Le religioni sono violente?

“Un mondo senza religioni sarebbe un mondo più bello e meno violento?”, si chiede su Gli Stati Generali il pastore battista Gabriele Arosio. E posta così, la questione difficilmente può trovare risposta. In primo luogo, perché non è affatto facile distinguere cosa è religione e cosa non lo è. Il concetto di religione è occidentale; siamo sicuri che il dharma degli hinduisti, per non fare che un esempio, sia esattamente la stessa cosa? E il Confucianesimo cos’è? Confucio parla pochissimo di questioni ultime, e molto di etica. Sembra più un filosofo che un fondatore di religioni; ma del resto lo stesso concetto di filosofia è occidentale.
Ammesso anche che cristianesimo, islam, buddhismo e confucianesimo possano essere concepiti insieme come religioni, non ha molto senso parlarne all’ingrosso. Bisognerebbe chiedersi quanta violenza vi sia in ciascuna di essere, piuttosto che ritenere che meritino di stare in piedi o debbano cadere tutte insieme.
Ma più che di religione, sarebbe soprattutto il caso di parlare di Weltanschauung, visione del mondo. Noi esseri umani abbiamo una serie di bisogni, ben sintetizzati dalla piramide di Maslow. Abbiamo bisogno di mangiare e bere, di coprirci, di essere al sicuro, di realizzarci, di essere amati. Ma abbiamo anche un bisogno fondamentale, senza il quale la vita può essere difficile. Abbiamo il bisogno di inserire la nostra esistenza individuale in un contesto di significato che la inquadri e le dia una direzione, di una visione del mondo, appunto, che sia in grado di rispondere alle fondamentali domande di senso. Proprio perché una Weltanshauung risponde a un bisogno fondamentale, quando qualcosa, dall’esterno o dall’interno, la minaccia, accade la violenza. È la violenza che ha insanguinato l’Europa quando la visione del mondo della società tradizionale medioevale è stata messa in crisi dall’ascesa della borghesia e dallo sviluppo scientifico. Un cambiamento doloroso, che ha consentito però all’Occidente uno sviluppo tecnologico che ha travolto il resto del mondo. A persiani, indiani, cinesi l’Occidente appariva come un mostro irresistibile, che con il proprio potere militare, ma ancora di più con il fascino della propria civiltà, che si proponeva come l’unica evoluta, minacciava di annullare semplicemente mondi culturali millenari. Di qui la resistenza. Di qui la violenza. Perfino Gandhi giunge a distruggere pubblicamente i prodotti inglesi, in nome dello swadeshi, la valorizzazione dei prodotti e della cultura locale. In Iran prima della Rivoluzione islamica si diffonde il concetto di gharbzadegi, che si può tradurre con intossicazione occidentale. Espressione efficacissima: l’Occidente è percepito come un veleno che intossica e uccide tutte le civiltà diverse dalla propria.
Di qui la violenza. Che non è propriamente religiosa. È la violenza di qualsiasi civiltà che vede minacciata la propria visione del mondo. Anche religioni che predicano le forme più radicali di nonviolenza possono diventare violente in certe circostanze; lo dimostra, per non fare che un esempio, il Bodu Bala Sena cingalese.
Questa è una prima risposta. Una seconda risposta è che nella visione del mondo religiosa, come in qualsiasi visione del mondo, possono esserci semi di violenza, che in qualche caso sono evidenti, in altri meno.
La Chiesa cattolica negli ultimi decenni ha da un lato ammesso i propri errori passati, dall’altro aperto al dialogo con le altre religioni. Due cose senz’altro lodevoli; ma manca qualcosa. Manca ciò che è più urgente: comprendere le radici della violenza. Perché i cristiani hanno massacrato così tanto? Perché il cristianesimo è stato così feroce, se il Cristo insegna l’amore del prossimo? Come si spiega, per restare a tempi recenti, il genocidio degli indiani canadesi nelle scuole residenziali cristiane, per lo più cattoliche?
La mia risposta a questa domanda è che il Cristo ha insegnato l’amore, ma ha insegnato anche che c’è il Diavolo. E che c’è chi è con lui e chi è con il Diavolo. Dividendo in questo modo l’umanità in due, ha gettato le premesse terribili di qualsiasi violenza verso chiunque non rientrasse nella piena ortodossia e nella rassicurante identità del maschio bianco cristiano.
Questo è il seme violento del cristianesimo. Altre religioni hanno altri semi violenti. Ed è compito di chiunque voglia la pace, prima ancora di tendere la mano a chi segue un’altra religione, analizzare senza alcuna pietà la propria religione (ma anche: della propria visione del mondo, sia pure essa ateistica) e cercare in essa l’origine del male e della violenza.

Empatia verso gli animali e violenza

Alessia Parrino, dottoranda presso l’Università di Padova, mi ha scritto chiedendomi una intervista consistente in una sola domanda per la sua tesi di dottorato. La domanda è la seguente: “How in your opinion, educate children to feel (or to improve, or to increase) empathy toward animals could prevent antisocial and violent future behaviour?”. Quella che segue è la mia risposta.
La domanda contiene un implicito: che educare i bambini all’empatia verso gli animali prevenga i comportamenti violenti in futuro. Si tratta di una affermazione che non è possibile dare per scontata, e che va analizzata. In passato, uno degli argomenti in favore di un migliore trattamento degli animali era che la violenza sugli animali porta prima o poi alla violenza sugli esseri umani, e che dunque educare al rispetto per la vita animale – pur essendo questa priva di diritti – può tornare a vantaggio dell’umanità. La tesi opposta a questa sostiene, invece, che la violenza contro gli animali ha una funzione catartica, serve a scaricare una violenza che altrimenti si indirizzerebbe verso l’essere umano. E’ la tesi che sostengono coloro che difendono spettacoli come la corrida. Si tratta di due tesi che hanno in comune la constatazione di un certo livello di violenza presente nell’essere umano, che secondo i primi va contrastata incoraggiando la gentilezza anche verso gli animali, mentre per i secondi va manifestata in qualche modo. 
La questione conduce dunque ad una seconda domanda: l’essere umano è violento? Si tratta di una questione che fa tremare i polsi a filosofi, antropologi, sociologi e psicologi. Proverò ad azzardare una risposta senza alcuna pretesa di offrire nulla più che una ipotesi sulla quale lavorare. 
Una cosa che è facile osservare è che, se la violenza è sempre stata presente nelle società umane, varia sensibilmente la quantità di violenza. Ci sono società ossessionate dalla violenza e società più o meno pacifiche. Ci sono epoche durante le quali popoli interi si sono massacrati ed epoche nelle quali essi sono riusciti a convivere. Il che vuol dire che non esiste una natura umana immutabile, e che l’essere umano può assumere forme e volti diversi nelle diverse sue espressioni storico-culturali. Perché alcuni di questi volti sono più violenti di altri? Le variabili decisive a mio avviso sono due. La prima è l’economia. Sappiamo che le società di caccia e raccolta sono (o meglio: erano, poiché ormai sono quasi del tutto scomparse) società quasi egualitarie, nelle quali i conflitti, mai del tutto assenti, vengono gestiti in modo meno cruento che in società considerate più avanzate. Quella in cui viviamo è probabilmente, invece, la società più violenta che sia mai esistita, una società fondata sulla competizione per il possesso di beni e risorse materiali, che produce guerre, morte e distruzione sotto l’apparenza del benessere. La seconda variabile è la cultura, ed in particolare la religione, che considero il fatto più rilevante della vita culturale di un popolo. Una religione può educare alla compassione o, al contrario, spingere alla guerra ed allo sterminio dello straniero. E’ evidente che credere in un Dio concepito come Signore degli Eserciti non favorisce le tendenze nonviolente e la comprensione dell’altro. 
Economia e cultura/religione sono in strettissimo rapporto tra di loro. Non ritengo la religione una semplice sovrastruttura dell’economia, ma è innegabile che dietro molte convinzioni, miti, figure religiose vi siano precisi rapporti economici e di potere. Una società violenta è caratterizzata da una struttura relazionale piramidale, cui corrisponde una visione del mondo ugualmente verticale. Il mondo viene pensato con un alto ed un basso, ed una gran quantità di confini, linee di separazione, muri. Una di queste linee di separazione – forse quella decisiva – è quella tra umano e non umano. Una separazione che poi tende a riproporsi nel mondo umano, con la distinzione tra chi è pienamente umano e chi è quasi-animale (una distinzione che serve ad identificare l’altro massacrabile). Se le cose stanno così, i due problemi della violenza contro gli esseri umani e della violenza contro il non umano sono strettamente legati. C’è una prima separazione, che è quella tra umanità e natura, con quest’ultima che è oggetto di sfruttamento, e ci sono infinite altre separazioni nel mondo umano. E’ una intera realtà materiata di violenza, asimmetria, sfruttamento. E’ il dominio di alcuni su altri che si esprime in mille forme, e che distrugge ugualmente umani, non umani ed ambiente. 
La domanda iniziale può dunque essere riformulata così: educare all’empatia verso gli animali può servire ad avere una società meno violenta? Si può rispondere affermativamente, ma ad alcune condizioni. Quando parliamo di animali, tendiamo a riferirci ai cosiddetti animali da compagnia: cani e gatti, soprattutto. Mi è capitato di chiedere a degli studenti di scuola secondaria se gli animali hanno diritti. Quasi tutti, nei diversi incontri, hanno risposto di sì. Una certezza che poi è diventata problematica quando ho chiesto se allora hanno diritti anche i ragni o le formiche. Vivendo con un cane, so quale rapporto straordinario è possibile creare con un animale capace di comunicare con una intensità ed una profondità che spesso sono negate a noi umani, e mi sembra che la presenza di un cane nella vita di un bambino possa aiutarlo notevolmente nella sua crescita affettiva. Ma è insufficiente portare alcuni non umani dalla nostra parte, e lasciare tutti gli altri al di fuori del cerchio della rispettabilità etica. Quello che ci occorre è uno sguardo che consideri con rispetto ogni essere vivente: qualcosa come il “rispetto per la vita” di cui parlava Albert Schweitzer. Rispetto, sì, anche per il ragno e lo scarafaggio. Un rispetto fondato sul fatto che ogni vivente vuole vivere, dice sì alla vita. 
Se un bambino comprende che nessuna vita, nemmeno quella che occorre dolorosamente sopprimere (perché anche solo coltivare una pianta vuol dire scegliere di sopprimere alcune vite), è priva di valore, e se impara a cogliere il valore non in qualità come la ragione o l’intelligenza, ma in questo fondo vitale, in questa tensione verso la sopravvivenza, è probabile che sia più difficile che nella sua mente si imponga lo schema piramidale del dominio. Quella di cui abbiamo bisogno per uscire dalla violenza è una Weltanschauung orizzontale, aperta, fraterna, che sostituisca la dimensione dello stare-accanto a quella del dominare-su. Educare in senso autentico vuol dire immettere fin da subito il bambino in questi rapporti liberati dal dominio, aperti, fraterni. Senza questa pratica sinagonica (nel senso dell’educarsi insieme, syn) più che pedagogica, una educazione al rispetto della vita non umana sarebbe completamente inutile, come sarebbe inutile qualsiasi forma di educazione civica.

La cultura del disprezzo

Ragazzini che prendono a botte un anziano disabile a Manfredonia; altri, appena più grandi, che sulla statale 16 aggrediscono con spranghe delle ragazze rumene, una delle quali incinta. Senza pietà, senza umanità.
Sarebbe un grave errore trarre da queste notizie di cronaca – molte altre se ne potrebbero aggiungere – conclusioni generali sugli adolescenti ed i giovani di oggi. Chi come me lavora ogni giorno con i ragazzi sa che, per fortuna, ancora moltissimi ragazzi sono capaci di empatia, di rispetto, di attenzione per l’altro. E tuttavia sarebbe un errore non meno non interrogarsi su questi segnali di disumanità.
I due ragazzi arrestati per l’aggressione alle ragazze rumene hanno un profilo su Facebook. Uno dei due ha mostra il bicipite tatuato nell’immagine di copertina. Nell’immagine del profilo ha una camicia generosamente aperta sul petto che mette in mostra un grande crocifisso; occhiali enormi, come si usano adesso. In una delle foto è in posa accanto ad un cartello con una scritta in dialetto che traduce così: “Più mi guardi e più in grasso”. La sua precedente immagine di copertina, ancora visibile sul profilo, immortalava un ragazzo col cappuccio che punta una pistola. Tra le informazioni si legge: Studia presso La Cattiveria; precedentemente: La Strada e ladro.
L’altro ragazzo nella foto del profilo è in posa da pugile. Anche lui ha studiato presso la strada (questa volta con la minuscola). Sul profilo gli amici lo sostengono dopo l’arresto. Una ragazza scrive: “fai subito a uscire che dobbiamo fare altre stronzate insieme”.

Visitando questi due profili sapendo cosa hanno fatto, è facile trarre conclusioni. C’erano tutte le premesse, senza alcun dubbio. Il problema è però che quei due profili, che a posteriori appaiono come i profili di due criminali, non sono troppo diversi dai profili di tanti altri ragazzi. L’estrema cura dell’aspetto, con esiti qualche volta anche ridicoli, la palestra, i bei vestiti, le pose da duro. Dietro c’è, non è possibile non notarlo, la ricerca del personaggio: e il modello è, naturalmente, televisivo. Il duro ipercurato è un modello che a quanto pare riscuote un certo successo tra i ragazzi, quale modello umano.
Pare (non sono in grado di controllare la notizia) che uno dei due aggressori delle ragazze rumene sia vicino a CasaPound. Se fosse confermata, la notizia non stupirebbe. Il quadro umano appena delineato è ovviamente fascista, e lo è anche in mancanza di qualsiasi consapevolezza politica. E’ fascista il culto della durezza, anche quando non si traduce nell’azione vigliacca (come sempre è ogni azione fascista) contro donne o anziani, ma resta a livello di look e di posa. E’ fascista il disprezzo nei confronti dei deboli. Sono fasciste le “stronzate”, per usare il termine di quella ragazza.
C’è un humus fascista, dunque. Che va condannato, senza alcun dubbio, ma che va soprattutto compreso.
Qualche giorno fa una studentessa stava ascoltando musica in cuffia. Le ho chiesto cosa ascoltava. Mi ha detto un nome che non ho mai sentito. Poi mi sono documentato: si chiama Salmo. E’ un rapper italiano, sui trent’anni. Leggo su Wikipedia che in una sua canzone, Merda in testa, si trova un verso omofobo: “Se avessi un figlio gay sicuro lo pesterei”. Provo ad ascoltare qualcosa. Un brano si intitola “Il senso dell’odio”. Dice tra l’altro:
Non ci resta che l’odio quando tutto finisce
mi troverai ancora qui, dove il senso lo percepisce.
Non ti resta che l’odio, lui detta e io scrivo.
Fin che senti il senso dell’odio potrai dire di essere vivo!
non ci resta che l’odio…
Sia chiaro: non intendo dire che i ragazzi diventano fascisti o protofascisti perché ascoltano musica rap. Un adolescente degli anni Ottanta ascoltava Ozzy Osbourne ed AC/DC. Probabilmente musica migliore del rap di oggi, ma certo non ne traeva una visione del mondo improntata all’amore universale. La rabbia e l’odio compaiono facilmente nella psicologia adolescenziale e giovanile. Non che siano tratti naturali: gli antropologi sono lì a dimostrare che la variabilità della percezione di sé nelle culture è enorme. Ma da qualche decennio la psicologia dell’adolescente nelle società occidentali è caratterizzata da emozioni fortemente negative, spesso anche distruttive. Non è difficile individuare le ragioni di questa rabbia. Nelle nostre società ai ragazzi si nega qualsiasi partecipazione alla vita sociale. Chiusi per anni nelle scuole – luoghi poco piacevoli -, sono immersi per anni ed anni in rapporti asimmetrici. A diciott’anni uno studente a scuola deve chiedere ancora il permesso per andare in bagno, ed è fortunato se la sua aula non ha le sbarre come la cella di un carcere. Privo di qualsiasi autonomia economica, è totalmente dipendente dai suoi genitori. Gli manca il piacere di dedicarsi ad una qualsiasi attività in favore della collettività, e gli manca quel riconoscimento sociale che soltanto il lavoro è in grado di offrire.
I ragazzi vivono, dunque, una condizione di marginalità. Quello che colpisce è che, diversamente dal passato, la rabbia che scaturisce da questa marginalità non si dirige contro i genitori. Gli adolescenti di oggi considerano la famiglia un valore. Forse l’unico. La famiglia è il porto sicuro nel quale rifugiarsi. L’altro lato della medaglia è l’assoluta impoliticità. C’è una opposizione dentro/fuori. Dentro, nella famiglia, c’è tutta la sicurezza, tutta la fiducia, tutto il bene. Il fuori fa paura. E’ meglio evitare di occuparsene. Perfino gli amici possono tradire, mentre i genitori non tradiranno mai: è una idea che ho sentito mille volte dai miei studenti, e che non sarebbe mai venuta in mente ad un ragazzo degli anni Settanta o Ottanta.

C’è rabbia, dunque. Una rabbia che cerca uno sfogo, ma che non lo trova in famiglia. Dove, come sfogare la rabbia?

Ho detto che sulla statale 16 dei ventenni hanno aggredito delle ragazze rumene. I giornali hanno dato la notizia diversamente. Le ragazze diventano prostitute. Ora, la definizione non sembra errata: si tratta di ragazze che si stavano prostituendo. Ma il fatto di prostituirsi fa tout court di una ragazza una prostituta? No, se la ragazza non si prostituisce volontariamente. Una ragazza che sia costretta a prostituirsi non è una prostituta. E’ una persona vittima di violenza sessuale, ridotta in schiavitù.
Per chi le ha aggredite, erano senz’altro prostitute. E le prostitute sono da sempre disprezzate. Di qui la logica criminale da cui è scaturita quell’azione: se le ragazze rumene che stanno sulla statale 16 sono delle prostitute, e se le prostitute, per consenso unanime, sono da disprezzare, non c’è nulla di male a prenderle a sprangate.
Quello che sta succedendo è che la rabbia giovanile, che è un portato della società capitalistica, incontra una cultura del disprezzo che si sta sempre più diffondendo in seguito alla crisi economica. Quando le cose vanno male sono i più deboli a farne le spese. I veri responsabili della crisi e degli spaventosi squilibri nella distribuzione della ricchezza non perdono nulla della loro rispettabilità; pagano invece quelli che sono ai margini, quelli sui quali pesa un atavico disprezzo, che ora diventa odio e si traduce in azione.
Ecco dunque dove sfogare la rabbia. Esistono dei soggetti che, per il fatto stesso di essere ai margini della società dei consumi, sono privi di dignità umana. Corpi in vendita privi di fortuna, liberamente massacrabili. Il corpo della prostituta, il corpo del migrante, il corpo del clochard.
E’ importante che ci si indigni per l’aggressione a due ragazze, una delle quali incinta, o a un anziano. E’ un segno di umanità. Ma può essere un segno di ipocrisia, se non è inserita in una riflessione più ampia. Se non ci si è indignati anche, ad esempio, per il vergognoso accordo con il quale il governo Berlusconi, con il favore del Partito Democratico, ha consegnato i corpi e le anime, i sogni e le speranze dei migranti africani ai torturatori ed agli assassini libici. E’ ipocrisia, se si finge di non vedere la terribile violenza contro i deboli che attraversa tutta la nostra società, sostenuta da una cultura del disprezzo che si annida nelle pieghe dei discorsi pubblici e privati, nei titoli di giornale, nell’uso apparentemente innocente di termini che tolgono dignità ad un essere umano e sacralità al suo corpo.
Articolo per Stato Quotidiano.