulla natura. “L’uomo – afferma – è fatto per dominare la natura, questo è il suo compito divino” (1). E ancora: “Il potere è stato dato all’uomo da Dio, che ha detto: ‘Dominate la terra, siate fecondi e moltiplicatevi'” (2). Si tratta della visione tradizionale dei rapporti tra l’uomo e la natura: rapporti di dominio. La natura è stata fatta per l’uomo (ed anche gli agnelli, dunque). Nelle posizioni più aperte, si giunge ad affermare che questo dominio non dev’essere né dispotico né distruttivo, ma prendere la forma di una saggia amministrazione. Che è cosa ben diversa, tuttavia, dall’affermare che la natura ed il mondo animale hanno un valore intrinseco.
La prima tentazione, avendo tra le mani un libro del genere, è quella di andare a vedere che dice il papa sui temi caldi del dibattito anche politico: l’eutanasia, ad esempio, o i matrimoni omosessuali. Ma papa Francesco è il capo di una religione, e del capo di una religione conta, soprattutto, il pensiero teologico, vale a dire il modo in cui concepisce Dio e la verità. La Chiesa è una istituzione che negli ultimi decenni si è sempre più chiusa in sé stessa, assestata nella posizione di una condanna generalizzata del mondo moderno, sempre più incapace di dialogare con il pensiero laico, sempre più lontana dalla sensibilità morale diffusa tra gli stessi cattolici (tra i quali si diffonde la doppia morale: sono cattolico, ma faccio quello che credo essere giusto, anche se la Chiesa dice che è sbagliato). Questa chiusura deriva dalla convinzione di possedere tutta intera la verità e di essere l’unica via si accesso alla salvezza: extra Ecclesiam nulla salus. Una sorta di arroganza spirituale che impedisce il dialogo, che esige orizzontalità e pari dignità dei dialoganti. E’ la Chiesa che, guardando il mondo dall’alto, giudica e condanna. Il contrario dell’arroganza spirituale è l’interrogazione, il chiedere insieme. L’arrogante ha la risposta a tutte le domande, non conosce il dubbio o, quando ne fa esperienza, lo allontana come una tentazione diabolica. Non ha nulla da imparare da nessuno: è l’uomo chiuso nella cerchia di quelli che la pensano come lui; chi è al di fuori di quella cerchia, non ha nulla da dirgli. L’interrogante al contrario si considera in cammino verso la verità ed avverte questo cammino come un cammino comune. L’arrogante è uomo (o donna) dell’identità, l’interrogante è uomo (o donna) della differenza.
Il cambiamento più urgente, per la Chiesa, è questo: abbandonare l’arroganza e passare alla posizione dell’interrogazione, del dialogo reale. Smetterla di considerarsi unici detentori della verità e chiedersi, piuttosto, quale contributo si può dare alla soluzione dei problemi comuni. E’ la posizione che Aldo Capitini chiamava “aggiunta”. Che vuol dire: io non chiedo che il mondo mi segua, mi onori, mi ascolti, mi esalti, mi riconosca; mi chiedo cosa posso dare io al mondo, cosa posso aggiungere di buono e di valido alla vita di tutti.
Da questo punto di vista, trovo nel pensiero di papa Francesco dei punti non privi di interesse. Nella discussione con il rabbino Skorka la questione dell’arroganza viene fuori discutendo di ateismo. E’ arrogante l’ateo che “è convinto al cento per cento che Dio non esiste”, dice Skorka, mentre l’agnostico è in posizione dubitativa. Questa affermazione comporta la conclusione logica che, se è arrogante chi non dubita, il credente è arrogante non meno del non credente. E infatti Skorka afferma: “Ha la stessa arroganza [l’ateo] di chi sostiene l’esistenza di Dio con la stessa certezza con cui sosterrebbe l’esistenza della sedia su cui sono seduto”. Papa Francesco non protesta, anzi rilancia: “Anch’io concordo nel definire arroganti quelle teologie che non solo hanno tentato di definire con certezza e precisione gli attributi di Dio, ma hanno avuto la pretesa di dire esattamente com’era” (3). E sottolinea l’importanza della teologia apofantica, ossia la teologia che parla di Dio per via negativa, dicendo cosa non è. Cita a riguardo The Cloud of Unknowing, un trattato del tredicesimo secolo che parla di una “nube di non-conoscenza” che sempre si frappone tra l’uomo e Dio. Da questo punto di vista diventano molto meno nette, mi pare, le distinzioni tra credente ed ateo; poiché l’ateo è spesso colui che nega una certa concezione di Dio, o la pretesa di afferrare Dio, di averlo in tasca: è, in altri termini, una reazione all’arroganza religiosa. Nella mistica speculativa, peraltro, affermazione e negazione di Dio si richiamano in un modo estremamente affascinante. “Egli [Dio] è colui che, mediante l’opera della notte oscura, si ritira per non essere amato come un tesoro da un avaro. Elettra che piange Oreste morto. Se si ama Iddio pensando che non esiste, egli manifesterà la sua esistenza”, scrive Simone Weil (4). Ed Eckhart: “Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio…” (5)
Il Dio in tasca, il Dio conosciuto e posseduto dal credente, è il Dio in nome del quale si combattono le guerre. Fa tutt’uno con la propria identità individuale e collettiva; è una stampella per puntellare le proprie incertezze. Con espressione che felice, Bergoglio parla di un “ideologizzare l’esperienza religiosa”, che porta ad “uccidere in nome di Dio” (6). E’, mi sembra, una osservazione importantissima, che potrebbe aprire nuovi capitoli della riflessione teologica. Cosa vuol dire avere fede in modo non ideologico? E’ possibile credere senza che la propria fede diventi una stampella o un segno di riconoscimento? E’ in questa direzione che va la riflessione teologica di Dietrich Bonhoeffer – una delle più alte del Novecento – con la sua distinzione tra religione e fede.
Sembra dunque che vi siano tutte le premesse per un nuovo rapporto non solo con le altre religioni, ma anche con la cultura laica e scientifica. Ma sono premesse che coesistono con elementi di segno opposto, con persistenti chiusure. Parlando delle “culture idolatre”, Bergoglio mette sullo stesso piano “il consumismo, il relativismo e l’edonismo” (7), ponendosi in linea di continuità con la condanna del relativismo (una vera e propria crociata) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Discutendo di matrimoni tra persone omosessuali, sostiene che essi rappresenterebbero un “regresso antropologico” e che tale opinione “non ha un fondamento religioso, ma antropologico” (8). Anche questo modo di ragionare non è nuovo: si affrontano le questioni di morale sessuale pretendendo che le proprie opinioni non siano legate alla propria visione religiosa – e dunque rigettabili da chi non crede -, ma valide di per sé, perché fondate su una presunta legge naturale: e dunque vincolanti per tutti. Nel caso di Bergoglio, l’appello all’antropologia prende il posto del ricorso alla natura. Ma a quale antropologia si riferisce il papa? L’antropologia culturale è la via più sicura verso l’aborrito relativismo. Dal punto di vista dell’antropologia culturale non esiste una famiglia standard: la famiglia nucleare non ha più dignità della poligamia o addirittura della poliandria. Se poi ci inoltrassimo nei costumi sessuali dei popoli verrebbero fuori cose che scandalizzerebbero l’anima candida di un papa. E’ evidente che non all’antropologia culturale che il papa può chiedere soccorso. A quale, allora? All’antropologia filosofica. La quale consiste in questa operazione: ci si fa una idea dell’essere umano in base alle proprie convinzioni filosofiche o religiose; si dice poi che l’essere umano è senz’altro così; si fa capire, in modo più o meno garbato, che chiunque si allontani da quel modello è un essere umano dimezzato, parziale, insufficiente. Si dice, ad esempio, che l’essere umano è antropologicamente in relazione con Dio. Il rapporto con Dio, cioè, fa parte della sua natura. E se uno non crede? Gli manca qualcosa, naturalmente; è un essere umano che non realizza la sua natura se non in modo molto parziale. Un procedimento che è l’esatto contrario del dialogo.
Di qui, anche, conclusioni non proprio esaltanti sul rapporto tra scienza e fede. “La scienza – scrive Bergoglio – ha una sua autonomia, che va rispettata e incoraggiata. Non dobbiamo intrometterci nell’autonomia dello scienziato. A meno che questi non oltrepassi il proprio campo e sconfini nel trascendente. La scienza è fondamentale in funzione del precetto di Dio: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela'” (9). Questo vuol dire, in sostanza, negare qualsiasi valore conoscitivo alla scienza e ridurla alla tecnica. E’ sorprendente che un religioso che ha scelto come papa il nome Francesco sia così ossessionato dal dominio sulla natura, quel dominio nel quale molti pensatori, anche religiosi, anche cattolici, hanno scorto e scorgono la radice dell’attuale crisi ecologica. La scienza è scienza, ossia conoscenza. Il suo valore principale consiste nella ricerca della verità, non nel dominio della natura. La tecnoscienza è una degenerazione, una prostituzione del fine puramente conoscitivo della scienza. E’ inevitabile che la scienza oltrepassi il proprio campo, se il confine che le ha imposto il religioso è quello della tecnica. Si pensi alla fisica. Sappiamo che l’universo nel quale viviamo è di una complessità straordinaria, tale che per pensarlo dobbiamo accantonare il modo corrente di pensare cose come lo spazio ed il tempo. Possiamo, al cospetto di queste teorie, continuare a pensare alla creazione dal nulla? Possiamo pensare un Dio che crea i cieli e la terra “in principio”? Ha senso il concetto di principio, ad esempio? Porsi queste domande per un cattolico vuol dire interrogarsi, confrontarsi in modo aperto con la scienza. Dirsi che la fisica non riguarda la fede, perché il suo campo è quello del dominio del mondo, e nulla ha a che fare col campo intangibile e sicuro della verità religiosa, vuol dire peccare ancora una volta di arroganza religiosa.
Note
(1) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, tr. it., La Biblioteca di Repubblica – L’Espresso, Roma 2013, p. 24.
(2) Ivi, p. 134.
(3) Ivi, pp. 23-24.
(4) S. Weil, L’ombra e la grazia, tr. it., Rusconi, Milano 1996, p. 29.
(5) M. Eckhart, Sermoni tedeschi, tr. it., Adelphi, Milano 1997, p. 133.
(6) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 29.
(7) Ivi, p. 31.
(8) Ivi, p. 110.
(9) Ivi, p. 116.
Editoriale per Stato Quotidiano.
Nelle scienze umane le storie di vita sono uno strumento fondamentale per indagare a fondo il cambiamento sociale. Come è cambiata nel tempo la vita delle persone? Quali erano i valori condivisi qualche decennio fa? Quali le condizioni di vita? In che modo la vita dei singoli si lega ai grandi eventi storici? Per rispondere a queste e ad altre domande si può chiedere alle persone anziane di raccontare semplicemente la propria vita, con un tipo di intervista che lascia grande libertà all’intervistato, con domande che servono solo a stimolare il racconto ed a far sì che non tralasci punti importanti.
Poiché queste storie di vita sono anche un modo per ascoltare la voce degli anziani, che nel nostro mondo si avverte sempre più debolmente, ho spesso proposto ai miei studenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia di intervistare i loro nonni, nell’ambito del corso di Metodologia della ricerca. Il risultato è spesso una narrazione di grande interesse, anche piacevole da leggere, uno spiraglio su un passato che è dietro l’angolo, ma che sembra dimenticato. Dopo il boom economico il nostro paese ha rimosso letteralmente il suo vissuto di povertà, di sofferenza, di emigrazione; gli anziani sono diventati dei testimoni scomodi di un mondo con cui non vogliamo più avere a che fare.[read more]
Qui di seguito propongo una di queste narrazioni. Si tratta della storia di vita di Lorenzo di Mauro, nato a Mattinata nel 1934. Ad intervistarlo la nipote Giusy Bisceglia.
Puoi parlare dei primi ricordi, l’infanzia, la famiglia, i giochi, la scuola…?
Non esistevano… Non gioco e no niente… Che gioco dovevamo avere prima? Che ci stava? Non ci stava niente. Non ci stava manco la sedia.
La scuola non l’hai frequentata?
Un anno e mezzo di scuola ho fatto. Il motivo perché è morto mio padre. Mio padre è morto a trentun anni, io non ho potuto andare a scuola per motivi di soldi, che non ci stava la lira, non ci stava niente, mia madre era sola, perciò non ho potuto andare a scuola, sono stato sotto a un padrone a lavorare, perciò ho dovuto rifiutare la scuola per andare a lavorare, perché non c’era niente da mangiare, non avevo dei genitori, mia madre era sola, e mia madre per darci a mangiare a noi andare a lavare della roba per guadagnare qualcosa.
Come vestivi da giovane?
Da giovane mancava tutto, mancavano i divertimenti, non ci stava niente, da giovane posso dire una cosa io, che i divertimenti non esistevano proprio, non esistevano proprio i divertimenti, e io posso dire che in quell’anno e mezzo di scuola che ho fatto sono stato vestito da balilla, nel periodo fascista, tutto vestito nero, però… si stava bene come ordine, però il resto mancava tutto, non esisteva niente, esisteva molta povertà. Nel ’43 è stata la guerra e non ci stava niente da mangiare, ma niente di niente, e quando si comprava un po’ di grano, il grano, si metteva a cuocere il grano, si metteva un po’ di zucchero sopra e mangiavano il grano, perché mancava il pane, mancava la pasta, mancava tutto.
La sera quando andavo a letto non potevo dormire perché la pancia era vuota, avevo fame, non potevo dormire. E comunque la vita di prima non facciamo cambio con quella di adesso, perché adesso, adesso si butta il pane, ci siamo dimenticati il passato, però adesso il pane si butta perché c’è, ma prima mancava tutto tutto tutto. Durante la guerra non ci stava niente.
E tuo padre come è morto?
Mio padre è andato sotto le armi, dopo di cinque giorni che è venuto da sotto le armi l’ha preso un male di pancia e è morto con l’appendicite, il 1936 è morto, io avevo due anni. Quando sentivo di chiamare papà, tatà si diceva allora, agli altri bambini, io chiamavo pure io, e chiamando piangevo. Io vedevo che mia madre piangeva e dicevo “ma’, perché piangi” e mamma non diceva a noi “è morto tuo padre”, visto che noi ci siamo fatti un po’ grandi lo abbiamo capito, no? E comunque per me con quattro fratelli la vita è stata dura, siamo stati costretti sempre a lavorare, da piccoli, all’età di nove dieci anni stavamo già sotto i padroni a lavorare. E come andavo a scuola, se dentro la mia casa mancava tutto? Non soltanto dentro la mia casa, allora mancava dappertutto, allora le scuole le facevano quelli che avevano un po’ di soldi.
E i dottori non potevano curare l’appendicite di tuo padre?
No, è stato un dolore… così… subito, perché con l’appendicite a peritonite prima si moriva. Che poi il dolore che è venuto a mio padre è stato di sera, quando usciva la processione a Mattinata l’hanno operato, al ritorno della processione mio padre è morto.
Quando il dottore l’ha operato ha detto alla mamma, alla mia nonna, di andare a Monte Sant’Angelo a prendere il dottore, e mancavano pullman, non è che stava l’aereo come adesso che per prendere una medicina vai a Roma a prenderla, mancava tutto, e così è uscito la processione e l’hanno operato, e al ritorno della processione è morto, aveva trentun anni.
Ma parecchi morivano per l’influenza, anche?
Sì, sì, perché mancava tutto, mancavano i dottori, mancava… non è che ci stava l’ospedale come adesso, che adesso, che adesso un piccolo male e subito c’è il dottore, prima si faceva in casa, l’hanno operato in casa a mio padre, senza anestesia, niente. Si metteva la pentola dell’acqua bollente sul fuoco, si metteva la forbice dentro, gli accessori dentro, e il dottore operava. Tra parentesi a Mattinata a quell’ora ne sono morti tre o quattro, tanti anni fa, e comunque adesso come dottori, come ospedali, cose… adesso stiamo bene, ogni minima cosa siamo nell’ordine di essere aiutati, ma prima mancava tutto tutto tutto.
Avevi amici?
Io? Sì, ma prima uno come faceva a tenere gli amici, perché non è… uno può tenere gli amici se va all’asilo, e l’asilo, c’hai gli amici se uno va a scuola, e durante la scuola, quando esci dalla scuola c’hai gli amici, ma prima le scuole chi le faceva?
Andavi a lavorare, non potevi trovare qualche amico?
Sì, sì, mentre che lavoravi tutt’al più potevi avere un amico, due amici, tre quattro persone durante il lavoro, ma non come adesso, adesso c’è il pallone, si sente la partita al pallone, esci in piazza e trovi a centinaia gli amici, ma prima non esisteva proprio questo qua.
Tua moglie è stata la tua prima ragazza?
Sì, sì, mia moglie è stata la prima, la prima, e se ti dico perché mi sono sposato piccolo, perché ci siamo sposati piccoli, perché dentro a casa nostra, povera, non è che aspettavano che tu stavi fino a trent’anni e avevi la possibilità di avere il corredo, eh, soltanto il vestito che portavi addosso, perché mancavano i soldi per fare il corredo, tra parentesi io mi sono sposato perché… eh, la mia avventura è stata lunga, mio padre è morto a trentun anni, io avevo la mamma, e mia madre s’è sposata di nuovo, ha avuto tre figli, e cinque ne aveva il primo marito, e quattro ne eravamo noi, e due loro, quattordici persone, perciò io ho passato una vita in mezzo a quattordici persone, dentro una casa, e non è che ci stavano quattordici piatti, come adesso, un piatto ciascuno, si metteva in mezzo un piatto soltanto e si mangiava dentro quel piatto, quello che ci stava, e dovevi mangiare sempre al posto tuo, no che ti dovevi spostare dal posto tuo, ti dovevi mettere vicino al posto tuo con la forchetta in mano, dovevi mangiare sempre vicino al tuo posto, e non è che eri sicuro di mangiare, perché parecchie volte la pentola bolliva e mancava la roba da mettere dentro, l’acqua bolliva e mancava la pasta, mancava la farina, e io oppure qualche altro mio fratello andavamo al negozio, dicevo “signo’, ha detto mia madre mi puoi dare due chili di farina, che poi quando fa i soldi li porta”, e ti rispondeva “dì a tua madre che mi deve pagare ancora un chilo, due chili di prima”, perché non ci stava niente, insomma, la vita di prima è stata una vita… però una cosa era bella prima, che ci stava il rispetto familiare, un grande rispetto, quello che non c’è adesso, perché adesso sorelle e sorelle non si parlano, fratelli e fratelli non si parlano, un figlio se deve stare un mese senza andare a casa dei genitori, ci sono, invece prima no, prima i genitori non venivano lasciati soli, quel pezzettino di pane che ci stava veniva diviso tutti uniti, e se andava a terra un pezzetto di pane, quando si prendeva il pane si baciava, e dopo lo mettevi in bocca, invece adesso il pane lo trovi nei secchi della spazzatura, lo trovi per terra, nemmeno i cani lo mangiano, e io quando vedo queste cose qua, mi fa male il cuore veramente, e io lo prendo il pane e lo cerco di proteggere, di mettere da qualche parte, invece ci sono bambini che adesso il panino per terra lo prendono a calci, e non lo mangiano nemmeno i cani, perché ce n’è.
E’ stato difficile trovare lavoro?
Ecco, mo ti dico questo qua. Venticinque febbraio ’57 sono sposato, di giovedì, dopo di due settimane ho avuto la chiamata per partire all’estero, sono andato in Austria, e non avevo nemmeno il bagaglio, la valigia, da mettere la roba dentro, sono andato al negozio, dal tabaccaio, l’ho presa la valigia e… che poi quando sono andato là l’ho mandato i soldi della valigia, e mi è stato così duro di lasciare mia moglie due settimane sposata, quando sono arrivato a salire sulla montagna, mi sono girato dietro e ho guardato Mattinata. Ho pianto.
Ho pianto veramente. Poi sono andato a Verona, sono stato cinque giorni a Verona, poi sono partito in Austria, e andavo a lavorare dentro una fabbrica di marmo, con gli stivali ai piedi, con i guanti alle mani, e dentro una baracca, a dormire dentro una baracca, che poi piano piano ci hanno dato la sistemazione buona, e poi ho fatto sei anni ancora all’estero in Germania, sono stato ancora sei anni all’estero in Germania, e sono stato uno che… sempre attaccato alla famiglia, che anche in Germania di fronte al letto dove dormivo avevo il quadro con tutta la famiglia, di mia nonna, di mia moglie, dei figli e di tutto, tra parentesi all’estero non è che era bello starci, lontano dalla famiglia è la più cosa brutta di stare lontano dalla famiglia.
Dunque, quando sono partito in Germania io ero un operaio comune, ho fatto il contratto da manovale meccanico, e io non sapevo tenere nemmeno il martello in mano, sono andato nella fabbrica, quattro settimane nel reparto solo a guardare, e piano piano, piano piano, piano piano ci ho messo delle mani, ed ho imparato tante, tante cose, a distanza di un anno io lavoravo come i tedeschi, e mi davano la busta paga identica come i tedeschi.
E’ stato difficile imparare la lingua?
Per imparare la lingua… se uno c’ha tante scuole, non ci fa tanta attenzione, se uno non c’ha scuole, c’ha qualcosa così, ci fa tanta, tanta attenzione a imparare. Io ho imparato la lingua tedesca… un anno sono stato in Austria, e in Austria parlano il tedesco… quando sono partito in Germania mi hanno chiesto chi sa parlare il tedesco, e io perché sono stato già un anno in Austria, sapevo qualcosa, e sono andato a lavorare dentro questa fabbrica qua, e piano piano piano piano l’ho imparato, ma bene bene bene bene, che quello che mi chiedevano sapevo rispondere tutto, durante il lavoro lo stesso, tra parentesi… non dico il cento per cento, ma il settanta per cento, lo so parlare.
E poi dopo di tre anni che ho lavorato in fabbrica ho lavorato tre anni alla posta, all’ufficio postale, e prima di assumermi a lavorare mi hanno domandato alcune domande in tedesco, e io gli ho risposto bene, mi hanno preso a lavorare, ho lavorato tre anni all’ufficio postale a Stoccarda… tra parentesi mi sono trovato bene, ho imparato il tedesco, ho… ti so rispondere in tedesco anche quando uno sogna la notte… ti dico che ancora adesso che sono dal ’65 che sono tornato a casa lo so bene bene bene, non mi sono dimenticato di niente, perché ho lavorato per quasi vent’anni in campeggio pure, in campeggio ci stanno i tedeschi, ho avuto sempre contatti a parlare, a parlare, a parlare… in conclusione dei fatti il tedesco è difficile, però se uno c’ha la volontà, impara.
Quando sei tornato dalla Germania le condizioni di vita erano migliorate?
Sì, erano migliorate, ho comprato la casa, ho comprato un po’ di terreno, ho fatto tutto per tutto per i figli, ci siamo voluti sempre bene, siamo una famiglia unita, e tra parentesi la più che ho avuto troppo stretta è stata mia moglie, perché non ci siamo mai abbandonati, io le mandavo i soldi e lei li sapeva gestire.
Dopo la nascita dei figli ci sono state ancora difficoltà, altri sacrifici?
No, sacrifici non ce ne sono stati, perché si dice che nella famiglia numerosa ti aiuta Dio, però quello che mi ha lasciato perplesso è che io mi sono sposato, due settimane e sono partito in Germania, ritorno dopo un anno e trovo un figlio, a Matteo, in due settimane abbiamo costruito, e sono partito, dopo un anno vengo a casa e trovo un bambino, e il bambino quando mi ha visto prendeva paura di me, nel letto, diceva “questo qua chi è?”, e è stata una cosa dolorosa proprio, perché la lontananza dei figli… e poi venivo sempre in ferie nello stesso periodo e ho avuto cinque sei figli, sempre nella data di gennaio sono nati… Cinque, cinque figli tutti e cinque a gennaio.
Com’era Mattinata una volta?
Mattinata nel periodo della guerra era bella, era una farfalla come paese, era troppo bella, a Mattinata s’è costruito nel periodo quando hanno emigrato in guerra, e s’è costruito un po’ di Mattinata, s’è fatto più grande, poi quando che hanno cominciato a migrare al Belgio, in Francia e in Germania, Mattinata s’è sviluppata almeno almeno per dieci volte di quando era prima, perché emigrando i soldi si sono guadagnati e ognuno s’è fatto la casa, chi s’è fatto la casa, s’è fatto il terreno, c’è stato un miglioramento di vita, però adesso, adesso, non è più come una volta, adesso la casa dei giovani non la fa più nessuno, perché la Germania è finita, la Francia è finita, tutte le nazioni che abbiamo emigrato lavoro non ce ne hanno nessuna nemmeno per conto loro, e tra parentesi i giovani di oggi per traversare questa, questo passaggio qua è dura, tra parentesi si sposano anche di meno, adesso.
Ora si usa la convivenza…
Ecco. Perché… manca la possibilità, manca il lavoro, manca tutto… sì, fanno le scuole, ma anche che fanno le scuole, quando uno è fatto ragioniere, è fatto maestro di scuola, non prende il posto nemmeno a quarant’anni… e non è che un maestro può migrare in Germania, che ci va a fare in Germania, che in Germania lavoro non ce n’è più, deve emigrare al nord, e al nord se trova un posto di lavoro, se no… eh.. oggi è critica, stiamo meglio come mangiare, assistenza e tutto, però stiamo attraversando pure un periodo non tanto bello.
Quanti figli hai?
Ce ne ho nove. Per fortuna i figli che c’ho tutti otto sono sposati e uno non ancora, che i figli non è che c’hanno nove figli come ho fatto io, massimo due, per ogni figlio, tra parentesi tutti i nipoti ne sono diciassette, tra parentesi se avessero fatto nove come ho fatto io avrei ottanta nipoti, i figli adesso non si fanno più per la paura di portarli avanti, perché oggi i figli costano, anche allora costavano i figli, ma allora allora era un altro…
Ma non costavano di più i figli allora?
No no, a tenere la famiglia numerosa per me è stato… niente, ho attraversato una vita tranquilla, per nove figli, ti dico che io mi sono trovato bene, però sono stato un grande lavoratore, ho sempre lavorato, i figli sono stati sempre uniti a noi, hanno lavorato anche loro, portando i soldi a casa.
So che ti piace vedere i telegiornali, soprattutto la politica. Perché?
Vedi, io… se devo dire la verità… perché ho passato… il passato quando non esisteva pane, quando non esisteva niente, ho passato una vita brutta, che il padrone ha fatto sempre il suo interesse, ma io come operaio con i padroni so’ stato sempre un collaboratore, che collaboravo coi padroni, ma i padroni cercavano di fare sempre a non pagarmi, e sono stato sempre un sindacalista, ma sindacalista sono stato, che mi piaceva fare il mio dovere e pretendevo anche quello che mi spettava, tra parentesi adesso mi piace a sentire la politica, mi piace a sentire la politica, io no… se sto a Mattinata, se sto in casa, lo sento dieci volte al giorno il telegiornale, che mi piace a sentire, perché delle cose che stanno accadendo adesso, dei politici, sono poco quello che fanno nei riguardi del basso popolo, pensano sempre per i grandi.[/read]
Il diavolo come caprone (F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626) |
Articolo scritto per Stato Quotidiano.
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