Papa Francesco, il piazzista di Dio

Dal Rinascimento in poi, gli sviluppi della scienza e della filosofia hanno progressivamente sgretolato il terreno metafisico-cosmologico su cui poggiava la dottrina cristiana. A fine Ottocento il processo è compiuto: si tratta solo di trarne le conclusioni. E lo fa Nietzsche con l’annuncio della morte di Dio; un annuncio fatto non a credenti, ma ad atei, proprio perché non si tratta di dire che Dio non c’è, cosa ormai banale ed evidente a tutti, ma che se Dio non c’è tutti i nostri valori devono essere trasmutati. Se era evidente a tutti, non lo era per la Chiesa cattolica, che per decenni ha continuato ad affermare e riaffermare caparbiamente il proprio contenuto dogmatico. Fino a quando è arrivato il colpo di grazia: la società del benessere, che progressivamente ha ridotto nei paesi industrializzati le basi sociologiche del suo consenso: una ampia massa di persone ignoranti, superstiziose, bisognose di rassicurazione ultraterrena perché spaventate da una vita difficile. Di fronte a questi cambiamenti epocali le posizioni possibili sono quattro. La prima è quella di un ripensamento serio e profondo del cristianesimo alla luce dei cambiamenti sociali e culturali. È la via imboccata dall’avanguardia più coraggiosa della teologia contemporanea, in particolare protestante, con autori come Bultmann, Bonhoeffer, Altizer, e in Italia da pensatori come Sergio Quinzio o quello straordinario provocatore che è stato Ferdinando Tartaglia. La seconda è quel ripensamento politico del cristianesimo come prassi di liberazione compiuto dalla teologia della liberazione sudamericana. La terza è la condanna della modernità. È la via del fondamentalismo evangelico ed ortodosso e, in modo apparentemente più blando, del papato di Giovanni Paolo II, con il suo attacco ossessivo al relativismo. L’ultima posizione è quella di un adattamento del cristianesimo al consumismo. È la via di certi telepredicatori evangelici statunitensi. Ed è anche la via che la Chiesa cattolica sembra aver preso con la guida di papa Francesco. Nulla lo dimostra meglio dell’ultimo suo libro. Che è, intanto, una operazione commerciale sfacciata. Il papa si affida, chissà perché, non alla Libreria Vaticana, ma alla semisconosciuta Libreria Pienogiorno di Milano. Una case editrice che si presenta così nel suo sito Internet: “Non un altro marchio editoriale, ma un marchio editoriale tutto nuovo che offre autori di successo, altovendenti, di qualità e proposte di assoluto interesse e rilievo del panorama italiano e internazionale”. Altovendenti. Non avevo mai incontrato questa parola, mi immagino che faccia parte di certo gergo aziendale sul quale sarebbe troppo facile fare ironia. Il fatto di essersi affidato a una casa editrice che pubblica autori altovendenti non è senza conseguenze. Perché, per quanto male di pensi di papa Francesco, è difficile credere che sia stato lui a pensare un titolo ruffiano come Buona vita e un sottotitolo ruffianissimo come Tu sei una meraviglia, che superano di gran lunga l’idiozia del precedente Ti auguro il sorriso. Per tornare alla gioia. Perché credere in Cristo? La risposta un tempo era: perché solo il Cristo ci salva dal peccato; perché siamo esseri profondamente corrotti e possiamo risollevarci solo con l’aiuto di Dio. Per secoli il cattolicesimo ha insistito sul peccato e la corruzione, con un compiacimento barocco di cui nessuno avverte la mancanza. Nel cattolicesimo di papa Francesco invece tutti gli elementi tragici e drammatici del cristianesimo sono rimossi o ridotti a burla. Il peccato, in primo luogo. Se vi accenna, è solo per tranquillizzare subito: quella nuvola è immediatamente fugata dalla luce di Cristo. Che vi siano stati migliaia di uomini di Dio, adeguatamente dotati di fede, che hanno compiuto le azioni più nefande sugli esseri più fragili, non lo induce a riflessioni amare sulla pervasività del male, o magari ad indagare – Dio non voglia! – su un possibile legame strutturale tra la dottrina, l’istituzione che la veicola e la pedofilia. Bisogna essere positivi. Sorridenti, anche. Allegri. Gioiosi. Ed è questa la risposta di papa Francesco. Bisogna credere perché la fede dà gioia. È un antidepressivo infallibile. Non è un particolare smarrimento del cristianesimo. Mi pare anzi che vi sia una piena continuità, una perfetta realizzazione della logica storica del cristianesimo. Se Dio muore per l’uomo, allora l’uomo è Dio. I pagani erano sorpresi e turbati da questo aspetto del cristianesimo: il sovvertimento del rapporto naturale, diciamo così, tra Dio e uomo. L’uomo va da Dio, perché Dio è Dio. Ma nel cristianesimo Dio va dall’uomo. Anzi, di più: si sacrifica per l’uomo. Ma ciò cui si sacrifica è Dio. Dunque nel cristianesimo il vero Dio è l’uomo. Dio è al servizio dell’uomo. Il cattolicesimo consumistico di papa Francesco è l’inverarsi postmoderno del Vangelo. Dio va all’uomo come un qualsiasi bene di consumo. Il suo scaffale, per la precisione, è quello dei prodotti adatti per una vita sana e salutare. Per i casi più difficili, può essere un antidepressivo; ma al tempo stesso è un ricostituente e un eccitante, perché al papa piacciono le persone energiche. In ogni caso, è un rimedio facile, a portata di mano, che costa poco. Pochissimo. E che funziona meglio di qualsiasi altro:
Probabilmente, nei momenti di difficoltà, tanti di voi si saranno sentiti ripetere le parole “magiche” che oggi vanno di moda e dovrebbero risolvere tutto: “Devi credere in te stesso”, “Devi trovare le risorse dentro di te”, “Devi prendere coscienza della tua energia positiva”. Ma tutte queste sono semplici parole e per chi è veramente “morto dentro” non funzionano. La parola di Cristo è di un altro spessore, è infinitamente superiore. È una parola divina e creatrice, che sola può riportare la vita dove questa si era spenta.
Dio funziona meglio. Ma lo scopo, la funzione, è la stessa: il benessere. E non occorrono grandi sacrifici per ottenerlo. Kierkegaard non aveva capito nulla. Essere cristiani è nulla più che vivere serenamente la propria vita. Non manca, è chiaro, la polemica contro questo mondo, l’invito ad essere diversi e in opposizione ad esso. Ma in papa Francesco anche questa opposizione diventa cosa da ridere. I giovani sono invitati ad avere ideali, senza che si specifichi quali (anche i fascisti dicono di avere ideali), mentre agli anziani raccomanda di non fare chiacchiere, un tema che chissà perché gli sta molto a cuore. Cose così. L’operazione di papa Francesco è a suo modo onesta. Il bene-Dio può dare quello che promette. Può essere che la vita diventi più facile, allegra, gioiosa. E tuttavia la conversione non riesce del tutto. Per usare un’altra metafora, papa Francesco vende un’automobile usata, usatissima, dopo aver sistemato la carrozzeria e rifatto la verniciatura. A vederla sembra nuova, quasi fiammante. Ma se sollevi il cofano scopri che il motore è logoro. Il motore del cristianesimo è nella sua cultura del giudizio, in quella divisione violenta tra salvati e dannati, tra chi è da Dio e chi è da Satana che è all’origine di tutte le atrocità commesse dal cristianesimo nel corso della sua storia, dallo smembramento di Ipazia al massacro dei bambini indigeni del Canada fino agli anni Settanta del secolo scorso. Un libro col sottotitolo Tu sei una meraviglia sembra voler scardinare questo stesso motore violento, in nome dell’accettazione totale e incondizionata del lettore. Ecco:
Scusa, fratello, non perderti d’animo. Hai la tentazione di sentirti sbagliato? Dio ti dice: “No, sei mio figlio!” Hai la sensazione di non farcela, il timore di essere inadeguato, la paura di non uscire dal tunnel della prova? Dio ti dice: “Coraggio, sono con te.”
Dio è un motivatore, un personal trainer metafisico. Bellissimo. Nessuno è sbagliato, perché siamo tutti figli di Dio. Ci sarebbe l’obiezione che se basta l’essere figli di Dio per non essere sbagliati, allora non si capisce perché l’Adam non abbia potuto godersi la vita nell’Eden, e Dio lo abbia fatto sentire così maledettamente sbagliato scacciandolo insieme ad Eva. Ma poi ecco che si fa avanti, poniamo, un pigro. E papa Francesco:
Dio detesta la pigrizia e ama l’azione. I pigri non potranno ereditare la voce del Signore. Capito?
Non ho la minima idea di cosa voglia dire ereditare la voce, ma è chiaro che i pigri non piacciono né a Dio né al papa. Se sei pigro, non va bene. Poi ci sono i tiepidi. Come ho accennato, al papa piacciono le persone energiche. E dunque al bando i tiepidi. “Gesù detesta più di ogni cosa la tiepidezza. Si vede il disprezzo di Dio per i tiepidi”. Dunque: Dio ti dice di non sentirti sbagliato perché sei suo figlio, ma se sei tiepido ti disprezza. Poi c’è la faccenda del sesso. Non venga in mente ai giovani di farlo, magari perché è una cosa naturale, naturalissima.
Io non vorrei fare il moralista, ma voglio dire una parola che non piace, una parola impopolare. Anche il Papa alcune volte deve rischiare per dire la verità. L’amore è nelle opere, nel comunicare, ma l’amore è molto rispettoso delle persone, non usa le persone. Cioè l’amore è casto. E a voi giovani in questo mondo, in questo mondo edonista, in questo mondo dove soltanto ha pubblicità il piacere, passarsela bene, fare la bella vita, io dico: siate casti, siate casti.
C’è molta miseria morale nel non saper distinguere un rapporto sessuale fondato sull’amore da un rapporto sessuale fondato sul piacere reciproco ed entrambi da un rapporto sessuale mercenario, e ridurre tutto il sesso a quest’ultima tipologia. A meno il papa non voglia dire che ogni volta che due persone traggono piacere da una cosa che fanno insieme, vuol dire che si stanno usando a vicenda. Ma in questo caso tutto diventa peccato. Anche una conversazione intellettuale, che quanto più è profonda, tanto più dà piacere. Ma non è il caso di discutere davvero queste stronzate (pericolose, perché la vita sessuale è essenziale per la salute: è come se si dicesse ai giovani di essere anoressici), dando ad esse una dignità che non hanno. Sono sufficienti per mostrare come, sotto la carrozzeria riverniciata, vi sia lo stesso logoro motore cristiano, con il suo moralismo, la piccineria, la sessuofobia e al tempo stesso l’ossessione per il sesso, che finisce per occupare tutta la sfera morale, a discapito delle virtù civili – una perversione morale di cui noi italiani stiamo ancora scontando le conseguenze. Il papa è, secondo la dottrina cattolica, il rappresentante di Dio sulla terra. Papa Francesco lo è in un modo particolare: il rappresentante nel senso commerciale del termine. Il commesso viaggiatore. Il piazzista di Dio. Altovendente, bisogna dargliene atto.

Cristianesimo:
che farsene ormai?

Fa un certo effetto leggere Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede di François Jullien (Ponte alle Grazie). Jullien non è solo uno dei massimi pensatori europei; è uno dei pochissimi che riesca a pensare oltre l’Europa, grazie alle sue competenze di sinologo. In quest’opera si occupa, dunque, di cristianesimo. E comincia così: “Vi chiederete perché mi occupi oggi proprio di questo – ovvero, del ‘cristianesimo’. Che cosa farsene, ormai?”. E poco oltre aggiunge: “Finito il tempo del suo dominio e poi quello della sua denuncia, e oggi nel tempo della sua marginalizzazione, occorre infatti tracciare il bilancio di quel che il cristianesimo ha fatto avvenire nel pensiero”. Non voglio discutere, qui, le risorse che Jullien scopre nel cristianesimo e crede di poter riprendere anche senza la fede; dirò solo che sono risorse che con ogni probabilità sorprenderebbero buona parte dei credenti. Mi interessa soffermarmi sull’incipit, sul punto di partenza del suo discorso. Dunque: il cristianesimo è giunto al momento dei bilanci? Continue reading “Cristianesimo:
che farsene ormai?”

Quant’è falso (e pericoloso) Dio

Superati i settant’anni Sergio Givone, che conosciamo come uno dei massimi filosofi italiani, s’accorge d’aver sbagliato mestiere e ci consegna un’enciclica: Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018). Il titolo è azzeccato, e davvero rincresce che non sia venuto in mente a qualcuno degli ultimi papi, ai quali non si può rimproverare, tuttavia, di non aver pensato quello che si trova oltre il frontespizio. La tesi è semplice semplice, ed è tutta nel sottotitolo: non possiamo fare a meno della religione, perché se neghiamo Dio finiamo per negare anche l’uomo. Sì, Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso. Poiché centottanta pagine bisogna pur riempirle, Givone aggiunge Berdiaev, Pareyson. Agamben e perfino un po’ di Habermas. Fosse stato più audace, avrebbe aggiunto anche un Ferdinando Tartaglia, e il discorso forse sarebbe diventato più interessante. Così com’è, non è che una stanca, piatta, inutile variazione su uno dei temi più stantii della pubblicistica cattolica degli ultimi decenni.
Primo compito d’un filosofo dovrebbe essere il rigore: rigore nell’argomentazione, rigore nella definizione dei termini. Che cosa vuol dire che non possiamo fare a meno della religione? Noi chi? Noi esseri umani, noi europei? E cos’è la religione? E cos’è Dio? Quale Dio? Non uno di questi concetti è scontato. Esistono religioni senza Dio, come il buddhismo. Givone sostiene che dopo duemila e cinquecento anni i buddhisti non possono, ora, fare a meno di Dio? Ma lo stesso buddhismo è poi una religione? Il concetto indiano di dharma solo molto approssimativamente può essere ricondotto a quello occidentale di religione. Di cosa abbiamo allora bisogno? Continue reading “Quant’è falso (e pericoloso) Dio”

Il dolore, l’amore, la liberazione

Solo il grande dolore, scriveva Nietzsche ne La gaia scienza, “costringe noi filosofi a discendere nelle estreme profondità di noi stessi e a sbarazzarci di ogni fiducia, d’ogni bontà, d’ogni infingimento, d’ogni mansuetudine, d’ogni via di mezzo, di tutto ciò in cui forse una volta abbiamo riposto la nostra umanità” (Prefazione alla seconda edizione, 3, trad. F. Desideri). E’ una delle possibilità del dolore, che può avere anche una funzione igienica, se quella che abbatte era una finta bontà, se l’umanità era riposta in qualche fragile finzione borghese. Ma nella profondità nella quale il dolore ci ricaccia c’è la possibilità di conquistare una positività più alta, una umanità più vera, una bontà più solida. Sotto i colpi del dolore, si subisce un processo più o meno completo e radicale di disidentificazione; ci si distanzia, per così dire, da sé stessi; ci si abitua all’idea della morte, ossia della perdita di sé. E’ questa disidentificazione che può aprire una visione più ampia e gettare le basi d’una più solida vita morale: poiché purifica il bene da ogni venatura egoistica. Il dolore trascina in quella dimensione transpersonale nella quale soltanto, per Simone Weil, è davvero possibile il bene.[read more]

Sui percorsi che conducono dalla negatività del dolore alla positività dell’amore riflette Michele Illiceto ne Il talamo e la tela. Un libro singolare, che percorre il confine a volte labile tra poesia e filosofia, intrecciando una fitta trama di rimandi filosofici, che è compito del lettore dipanare, lasciandosi provocare dalle suggestioni disseminate pagina dopo pagina. Dal dolore all’amore, dunque. Quell’amore che per un cattolico è legato alla fede. L’impressione di trovarsi di fronte ad una riscrittura di Giobbe è confermata dagli ultimi versi del libro (prima dell’ultimo capitolo, che riporta dei versi di Teresa d’Avila), che sono una citazione di Giobbe 42, 5-6: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto”. Ma quello che Giobbe incontra, alla fine del suo inquieto e drammatico interrogare, non è un Dio tranquillizzante. Se i suoi interlocutori cercano di convincerlo che, se sta soffrendo, se gli sono capitate disgrazie, è perché ha compiuto qualche colpa (cercano dunque di sostenere una concezione etica di Dio), Giobbe avverte su di sé il peso di un Dio persecutore, indifferente al dolore umano, al di là del bene e del male. E l’intervento finale di Dio non è per spazzare via questa interpretazione che può apparire blasfema. A dire parole giuste su Dio non sono stati gli interlocutori di Giobbe, ma Giobbe stesso, con le sue bestemmie: e per questo Dio lo premia ridandogli i beni che aveva perso in seguito alla scommessa con l’ha-shatan. Una conclusione estremamente inquietante per i credenti. L’esperienza del dolore pone due questioni: se Dio è, e come Dio è. Escluso l’ateismo, per il credente è pressante la seconda questione. Quale Dio permette il male? Per Hans Jonas l’esperienza del dolore, rappresentata emblematicamente da Auschwitz, pone di fronte a una scelta: o un Dio onnipotente, ma non buono; o un Dio buono, ma non onnipotente. A suo parere non è possibile rinunciare alla bontà di Dio, a nessun costo; anzi, anche a costo di rinunciare alla sua onnipotenza, e di credere in un Dio debole. Io ritengo che sarebbe un’avventura non priva di interesse percorrere invece l’altro sentiero: provare a stare al cospetto di un Dio non buono, ma potente. Come Giobbe. Un Dio al di là del bene e del male. A crollare sarebbe, in primo luogo, il nostro narcisismo. E forse distruggere il narcisismo è tutto quello che ha da fare una religione (per questo considero il buddhismo la religione meno imperfetta: è mistica allo stato puro, almeno nella sua forma originaria, non contaminata da pratiche devozionali).
Dal dolore all’amore è il percorso delle religioni. Dalla sofferenza della condizione terrena – segnata dal peccato per il cristianesimo, da quel disagio (dukkha) che nasce dal desiderio (tanha) per il buddhismo – alla beatitudine della liberazione, che è già su questa terra (“dacci fin da oggi il pane di domani [epiousion]”, prega il cristiano). Ma il che modo compiere questa opera alchemica, questa conversione del dolore in gioia, della tristezza in amore? La risposta buddhista è: cambiando il punto di vista. Fino a quando osservi il mondo dal punto di vista del tuo piccolo ego, sarai preda della sofferenza. Ti libererai dalla sofferenza quando imparerai a guardare con uno sguardo più ampio. A considerare il tuo sé come una realtà vuota in un mondo vuoto. Ad abbandonare il tuo sé nel vuoto della non-seità universale. Per un cristiano questa risposta è inaccettabile, perché considera il sé tutt’altro che vuoto – è un’anima creata da Dio – e il mondo tutt’altro che vuoto – è pieno di Dio e delle sue creature. Come mostra Illceto, per un cristiano il percorso da compiere va dalla separazione, che è lo stigma del dolore, al Tutto. “Il dolore – scrive Illiceto – è sempre dolore della parte che si vede fuori da ogni inclusione. Amore ferito di una parte a cui manca. In esilio da un Tutto che più non lo comprende” (p. 110). Il percorso dell’esistenza, dall’essere-gettati heideggerianamente della nascita in poi, è un percorso di ricerca di questo Tutto da cui siamo esiliati, da questa unità che ci sfugge. E ci sfugge, nota acutamente Illiceto, perché lo cerchiamo nel posto sbagliato. Cerchiamo il Tutto in noi, come se fosse qualcosa che si può possedere restando individui, quasi si trattasse di un bene da privatizzare. “Cercarlo in noi è rubarlo agli altri. Cercarlo in loro è restituirlo anche a noi. Perché il Tutto non sarà mai dove sarò solo io. Né dove sarai solo tu. Ognuno di noi è soglia di questo Tutto in cui io e te saremo insieme. Perché laddove siamo, mai abbastanza siamo. Esso sarà dove io e te saremo l’uno per l’altro. L’uno nell’altro” (p. 179). Il percorso da dolore all’amore è tutto qui. E’ il percorso che va dall’io-contro-tutti all’io-nel-Tutto. E’ un percorso che Aldo Capitini faceva cominciare dal “dire tu”, espressione con la quale indicava un’apertura infinita all’altro – infinita nel senso che in questa apertura l’altro si mostra come un ente esposto alla morte, eppure dal valore infinito. La sofferenza salva, allora, nel momento in cui ci costringe a fare i conti con la nostra limitatezza, ad esplorare i confini del nostro io, a ridiscutere le modalità relazionali abituali, che in una società capitalistica sono fondate sulla competizione e l’individualismo. A cercare l’altro in me, superate le gabbie dell’ego. E’ un percorso che Illiceto compie da cristiano, ma che ha un valore universale, trascende fedi e filosofie, ed ha da sé la forza e la solidità dell’esperienza.

***

Il 13 luglio se n’è andato Arturo Paoli. Il mio ateismo non mi ha mai impedito di considerarlo uno degli uomini più grandi che il nostro paese abbia avuto nell’ultimo secolo, e di guardare alla sua presenza umile di ultracentenario come ad una riserva di purezza morale in un’Italia sempre più sporca, sempre più macchiata da un’economia sbagliata che genera mostruosità senza fine. Ora che fratello Arturo non c’è più, restano i suoi scritti a continuare la sua presenza – così come restano gli scritti di Capitini, di Dolci, di Lanza del Vasto, di padre Balducci. Li ho ripresi, i suoi libri, in questi giorni. La mia copia di Camminando s’apre cammino porta la sua dedica: “Ad Antonio, con l’augurio di scoprire la vita come un rinascere”. Non c’è augurio più bello, per me, in questi giorni, in questa fase della mia vita. Una fase in cui più che in altre sento di riuscire davvero a capire, a vedere, a sentire verità che ho sempre riconosciuto, ma che non sono mai diventate carne e sangue. Rinascita e liberazione sono le parole-chiave del pensiero e del lavoro – del pensiero che si fa lavoro – di fratello Arturo. Non tutti i suoi scritti mi hanno entusiasmato; alcuni, come Il sacerdote e la donna, mi hanno lasciato per un po’ pensoso, benché ammirato dall’eleganza davvero classica dello stile; ma il Dialogo della liberazione è una di quelle opere che non ti stanchi di leggere e meditare per tutta la vita. Fratello Arturo riesce a scrivere un grande libro di mistica e, al tempo stesso, un grande libro di etica: risolvendo a modo suo, con straordinaria semplicità, l’annosa questione dei rapporti tra mistica ed etica.
Questo sacerdote non ha timore di dire che “la fede deve sparire come virtù intellettuale, come forza dell’io” (p. 17), poiché non si tratta di credere in Cristo, ma di essere Cristo. Ed essere Cristo, detto in un modo comprensibile ed accettabile per un ateo, significa scendere alle radici dell’essere. Fratello Arturo parla di “sparizione del dualismo”, e sembra di sentire un maestro dell’Advaita Vedanta, uno Sri Ramaha Maharshi o un Nisargadatta Maharaj. Superare il dualismo tra l’io e l’essere, tornare alle radici, oltrepassare l’io. E’ il messaggio della mistica di ogni tempo, di ogni luogo. E come ogni mistico autentico, fratello Arturo sa che questo oltrepassamento è doloroso. Bisogna fare i conti con la povertà del proprio essere, con il nulla che siamo, e quel nulla ridurlo ancora a nulla, nullificarsi affinché l’altro dall’io sgorga come una sorgente d’acqua in un alveo cavo.
Questa è la via contemplativa, la via che ha le stesse tappe, le medesime stazioni, perfino lo stesso linguaggio nelle diverse tradizioni religiose. Ma, avverte fratello Arturo, non è l’unica via. Una via alternativa è la via politica, “il desiderio di rifare un mondo nuovo nella verità” (p. 19). Ed è su questa via che il cristiano ed il marxista possono camminare insieme. Uno psichiatra spagnolo gli scrive: “Se fossi nato nel terzo secolo, sarei cristiano. Siccome sono nato in questo secolo, sono marxista” (p. 277). E fratello Arturo corregge: “Sono marxista perché sono cristiano” (p. 278). Essere cristianamente marxisti, o marxianamente cristiani, vuol dire pensare la liberazione, che dev’essere storica e politica, senza perdere la consapevolezza della realtà del peccato. Pensato al di fuori dei tradizionali schemi sacramentali, il peccato appare come l’incapacità di amare, una forza di diminuzione che si oppone ad una più piena realizzazione dell’essere. Il capitalismo è per essenza una struttura economica di peccato. Ma non basta rovesciare il capitalismo, se non si va al fondo del peccato, che è “rifiuto di Dio in quanto Essere” (p. 48). L’uomo può cercare di essere qualcosa di più (si pensi al ser mais di Paulo Freire) solo se non è il risultato di un contesto storico, di condizionamenti sociali ed economici, ma è legato a qualcosa di più profondo, una pienezza che lo spinge a sottrarsi ai condizionamenti storici ed a realizzarsi pienamente. E’ l’Essere che “mi chiama a una liberazione dolorosa dalle alienazioni per discendere al mio vero io” (p. 48). Parole che vanno lette non dimenticando quanto s’è detto sul trascendimento del semplice credere in Dio. Non c’è rivoluzione autentica senza un contatto con quanto di più profondo è in noi, che il credente chiama Dio, e in non credente può chiamare Essere. Una presa di contatto che è resa sempre più difficile nella società capitalista dalla stessa educazione che, denuncia fratel Arturo, dovrebbe essere “una formazione alla verità mediante la povertà, l’umiltà, la disposizione di sé”, mentre è l’esatto opposto: “una educazione al potere economico, al potere di comando, all’abilità di saper disporre degli altri” (p. 71). Provate a dare uno sguardo alle “competenze” che si vuole che i sistemi educativi coltivino nelle nuove generazioni: vi troverete le stesse cose, ma dette con altre parole, meno sincere.
Sono profondamente convinto che quella della liberazione debba essere la categoria fondamentale della nostra riflessione e della nostra prassi di oppositori del capitalismo. Le tristi vicende politiche degli ultimi decenni nel nostro paese mostrano che libertà è una parola che può diventare una bandiera per la destra neoliberalista. In una società capitalista, tutti vogliono la libertà, e tutti credono di averla. La libertà si acquista con il denaro, e consiste nel possesso di una certa quantità di beni. La liberazione è un’altra cosa. Nasce, spiega fratel Arturo (e spiegano con lui i grandi maestri della teologia, della filosofia, della pedagogia della liberazione: Freire, Boff, Boal, Dussel…), da una profonda insoddisfazione per la realtà così com’è, e comincia un movimento di progressiva umanizzazione, di lotta contro l’alienazione in nome di ciò che è più profondo – e vero.

M. Illiceto, Il talamo e la tela. Laddove il dolore incontra l’amore, Morlacchi, Perugia 2015.
A. Paoli, Dialogo della liberazione, Aragno, Torino 2012 (prima edizione 1969).[/read]

Papa Francesco e la cultura del dominio

Nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco presenta una visione dell’ecologia che definisce più volte integrale. In cosa consiste l’integralità? Nel fatto che comprende le dimensioni interrelate dell’ambiente, dell’economia, della cultura, della società, considerando le conseguenze che i cambiamenti in ciascuna di queste dimensioni hanno su tutte le altre, ma non solo. L’ecologia di papa Francesco è integrale anche perché contempla tutti gli aspetti della visione del mondo cattolica. Utilizzando un termine di Raimon Panikkar, possiamo dire che l’ecologia cattolica di papa Francesco è cosmoteantrica. Se l’ecologia è la scienza dei rapporti, l’ecologia integrale di papa Francesco va intesa come la disciplina che si occupa dei rapporti tra l’essere umano, la natura e Dio. Riguardando anche Dio, una tale ecologia non potrà essere una scienza, ma dovrà risultare dal dialogo tra scienza e religione. Che rapporti ci sono tra Dio, l’essere umano e la natura? Secondo la Genesi, Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli affidò il compito di dominare la terra. Il testo biblico dice, esattamente:

וַיְבָרֶךְ אֹתָם, אֱלֹהִים, וַיֹּאמֶר לָהֶם אֱלֹהִים פְּרוּ וּרְבוּ וּמִלְאוּ אֶת-הָאָרֶץ, וְכִבְשֻׁהָ; וּרְדוּ בִּדְגַת הַיָּם, וּבְעוֹף הַשָּׁמַיִם, וּבְכָל-חַיָּה, הָרֹמֶשֶׂת עַל-הָאָרֶץ.
E Dio li benedisse, e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra e dominatela, e soggiogate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni vita che si muova sulla terra” (Genesi, 1, 28).

I verbi adoperati in questo passo sono inequivocabili. Il verbo che ho tradotto con “dominatela” è kabash, che Gesenius, autore del più autorevole dizionario dell’ebraico biblico, traduce come segue: pedibus conculcavit, pedibus subiecit, e per estensione subegit (1). Letteralmente dunque si tratta di mettersi qualcosa o qualcuno sotto i piedi. L’altro verbo, che riguarda specificamente gli animali, è radah. Gesenius traduce: (pedibus) calcavit; subegit, dominatus est (2). Sono due verbi che esprimono una grande violenza: l’essere umano ha da Dio il mandato di mettere il proprio piede sulla terra e su tutti gli esseri viventi, compresi quelli che sono in cielo. In questa violenza originaria, in questo primo mandato violento, che ha in occidente un valore fondante, pur appartenendo al mito, molti hanno visto le radici della violenza umana sulla natura. Tra i primi, lo storico della scienza Lynn White, che in un articolo pubblicato su Science nel 1967 sostenne, appunto, che la crisi ecologica ha radici cristiane. Il suo ragionamento era basato su un semplice sillogismo: la scienza e la tecnica sono nate in Occidente e poi si sono diffuse in tutto il mondo; l’occidente è cristiano; la scienza e la tecnica non esisterebbero senza il cristianesimo. “Specialmente nella sua forma occidentale – scriveva – il cristianesimo è la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai visto” (3). Il cristianesimo distingue l’essere umano, creato a Dio a sua immagine, da tutte le altre creature, sulle quali ha il mandato di dominare e che può usare per i propri scopi. La natura non è più sacra, come nel paganesimo. E tuttavia la natura è stata creata da Dio, e dunque è una via per mettersi in contatto con lui. Se la prima teologia ha interpretato la natura simbolicamente, dal tredicesimo secolo in poi si cerca Dio nella natura studiando il suo modo di funzionare e le sue leggi. E’ così che la scienza scaturisce dalla teologia. Purtroppo, questa tecnoscienza che intendeva conoscere la natura per conoscere Dio ha finito per devastare la natura. Secondo papa Francesco si è trattato di un equivoco. Il mandato biblico non dà all’uomo alcun potere assoluto sugli animali e sulla natura, poiché la terra appartiene solo a Dio. L’essere umano è chiamato da Dio a custodirla, ad esserne non il padrone, ma l’amministratore. Scrive papa Francesco:

Molte vol­te è stato trasmesso un sogno prometeico di do­minio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli. Invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di in­tenderlo come amministratore responsabile (4).

Non c’è nulla di particolarmente nuovo in questa idea dell’essere umano quale “amministratore responsabile” della natura. E’ la formula individuata da quando la teologia cattolica ha cominciato ad occuparsi delle problematiche teologiche (il passo citato del resto è seguito da una nota che richiama una dichiarazione dei vescovi dell’Asia del 1993). Parole molto simili si trovano in papa Ratzinger, non particolarmente noto per le sue aperture teologiche o politiche. In un messaggio per la giornata mondiale della pace del primo gennaio del 2000, Benedetto XVI affermava che l’uomo e la donna sono stati creati “ad immagine e somiglianza del Creatore per ‘riempire la terra’ e ‘dominarla’ come ‘amministratori’ di Dio stesso (cfr Gen1, 28)” (5). E, oltre che non nuova né originale, non è nemmeno particolarmente rivoluzionaria. Si tratta di nulla più che di una sfumatura, che non muta in nulla l’aspetto fondamentale della questione: la posizione dell’uomo nel cosmo. Per White, come per altri critici del cristianesimo (compreso il cattolico Eugen Drewermann, sospeso a divinis e ridotto allo stato laicale nel 1992)(6), l’antropocentrismo è il problema culturale da cui deriva la crisi ecologica, che non potrà essere superata fino a quando non si giungerà a considerare l’essere umano come una parte della natura. Quello proposto da papa Francesco è, per così dire, un antropocentismo moderato. L’essere umano resta il centro del creato, unica creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio, ma il suo potere non va inteso come potere assoluto. Il papa rifiuta risolutamente la prospettiva del biocentrismo, perché “Non si può esigere da parte dell’essere umano un impegno verso il mondo, se non si riconoscono e non si valoriz­zano al tempo stesso le sue peculiari capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità” (7); vale a dire: se non si riconosce la sua unicità di creatura fatta ad immagine di Dio. Papa Francesco non si limita a riaffermare l’antropocentrismo, garantito dal teocentrismo – l’essere umano è unico perché c’è Dio -, ma rilancia:

Non possiamo sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre poten­ze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà creata da Lui senza conoscere limite. Il modo mi­gliore per collocare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un domi­natore assoluto della terra, è ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo, perché altrimenti l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi (8).

Altrove, nell’enciclica, si legge che “non si può proporre” una relazione con l’ambiente che prescinda dalla relazione con l’altro e con Dio, perché ciò sarebbe “un individuali­smo romantico travestito da bellezza ecologica e un asfissiante rinchiudersi nell’immanenza”(9). Il che vuol dire che tutti coloro che non credono in Dio non possono essere autenticamente ecologisti, e che l’ateismo, sia pure religioso (ad esempio il buddhismo, che è una religione ateistica che ha molto da dire sui temi ecologici), è necessariamente violento ed antiecologico. Con questa enciclica, in sostanza, il cattolicesimo si arroga l’ecologismo. Il citato Lynn White riteneva che all’interno del cristianesimo fosse presente una sorta di antidoto alla violenza verso la natura: il francescanesimo. Francesco d’Assisi è, per lo storico americano, “il più grande radicale nella storia cristiana dai tempi di Cristo”. Egli ha istituito una sorta di democrazia tra le creature, una fratellanza che supera e cancella il dominio. Ma la rivoluzione francescana ha fallito, ed è prevalsa “l’arroganza cristiana ortodossa verso la natura” (10). Ora, papa Francesco si richiama apertamente a Francesco d’Assisi, al suo amore per la natura, alla sua fratellanza verso gli esseri non umani. Ad un certo punto, giunge a sfiorare una affermazione importantissima: quella della sacralità della vita non umana. Come è noto, per la Chiesa cattolica la sola vita umana, anche quando è ancora in embrione, è sacra; nessuna altra vita lo è. Con una formula nella quale appare evidente la sua formazione gesuitica, papa Francesco afferma:

Oggi la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono comple­tamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in sé stesse e noi potessimo disporne a piacimento (11).

Il che dovrebbe significare che gli esseri non umani hanno un valore intrinseco, se non una loro sacralità. Nella stessa enciclica, però, il papa sottolinea che il pensiero ebraico-cristiano “ha demitizzato la natura” e, senza smettere si ammirarla, “non le ha più attribuito un carattere divino” (12). E questo significa invece ribadire che l’essere umano è l’unico essere divino della natura, in quanto imago Dei, e che la vita di nessuna altra creatura è sacra. Da ciò dovrebbe scaturire una cura nei confronti del creato, fragile ed imperfetto nella sua non-divinità. Nessuna orizzontalità, dunque; nessuna reale fraternità tra le creature. Papa Francesco ribadisce la tradizionale visione cattolica del cosmo: in alto Dio; sotto Dio l’essere umano; sotto l’essere umano, la terra e le creature. Questo “essere sotto” del mondo e delle creature non è più un “essere schiacciato”, ma resta la visione gerarchica. Uno che di ecologia se ne intendeva, Murray Bookchin (tra parentesi: è il creatore dell’ecologia sociale, espressione che il papa usa senza citarlo), sosteneva l’urgenza di “estirpare l’orientamento gerarchico della nostra psiche” (13), quella disposizione mentale che ci porta a creare realtà inevitabilmente disuguali, in qualsiasi campo della nostra esperienza. La stessa opzione etico-economica per gli ultimi ed i poveri – a proposito della quale papa Francesco in questa enciclica ed altrove dice cose importanti ed assolutamente condivisibili – può restare parziale, senza una rivoluzione psichica e culturale che ci conduca a cercare ovunque relazioni orizzontali, aperte, democratiche, a rigettare la cultura dell’alto e del basso, del primo e dell’ultimo, del sacro e del profano. La crisi ecologica richiede una rivoluzione culturale, un nuovo sguardo sul mondo che re-immerga l’essere umano nella natura e che porti in primo piano, anche dal punto di vista etico, la vita non umana. Quella proposta da papa Francesco è, su questo punto (che non è marginale, ed al quale si collegano tutti gli altri temi economici, sociali, etici) una riforma, più che una rivoluzione. 
Note 
(1) W. Gesenius, Lexicon Manuale Hebraicum ed Chaldaicum in Veteris Testamenti Libros, Vogelii, Lipsiae 1833, p. 465. 
(2) Ivi, p. 924. 
(3) L. Whyte, The Historical Roots of Our Ecologic Crisis, in Science, vol. 155, n. 3767, 10 march 1967. 
(4) Lettera enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, Tipografia Vaticana, Roma 2015, p. 91. 
(5) Benedetto XVI, Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la celebrazione della XLIII Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2010, http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/peace/documents/hf_ben-xvi_mes_20091208_xliii-world-day-peace.html 
(6) La critica di Drewermann all’antropocentrismo è in Der tödliche Fortschritt: Von der Zerstörung der Erde und des Menschen im Erbe des Christentums, Pustet, Regensburg 1981. 
(7) Lettera enciclica Laudato si‘, cit., p. 93. 
(8) Ivi, pp. 59-60. 
(9) Ivi, p. 93. 
(10) L. White, The Historical Roots of Our Ecologic Crisis, cit. 
(11) Lettera enciclica Laudato si’, cit., p. 55. (12) Ivi, p. 61. 
(13) M. Bookchin, L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, tr. it., Elèuthera, Milano 2010, p. 518.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 20 giugno 2015.

Tolstoj, Kierkegaard e il crocifisso nelle aule dello Stato

In un paese che è stato governato per quasi cinquant’anni da un partito legato alla Chiesa – e governato male: con la corruzione, le stragi, la collusione con la mafia – non sorprende che dei docenti finiscano nei guai per aver staccato il crocifisso dalle pareti dell’aula. Succede a Trieste, dove Davide Zotti, docente di filosofia al Liceo “Carducci”, ha rimosso il crocifisso perché offeso da alcune dichiarazioni del cardinale Ruini sugli omosessuali. E succede a Terni, dove Franco Coppoli, docente di italiano e storia presso un Istitito tecnico, ha staccato il crocifisso dalla sua aula per rivendicare la laicità ed inclusività della scuola. Il primo ha subito il provvedimento disciplinare della censura, il secondo è stato sospeso dall’insegnamento per un mese. 
Le ragioni laiche per le quali il crocifisso non dovrebbe trovarsi in un’aula scolastica sono ben note e ben solide: perché il crocifisso è un simbolo religioso, ed un’aula non è un luogo in cui si facciano pratiche religiose, ma un ambiente di studio; perché il crocifisso è il simbolo di una religione, anzi di una sola confessione religiosa; perché la presenza del simbolo di una confessione religiosa è simbolo di chiusura verso chiunque sia di altra religione, o di nessuna religione. Ragioni ben solide che tuttavia sono destinate a restare inascoltate, poiché non hanno dalla loro la forza della maggioranza: ed è noto che, nella storia e nella vita civile, il prevalere di una ragione sull’altra è legato più alla forza della maggioranza che alla sua solidità. Un corollario di questa tesi è che, poiché la maggioranza, in Italia più che altrove, è spesso stupida, le buone ragioni sono per lo più ragioni sconfitte. 
Vorrei provare a spendere qualche parola per spiegare per quale ragione la presenza del crocifisso, oltre che offendere la laicità, offende la religione stessa. Lo farò ricorrendo a due pensatori tra i più religiosamente profondi dell’Ottocento: Lev Tolstoj e Soren Kierkegaard. Come molti sapranno, Tolstoj non è stato solo lo straordinario scrittore di Guerra e pace e Anna Karenina, ma anche l’appassionato ricercatore di una nuova etica e di una nuova religione, fondate sul principio della non resistenza al male e su una interpretazione radicale del Vangelo. In realtà non è così scontato che lo sappiano in molti, se si considera che il capolavoro del Tolstoj pensatore, Il Regno di Dio è in voi, è stato tradotto in italiano una sola volta nel 1894, ed ha poi avuto rare riedizioni di scarsa diffusione. Il suo pensiero, che gli valse la scomunica della Chiesa ortodossa, è tanto semplice quanto rivoluzionario. L’insegnamento del Vangelo è tutto concentrato nel Sermone della Montagna: la legge dell’amore, che afferma l’eguaglianza e la fratellanza di tutti gli esseri umani. Seguire questa legge, seguirla in modo non ipocrita né retorico, vuol dire cambiare radicalmente la propria vita e lottare per una società diversa: perché “il nostro ordinamento sociale è fondato, non come vorrebbero darlo ad intendere uomini interessati all’attuale ordine di cose, su basi giuridiche, ma sulla violenza più grossolana, sull’assassinio e sul supplizio” (L. Tolstoj, Il Regno di Dio è in voi, Bocca, Roma 1894, p. 304). E vuol dire, anche, lottare contro le chiese, poiché esse sono strutture di dominio fondate sul pervertimento del messaggio evangelico. Il Cristo esige un’etica purissima ed annuncia una società – il Regno – all’altezza di quest’etica; le chiese sostituiscono ad una tale etica una quantità di pratiche superstizione, ed intanto giustificano le violenze ed oppressioni dei forti sui deboli. Per Tolstoj la scelta è tra il Sermone della Montagna e il Simbolo della Fede. Tra il cristianesimo autentico, che è rivoluzionario ed esige una società senza oppressione, ed uno pseudo-cristianesimo che serve ad alimentare un clero che appartiene alla classe dei privilegiati. 
A conclusioni non troppo diverse era giunto in Danimarca una quarantina di anni prima Soren Kierkegaard, negli articoli pubblicati sulla rivista L’Ora, da lui stesso fondata. Se Tolstoj attaccherà la chiesa ortodossa, Kierkegaard attaccava quella luterana. Cosa vuol dire essere cristiani in Danimarca? Cosa diventa il cristianesimo, in uno stato in cui tutti sono cristiani? Il Cristo ha mostrato una via difficile, che esige decisione e sacrificio; ma ecco che essere cristiani è ora la cosa più semplice del mondo. E’ importante che essere cristiani sia facile, perché così saranno in tanti ad essere cristiani; ed è importante che i cristiani siano tanti, perché il loro numero serve a giustificare il potere degli ecclesiastici ed i loro stipendi statali. Se si volesse scientemente pervertire il cristianesimo, per Kierkegaard nulla sarebbe meglio che scegliere delle persone stipendiate dallo Stato per diffonderlo: esattamente quello che accade. Questo cristianesimo facile, agevole, che non richiede alcun sacrificio e che consiste, in buona sostanza, nell’essere bravi cittadini borghesi, è in realtà “una pura commedia di cristianesimo” (S. Kierkegaard, L’ora. Atto di accusa al cristianesimo nel regno di Danimarca, Newton Compton, Roma 1977, p. 76). Una tale cristianità si rende colpevole della più grave offesa che possa essere fatta a Dio: trattarlo come un idiota (ivi, pp. 38 e 54). 
Tanto per Tolstoj quanto per Kierkegaard il cristianesimo autentico e lo stato sono inconciliabili. “Il cristianesimo nel suo vero significato distrugge lo stato”, scrive il primo (Il Regno di Dio è in voi, cit., p. 254). Per il filosofo danese è piuttosto l’abbraccio mortale dello stato che distrugge il cristianesimo. La questione del rapporto tra cristianesimo ed il potere è non semplice. Nel Vangelo ci sono insegnamenti che sono autenticamente rivoluzionari, che se praticati fino in fondo hanno una reale valenza sovversiva: il Sermone della Montagna e l’etica della non resistenza al male. Ma Gesù è anche colui che invita gli ebrei, oppressi dai Romani, a pagar loro le tasse: perché questa e non altra, alla fine, è l’indicazione che viene dal “date a Cesare quel che è di Cesare”. Non è probabilmente azzardato ritenere che Gesù sia stato crocifisso proprio per questa affermazione, poiché secondo la concezione ebraica il messia è colui che difende il popolo ebraico dai suoi nemici e lotta per la sua liberazione. Da questo punto di vista, era effettivamente più messia lo zelota Barabba. In Paolo di Tarso l’accettazione dei poteri costituiti è anche più marcata. “Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non proviene da Dio; ora le autorità attuali sono state stabilite e ordinate da Dio. Di modo che, chi si ribella all’autorità, si contrappone a un ordine stabilito da Dio”, si legge nella Lettera ai Romani (13, 1-2). In Paolo c’è anche l’accettazione piena della schiavitù e l’invito rivolto agli schiavi ad obbedire ai loro padroni non solo perché sono padroni, ma perché così vuole Dio (Efesini, 6, 5-9). 
Queste prese di posizione furono decisive per l’affermazione del cristianesimo. Se avesse messo in discussione le autorità costituite ed una istituzione fondamentale del mondo antico come la schiavitù, il cristianesimo sarebbe stato spazzato via dalla storia, esattamente come è avvenuto al manicheismo. E’ grazie a questa accettazione dell’autorità – anzi, a questa giustificazione religiosa del potere romano – che il cristianesimo nel giro di pochi secoli è diventato la religione ufficiale dell’Impero romano, perseguitando tutte le altre religioni, a cominciare dal paganesimo. Se questa interpretazione non è sbagliata, le ragioni dell’affermazione del cristianesimo sono le stesse della crocifissione del Cristo (e della sua non messianità secondo gli ebrei). Il crocifisso alle pareti delle aule scolastiche e dei tribunali è il risultato di questa antica alleanza tra la Chiesa e lo Stato, della secolare giustificazione ecclesiastica delle disuguaglianze sociali, di quella ideologia religiosa che è servita per secoli a tenere al loro posto gli oppressi. 
Ora, qualcuno può legittimamente ritenere che il cristianesimo sia questo, e non altro. Che sia una religione d’ordine, che sta con i poteri costituiti, che si esalta nell’abbraccio con lo Stato. Ed i cui simboli è giusto che siano presenti nei luoghi dello Stato. Tolstoj e Kierkegaard (e molti altri: in modi molto diversi l’uno dall’altro Ernesto Balducci e Ferdinando Tartaglia, ad esempio, per restare in Italia) ritengono che al contrario il vero cristianesimo, quello insegnato dal vangelo, sia una religione rivoluzionaria, che contesta ordini e poteri costituiti, che trascende lo Stato con le sue miserie perché mira ad un assetto diverso, ad una piena fraternità e ad una compiuta giustizia, non nell’altro mondo ma già in questo. Se il cristianesimo è questo, allora mettere il crocifisso nelle aule dello Stato è una bestemmia: vuol dire costringere la potenza del messaggio evangelico nei miseri limiti dello Stato, la dirompente irragionevolezza del Sermone della Montagna e del principio della non resistenza al male nel cerchio borghese della legalità, ridurre il suo slancio etico alla ragionevolezza borghese del giudice e del maestro di scuola. Il fatto che siano ben pochi i cristiani che chiedono la rimozione dei crocifissi dai luoghi dello Stato dimostra che questo cristianesimo altro, questo cristianesimo inquieto ed inquietante, in lotta con il mondo perché “il mondo intero giace nel maligno” (1 Giovanni, 5, 19), è una luce che sta diventando sempre più fioca, ed è quasi prossima a spegnersi del tutto nel mondo industrializzato.

Articolo per Gli Stati Generali, 16 febbraio 2015.

פֶּסַח

Dio non può morire: se muore, non è Dio. Se muore e risorge, il Dio che risorge non è lo stesso Dio che è morto – è qualcosa di radicalmente altro.
Con la croce, Dio muore, una manciata di secoli prima dell’annuncio di Nietzsche. Il Cristo che risorge è altro: è l’Uomo che si fa Dio. Il senso del cristianesimo è questo: Dio muore e l’Uomo prende il suo posto. Così comincia la storia occidentale, che è storia dell’umanesimo come ateismo.
Pasqua è una festa atea.

Il culto paradossale della croce

L’Adam era in principio presso Dio, nel paradiso. Il suo peccato è consistito nel mangiare dall’albero del bene e del male. Sono propenso a credere che il peccato non sia consistito nell’aver disubbidito, ma semplicemente nell’atto in sé. Dio, cioè, non minaccia, ma avverte riguardo alle conseguenze di un atto in seguito al quale le cose non saranno più come prima.
Ora, cosa cambia? La conoscenza del bene e del male è esattamente ciò che rende possibile la conoscenza di Dio. Poiché Dio è Bene, è impossibile conoscere Dio senza distinguere il bene dal male. L’atto dell’Adam è dunque ciò che rende possibile il culto di Dio. Ed è questo il peccato. Nel momento in cui l’Adam vede Dio come buono e gli rende culto, il paradiso dell’unità è perso. E comincia la storia.
Morendo sulla croce, Dio si sottrae come Dio-Buono, ossia come Dio tout court. Cerca di porre fine alla caduta dell’uomo distruggendosi come Dio, morendo come Dio: aprendo l’epoca dell’ateismo, ossia dell’essere-in-Dio che rende impossibile ogni culto di Dio. Ma le tenebre, dice Giovanni, non hanno accolto la luce. Ed è cominciata l’epoca del nuovo culto. Il culto, paradossale, della croce, ossia del Dio che è morto. 

Versetti pericolosi?

Versetti pericolosi del frate servita Alberto Maggi (Fazi, Roma 2011) presenta una lettura dei vangeli talmente semplificata da apparire naïf. Gesù era buono: radicalmente buono. E’ venuto ad annunciare il vangelo dell’amore. Ma era, il suo, un messaggio nuovo, perché il Dio degli ebrei, il Dio dell’Antico Testamento, non era un Dio d’amore. Era il Dio della legge, il Dio che giudica e condanna, che separa il puro dall’impuro e che incute paura. I suoi rappresentanti, al tempo di Gesù, sono gli scribi ed i farisei, religiosi zelanti attenti più a rispettare la legge che a rispettare l’uomo.
Durante tutta la sua vita, Gesù non ha fatto che attraversare liberamente la linea di confine tra il puro e l’impuro, collocandosi dalla parte degli impuri ed operando in questo modo una trasmutazione dei valori. L’episodio più clamoroso, sul quale Maggi si sofferma ed a cui fa riferimento il titolo del suo libro, è quello della lapidazione dell’adultera. Che, spiega l’autore, doveva essere in realtà una bambina sui dodici anni, poiché non era una donna sposata, ma in attesa di nozze (l’adultera sposata secondo la legge invece andava strangolata). Erano talmente scandalosi, i versetti che raccontano l’assoluzione dell’adultera, che

Per almeno un secolo nessuna comunità cristiana accettò questo brano, che veniva ogni volta rispedito al mittente, e ci vollero ben tre secoli prima che questi versetti trovassero ospitalità in un vangelo, che non era quello originario, e venissero inseriti da Girolamo nel Nuovo Testamento.

Questo passo è scandaloso perché più di altri mostra il cambiamento avvenuto, che Maggi così sintetizza:

In ogni religione, compresa quella giudaica, si insegnava che Dio premiava i (pochi) buoni ma castigava inesorabilmente i (tanti) cattivi. Gesù annuncia e dimostra che il Signore “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). Ma se Dio non premia più i buoni e non castiga più i malvagi, allora… non c’è più religione! Con Gesù è finita la religione e inizia la fede.

Le conseguenze di questa affermazione, sul piano dottrinale, sono piuttosto profonde. Per Maggi c’è una discontinuità assoluta tra prima e dopo, tra Antico e Nuovo Testamento, tra legge mosaica e vangelo. Il che vuol dire, con ogni evidenza, che i cristiani dovrebbero smetterla di considerate sacro l’Antico Testamento e ritenere che il Dio che parla attraverso le sue pagine sia un Dio falso e violento, ricongiungendosi con il marcionismo ed allontanandosi, ahimè, dall’ebraismo.

Ma le cose stanno proprio così? Quella di Maggi è una lettura dei vangeli molto selettiva. Non mancano, certo, i passi che indicano la logica dell’amore, che è ciò che più colpisce e seduce del vangelo. E tuttavia, se la storia della Chiesa è una storia violenta, se il cristianesimo storico ricorda più la legge mosaica che la logica dell’amore, è perché nel vangelo c’è anche altro.

Per Maggi con Gesù finisce la religione e comincia la fede. E’ vero. Ma non è detto che sia una cosa positiva. Credo di non sbagliare se affermo che prima di Gesù la figura del non credente era sostanzialmente sconosciuta in Israele. Esisteva la figura dell’empio, o di colui che, come Giobbe, mette Dio in stato di accusa. Ma si trattava di domandarsi come e chi è Dio, non se c’è Dio o meno. Con Gesù le cose cambiano. In primo piano viene ora la questione della fede. Gesù afferma di essere il Figlio di Dio. E’ vero? E’ falso? Per alcuni è vero, per altri è falso. I primi sono i credenti, i secondi i non credenti. Ora, questa distinzione del tutto nuova porta con sé una nuova violenza. I primi, quelli che credono, saranno i salvati, i secondi saranno i dannati. In altri termini, si ripropone ora la scissione del mondo ebraico. Prima il mondo umano era diviso in puri ed impuri, secondo la legge. Gesù supera questa scissione collocandosi dalla parte degli impuri. Ma propone ora una seconda scissione: quella tra credenti e non credenti. E nei confronti dei secondi si ripresenta tutto l’armamentario violento dell’ebraismo. “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde” (Luca 11, 23).

Che Gesù sia venuto a salvare tutti è semplicemente falso. Il vangelo di Giovanni è chiarissimo: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero peccato” (Giovanni 15, 22). La venuta del Cristo rappresenta la salvezza per alcuni, la condanna per altri. Dopo la venuta del Cristo e grazie ad essa, chi doveva essere salvato è stato salvato, chi doveva essere condannato è stato condannato.

Ancora una volta un mondo scisso, spaccato: infelice. Quel mondo infelice che è stato ed è l’occidente

Separare il grano dal loglio

Mi è stata chiesta qualche riflessione in occasione della festa patronale. Il mio è il punto di vista di un non cristiano fortemente critico nei confronti dell’aspetto istituzionale di tutte le religioni e fortemente interessato, invece, all’esperienza mistica ed eretica (due cose, misticismo ed eresia, che spesso coincidono). Avverto sin d’ora il lettore cattolico che nelle righe che seguono troverà pertanto cose sgradevoli: si regoli come meglio crede.
Per riflettere sul senso religioso di una cosa come la festa patronale bisogna prima porsi qualche domanda. Che cos’è la religione? Cosa vuol dire essere religiosi? Quali pratiche sono religiose, e quali no? Cosa distingue il religioso dal non religioso, e il profondamente religioso dal superficialmente religioso?
La risposta più ovvia a questa domanda sembra essere la seguente: religione è entrare in rapporto con Dio o con un Ente trascendente. Che può chiamarsi Yhwh o Allah, Ahuza Mazda o Shiva, essere Uno o molteplice, vicino o lontano, incarnato o disincarnato: ma è il Divino, distinto dall’umano. In realtà le cose non sono così semplici, perché esistono anche religioni, come il jainismo ed il buddhismo, che prescindono dalla divinità. Per un buddhista non si tratta di credere in Buddha (“Se incontri il Buddha per strada, uccidilo”, diceva il grande maestro zen Lin Chi), ma di diventare un Buddha. Fino a quando il Buddha è altro da noi, vuol dire che siamo ancora lontani dalla meta della nostra vita religiosa. Qualcosa di simile avviene anche in certa mistica speculativa cristiana, per la quale bisogna diventare Dio, più che venerare Dio (si pensi a Meister Eckhart), così come nel sufismo di Al-Hallaj, il Cristo dell’Islam, mandato a morte perché affermava di essere diventato la Verità, ossia Dio.
C’è poi la spiritualità, che si può caratterizzare come presa di contatto con sé stessi. Tutte le religioni hanno elaborato quelle che Foucault chiamava tecnologie del sé: dalla confessione all’esicasmo, dallo yoga alla meditazione vipassana dei buddhisti. La persona religiosa si riconosce per la capacità di conoscersi, di raccogliersi, di stabilirsi per così dire in sé stessa, analizzando i moti interiori, le passioni, le emozioni, le inquietudini. Da ciò discende la tendenza di molte persone religiose a chiudersi nella ricerca della perfezione spirituale, allontanandosi dalle cure mondane, ma può anche scaturire una nuova forma di prassi, un impegno più puro.
Se la spiritualità porta al contatto con sé stessi, l’etica ci conduce al cospetto dell’altro. Tutte le religioni predicano la comprensione, il rispetto, l’amore dell’altro. Una persona religiosa – profondamente, autenticamente religiosa – si riconosce per questo: vive intensamente il suo rapporto con l’altro; ha reciso in sé le radici dell’odio ed è capace di un amore che giunge fino agli animali.
Un ultimo aspetto fondamentale della religione è l’aspirazione ad un mondo libero dal male e dalla sofferenza. C’è al fondo della religione una ribellione umanissima contro il dolore che segna l’esistenza umana e tutto il mondo naturale, il rifiuto di considerarli normali, la ricerca di una finale pacificazione universale. E’ l’aspirazione dei profeti ebrei ad una dimensione in cui il lupo possa pascolare con l’agnello, il Regno dei cristiani, l’auspicio buddhista di un mondo in cui i ciechi vedono, i sordi ascoltano, i nudi vengono vestiti e gli affamati trovano cibo.
Essere religiosi significa tutte queste cose. Ma può significate, e spesso significa, anche il contrario di queste cose. In nome della religione, che predica l’amore e la pace, ci si uccide. Succede perché l’altro da amare diventa il membro della propria comunità religiosa; la sfera etica si restringe fino a racchiudere solo i propri correligionari (la umma musulmana, l’ecclesia cristiana, il sangha buddhista), mentre chi ne resta fuori diventa l’infedele, il nemico da combattere. In nome della religione si giustificano le più gravi forme di oppressione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
E’ chiaro, dunque, che quando si parla di religione è importante distinguere, passare al vaglio, separare il grano dal loglio.
Fatta questa lunga premessa, possiamo chiederci: una cosa come la festa patronale cos’è, grano o loglio? La risposta è: loglio. Provo a spiegare perché.
In religione la cosa importante non è, come credono molti, credere o non credere. Quello che conta è la concezione che si ha di Dio o del Divino: in quale Dio si crede. Anche qui bisogna dividere e distinguere il grano dal loglio. C’è un Dio che non è null’altro che la stampella del nostro io, il sostegno metafisico del nostro egoismo, il volto che ci rassicura, che ci dice che siamo il centro dell’universo, che tutto andrà bene perché Dio stesso, l’origine dell’universo, si prende cura delle nostre vicende. All’estremo opposto dell’esperienza religiosa c’è una concezione del Divino che ci costringe ad uscire da noi stessi, a deporre il nostro io come un peso e ad aprirci ad altro. E’ quella che Albert Einstein chiama “religiosità cosmica”. Così la caratterizza in Come io vedo il mondo: “L’individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per contro, riconosce l’impronta sublime e l’ordine ammirabile che si manifestano tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L’esistenza individuale gli dà l’impressione di una prigione e vuol vivere nella piena conoscenza di tutto ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso profondo”. E’ una religiosità che non appartiene alle chiese, quanto agli eretici; qui il credente Francesco d’Assisi sta accanto all’ateo Spinoza.
E’ chiaro che, da questo punto di vista, nulla appare più lontano dalla religiosità autentica del concetto di patrono. Cos’è un patrono? Un personaggio religioso che ha una cura particolare di una comunità ristretta. C’è qualche traccia, in ciò, della predilezione del Dio biblico per il popolo ebraico. Dio, che si vuole creatore di un universo di miliardi di galassie, ognuna delle quali ha un miliardo di stelle, non solo si preoccupa della sorte di una delle infinite specie che vivono su un pianeta periferico di una di queste infinite galassie, ma addirittura elegge, chissà perché, uno solo di questi popoli (e, presentandosi come Dio degli eserciti, lo spinge a combattere e sterminare altri popoli). Difficile immaginare qualcosa di più assurdo. I cattolici ci sono riusciti. Per loro il Divino non si occupa soltanto di un popolo, ma addirittura di una città, di un paese, di un borgo. Non basta credere nella Madonna: occorre che la Madonna si moltiplichi all’infinito, diventando ora bianca ora nera, soccorrendo ora questa ora quella comunità.
I cattolici sono molto sensibili all’idolatria altrui, poco alla propria. In che modo portare in giro una icona, un simulacro del Divino, sia cosa diversa dall’idolatria, è un mistero della fede. E, certo, c’è emozione durante una processione o durante una festa religiosa di questo genere. Ma di che emozione si tratta? Ha a che fare con la religione? Non molto. E’, invece, quella sorta di contagio emotivo che si prova in tutte le manifestazioni collettive, quando si è immersi in una folla e quasi trascinati da essa. In questo caso si esce da sé stessi soltanto per chiudersi in un io più grande, quello della folla. E’ qualcosa di non troppo diverso da ciò che accadeva durante le adunate oceaniche dei regimi totalitari: e non a caso esisteva anche una mistica fascista. Da sempre il potere (o meglio: il dominio) si sostiene anche grazie alla capacità di suscitare emozioni collettive, la cui crescita è direttamente proporzionale alla diminuzione delle capacità riflessive e critiche. L’autentico sentimento – non emozione – religioso è qualcosa di diverso. E purtroppo non è così a buon mercato.

Editoriale per Stato Quotidiano

Papa Francesco tra arroganza ed interrogazione

E’ nota la facilità con cui sui social network si diffondono notizie non controllate e citazioni attribuite con grande leggerezza a questo o quel personaggio, che mai si sarebbe sognato di dire cose simili. In questi giorni ha avuto grande diffusione un presunto appello di Papa Francesco ad evitare la mattanza degli agnelli per Pasqua. Un appello che nasce in realtà interamente da un equivoco. Le parole citate non sono del papa, ma di una associazione animalista che, felicitandosi per le parole dette dal papa in occasione della festa di San Giuseppe – una omelia nella quale ha invitato ad essere custodi del creato -, ha invitato gli italiani a non mangiare agnello per Pasqua.

Come si spiega la bufala? Si tratta di un meccanismo frequente in campo religioso: ci si forma una certa idea di cosa è e di cosa dovrebbe fare o dire un sant’uomo, e quando qualcuno, per alcuni suoi tratti, ci sembra che possa incarnare questa idea, compiamo senz’altro la proiezione: gli facciamo dire e fare ciò che ci sembra che dovrebbe dire e fare. Benché papa Francesco sia stato eletto da poco, il meccanismo è già all’opera. Nell’immaginario dei credenti (e anche di qualche non credente) Francesco è già il papa buono: e dal papa buono ci si aspetta che faccia e che dica certe cose. Che magari non ha fatto o detto

Cosa pensa realmente papa Francesco su molti temi, può aiutare a comprenderlo il volume Il cielo e la terra, un dialogo con il rabbino Abraham Skorka pubblicato da Mondadori ed uscito in edicola con La Repubblica. Si tratta di una vera e propria summa del pensiero di papa Bergoglio: Dio, il potere, la donna, l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, il matrimonio tra persone omosessuali, eccetera. Leggendolo si può capire perché, ad esempio, è molto improbabile che in futuro possa davvero invitare a non mangiare agnelli a Pasqua. Un pensiero che ricorre nel libro è quello del dominio dell’uomo sulla natura. “L’uomo – afferma – è fatto per dominare la natura, questo è il suo compito divino” (1). E ancora: “Il potere è stato dato all’uomo da Dio, che ha detto: ‘Dominate la terra, siate fecondi e moltiplicatevi'” (2). Si tratta della visione tradizionale dei rapporti tra l’uomo e la natura: rapporti di dominio. La natura è stata fatta per l’uomo (ed anche gli agnelli, dunque). Nelle posizioni più aperte, si giunge ad affermare che questo dominio non dev’essere né dispotico né distruttivo, ma prendere la forma di una saggia amministrazione. Che è cosa ben diversa, tuttavia, dall’affermare che la natura ed il mondo animale hanno un valore intrinseco.

La prima tentazione, avendo tra le mani un libro del genere, è quella di andare a vedere che dice il papa sui temi caldi del dibattito anche politico: l’eutanasia, ad esempio, o i matrimoni omosessuali. Ma papa Francesco è il capo di una religione, e del capo di una religione conta, soprattutto, il pensiero teologico, vale a dire il modo in cui concepisce Dio e la verità. La Chiesa è una istituzione che negli ultimi decenni si è sempre più chiusa in sé stessa, assestata nella posizione di una condanna generalizzata del mondo moderno, sempre più incapace di dialogare con il pensiero laico, sempre più lontana dalla sensibilità morale diffusa tra gli stessi cattolici (tra i quali si diffonde la doppia morale: sono cattolico, ma faccio quello che credo essere giusto, anche se la Chiesa dice che è sbagliato). Questa chiusura deriva dalla convinzione di possedere tutta intera la verità e di essere l’unica via si accesso alla salvezza: extra Ecclesiam nulla salus. Una sorta di arroganza spirituale che impedisce il dialogo, che esige orizzontalità e pari dignità dei dialoganti. E’ la Chiesa che, guardando il mondo dall’alto, giudica e condanna. Il contrario dell’arroganza spirituale è l’interrogazione, il chiedere insieme. L’arrogante ha la risposta a tutte le domande, non conosce il dubbio o, quando ne fa esperienza, lo allontana come una tentazione diabolica. Non ha nulla da imparare da nessuno: è l’uomo chiuso nella cerchia di quelli che la pensano come lui; chi è al di fuori di quella cerchia, non ha nulla da dirgli. L’interrogante al contrario si considera in cammino verso la verità ed avverte questo cammino come un cammino comune. L’arrogante è uomo (o donna) dell’identità, l’interrogante è uomo (o donna) della differenza.

Il cambiamento più urgente, per la Chiesa, è questo: abbandonare l’arroganza e passare alla posizione dell’interrogazione, del dialogo reale. Smetterla di considerarsi unici detentori della verità e chiedersi, piuttosto, quale contributo si può dare alla soluzione dei problemi comuni. E’ la posizione che Aldo Capitini chiamava “aggiunta”. Che vuol dire: io non chiedo che il mondo mi segua, mi onori, mi ascolti, mi esalti, mi riconosca; mi chiedo cosa posso dare io al mondo, cosa posso aggiungere di buono e di valido alla vita di tutti.

Da questo punto di vista, trovo nel pensiero di papa Francesco dei punti non privi di interesse. Nella discussione con il rabbino Skorka la questione dell’arroganza viene fuori discutendo di ateismo. E’ arrogante l’ateo che “è convinto al cento per cento che Dio non esiste”, dice Skorka, mentre l’agnostico è in posizione dubitativa. Questa affermazione comporta la conclusione logica che, se è arrogante chi non dubita, il credente è arrogante non meno del non credente. E infatti Skorka afferma: “Ha la stessa arroganza [l’ateo] di chi sostiene l’esistenza di Dio con la stessa certezza con cui sosterrebbe l’esistenza della sedia su cui sono seduto”. Papa Francesco non protesta, anzi rilancia: “Anch’io concordo nel definire arroganti quelle teologie che non solo hanno tentato di definire con certezza e precisione gli attributi di Dio, ma hanno avuto la pretesa di dire esattamente com’era” (3). E sottolinea l’importanza della teologia apofantica, ossia la teologia che parla di Dio per via negativa, dicendo cosa non è. Cita a riguardo The Cloud of Unknowing, un trattato del tredicesimo secolo che parla di una “nube di non-conoscenza” che sempre si frappone tra l’uomo e Dio. Da questo punto di vista diventano molto meno nette, mi pare, le distinzioni tra credente ed ateo; poiché l’ateo è spesso colui che nega una certa concezione di Dio, o la pretesa di afferrare Dio, di averlo in tasca: è, in altri termini, una reazione all’arroganza religiosa. Nella mistica speculativa, peraltro, affermazione e negazione di Dio si richiamano in un modo estremamente affascinante. “Egli [Dio] è colui che, mediante l’opera della notte oscura, si ritira per non essere amato come un tesoro da un avaro. Elettra che piange Oreste morto. Se si ama Iddio pensando che non esiste, egli manifesterà la sua esistenza”, scrive Simone Weil (4). Ed Eckhart: “Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio…” (5)

Il Dio in tasca, il Dio conosciuto e posseduto dal credente, è il Dio in nome del quale si combattono le guerre. Fa tutt’uno con la propria identità individuale e collettiva; è una stampella per puntellare le proprie incertezze. Con espressione che felice, Bergoglio parla di un “ideologizzare l’esperienza religiosa”, che porta ad “uccidere in nome di Dio” (6). E’, mi sembra, una osservazione importantissima, che potrebbe aprire nuovi capitoli della riflessione teologica. Cosa vuol dire avere fede in modo non ideologico? E’ possibile credere senza che la propria fede diventi una stampella o un segno di riconoscimento? E’ in questa direzione che va la riflessione teologica di Dietrich Bonhoeffer – una delle più alte del Novecento – con la sua distinzione tra religione e fede.

Sembra dunque che vi siano tutte le premesse per un nuovo rapporto non solo con le altre religioni, ma anche con la cultura laica e scientifica. Ma sono premesse che coesistono con elementi di segno opposto, con persistenti chiusure. Parlando delle “culture idolatre”, Bergoglio mette sullo stesso piano “il consumismo, il relativismo e l’edonismo” (7), ponendosi in linea di continuità con la condanna del relativismo (una vera e propria crociata) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Discutendo di matrimoni tra persone omosessuali, sostiene che essi rappresenterebbero un “regresso antropologico” e che tale opinione “non ha un fondamento religioso, ma antropologico” (8). Anche questo modo di ragionare non è nuovo: si affrontano le questioni di morale sessuale pretendendo che le proprie opinioni non siano legate alla propria visione religiosa – e dunque rigettabili da chi non crede -, ma valide di per sé, perché fondate su una presunta legge naturale: e dunque vincolanti per tutti. Nel caso di Bergoglio, l’appello all’antropologia prende il posto del ricorso alla natura. Ma a quale antropologia si riferisce il papa? L’antropologia culturale è la via più sicura verso l’aborrito relativismo. Dal punto di vista dell’antropologia culturale non esiste una famiglia standard: la famiglia nucleare non ha più dignità della poligamia o addirittura della poliandria. Se poi ci inoltrassimo nei costumi sessuali dei popoli verrebbero fuori cose che scandalizzerebbero l’anima candida di un papa. E’ evidente che non all’antropologia culturale che il papa può chiedere soccorso. A quale, allora? All’antropologia filosofica. La quale consiste in questa operazione: ci si fa una idea dell’essere umano in base alle proprie convinzioni filosofiche o religiose; si dice poi che l’essere umano è senz’altro così; si fa capire, in modo più o meno garbato, che chiunque si allontani da quel modello è un essere umano dimezzato, parziale, insufficiente. Si dice, ad esempio, che l’essere umano è antropologicamente in relazione con Dio. Il rapporto con Dio, cioè, fa parte della sua natura. E se uno non crede? Gli manca qualcosa, naturalmente; è un essere umano che non realizza la sua natura se non in modo molto parziale. Un procedimento che è l’esatto contrario del dialogo.

Di qui, anche, conclusioni non proprio esaltanti sul rapporto tra scienza e fede. “La scienza – scrive Bergoglio – ha una sua autonomia, che va rispettata e incoraggiata. Non dobbiamo intrometterci nell’autonomia dello scienziato. A meno che questi non oltrepassi il proprio campo e sconfini nel trascendente. La scienza è fondamentale in funzione del precetto di Dio: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela'” (9). Questo vuol dire, in sostanza, negare qualsiasi valore conoscitivo alla scienza e ridurla alla tecnica. E’ sorprendente che un religioso che ha scelto come papa il nome Francesco sia così ossessionato dal dominio sulla natura, quel dominio nel quale molti pensatori, anche religiosi, anche cattolici, hanno scorto e scorgono la radice dell’attuale crisi ecologica. La scienza è scienza, ossia conoscenza. Il suo valore principale consiste nella ricerca della verità, non nel dominio della natura. La tecnoscienza è una degenerazione, una prostituzione del fine puramente conoscitivo della scienza. E’ inevitabile che la scienza oltrepassi il proprio campo, se il confine che le ha imposto il religioso è quello della tecnica. Si pensi alla fisica. Sappiamo che l’universo nel quale viviamo è di una complessità straordinaria, tale che per pensarlo dobbiamo accantonare il modo corrente di pensare cose come lo spazio ed il tempo. Possiamo, al cospetto di queste teorie, continuare a pensare alla creazione dal nulla? Possiamo pensare un Dio che crea i cieli e la terra “in principio”? Ha senso il concetto di principio, ad esempio? Porsi queste domande per un cattolico vuol dire interrogarsi, confrontarsi in modo aperto con la scienza. Dirsi che la fisica non riguarda la fede, perché il suo campo è quello del dominio del mondo, e nulla ha a che fare col campo intangibile e sicuro della verità religiosa, vuol dire peccare ancora una volta di arroganza religiosa.

Note
(1) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, tr. it., La Biblioteca di Repubblica – L’Espresso, Roma 2013, p. 24.
(2) Ivi, p. 134.
(3) Ivi, pp. 23-24.
(4) S. Weil, L’ombra e la grazia, tr. it., Rusconi, Milano 1996, p. 29.
(5) M. Eckhart, Sermoni tedeschi, tr. it., Adelphi, Milano 1997, p. 133.
(6) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 29.
(7) Ivi, p. 31.
(8) Ivi, p. 110.
(9) Ivi, p. 116.

Editoriale per Stato Quotidiano.

Il diavolo e le fratture dell’occidente

Il diavolo come caprone
(F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626)
“Solo il cristianesimo ha dipinto il diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel mondo”, scriveva Nietzsche in Umano, troppo umano (1). E’ vero. L’oriente conosce una gran quantità di demoni, ma inutilmente si cercherebbe una figura paragonabile a quella del diavolo. Il negativo non rappresenta l’anti-divinità, ma è incorporato nel divino: è così che ad esempio Shiva può essere al tempo stesso il distruttore di mondi e il dispensatore di felicità, l’asceta per eccellenza e il dio che si venera attraverso il fallo (linga).
Perché l’occidente ha bisogno del diavolo? Perché è diabolico esso stesso. Diavolo deriva dal greco dia-ballein, separare, dividere (che è il contrario di synballein, unire, da cui simbolo). Il diavolo è dunque colui che divide, che crea separazioni, fratture, inimicizie, in primo luogo frapponendosi tra l’uomo e Dio, poi mettendo l’uno contro l’altro gli stessi esseri umani. Ma possiamo dare un’altra interpretazione: il diavolo come colui che è stato separato, diviso, emarginato. La considerazione della figura del diavolo nella cultura occidentale offre più di qualche appiglio per questa interpretazione. Nell’iconografia, il diavolo è in primo luogo rappresentato con dei tratti animaleschi, quali le corna ed il piede caprino. Il diavolo ha dunque un rapporto con l’animale. Ora, l’animale è per eccellenza ciò che l’occidente ha separato dall’umano. Nella visione del mondo giudaico-cristiana l’uomo è separato dal resto del creato, che è chiamato a dominare, poiché è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Vero è che in Qohelet si legge che “la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti” (3, 19), ma si tratta di una posizione assolutamente isolata nel contesto delle Scritture, che al contrario esaltano la dignità dell’uomo ed il suo destino di salvezza. Gli esseri umani hanno un’anima e sono chiamati alla vita ultraterrena, gli animali no.
L’essere umano non è tuttavia solo anima; egli ospita in sé la natura, è sospeso tra il cielo e la terra, tra lo spirituale e l’animale. Il diabolico s’insinua dunque all’interno dello stesso essere umano, nella frattura tra la parte spirituale, volta a Dio ed al bene, e quella passionale, volta al male, al desiderio, alla carne. La battaglia è contro la natura fuori di sé, ma anche contro la natura in sé. E’ una battaglia difficile, poiché l’essere umano, nonostante la sua natura spirituale, avverte in modo irresistibile il richiamo della natura. Di qui le infinite tentazioni del diavolo di cui sono piene le vite dei santi.
Il diavolo che tenta si presenta per lo più sotto forma di donna. Ed è qui la terza frattura: quella tra uomo e donna. L’uomo rappresenta, nonostante le sue infinite debolezze, la ragione, la donna è invece per sua natura passionale, legata alla natura, animalesca. L’uomo è apollineo, spirituale, la donna dionisiaca, votata al vizio, corrotta. La teologia cattolica non manca di riconoscere la dignità della donna, anche se con ragionamenti che celano un fondo di disprezzo. Sant’Agostino, ad esempio, si chiede nei Sermones come mai Cristo è voluto nascere da una donna. Se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente non nascere da una donna. Se non lo avesse fatto, avrebbe dimostrato che c’era la possibilità, per lui, di essere contaminato dalla donna (ex illa contaminari potuisse). E’ nato da donna, dunque, per dimostrare di essere al di sopra di ogni contaminazione. Non solo. Nascendo da una donna, Cristo è venuto a “consolare il sesso femminile” (sexum consolari femineum), mostrando che anche le donne possono salvarsi, nonostante abbiano introdotto il peccato nel mondo. “Generando Cristo, la donna compenserà il peccato di aver ingannato gli uomini” (Compenset femina decepti per se hominis peccatum, generando Christum) (Sermones, 51, 2.3). Posizioni teologiche come questa, benché autorevolissime, non sono riuscite ad arginare una misoginia e quasi orrore della donna – in particolare della donna che sfugge al controllo della rigida morale dominante, pensata dall’uomo, ed al ruolo imposto di madre o vergine – che troverà un esito tragico nella caccia alle streghe, che è stata in realtà un olocausto femminile, la soppressione violenta di qualsiasi forma di femminilità che anche di poco si discostasse dal cliché imposto, e mettesse a repentaglio le fratture consolidate.
Una strega rende omaggio al diavolo.
(F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626)
Il diavolo, poi, è nero. E non solo perché il nero è il colore del buio che si oppone alla luce (e la stessa parola Dio proviene da una radice sanscrita che indica luminosità), ma anche perché il nero è il colore della pelle dei popoli africani. Nell’iconografia, il diavolo si incarna spesso nella figura dell’etiope o in quella dell’egiziano, così come saranno neri, nella rappresentazione dominante, i musulmani nemici della fede, contro i quali si faranno le crociate, ossia la lotta del bene contro il male. Più sorprendente è che il diavolo appaia a volte sotto la figura del niger puer, il bambino nero. In tale forma appare ad esempio a Sant’Antonio abate ed a San Gregorio Magno (1). Sorprende perché in occidente il bambino indica purezza ed innocenza, e lo stesso Gesù Cristo viene rappresentato spesso come bambino. Ma Sant’Agostino la pensava diversamente. Nelle Confessioni considera espressioni di peccato l’avidità con cui il neonato esige il seno materno e, più tardi, le bugie ed i piccoli furti commessi dai bambini. Quando Cristo disse che dei bambini è il regno dei cieli, per Agostino non voleva esaltare l’infanzia e la sua innocenza, che non esiste, ma semplicemente riferirsi alla loro statura come segno di umiltà: Humilitatis ergo signum in statura pueritiae, rex noster, probasti, cum aisti: Talium est regnum caelorum (Confessiones, I, 19). Il bambino è (ancora) un essere irrazionale, rappresenta una alterità, una differenza che bisognerà piegare attraverso la disciplina ed il rigore dell’educazione.
Naturalmente sono imparentati con il diavolo anche gli ebrei, pur non essendo di pelle nera. Lo sono in quanto non cristiani, e lo sono per l’accusa di deicidio. La quarta frattura è quella tra i cristiani e tutti coloro che incarnano una differenza etnico-religiosa: gli ebrei, perseguitati fin dal quarto secolo, i musulmani combattuti con le crociate, i neri e gli indios del Sudamerica, massacrati e ridotti in schiavitù. Per Bernardo di Chiaravalle l’omicidio degli infedeli non è un vero e proprio omicidio, ma un malicidium: “Quando [il cristiano] uccide il malfattore (malefactorem) non è omicida ma, per così dire, malicida (non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida), e senz’altro è stimato vendicatore di Cristo contro quelli che agiscono male e difensore dei cristiani” (De Laude Novae Militiae, III, 4).
Immagine del XV secolo che mostra
le relazioni degli ebrei con gli animali ed il diavolo. 
C’è infine l’eresia, o per meglio dire la non ortodossia. L’occidente cristiano è ossessionato dall’ortodossia. Quelle che in oriente sono semplici correnti o scuole, varianti di un tema di fondo, in occidente diventano sette da combattere con il ferro e col fuoco. L’annuncio di pace e di amore del Vangelo non costituisce affatto un freno. Quelli che sono al di fuori della Chiesa, chiarisce Sant’Agostino parlando dei donatisti, non sono nemmeno un esseri umani, poiché non hanno lo Spirito Santo: Non habent itaque Spiritum sanctum, qui sunt extra Ecclesiam: de illis quippe scriptum est: Qui seipsos segregant, animales, Spiritum non habentes (Epistolae, 185, 11.50). La conclusione è facilmente intuibile. Demoniaco apparirà a Lutero il papato, così come demoniaca sarà per i cattolici la chiesa protestante.
Il diavolo è dunque il simbolo, l’immagine che abbraccia gli esclusi dell’occidente, tutti coloro che sono stati vittime di una medesima violenza culturale, tutti coloro che erano e sono segnati da una qualche diversità, che per qualche aspetto si allontanavano e si allontanano dalla figura dominante: il maschio adulto ortodosso (cattolico o protestante) e naturalmente eterosessuale. La sua esistenza dimostra che il diaballein, il dividere e discriminare, fa parte per essenza del cristianesimo, della sua logica dualistica, che così apertamente confligge con l’annuncio dell’amore verso lo stesso nemico che si trova nel Vangelo. La figura del diavolo, l’appartenenza al suo dominio, consente di derogare alla sacralità dell’essere umano (l’animale non l’ha mai posseduta); e colui che è privato di sacralità può essere liberamente massacrato. La logica escludente, diabolica del cristianesimo non consente mediazioni. O si è con Dio o si è contro Dio; o si è salvi o si è dannati: e chi sarà dannato nell’altra vita lo è già in questa. Il cristianesimo ha dato un contributo determinante alla conquista della categoria della sacralità della vita (umana), ma ha anche posto condizioni a tale sacralità ed ha mostrato in opera, durante secoli e secoli bagnati dal sangue di pagani, ebrei, albigesi eccetera, le pratiche di dissacrazione, la negazione teorica della dignità di un essere umano che anticipa e giustifica la sua soppressione.
Note
(1) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, 78, tr. it., Newton Compton, Roma 1976.
(2) Cfr. T. Gregory, Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 40.

Articolo scritto per Stato Quotidiano.

Cent’anni di Arturo Paoli

Frontespizio di Ancora cercate ancora, con dedica
Oggi Arturo Paoli compie cent’anni.
In un’altra Italia, sarebbe festeggiato come uno dei più grandi uomini della nazione. Nell’Italia che abbiamo è una antica quercia solitaria, che parla con voce ferma ma sottile solo ai pochi che hanno voglia di ascoltarla.
Una delle cose che mi interessano da un po’ è la possibilità di incontro tra credenti ed atei. Mi pare che questo incontro sia possibile in due dimensioni, che non so come e quanto siano conciliabili: la mistica e la prassi. La mistica, poiché Dio può essere una consolazione dell’io, il sostegno e puntello metafisico del soggetto – e il mistico e l’ateo possono procedere insieme verso il “Dio prima di Dio”. La prassi, perché anche l’ateo può riconoscere quel Dio-nei-poveri che Vivekananda e Gandhi chiamavano Daridranarayana. Fratel Arturo è uno di quei pensatori religiosi con i quali un ateo può dialogare sulla base della prassi. In Camminando s’apre cammino (Cittadella,  Assisi 1994) afferma che la divisione dei cristiani sta nel pensare Cristo “attraverso la filosofia dell’essere o attraverso la filosofia della prassi” (p. 52). E cosa significhi pensarlo attraverso la filosofia della prassi è presto detto: 
Prima di parlare di pace e di unione, esci, amico, e osserva attentamente se sulla tua porta è scritto: – Qui non c’è posto per i poveri -, perché se è così, il discorso è falsificato non dall’intenzione, ma dalla scelta. Ci scandalizzano i politici imbroglioni, ma l’imbroglio di noi cristiani può essere più sottile perché va alla radice della coscienza. Se chiedi a un religioso chi è Cristo, magari ti risponde con un’eloquenza fantastica; se gli chiedi che cosa fa il Cristo oggi nel mondo, nella storia, potrebbe balbettare come un bambino. (ivi, p. 61)