Velo e autodeterminazione femminile

Dopo gli insulti e le minacce sui social network, Silvia Romano ha parlato della sua conversione all’Islam e della scelta di mettere il velo in una intervista al giornale on-line islamico La luce. Nella parte che riguarda l’hijab afferma:

Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale.

Sulla conversione all’Islam aveva scritto cose dure Cinzia Sciuto, autrice dell’ottimo Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli); leggo ora su Micromega un intervento, non meno duro, di Monica Lanfranco. Due donne che stimo, ma con le quali non sono d’accordo.[read more]

Prima di spiegare perché, occorre una premessa. Sono ateo, e forse potrei considerarmi perfino un ateo militante (sono iscritto all’UAAR). Considero le religioni un male sociale e in particolare ritengo che i monoteismi abbiano causato infinite tragedie storiche. Non ho alcuna simpatia per l’Islam, fatta eccezione per il sufismo. Ritengo che sia importante fare una battaglia culturale per denunciare la violenza simbolica delle religioni. Politicamente, sono di area anarchica ed antiautoritaria, pur consapevole di tutti i problemi di una tale collocazione. La questione del velo provoca non poco imbarazzo nelle persone di sinistra perché fa entrare in conflitto due valori importanti: il riconoscimento dei diritti delle minoranze, e in particolare dei migranti, e la libertà ed autodeterminazione delle donne. Che succede, ora, se una minoranza nega il secondo valore? Quale posizione assumere nei confronti di una minoranza che nega i diritti delle donne? Bisogna accettare limitazioni alle libertà femminili in nome del multiculturalismo o rigettare (come fa Cinzia Sciuto) l’idea stessa di un multiculturalismo che diventa il cavallo di Troia per far arretrare le società occidentali nel campo dei diritti civili delle donne?
Vorrei provare, seguendo le parole di Silvia Romano, a chiedermi se non sia possibile un punto di vista diverso. Preciso che non parlo in generale della questione del velo, perché non ha alcun senso parlarne all’ingrosso, mettendo su uno stesso piatto, per dire, Afganistan, Albania e Italia. Parlo dell’uso dell’hijab da parte di una donna musulmana nel nostro Paese.
Il diverso punto di vista è quello del diritto delle donne di dare un significato al loro corpo ed a quel rapporto con il loro corpo che è l’abbigliamento.
Le donne che subiscono violenza sessuale sono spesso sottoposte alla ulteriore umiliazione di dover spiegare come erano vestite e perché. Per qualcuno il fatto che una donna sia vestita in modo considerato provocante può comportare una attenuante per il violentatore. Un certo abbigliamento non è forse segno certo di disponibilità sessuale? No, rispondono le donne, non lo è. Una donna ha il diritto di vestirsi come vuole, senza che nessuno si senta autorizzato a dare alcun significato a quell’abbigliamento. Soprattutto: solo una donna ha il diritto di dare un significato al suo modo di vestirsi. Nessun altro. Solo una donna ha il diritto di dire di essersi vestita per piacere a sé stessa, per piacere agli altri o solo perché così le andava.
Consideriamo ora il velo. Silvia Romano afferma che portare il velo per lei significa sottrarsi a dinamiche sociali che non ama. Che la seduzione sia una pratica sociale è innegabile. È una pratica sociale tutt’altro che condannabile, ma alla quale qualcuno può legittimamente decidere di non partecipare. Simone Weil, una delle più lucide intelligenze del Novecento, vi si sottrasse per tutta la sua breve vita. “Essere oggetto di desiderio: è questo che genera in me, dopo il Luxembourg, una repulsione e un’umiliazione fortunatamente invincibili”, scriveva. L’accenno ai giardini del Luxembourg resta misterioso; non è da escludere che si riferisca all’incontro con un esibizionista quando era adolescente. Ma sarebbe un grave errore considerare queste repulsione come un tratto patologico dovuto ad un evento traumatico, così come sarebbe semplicemente ridicolo vedere in quelle parole una qualche imposizione maschile. È la scelta di una delle donne più libere del Novecento e fa parte in modo significativo della sua eccezionale spiritualità. Non aveva bisogno del velo, Simone Weil. Esprimeva il suo rifiuto di essere oggetto di desiderio con tutto l’abbigliamento e in generale con un atteggiamento che spesso sconcertava e intimoriva chi la incontrava.
Silvia Romano afferma che per lei il velo ha un significato. Indica la scelta di essere al di fuori del gioco sociale della seduzione. Monica Lanfranco afferma che invece il velo ha un altro significato: indica la violenza simbolica dell’uomo sulla donna, e le parole di Silvia Romano non sono che “formule insopportabili e ipocrite, quando si pensa ai milioni di donne nel mondo costrette a portarlo, pena anche la morte, da feroci dittature teocratiche totalitari”. Non è un grande argomento, perché qui non parla una donna afgana, ma una donna italiana, e non c’è nessuna prova che qualcuno la costringa a portare il velo, pena la morte. Se una donna è costretta a portare il velo, evidentemente è un male, come è un male qualunque imposizione; ma qui si parla d’altro. Qui c’è una donna che parla del suo abbigliamento e della sua scelta. E dice cosa significa, per lei, quell’abbigliamento. Replicare che quelle parole non esprimono realmente un punto di vista personale, ma una manipolazione culturale, è sbagliato per due ragioni. La prima è che si può vedere qualche forma di manipolazione culturale in qualsiasi esperienza o scelta, e la stessa Silvia Romano considera frutto di “un’imposizione da parte della società” il suo precedente modo di vestirsi. La seconda è che significa attuare una disconferma, quel meccanismo studiato dalla scuola di Palo Alto per cui in uno scambio comunicativo si nega l’esistenza stessa dell’altro come parlante. Non si tratta di discutere le affermazioni dell’altro; gli di dice: “Tu non esisti”. Ed è esattamente quello che accade a Silvia Romano. Le sue parole non vengono prese realmente in considerazione, non è una vera interlocutrice in un discorso pubblico. Si ritene che per sua bocca parli il Patriarcato, o qualcosa del genere. E questa è evidentemente una violenza. È una violenza, quando una donna parla, ritenere che sia un uomo a parlare in sua vece, se dice cose che non ci piacciono. E metterla così a tacere.
Nessuno – che sia uomo o donna – ha il diritto di stabilire il significato dell’abbigliamento di una donna, se non la donna stessa. Non sono affatto convinto che il velo sia indice di qualsiasi libertà, mi piacerebbe piuttosto vivere in una società in cui tutti abbiano il diritto e la libertà di andare in giro completamente nudi, se lo vogliono, ma sono anche consapevole che la liberà si incarna in forme diversissime. E che l’individuo stesso è l’unico cui si può riconoscere il diritto di dare un significato alla propria esperienza. Qualsiasi alternativa conduce a conseguenze disastrose.

Gli Stati Generali[/read]

Anarchismo

Dunque. Chiamo archismo la concezione di una Origine da cui il mondo proviene e su cui poggia. Questa origine è Bene, e il mondo, fondato su di essa, è stabile. Questa stabilità è sancita dal concetto di sostanza. 
Chiamo anarchismo la negazione di questa Origine, che può avvenire in due modi: negare semplicemente che esista o opporsi ad essa. Poiché in Occidente questa origine è Dio, l’anarchismo è ateismo. Ma è possibile pensare Dio anche come anti-origine (Ferdinando Tartaglia). In questo caso l’anarchismo può essere conciliabile con una fede; ma parlare di Dio può essere in questo caso inopportuno. Se togliamo l’Origine, togliamo anche la sostanza. 
Tre posizioni: considerare l’io un correlato soggettivo della sostanza, di cui liberarsi dopo essersi liberati della prima (buddhismo, advaita vedanta); muoversi, appunto, verso un’antiorigine (Tartaglia, appunto, e Capitini; Lévinas); considerare (ancora: buddhismo) irrilevanti tutte le questioni ontologiche, affrancarsi da esse con la consapevolezza che le categorie metafisiche non erano che appoggio alla violenza sociale, e cercare una società che scaturisca fuggendo (per dirla con Heidegger) dalla negazione dell’Origine.

Lettera a una studentessa delusa dalla scuola

Cara *, gli esami di Stato non sono andati come speravi ed ora ti senti delusa, amareggiata, arrabbiata. Hai l’impressione che l’impegno di anni non sia servito a nulla e che la scuola ti abbia ingannata. Hai ragione, e comprendo perfettamente la tua rabbia. Non ti scrivo per cercare di lenirla, ma per continuare il discorso di questi cinque anni: e cercare insieme qualche conclusione.
Ragioniamo di esami. Li amo poco, come amo poco tutto ciò che serve a creare gerarchie, vincitori e vinti, primi secondi e terzi. Io sono per i giochi a somma positiva, quelli nei quali vincono tutti. E così penso un po’ la scuola. Io metto sul tavolo quello che so, tu quello che sai tu. Io quello che penso, tu quello che pensi tu. E ragioniamo insieme, cerchiamo insieme, scaviamo insieme. Ci arricchiamo insieme. Ma questo non basta. La scuola ha bisogno di classificare – in alcune scuole gli studenti vengono addirittura divisi in tre fasce: i bravi, quelli così così, i pessimi.
In questi giorni di esami mi è sembrato un po’ di essere un giudice di uno di quei talent show che vanno di moda. Lo studente si esibisce, noi lo premiamo o lo penalizziamo. Ho detto si esibisce. Perché di questo si tratta: una esibizione. Noi docenti siamo sempre molto critici verso gli spettacoli televisivi, è sottocultura, robaccia popolare contro cui la scuola deve resistere. E forse è vero. Ma ci sfugge che la logica della scuola, quale si mostra negli esami, è la stessa di certi penosissimi concorsi televisivi.[read more]

In un concorso di bellezza non vince la più bella (e chi può dire, del resto, cos’è davvero la bellezza?) Vince quella che incontra meglio i canoni estetici correnti. Canoni che io non condivido affatto. Mi piacciono molto quei visi femminili che hanno qualcosa di irregolare, e mi fa molta rabbia che alcune donne sentano di dover correggere certi tratti distintivi della loro bellezza ricorrendo al chirurgo estetico. Ora, la scuola non funziona diversamente. Lo studente che ne esce vincitore non necessariamente è il migliore. È semplicemente lo studente che incontra i canoni culturali della scuola. Ma, ecco, questi canoni sono perfino più discutibili dei canoni di bellezza dominanti. Noi docenti ci consideriamo i depositari dell’unico sapere legittimo ed ostentiamo disinteresse verso qualsiasi manifestazione culturale che non abbia il sigillo dell’ufficialità. I docenti di italiano sono sempre prodighi di consigli sui libri da leggere, ma Wattpad no, non lo leggono. Wattpad è spazzatura: può forse un docente perdere tempo a leggere il diario di una quindicenne? Fuori dalla scuola, però, le cose vanno diversamente. Scolastico, fuori dalla scuola, è un aggettivo che non qualifica granché. Se scrivi nel tuo curriculum che hai una conoscenza scolastica dell’inglese non fai una bella figura. Scolastico, dice il dizionario Treccani, vuol dire “elementare e meccanico, legato a schemi rigidi e convenzionali, privo o scarso di rielaborazione critica e poco personale”. Ecco, ci siamo. Non so ad esempio quante volte, durante questi esami di Stato, ho sentito dire che Schopenhauer è un filosofo irrazionalista. Ma davvero? Solo perché dice che al fondo della realtà non c’è una Ragione? Ma allora siamo tutti irrazionalisti. Allora lo era anche Darwin, per dire. La scuola procede così. Mette etichette ovunque, e pensa che questo etichettamento sia il sapere.
Questo modo di procedere meccanico, schematico, misero è parte significativa del canone scolastico. Un tale pseudo-sapere dev’essere presentato poi in un certo modo. Se qualcuno mi chiedesse di parlare, che so, di Platone, io avrei bisogno di qualche tempo per raccogliere le idee. Platone lo conosco bene, credo, ma i discorsi non si improvvisano. Uno studente no, non può raccogliere le idee. Deve partire subito e non deve mai fermarsi. Deve andare dritto come un treno. Questo pseudo-discorso viene premiato con i voti più alti. Voti che premiano la simulazione del sapere, non il sapere.
C’è poi l’aspetto umano. Quello che si chiede allo studente di essere. Sono anni che durante gli scrutini discuto il voto di condotta. Immancabilmente i voti più alti vanno agli studenti più silenziosi. Che stanno lì buoni buoni. Questo si chiede in fondo a uno studente. Di star lì zitto. Mentre io metterei il massimo a uno studente che mi contesta. Perché è vivo, e perché contestare è una delle cose che vorrei che la scuola insegnasse.
Vedi cosa premia un voto alto agli esami di Stato. Il fatto che lo studente – che, sia chiaro, può essere brillantissimo – incontra il canone culturale della scuola. Che è un canone che può, che deve essere discusso.
E dunque: è legittima la tua rabbia, ma procedi oltre. Comprendi che in primo luogo stai riconoscendo l’autorità di qualcuno su di te. Riconosci a noi il diritto di dirti quanto vali, quanto è solida la tua cultura, quanto reale è la tua passione. Ma al punto in cui sei non devi riconoscere nessuna autorità al di fuori di te stessa. Una volta questi esami si chiamavano esami di maturità. E la maturità consiste un questo. Siii fiera, sicura, orgogliosa di te stessa. In secondo luogo, discuti la scuola. Discuti il suo canone culturale, la sua miseria relazionale, i suoi rituali ridicoli. Discuti un sistema vecchio, stanco, che non ha mai davvero saputo rinnovarsi. Una chiesa il cui Dio è morto da un pezzo, ma che ancora si crede l’unica via di salvezza. E discuti me, prete ateo, che da quella chiesa non sa staccarsi. Perché? Perché a volte i volti si incontrano perfino lì. Ed è l’unica cosa che conta.

Gli Stati Generali, 24 giugno 2020.

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Fottete i social network

Ho fatto un sogno, stanotte. Uscivo di casa e salutavo il vicino, e in quello stesso istante compariva l’immagine di un tizio seduto accanto a un enorme salvadanaio; in seguito a quel mio gesto, una monetina vi era finita dentro. Dlin! Dopo il saluto al vicino proseguivo con il mio cane verso il parco del quartiere. Qui il cane socializzava con altri cani, con i cui padroni scambiavo qualche chiacchiera. Ed ecco ancora l’immagine del tizio con il salvadanaio, in cui finivano una, due, tre monetine. Dlindlindlin! Mi sono svegliato agitato e perplesso. Che avrà voluto dire quel sogno? Mi sono riaddormentato e, come succede, ho sognato il seguito. Ma questa volta era un incubo. Ero sul letto di morte e mi accorgevo con tristezza infinita che tutta la mia vita non era stata che uno strumento per consentire al tizio del salvadanaio di arricchirsi a dismisura. Tutto era solo un mezzo. I miei amori, i miei odi, le mie passioni, i miei viaggi, il mio privato. Tutta la mia vita, ecco, era servita solo a far sì che quel salvadanaio crescesse sempre più, straripasse, tendesse all’infinito. Scrivevo questa tardiva rivelazione su un foglio che consegnavo a qualcuno, e in quell’istante l’ultimo dlin! mi confermava che fino all’ultimo respiro sarei rimasto in una gabbia d’acciaio. Continue reading “Fottete i social network”

Gli unici davvero vivi

Le proteste mondiali dopo l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis dimostrano che anche da una tragedia può venir fuori qualcosa di buono. È urgente che gli Stati Uniti riflettano sui limiti di una democrazia che mostra un volto feroce verso una parte consistente dei suoi cittadini, così come è urgente che in tutto il mondo si rifletta – in modo non retorico – sul persistere del razzismo e della discriminazione.
Se la morte di Floyd ha avuto questo effetto, è stato perché di quell’omicidio c’è stata una testimonianza fotografica. La foto del poliziotto bianco con il piede sul collo dell’uomo nero, con un’espressione sicura, quasi trionfale, incarna in realtà un archetipo dell’inconscio collettivo occidentale e cristiano: il bene, bianco, che prevale sul male, nero; l’arcangelo Gabriele che schiaccia la testa al Diavolo. Se in quella che con ogni probabilità è la sua prima rappresentazione artistica – i mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna – il Diavolo è un angelo che si differenzia dagli altri solo per il colore blu della tunica, ben presto, man mano che si consolida l’iconografia cristiana, tingendo la pelle di Cristo e della Madonna di un improbabile colore pallido e i capelli perfino di biondo, Satana diventerà nero. E il nero diventerà satanico. Ma il dispositivo funziona solo se c’è un contesto narrativo, una demonizzazione retorica della vittima. In questo caso c’era solo un uomo che invocava pietà, ucciso da un uomo senza pietà.[read more]

Quella della scena di Minneapolis è una violenza diretta, che però non ci sarebbe stata senza altre forme di violenza. Violenza diretta è la violenza di un pugno, di un colpo di pistola, di una coltellata. Meno visibile è la violenza culturale. Quella violenza, ad esempio, che in alcuni contesti fa sì che le donne siano considerate meno importanti degli uomini, e quindi costrette alla sottomissione; e quando quella sottomissione non c’è, può accadere la violenza diretta. No, non parlo di Islam. Non solo, almeno. Parlo del nostro Paese. E c’è poi una violenza ancora più sottile. Quella che Johan Galtung chiama violenza strutturale. È la violenza che viene agita non da un singolo o da un gruppo, ma da un intero sistema sociale. C’è qualcuno che soffre, c’è qualcuno che muore, ma ecco, la colpa non è di nessuno. Come nella Dogville di Lars von Trier, la collettività può considerarsi buona ed accogliente; e tuttavia qualcuno muore.
Questa mattina una persona è morta nell’incendio della baraccopoli di Borgo Mezzanone, a Foggia. Dico persona perché al momento non si sa se è un uomo o una donna. Può essere che non lo si sappia mai. Molti dei migranti morti nelle campagne foggiane restano senza nome. Molti anni fa pubblicavo, a Foggia, un foglio libertario che si chiamava Tophet. Nel primo numero buttai giù un elenco dei migranti morti negli ultimi mesi nelle campagne foggiane. Una ventina di persone, per lo più rimaste senza nome. Molti investiti mentre cercavano di raggiungere i terreni nei quali lavoravano, molti morti in circostanze mai chiarite; qualcuno morto di freddo. Il contesto è noto. E per dire le cose come sono, bisogna usare una parola terribile: schiavitù. La usò Fabrizio Gatti, in un reportage sull’Espresso del 2006. Gatti si finse immigrato e fu ingaggiato come bracciante nelle campagne foggiane. Poi raccontò tutto; e il titolo del suo racconto era: “Io schiavo in Puglia”.
Sì, a Foggia c’è la schiavitù. Vera, non metaforica. A Foggia ci sono persone che lavorano in condizioni terribili, sfruttate a sangue, senza il minimo rispetto della loro dignità umana; persone che vivono in baracche di lamiera, in ghetti che, se fossimo meno distratti, sarebbero la vergogna di questo Paese, in ghetti che, se fossimo meno disumani, sarebbero tutti i santi giorni sulle prime pagine dei giornali. Persone che vivono in baracche di legno e lamiera che vanno a fuoco, e li uccidono. Chi li ha uccisi? Chi è stato? A Foggia non c’è solo la schiavitù. C’è qualcosa di cui la schiavitù ha bisogno, senza cui la schiavitù non esisterebbe. Non mi riferisco solo all’indifferenza. A Foggia c’è un razzismo schifoso, un razzismo da Ku Klux Klan, che è qualcosa di diverso da una semplice espressione di ignoranza. È quella violenza culturale senza la quale la violenza strutturale non sarebbe possibile. Non puoi compiere ingiustizia verso qualcuno e al tempo stesso sentirti a posto. Stai facendo il male, e lo sai. Per cavartela con te stesso hai bisogno di disumanizzare l’altro, di scorgere in lui, contro ogni evidenza, non una vittima, ma una minaccia. Hai bisogno di rovesciare la realtà e di vedere in te – in te sfruttatore economico degli uomini e sfruttatore sessuale delle donne – una povera vittima, minacciata dall’invasione di esseri minacciosi e pericolosi. Gli schiavi delle campagne foggiane hanno cominciato da qualche tempo la loro lotta. In una solitudine quasi assoluta, scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, la loro umanità. Accolti dallo scherno, dal disprezzo e dall’odio generale a livello locale; dalla semplice indifferenza a livello nazionale. Loro continueranno a morire, noi a sentirci minacciati da loro. Ma gli unici davvero vivi, in questo Paese in rovina, sono loro.

Gli Stati Generali, 12 giugno 2020.[/read]

La verità è forte?
A proposito di Gandhi

Ho registrato un podcast sul tema “La verità è forte? A proposito di Gandhi” per il corso di Storia delle religioni di Elisabetta Colagrossi (Università di Genova) – il mio Il Dio di Gandhi. Religione, etica e politica è tra i testi d’esame. Lo metto qui a disposizione di chiunque sia interessato.

La scuola salvata dagli smartphone

Nella prima metà degli anni Novanta presi, con la massima determinazione, una posizione che ancora oggi è oggetto di ironia nella mia famiglia: “Non mi vedrete mai con quel coso”. Quel coso era il telefono cellulare. In quegli anni erano davvero pochi ad averli, e chi lo aveva lo ostentava come status symbol, segno dell’ingresso in una ristretta cerchia di gente benestante e al passo con i tempi. I cellulari erano oggetti ingombranti, che fanno tenerezza se confrontati con gli smartphone attuali, e chi li usava era spesso costretto a contorsioni imbarazzanti per intercettare il campo. Nel ’98 insegnavo italiano in una scuola media. In una terza quasi tutti gli studenti avevano il telefono cellulare. Lo tenevano poggiato in bella mostra sul banco, in alto a destra, come qualcosa che non potevano sottrarre allo sguardo nemmeno per un istante. Mi sembrava una ostentazione che non faceva ben sperare sulle nuove generazioni, e lo stesso pareva ai miei colleghi.
Ho preso il primo cellulare sul finire degli anni Novanta, per ragioni affettive: una persona cui tenevo si era trasferita in un’altra città e mi aveva fatto capire che con il cellulare sarebbe stato più facile sentirci, anche via sms. Presi un Siemens C25, un oggettino compatto, piacevole da maneggiare. Scoprii che mi piaceva, per quanto ci si potesse far poco: telefonare, mandare sms, giocare a Snake.[read more]

Non so dire quanti telefoni cellulari ho cambiato da allora. Ma sono molti. Non ho mai speso troppo, mi sono tenuto lontano dai cosiddetti top di gamma e dalle marche più costose, ma ho sempre cercato dispositivi che mi permettessero di sfruttare tutte le possibilità della tecnologia. Oggi con il mio smartphone faccio le seguenti cose: leggo libri e giornali (nazionali ed internazionali, che leggo gratis grazie ad un servizio della biblioteca della mia città), studio le lingue (al momento sto rinfrescando il mio tedesco e studiando un po’ di giapponese: le app hanno scalzato pienamente i libri nello studio delle lingue), guardo documentari e film, ascolto musica, seguo corsi universitari gratuiti (con Coursera), gestisco le mie classi virtuali e preparo materiali didattici, suono la chitarra seguendo uno spartito che scorre sullo schermo, medito usando un timer apposito con una campana, leggo la posta… Potrei continuare a lungo. Quando mi capita di imbattermi nella diffusa e facile ironia sul fatto che una volta sull’autobous ti imbattevi in gente che leggeva il giornale mentre oggi sono tutti chini sugli smartphone, non posso fare a meno di obiettare che magari stanno usando lo smartphone per leggere. Oppure – è quello che ho fatto io fino a quando è stato possibile prendere gli autobus – per ascoltare Bach.
Abbiamo demonizzato il cellulare quando era una cosa da ricchi, quando sapeva di yuppie fuori tempo massimo, e forse avevamo ragione. Poi il cellulare si è trasformato in smartphone, un dispositivo semplicemente straordinario, che offre possibilità di conoscenza, di esperienza, di scambio prima nemmeno pensabili, e abbiamo continuato con la nostra demonizzazione. Mi riferisco soprattutto alla scuola. Lo smartphone era la fonte di distrazione suprema e come tale bisognava vietarlo, non prima di aver gettato un po’ di disprezzo sullo strumento e su chi ne fa uso. Solo pochi si sono accorti che poteva essere uno strumento didattico. Poi è arrivato il lockdown. Le scuole sono state chiuse, e con la chiusura delle scuole sono saltate anche tante certezze che sorreggevano la nostra prassi didattica.
Ci raccontiamo che la scuola continua, in forma diversa, grazie ai computer. E quando non ci sono, mandiamo i computer scolastici, o diamo un sostegno economico – immagino insufficiente – per colmare il gap tecnologico. Non ci rendiamo conto che non sono i computer che stanno salvando la scuola in questo momento. E non solo perché non in tutte le case ci sono i computer. E nemmeno perché in molte famiglie c’è un computer e ci sono tre figli che vanno a scuola (e magari il computer serve anche ai genitori). Quello che sta salvando oggi la scuola, che ci sta consentendo di continuare in qualche modo a far lezione, a seguire i nostri studenti, a continuare il dialogo, è il tanto demonizzato smartphone. Se noi adulti continuiamo a percepire lo smartphone come un bene di lusso, memori delle scene degli esordi, i ragazzi sanno che si tratta invece di un bene di necessità: e per questo è difficile che manchi uno smartphone anche nelle famiglie più povere, nelle quali i computer non sono mai entrati. Ed è, di fatto, un bene di prima necessità. Oggi la realtà si è sdoppiata, accanto a quella che tocchiamo con i sensi c’è la realtà parallela dei social network e della condivisione informatica. Essere fuori da questa realtà parallela significa vivere una realtà sociale dimezzata. E non solo per i ragazzi: la stessa politica oggi si fa sui social network. Se alla realtà quotidiana si accede attraverso i sensi, alla realtà parallela si accede attraverso un nuovo senso tecnologico: e tale è, e sta diventando sempre più, lo smartphone. Qualcosa di più di un semplice strumento. Un senso aggiunto. Un sesto senso. Bisogna tenerne conto anche sul piano politico, perché è sempre più evidente che l’accesso alla rete Internet ed alla tecnologia sono oggi fondamentali per il pieno esercizio degli stessi diritti di cittadinanza. Ma bisognerà tenerne conto anche a scuola, quando sarà possibile tornare nelle aule e, guardandoci in faccia, ci troveremo di fronte ad una scelta: continuare la vecchia, consolidata narrazione, o costruire un discorso nuovo, liberarci dai pregiudizi, avere il coraggio del cambiamento.

Gli Stati Generali, 24 aprile 2020.[/read]

Quella distanza che rende la scuola più vicina

I problemi, le difficoltà, i rischi della chiusura – non si sa fino a quando – della scuola sono evidenti: primo fra tutti la possibilità concreta che chi è già indietro resti ancora più indietro, a causa del divario culturale, cui si aggiunge ora, spesso, il divario digitale. Un piccolo studente che abbia difficoltà legate alla motivazione, con alle spalle una famiglia che non lo supporta, rischia di perdere anche l’incoraggiamento e il sostegno della comunità scolastica (quando c’è: cosa che non è purtroppo scontata). E può essere che la mancanza di computer o di una stabile connessione alla rete Internet finisca per aggravare il quadro.
Vorrei però ragionare anche sulle opportunità di questa fase così difficile. Procederò per punti.
1. Nuove modalità relazionali. Sono fortemente convinto che il principale problema della scuola italiana vada individuato nella relazione tra docenti e studenti. La scuola nasce come istituzione autoritaria, asimmetrica, disciplinare e tendenzialmente totalizzante. E’ una istituzione di potere, che promette di creare delle soggettività solo dopo un lungo assoggettamento, per dirla alla Foucault. Altrove i sistemi scolastici sono riusciti a fare i conti con questo passato autoritario ed a staccarsi da una modalità relazionale che ha poco a che fare con l’apprendimento. L’Italia no. Benché nella percezione di molti la causa della crisi attuale della scuola vada ricercata in un lassismo che si fa risalire all’influenza nefasta del Sessantotto, in realtà la scuola persiste nel suo delirio unidirezionale. Il docente fa lezione dalla cattedra, gli studenti sono nei loro banchi in fila, il sapere si trasmette dall’uno agli altri.[read more]

Ora, l’irruzione della distanza fa saltare il gioco. Quei docenti che persistono nel guardare le classi dall’alto della pedana sotto la cattedra (sì: in Italia persistono le pedane sotto le cattedre) dovranno adesso accontentarsi di mettere le pedane sotto le scrivanie. O sotto la webcam, se preferiscono. Il docente collegato in videoconferenza con la sua classe diventa, che lo voglia o no, quello che dovrebbe essere: una persona al servizio dei suoi studenti, pagata dallo Stato per favorire i loro apprendimenti. Tutto l’apparato di controllo, tutto il setting che sostiene e giustifica il suo potere, è venuto a crollare. Nessuno chiederà il permesso per andare in bagno. Lo studente è a casa sua, il docente entra nella sua cameretta, nel salotto, nella cucina a volte. E dovrà farlo necessariamente in punta di piedi. Paradossi di questo tempo sospeso: la didattica a distanza annulla la distanza.
2. Riflessione sulla valutazione. La domanda più pressante, in questi giorni, è: come valutare? Il sottinteso è: come essere certi che non copino? C’è dietro questa domanda la paura di perdere anche l’ultimo strumento di potere, il voto. Che dovrebbe solo servire ad aiutare lo studente a monitorare il suo percorso di apprendimento, ma in un sistema autoritario diventa uno strumento di potere e di manipolazione per gli uni, il fine reale del lavoro per gli altri. A meno che non si voglia interrogare lo studente in videoconferenza avendo cura che sia bendato, l’unico modo per valutare in questo periodo è concentrarsi sulle competenze. Non chiedere allo studente di ripetere quello che c’è sul libro, o che il docente ha detto a lezione, ma proporre delle attività dalle quali emerga la rielaborazione personale, la capacità di applicare le conoscenze, la creatività. Inutile fare la classica interrogazione sul pensiero di Nietzsche; chiedere piuttosto di scrivere soggetto e un pezzo di sceneggiatura di un film nicciano (che si leghi cioè, anche in modo critico, a qualcuno dei temi di fondo del suo pensiero). Ma concentrarsi sulla competenza è quello che bisognerebbe fare sempre, a scuola, per evitare il vuoto nozionismo, la penosa simulazione del sapere.
3. I gruppi. Un lavoro come quest’ultimo potrebbe essere troppo difficile per il singolo studente. Meglio proporlo come lavoro di gruppo. Ed è questa, forse, la principale opportunità di questo periodo. Il lavoro di gruppo a scuola – nella scuola italiana – è da sempre marginale. Lo è anche per l’ossessione docimologica: come valutarlo? come impedire che il lavativo di turno si avvantaggi del lavoro degli altri? Gli strumenti che utilizziamo in questi giorni sono nati spesso per favorire il lavoro nelle aziende. E’ il caso di Teams, strumento centrale di Microsoft Office 365 Education A1, tra le piattaforme raccomandate dal Miur. Penso tutto il male possibile di questa raccomandazione di servizi proprietari, quando sono disponibili alternative open source, e mi chiedo anche perché il Ministero non abbia approntato mai una sua piattaforma per l’apprendimento aperta, gratuita, con alle spalle una solida visione pedagogica. Cerco però di vedere il buono anche nelle cose che non mi piacciono, soprattutto quando sono cose che devo usare per lavoro. Teams funziona bene, come dice il suo nome, per il lavoro di gruppo. Usare strumenti come questo per continuare la didattica unidirezionale è sciocco. E’ bene che finalmente i nostri studenti imparino a coordinarsi, condividere le informazioni, dividersi i compiti, costruire l’intelligenza collettiva.
4. La scuola e l’altrove. La scuola pensa sé stessa come una cittadella del sapere. Un mondo chiuso nel quale c’è il sapere vero, autentico, certificato (con qualche eccezione: i voti scolastici in inglese o francese non certificano nulla di per sé; “conoscenza scolastica” nel curriculum in questo caso non fa fare una grande figura), autorevole. Fuori è tutto dilettantismo. La chiusura della scuola come luogo fisico abbatte questa barriera mentale. Il docente che fa lezione in videoconferenza ha come strumento il suo computer. Potrà usare, sul suo computer, il libro di testo. Ma potrà anche esplorare la rete insieme ai suoi studenti. La classe, di fatto, diventa questo: un ambiente di apprendimento connesso alla rete, e dunque parte di un più grande sistema informativo, che può essere un pericolo (ah, la privacy), ma anche una straordinaria risorsa.
La scuola a distanza, dispersa apparentemente nelle singole abitazioni dei docenti e degli studenti, può tentare nuove relazioni, nuove connessioni, nuove modalità di ricerca. Essere, forse, più vicina che mai.

Gli Stati Generali, 24 marzo 2020.[/read]

I limiti del controllo

Qualche settimana fa uno studente mi ha fatto una domanda cui non è facile rispondere. Avevo letto in classe alcune pagine de Il futuro della democrazia di Norberto Bobbio, un libro del 1984 per molti versi ancora molto attuale. Nel primo capitolo Bobbio ragionava delle “promesse non mantenute” della democrazia. Tra le altre, la persistenza delle oligarchie, di ambiti in cui si esercita il potere in modo non democratico (e molto c’è da riflettere, oggi, sui social network), di forme di potere che si sottraggono al controllo (un controllo, osservata Bobbio, “tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, è praticamente illimitato”), la mancanza di una educazione del cittadino, l’incapacità di uno Stato democratico di rispondere alle richieste sempre più numerose che provengono dalla società civile.
La domanda dunque era: come possiamo dimostrare che la democrazia sia in assoluto il miglior sistema di governo? Si trattava di una lezione di Scienze Umane, e studiando antropologia gli studenti già al terzo anno imparano cos’è il relativismo culturale. Se ogni cultura ha i suoi valori, come possiamo sostenere il valore transculturale della democrazia? Continue reading “I limiti del controllo”

Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)

In questo periodo di grave difficoltà per la scuola pubblica, pare segno di grande responsabilità e generosità che aziende piccole, grandi e grandissime abbiano messo a disposizione gratuitamente i loro servizi. Prime fra tutte, le multinazionali dell’informazione per eccellenza: Google e Microsoft. Google Suite for Education e Office 365 Education A1 fanno bella mostra di sé nella pagina del Miur dedicata alla didattica a distanza, quali piattaforme raccomandate; e di fatto, grazie a questo endorsement ministeriale, sono le piattaforme più usate dalle scuole in questo periodo. Il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione e l’Agenzia per l’Italia Digitale hanno poi promosso Solidarietà digitale, una pagina con il lungo elenco di aziende ed associazioni che mettono gratuitamente a disposizione i loro servizi: si va dall’immancabile Amazon ai gestori di telefonia fino alla aziende di trasporti che offre corse gratuite, una offerta poco comprensibile in un periodo di immobilità coatta.
Bisogna essere molto ingenui per non vedere dietro questa generosità la realizzazione di un sogno: quello di conquistare il lucroso settore della scuola pubblica, rendendo i propri servizi indispensabili per la didattica ed acquisendo i dati personali di migliaia, possibilmente milioni di studenti e docenti. Chi scrive ha conseguito un attestato di Docente esperto in tecnologie informatiche non meno di vent’anni fa. All’epoca per essere esperti di tecnologie informatiche bastava saper usare Microsoft Office; e l’attestato giunse proprio alla fine di un corso a distanza (naturalmente gratuito) di Microsoft, accompagnato e completato dal dono generoso di una copia gratuita della suite Office. La logica è quella commerciale del cavallo di Troia: si offre un servizio gratis, si entra nella scuola pubblica e si conquista il mercato dell’insegnamento. Continue reading “Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)”

16 marzo, lunedì

Cercando aria, luce e colori, mi sono spinto questa mattina con il mio cane per i colli senesi, sui quali la primavera, indifferente alla nostra angoscia, sta cominciando a celebrare la sua festa. Nessuno per strada; solo, di là dai cancelli, due uomini impegnati nella potatura degli ulivi. “Taglia più in basso, lì” le uniche parole sentite. Per il resto il silenzio morbido e gentile dei colli. E i rospi.
Questo è il periodo della mattanza dei rospi. S’azzardano sull’asfalto e vengono falciati da un mostro di acciaio che nulla sa di loro. Restano lì, un ammasso di sangue e carne, fino a quando i raggi del sole non cominciano la loro operazione alchemica. In capo a qualche giorno, di loro non resta resta una sagoma di grigia e rinsecchita; qualche giorno ancora, e svanisce anche la forma – la tragica persistenza di una parvenza di vita, perfino di volontà.
Mi hanno seguito per tutta la mia esplorazione dei colli, queste cose, fino a quando ho ceduto al loro invito alla riflessione. Sì, non siamo forse anche noi così? Possiamo davvero ritenerci diversi da un rospo, nell’economia dell’universo? Non siamo fatti fuori anche noi, da un momento all’altro? E resta di noi qualcosa di diverso, nonostante la premura dei superstiti? Continue reading “16 marzo, lunedì”

Facciamo una scuola difficile

Uno studente che provenga dal ceto proletario si trova ad affrontare difficoltà che per lo studente borghese sono difficili anche da immaginare. La più grande, spesso insormontabile, è la differenza culturale: perché la cultura scolastica è la cultura elaborata nei secoli dal ceto nobiliare e poi da quello borghese, una cultura che esprime una visione del mondo che è diversa, diversissima da quella proletaria; una costellazione di valori altra, nella quale lo studente proletario non è a casa. E si trova di fronte a una scelta dolorosissima: abitare quella nuova casa e diventare un estraneo per il suo ambiente o rifugiarsi nel suo ambiente e disertare la nuova, improbabile casa. Spesso è questa seconda, la sua scelta, ed è tra le cause principali della dispersione scolastica. C’è poi la lingua. Il nostro studente proletario ha un codice ristretto, direbbe Basil Bernstein. Ha un codice diverso, direbbe qualche altro. Certo parla una lingua che non è quella scolastica. Un proletario foggiano ha termini estremamente precisi per indicare, che so, l’acqua di cottura della pasta o le briciole di polistirolo, ma non ha un lessico astratto o adatto alla complessità del mondo emotivo e sentimentale (quel mondo che si esprime nella poesia e nella letteratura): nella sua lingua non esiste nemmeno un modo per dire “ti amo”. C’è poi – lo diceva Gramsci, e l’aveva vissuto sulla sua pelle – l’attitudine a quel tipo particolare di fatica che è il lavoro intellettuale, che può essere piacevole e anche gioioso, ma resta un lavoro, e per lo studente proletario è un lavoro strano, diverso dal lavoro di suo padre e di suo nonno. Continue reading “Facciamo una scuola difficile”

רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה

Dio è buono, dici. Anzi, è il Bene. Ma dal Bene può venire il male? No, dici. Il male viene dal Diavolo. Ma perché allora nel primo libro di Samuele (16, 15) si legge:

הִנֵּה-נָא רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה, מְבַעִתֶּךָ

La CEI traduce, correttamente, “Ecco, un cattivo spirito di Dio ti turba”, mentre in una traduzione evangelica trovo “uno spirito cattivo permesso da Dio”, che vuol dire distorcere il testo. רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה significa proprio “uno spirito cattivo di Dio”. Ma se Dio è il Bene, come può venire da Dio “uno spirito cattivo”?

24 novembre

Ieri a Foggia sono morti due poveri. Vivevano in una baracca, si scaldavano con un braciere. Li ha uccisi il monossido di carbonio. Non avevano ancora quarant’anni.

Una volta, quando pubblicavo un foglio anarchico che si chiamava Tophet, contai gli immigrati morti tragicamente a Foggia: per lo più investiti a bordo strada, qualcuno – come la romena Claudia Ioana Pop – annegato nelle vasche per l’irrigazione, qualcuno bruciato. Erano decine. Una strage silenziosa, che avveniva, che avviene nell’indifferenza più completa.

In genere quando delle persone sono ridotte a cose senza importanza, c’è un dispositivo di disumanizzazione. Nel mondo antico, afferma Roberto Esposito, era il concetto stesso di cosa, che finiva per inghiottire anche esseri umani. Nel mondo cristiano, sosterrei io da qualche parte se fossi meno pigro, è la figura del Diavolo che consente la disumanizzazione e il massacro. Quello che sconcerta, a Foggia, è che non c’è bisogno di alcun particolare dispositivo per giustificare questo lento massacro. La ferocia è strutturale, si situa ad un livello preculturale, è un veleno che è nell’aria, che si respira parlando, ridendo, andandosene in giro per i centri commerciali. Perfino pregando.

Sinagogia

Una intervista a Tutta un’altra scuola.

Professor Vigilante, lei è fautore di piccoli-grandi cambiamenti e novità nell’approccio con l’insegnamento, che sperimenta con gli studenti del liceo dove insegna. Ci vuoi spiegare su cosa si basa la costruzione delle relazione con loro e delle relazioni tra di loro e come questo permetta una modalità di insegnamento più efficace?

“Da qualche tempo amo usare la parola sinagogia al posto di pedagogia. Il termine pedagogia indica il ‘condurre il bambini’, ed è evidentemente inadeguata oggi che sappiamo che l’educazione non riguarda solo i bambini, ma è un processo che dura tutta la vita. Ma dal mio punto di vista è inadeguata anche perché pensa l’educazione come l’azione con la quale un soggetto conduce e dirige un altro soggetto. Sinagogia vuol dire invece che l’educazione accade quando due o più soggetti si conducono insieme (syn). Non posso educare qualcuno senza educarmi al tempo stesso. Vi sono situazioni educative, nelle quali ognuno è al tempo stesso educatore ed educato. La scuola dovrebbe essere la situazione educativa per eccellenza, ma lo è di rado e quasi per accidente. Io ritengo che chi insegna debba riflettere a fondo su questa domanda: quando, come, a quali condizioni accade l’educazione? E’ una riflessione che non può che partire da noi stessi. Quando e come siamo cresciuti? In quali situazioni siamo cambiati? Cosa ci ha fatto riflettere, ci ha spinti a vedere il mondo con occhi diversi, ad allargare lo sguardo? La mia risposta è che una relazione viva, autentica, è essenziale. Credo che l’educazione sia creare relazioni autentiche. E dal mio punto di vista non è possibile creare relazioni autentiche senza attaccare il verticismo, l’asimmetria, la gerarchia relazionale che caratterizzano le relazioni nella scuola italiana. In una relazione asimmetrica, quale si vuole che sia quella tra docente e studente, non si comunica in modo autentico. Spesso, anzi, non si comunica affatto”.[read more]

Come utilizza la mindfulness a scuola e come la si potrebbe utilizzare proficuamente nella scuola oggi?

“La mia proposta è quella di inserire la mindfulness in un contesto più ampio, che chiamo Educazione Basata sulla Consapevolezza (EBAC). Essere consapevoli di quello che accade è l’essenza della mindfulness. In alcune applicazioni, questa consapevolezza viene adoperata come strumento per affrontare problemi comuni nella nostre classi, come il bullismo o il deficit di attenzione. E’ quella che chiamo EBAC Problema-Soluzione. In un secondo approccio la meditazione è intesa nel suo senso più propriamente religioso, come pratica che consente il trascendimento dell’ego ordinario. Chiamo questo approccio, che si trova ad esempio nell’Alice Project di Valentino Giacomin, EBAC Transpersonale. In alternativa a questi due approcci io propongo una EBAC Umanistica, che inserisce la meditazione in un più ampio progetto di formazione integrale dello studente, che comprende anche la formazione politica. La meditazione guida alla conoscenza di sé, ma consente anche una migliore comprensione dell’altro e la costruzione comune di una comunità autentica: spiritualità, etica e politica”.

Sono in molti a sottolineare la necessità di un radicale cambiamento del paradigma educativo convenzionale che si basa ancora su lezioni frontali, nozioni, standardizzazione, ecc. Come vede l’educazione efficace e a misura di bambino/ragazzo di un futuro possibile?

“Bisognerebbe riflettere sull’efficacia. Efficace rispetto a cosa? Quale è lo scopo da raggiungere, in educazione? Per molti, è l’affermazione lavorativa degli studenti o dei figli. Una visione legittima, ma che pecca di individualismo: quale società creeremo, se educhiamo ciascuno a pensare solo al proprio futuro professionale? Per altri, bisogna educare alla felicità. Anche questa è una visione condivisibile, ma non meno individualistica. Che succede, se la mia felicità contrasta con i bisogni di altri? Dal mio punto di vista, fondamentale è la violenza. L’educazione è lo strumento migliore – l’unico? – che abbiamo per combattere la violenza. E possiamo combattere la violenza fino in fondo solo se abbiamo imparato anche a cercarla e stanarla dentro di noi. Per questo quella educazione dello sguardo che è la meditazione è per me essenziale”.[/read]

6 novembre 2019

“L’individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per contro, riconosce l’impronta sublime e l’ordine ammirabile che si manifestano tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L’esistenza individuale gli là l’impressione di una prigione e vuol vivere nella piena conoscenza di tutto ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso profondo. Già nei primi stati dell’evoluzione della religione (per esempio in parecchi salmi di David e in qualche Profeta), si trovano i primi indizi della religione cosmica; ma gli elementi di questa religione sono più forti nel buddhismo, come abbiamo imparato in particolare dagli scritti ammirabili di Schopenhauer.”*

– Direi che c’è tutto, qui.
– Tutto? Cosa?
– Il trascendimento. Quello che chiamo, anzi, attraversamento.
– E che ti sembra dell’ordine ammirabile?
– Che intendi?
– Intendo l’ophiocordyceps unilateralis.
– A suo modo è mirabile.
– A condizione di non essere una formica. A meno che tu non voglia dire che la formica attraversa il suo ego.
– Nemmeno io vedo una impronta sublime. Ma sento la necessità dell’attraversamento.
– Che sarà verso il radicale non senso delle cose, immagino.
– Fihi ma fihi.
– E la formica?

* Einstein, Come io vedo il mondo, Newton Compton.

Liberatore V.

Il vento di marzo porgeva al fiuto dei signori il profumo dei tempi nuovi e sibilava sulla schiena curva dei cafoni con una carezza gelida, presagio di sventura, di un volgere ancora più triste di quella faccenda affannosa e senza grazia che era ed è lo stare sulla terra, lo stare nella storia. Aggrappati al monte con la tenacia e l’energia degli organismi primitivi, chiusi nel carcere delle quattro vie d’un borgo che si palesava cacato dal nulla – più delle altre vie e città e volti, voglio dire -, i cafoni assistevano da sempre al naturale svolgersi degli eventi con la pazienza e l’indifferenza degli animali da cortile; epperò qualcosa quell’anno stava cambiando, e te ne accorgevi da una parola in più nel parlare essenziale delle donne, da una nota più lunga, più ansiosa quando chiamavano i bambini, da un innaturale affrettarsi all’uscita dalla chiesa. I ritmi avevano subito qualche cambiamento appena percettibile, l’usata trama del vivere mostrava qualche tema nuovo, e qua e là compariva un lieve strappo, un tratto liso, mentre i signori, chiusi nelle giamberghe, sembrano risplendere più che mai nella natura loro – che era, indefettibilmente, di due generi: austeri, impassibili e lontani alcuni come statue, grassi, rosei e gioviali come porcelli gli altri. I primi ai cafoni mettevano una paura fottuta, roba da scappar via alla fontana, da abbassare lo sguardo come vergini, da farsi muti come pesci. Gli altri stavano tra i cafoni come cani da guardia tra le pecore al pascolo, di tutto lieti, allegri come lo stare al mondo fosse una festa, fraternamente ironici coi cafoni, delle cui mogli sorelle e figlie non disdegnavano di apprezzare le cosce e le zinne. D’un genere suo, anzi privo di qualsivoglia genere, unico nel suo esser-così, era Liberatore.

A chiedere in giro, difficilmente avresti trovato qualcuno capace di dirti come e quando precisamente era comparso quel cristiano alto e smunto, come roso dentro da una irragionevole tristezza, seccato dal fastidio di campare, eppure capace di un suo sorriso tragico, che alla gente pareva contenere una qualche oscura minaccia. Nessuno ricordava i parenti suoi, o di averlo visto giocare, criaturo tra i criaturi, nelle fangose vie del paese. Era, il suo stato, quello dei signori, ma pareva averlo rifiutato con una decisione di cui sfuggiva il perché. Se ne stava per suo conto, viveva la sua vita solitaria dove il paese si spegneva nella campagna, rintanato in un buco di cui s’ignorava il decoro, l’ampiezza, la decenza, poiché nessuno poteva vantarsi d’aver bevuto un bicchiere di vino oltre quell’uscio. Liberatore era l’esattore delle imposte. Il suo lavoro consisteva nel togliere ai cafoni quel poco che avevano. E’ un lavoro che può dare le sue soddisfazioni, soprattutto se fatto da un porcello di quelli che s’è detto: la soddisfazione di chi dà una mano al procedere logico della civiltà, che nulla ha da attendersi dai cafoni, se non che contribuiscano come possono al benessere di quelli che sanno cosa farsene dei trenta, quaranta o cinquant’anni che stanno tra il pianto della nascita e quello della morte. Ma Liberatore non provava nessuna soddisfazione. Avresti detto che bruciava di compassione per quella gente sporca e bastarda, e che si fosse imposto quel lavoro come una croce da portare sulle spalle per pagare chissà quale colpa compiuta in quel passato buio nel quale nessuno riusciva a scorgerlo.
Accadde una mattina, a metà mese. Una mattina di domenica. Una mattina fredda, epperò limpida, senza tormento di nuvole o battere di pioggia a frapporsi tra il qui e l’oltre, tra il dire e l’ascoltare. Coglionato da tre o quattro ragazzetti dei più cenciosi e stronzi sputati in strada dai bassi, Liberatore se ne venne allo slargo davanti alla chiesa del Purgatorio, lì dove scura una fontana emergeva dal pantano. Si fermò, mentre i figli di zoccola si disperdevano in un vicolo, e guardò le donne alla fontana. Erano quattro, una anziana, chiatta, il cui puzzo di lardo e sudiciume giungeva fino ai margini dello slargo, le altre tre ragazzette spinose e ostili come fichi d’india.


Questo racconto – incipit, a dire il vero: o scena – concluse, non saprei dire quanti anni fa, il progetto di Microcenturie. Estuario per romanzi fiume di breve corso.  Lo salvo qui, perché il sito non è più attivo da tempo.

La verità dell’annegato

La verità è reazionaria, l’interpretazione è rivoluzionaria. Questo, in sintesi estrema, è il messaggio che Gianni Vattimo affida a Essere e dintorni (La nave di Teseo, Milano 2018). Per chi, come chi scrive, si è formato filosoficamente tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, Vattimo è stato un maestro; attraverso di lui abbiamo letto Nietzsche e Gadamer, grazie ai suoi scritti siamo riusciti perfino ad entusiasmarci per Heidegger, prima che Franco Cassano ci richiamasse alla civiltà del mare contro l’ossessione heideggeriana per il bosco (Il pensiero meridiano, 1996: un libro che merita di essere riletto e rimeditato con attenzione). Ma, per quanto faccia piacere che giunga a pensarsi perfino come anarchico (gli anarchici non sono mai abbastanza), si fatica davvero a seguirlo.

Abbiamo, dice, una società neoliberista che si presenta come l’unica possibile, come la forma stessa che la realtà assume oggi, una cornice alla quale non è possibile sottrarsi, e che è anzi talmente solida da scomparire anche come cornice. Quale filosofia corrisponde a questo sistema? Il realismo, la filosofia che afferma che le cose sono come sono, e che dunque giustifica il fatto che queste cose siano come sono. Lo dimostra, per Vattimo, il fatto che George W. Bush anni fa abbia dato qualche riconoscimento al nuovo realismo di John Searle: che non è un grande argomento, per un filosofo. Ed ecco, se questa verità – la realtà esiste, ed è quella in cui siamo – è funzionale al capitalismo, l’affermazione che la verità non esiste, che esistono solo interpretazioni (che è quello che sostiene l’ermeneutica), sarà rivoluzionaria. Vattimo si spinge perfino a parlare di una “vocazione terroristica dell’ermeneutica” (p. 74), ed il lettore non può fare a meno di sorridere, o si piegare il labbro amaramente. Perché questa presunta anarchia ermeneutica Vattimo pretende di fondarla non solo su Gadamer, che era un brav’uomo borghese e conservatore, ma anche su Heidegger, che invece era un nazista e un antisemita. In tutto il libro avvertiamo la fatica, il fiato grosso, lo stridore di unghie di un Vattimo che cerca di dimostrare che no, Heidegger non era davvero nazista, cioè era nazista ma dietro c’era qualcosa che va meditato, e sì, era antisemita, però in fondo Israele… Fino all’affermazione che il filosofo di Messkirch “alla luce di ciò che sappiamo oggi” avrebbe potuto e dovuto “puntare sulla rivoluzione comunista” (p. 383): e tu non puoi fare a meno di annotare a margine che se tuo nonno avesse avuto le ruote, sarebbe stato una carriola. Su Heidegger aveva ragione Cassano. Non era un teorico del nazismo (il suo rapporto con il nazismo non è paragonabile a quello di Gentile con il fascismo); era un filosofo in cui sono giunte a maturazione (meglio sarebbe dire: sono marcite) diverse linee ideali che hanno costituito la matrice del nazismo: il rifiuto del mondo moderno, l’evocazione della natura, dell’originario (si può misurare il tasso di nazismo di un testo tedesco considerando la ricorrenza del prefisso Ur-), la condanna della conoscenza scientifica e della tecnica. I motivi ideali che facevano tenerezza nei Wandervoegel e che creeranno l’orrore qualche decennio dopo. Heidegger non ha da dirci nulla più di un René Guenon o di un Julius Evola. Cioè: non ha nulla da dirci, tout court. Non, almeno, a sinistra. Non sorprende che, dopo aver ispirato Ahmad Fardid, tra i principali pensatori della rivoluzione iraniana, oggi faccia battere forte il cuore ad Alexandr Dugin, il filosofo del sovranismo, che riesce perfino a riprendere il Geviert, la più colossale stronzata heideggeriana.
Quanto alla faccenda della verità, mi pare che Vattimo si sbagli. Il capitalismo avanzato non ha alcun bisogno della verità, e meno che mai del realismo vecchio o nuovo. Nel sistema in cui siamo la verità è stata soppiantata da un sistema di rimandi, da una significazione universale priva di qualsiasi significato, da un caleidoscopio di immagini che non hanno più alcun peso simbolico, ma che con il loro potere di seduzione costituiscono la forma stessa della realtà. Detto altrimenti: siamo nella società dello spettacolo, come aveva capito Guy Debord. E nella società dello spettacolo nulla è vero. Tutto è immagine, e in quanto immagine, è spettacolo. Ciò che non può esistere come spettacolo semplicemente non esiste. E’ questa la tragedia che viviamo, anche politicamente.
Consideriamo chi muore in mare nel tentativo di raggiungere un approdo negato. Se c’è un reale sul quale possiamo e dobbiamo fondare la politica, oggi, esso è l’annegamento di questo uomo, di questa donna, di questo bambino. Ma è reale? Quale realtà ha quella morte? Sappiamo il numero dei morti. E’ un numero impressionante. Ma lo sappiamo davvero? Se lo sapessimo davvero, se quello per noi fosse un reale, non potremmo continuare con le nostre vite. Quella morte è una interpretazione. Può essere che sia vera, può essere che non sia vera. E quando ci giunge la foto di un bambino con la maglia rossa annegata sulla spiaggia, non abbiamo l’irruzione del reale: abbiamo lo spettacolo. Pubblicata dai giornali, condivisa sui social network, vista su milioni di schermi, quella tragedia finisce per essere digerita dal sistema delle immagini, che non sarebbe tale – non sarebbe un sistema – se non avesse il potere di assorbire anche ciò che è tragico e doloroso.
In Realismo capitalista Mark Fischer parte dallo stesso assunto di Vattimo – il capitalismo è oggi la forma stessa della realtà – ma giunge a conclusioni opposte. Per combattere il capitalismo abbiamo bisogno, diceva Fischer, di reali, di ciò che il capitalismo rimuove e reprime. Tale era, per lui, la catastrofe ambientale, tale era la depressione, tale era la burocrazia. Si potrebbe aggiungere che tale è, oggi, la morte in mare di chi cerca salvezza. La fine della natura, la nostra maledetta sofferenza ed alienazione (sulla quale il Carlo Michelstaedter de La persuasione e la rettorica ha da dirci molto di più del primo Heidegger di Essere e tempo), la morte in mare sono tre reali che urgono farsi verità. E come possano trovare, farsi verità in un sistema che riduce tutto a spettacolo è forse il principale problema filosofico del nostro tempo.

Gli Stati Generali, 23 luglio 2019.

Come eliminare la bocciatura e vivere felici

Dopo la pubblicazione del mio articolo sull’orale dell’esame di Stato qualcuno si è chiesto come sia possibile che uno studente giunga agli esami finali senza saper risolvere un limite. Provo a spiegarlo. Il nostro studente, che chiameremo Taldeitali, giunge allo scrutinio finale del primo anno di liceo con una sola insufficienza, grave, in matematica; nelle altre discipline ha sufficienza piena, e anche qualche otto. Che si fa? Promosso con giudizio sospeso: dovrà recuperare matematica. Dopo due mesi lo studente si presenta all’esame di riparazione e, come è prevedibile, non ne sa più di prima. Allora? I casi sono due: o il docente di matematica, che due mesi prima era rigoroso, ora diventa improvvisamente malleabile e si fa bastare quel poco che lo studente sa, o resta irremovibile e il consiglio di classe, valutando complessivamente i risultati dello studente, decide comunque di ammetterlo alla classe successiva. Il nostro Taldeitali affronterà dunque il secondo anno di liceo con basi traballanti in matematica, e rimedierà con ogni probabilità una seconda insufficienza, che sarà sanata allo stesso modo. E così per tutti gli anni di liceo, fino a giungere agli esami di Stato senza sapere molto della disciplina.
È evidente che c’è una falla nel sistema (una tra le tante). Respingere peraltro uno studente per una disciplina significa condannarlo a ripetere, l’anno successivo, tutte le discipline nelle quali ha raggiunto la piena sufficienza, solo per recuperarne una. Un assurdo evidente. A dire il vero non è meno assurdo che lo si faccia per tre discipline; anche in questo caso lo studente dovrà ripetere dieci discipline nelle quali ha raggiunto la sufficienza: vale a dire decine e decine di argomenti che già conosce. Uno spreco umano, intellettuale ma anche economico, perché un anno di scuola costa allo Stato intorno ai settemila euro all’anno. E se lo studente è bocciato, quei settemila euro sono soldi buttati. Continue reading “Come eliminare la bocciatura e vivere felici”

Ismail Kadare e i labirinti della cultura

Ismail Kadare

“Per l’albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all’infinito”, recita all’articolo 101 il Kanun, l’onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell’altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all’infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.
In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell’onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni  di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell’altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana.  L’incontro con la realtà dell’altopiano – interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti – farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l’incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.

L’atmosfera è kafkiana, soprattutto nelle pagine in cui il giovane Gjiorg si avvia, dopo l’omicidio,  verso la kulla di Orosh, una sorta di fortezza che vigila sull’applicazione del Kanun, e dove dovrà depositare al più presto l’imposta del sangue, la tassa dovuta dopo aver compiuto la vendetta. Questo cuore oscuro dell’altopiano, che si alimenta anche economicamente con lo sterminio di intere generazioni, è tuttavia minacciato dalla modernità: dal sud, da Tirana, spira un vento diverso, un modo nuovo di pensare e di vivere che rischia di far vacillare le antiche regole. Si uccide sempre meno, e sempre meno soldi arrivano ad Orosh con le imposte del sangue.
Il romanzo di Kadare è ambientato in un tempo imprecisato, ma prima dell’avvento del comunismo; e ad una prima lettura può sembrare una denuncia dei mali antichi di parte del paese in un momento in cui essi sono già, almeno in parte, trascesi (“In nessun’altra parte del mondo puoi incontrare per strada persone che, come alberi marcati per essere abbattuti, portano su di sé il segno della morte”, dice Besian Vorpsi alla moglie). Ma leggendo il romanzo  (che è del 1978, il periodo della rottura dei rapporti tra Albania e Cina, con il conseguente isolamento del paese) si ha anche la sensazione che il vero bersaglio di Kadare sia un altro. Lo scrittore si sofferma sui mille modi in cui le regole del Kanun imbrigliano la vita quotidiana, gettando una intera popolazione, oltre che nell’orrore degli assassinii incrociati, in una sorta di sindrome ossessivo-compulsiva collettiva: e questi furono i tratti del comunismo di Enver Hoxha, che terrorizzò il popolo paventando una improbabile invasione dei nemici e disseminando l’Albania di bunker antiatomici. La kulla di Orosh fa pensare a quell’altro segno di potere che fu la villa di Hoxha nel Bloku, il quartiere centrale di Tirana allora riservato alle gerarchie del Partito. Ma quello di Kadare è anche un dramma che tematizza il rapporto tra cultura ed esistenza individuale. Attraverso il Kanun, Kadare mostra quanto può una cultura: una definizione capillare, precisissima, rigorosa e che non consente alcuna deviazione di tutte le azioni umane, una sorta di copione immanente al quale nulla e nessuno sfugge, un meccanismo che pesa come una maledizione da cui nessuno riesce a liberarsi. “Il Kanun era più forte di quanto sembrasse. Si trovava ovunque, strisciava per terra, ai margini dei campi, entrava nelle fondamenta delle case, nelle tombe, nelle chiese, nelle strade, nei mercati, nelle feste di matrimonio, saliva sino ai pascoli alpini, ancora più in alto, fino allo stesso cielo, per poi ridiscendere in forma di pioggia per riempire i corsi d’acqua, a causa dei quali accadeva almeno un terzo degli omicidi”. Quello di Gjorg è (anche) il dramma di chi si trova imprigionato nella sua stessa cultura. preso nella morsa di un modo di vivere che non consente scarti e che avvolge con un manto di lutto intere regioni. E’ un dramma che noi italiani conosciamo bene: e il libro di Kadare ha la stessa oscura forza e il medesimo valore di denuncia di romanzi come Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e di opere sociologiche come Fare presto (e bene) perché si muore di Danilo Dolci.

{1} Kanun i Lekë Dukagjinit, EDFA, Tiranë 2016, p. 70.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

Oui, je suis John Dewey

A chi scrive capita di controllare l’accoglienza dei propri libri, sia presso i lettori (quante copie vendute?) che presso gli addetti ai lavori. Ci si imbatte così in citazioni, riprese, qualche elogio e qualche critica. Se sensata, la critica fa anche più piacere dell’elogio, perché vuol dire che le cose scritte non sono banali e danno da pensare. Una cosa meno frequente, per fortuna, è che qualcuno ti critichi, anche aspramente, ma prendendoti per un altro. E che altro!
Tempo fa ho cominciato a lavorare ad un manuale on-line di pedagogia, che poi è confluito nel progetto di divulgazione delle scienze umane Discorso Comune. Avevo scritto, tra l’altro, un capitolo sul grande filosofo e pedagogista americano John Dewey, completandolo con una scelta di testi. Ora, nel volume Sulle orme di Athena (Libreria universitaria, Padova 2016) Aldo Rizza cita diversi passi di quella piccola antologia deweyana, ma per una svista particolarmente curiosa li attribuisce a me. E, cosa ancor più curiosa, li critica passo dopo passo, parola per parola. Nel bel mezzo di una citazione di Dewey, ad esempio, annota: “Certo neppure il pragmatismo americano si spinge a dire tanto; si tratta di una estremizzazione superficiale di qualcosa che è certamente presente nel positivismo e nel pragmatismo, ma con più fine e accorta visione” (p. 338, nota). Dunque: Antonio Vigilante riprende e sviluppa il pensiero di Dewey, ma lo fa estremizzando in modo superficiale, con una visione più rozza. Peccato che tutti i testi che Aldo Rizza ha letto non siano miei, ma di John Dewey. Il quale, dunque, si trova ad essere più superficiale di sé stesso.

La cosa, è chiaro, fa ridere. E al tempo stesso riflettere. Qualche tempo fa Antonio Menna si è divertito a ipotizzare cosa sarebbe successo se Steve Jobs fosse nato a Napoli. L’esito, inutile dirlo, sarebbe stato catastrofico. Ora, il sottoscritto non corre alcun rischio di scrivere libri importanti quanto quelli di John Dewey. Facciamo però questa ipotesi: che nasca, in Italia, un filosofo della levatura di John Dewey. Ipotizziamo che questo filosofo non abbia voglia, per ragioni pienamente comprensibili, di sottoporsi al calvario della carriera accademica. Che non voglia, o non possa, fare per anni il portaborse, affrontare la trafila del dottorato, delle borse, degli assegni di ricerca eccetera; che abbia, poniamo, l’urgenza di lavorare, in mancanza di una famiglia che lo mantenga in attesa che l’accademia si accorga della sua grandezza. E’ una ipotesi tutt’altro che peregrina: se facessi l’elenco di tutti i giovani in gamba che hanno rinunciato alla carriera accademica perché le condizioni economiche famigliari non consentivano loro la condizione di portaborse (o perché – e forse più spesso – disgustati dalle logiche di selezione dei più capaci ) questo articolo diventerebbe troppo lungo. Ipotizziamo ancora che questo John Dewey italiano abbia però voglia, come succede, di continuare a pensare, studiare, scrivere. Quante possibilità avrebbe, in Italia, di essere letto con serietà? Temo che la risposta sia a pagina 338 del libro di Rizza.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

Reciprocità

– Salve signor Antonio, mi chiamo Aurora e la chiamo da…
– Mi perdoni, non mi interessano offerte commerciali.
– Ma non è un’offerta commerciale. Si tratta di trading online. Lei conosce il trading online?
– Le confermo che non mi interessa.
– Ma come può sapere che non le interessa se non lo conosce?
– Ha ragione. Lei conosce la psicologia transpersonale?
– Eh?
– Bene, parliamo un po’ di psicologia transpersonale.
– Oh Dio!
– Perché non vuole parlare di psicologia transpersonale con me?

La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali. Continue reading “La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri”

Esami di Stato, ovvero
come ti ridicolizzo lo studente

Si siede davanti alla commissione. Ha lo sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata. A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata. Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente. Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché mi fate questo? Continue reading “Esami di Stato, ovvero
come ti ridicolizzo lo studente”

Elogio della competenza: una replica

Perdonami, lettore: questo è uno di quegli articoli lunghi e un po’ noiosi che però non è possibile non scrivere. E’ una risposta a questo articolo polemico di Giovanni Carosotti, che a sua volta replica a questa mia recensione di un libro di Galli della Loggia. I toni di Carosotti sono antipaticissimi, ma farò finta di niente, per non farti perdere altro tempo. Per la stessa ragione sorvolerò anche su alcuni punti dell’articolo, non proprio sintetico, di Carosotti.

Una premessa. Ritengo che la scuola abbia bisogno di qualcosa di più radicale di una riforma burocratica. Sono convinto che essa sia una istituzione che ha un difetto di origine piuttosto serio: la violenza. Per secoli le aule scolastiche sono state luoghi in cui si è perpetrata una violenza anche fisica; oggi la scuola continua a portare il peso di questa tradizione. Ed è necessaria una cesura, netta. Cesura che per me passa principalmente attraverso un ripensamento della relazione tra insegnante e studente, che si configura ancora come relazione di potere (o meglio: di dominio).
Questa premessa è necessaria per spiegare ciò che a dire il vero dovrebbe essere di per sé evidente: perché considero il discorso di Ernesto Galli della Loggia reazionario. Ecco: io considero qualsiasi discorso sulla scuola che non ne metta radicalmente in discussione l’impianto autoritario, l’asimmetria, la comunicazione unidirezionale, il setting burocratico come un discorso reazionario e conservatore. Continue reading “Elogio della competenza: una replica”

La controeducazione sessuale

“Ha forma ovoide con l’asse maggiore dall’avanti all’indietro, ed è delimitata in basso dal perineo, lateralmente dalle cosce, in alto dall’addome. Comprende in alto, davanti alla sinfisi pubica, una sporgenza di tessuto cellulare e di grasso, detta monte di Venere”. E’ l’incipit poco rassicurante – il seguito è anche peggio – della voce “vulva” in una vecchia edizione dell’Enciclopedia Curcio. Voce scritta in piccolo, quasi sussurrata, e naturalmente non accompagnata da nessuna immagine. Chi trovandosi ad essere adolescente negli anni Ottanta avesse voluto farsi un’idea di come funziona il corpo femminile, dopo aver fatto questo inutile tentativo con la divulgazione scientifica non aveva che una alternativa: la pornografia. Una alternativa però terribilmente imbarazzante, ché si trattava di andare all’edicola con qualche amico e sussurrare: “Vorrei quello…” E l’edicolante si divertiva a rispondere a voce altissima: “Quale, quello porno?”

Oggi la pornografia è accessibile agli adolescenti fin da subito, la prima esposizione avviene spesso già a dieci anni. Difficile dire però se si tratti di un cambiamento in meglio o in peggio. Quello che resta quasi costante è l’atteggiamento della scuola. Se negli anni Ottanta il sesso a scuola era rigorosamente tabù oggi qualche scuola tenta progetti di educazione sessuale, nei quali però si avverte il più delle volte il peso si una concezione medicalizzata, centrata sulle precauzioni necessarie per evitare malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate. Che è un passo avanti rispetto alla tradizionale sessuofobia, ma trasmette comunque una visione negativa della sessualità; ciò che prima era peccato ora diventa un pericolo da cui guardarsi. E il piacere? La cosa cioè per la quale si fa l’amore? Ha poco a che fare con la scuola, da sempre. Luogo in cui si perpetravano violenze continue, anche fisiche – non bisogna mai dimenticare che la scuola è stata questo, per secoli, e che ogni volta che un docente entra in classe ha alle spalle questa tradizione violenta – oggi la scuola è il luogo del dovere, e dunque della noia. In una società nella quale la ricerca del piacere è ovunque, vero principio regolatore dell’economia e della società, la scuola crede, in buona fede o per semplice abitudine, di dover educare al dovere, al sacrificio, all’impegno. Le sfuggono un po’ di cose. Le sfugge che la pornografia sta intanto educando i ragazzi a una certa concezione della sessualità, centrata sulla performance, mentre i mass media e Instagram presentano ossessivamente corpi levigati, scolpiti, privi della minima imperfezione. Gli adolescenti cercano di costruirsi un percorso tra il silenzio imbarazzato degli adulti e il chiasso del mercato del sesso, ma spesso è difficile.
Making of Love è il progetto coraggioso di quattro ragazze e quattro ragazzi che stanno lavorando ad un film da portare nelle scuole per fare educazione sessuale in modo diverso. “Creeremo un immaginario per i ragazzi diverso da quello del porno, perché è lì che oggi si impara a fare l’amore”, si legge nel Manifesto. Qualcuno obietterà che sì, è sbagliato imparare a fare l’amore su Internet, guardando film porno, ma l’alternativa non può essere la scuola: a fare l’amore si impara dalla vita. Può essere. Ma a scuola è importante che si imparino diverse cose che la vita, qualunque cosa si intenda con questo termine, può non insegnare. Ad esempio, ad accettare il proprio corpo con le sue imperfezioni reali o immaginarie (e chi insegna sa quanto è urgente un lavoro simile), a riconoscere che esistono forme diverse di sessualità, compresa la masturbazione, e liberarsi dall’idea che esistano cose sporche. Se davvero le scuole riuscissero a fare un lavoro in questa direzione, in futuro forse sarebbe meno grande, meno doloroso, lo scarto tra la sessualità che pratichiamo e la sessualità che raccontiamo.
Dietro il progetto, che è indipendente e si finanzia grazie ad una campagna di crowdfunding, c’è la riflessione di Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione all’università di Milano Bicocca, il cui Piccolo manuale di controeducazione è uno dei testi più vivi della pedagogia italiana contemporanea. Nel pensiero di Mottana, nella sua proposta di una controeducazione e di una educazione diffusa, si concentra il meglio della pedagogia e filosofia libertaria, da Fourier a Illich. In questi ragazzi a prevalere è piuttosto l’urgenza di diventare protagonisti di un momento importante nella formazione della loro generazione, sottraendo l’educazione sessuale tanto alla freddezza scientifica quanto al moralismo aperto o dissimulato degli insegnanti. Una urgenza che ad un’istituzione chiusa e autoreferenziale, quale è ancora la scuola, non può apparire che come una provocazione e una sfida. E probabilmente lo è: ma è una provocazione necessaria.

Gli Stati Generali, 23 giugno 2019.

Il nuovo esame di Stato
e i sogni del signor Miur

Il pianista sorride al pubblico, si accomoda davanti alla tastiera, si raccoglie un attimo e poi attacca con notturno di Chopin. Va avanti per qualche minuto, la sala è già quasi presa dall’intensità di quella musica, quando all’improvviso smette di suonare e sembra porsi in ascolto, con l’espressione sicura di chi sa cosa sta facendo. Il pubblico è perplesso. Qualcuno più scaltro, o meglio informato, avverte: sta suonando 4′ 33” di John Cage. Il pubblico annuisce, è ora ammirato da una così ardita evoluzione. Dopo quattro minuti e trentatré secondi il pianista posa nuovamente le mani sulla tastiera ed attacca un blues, per proseguire con la sigla dei Puffi e concludere, con l’aria trionfale, con Tanti auguri a te. Il pubblico è in delirio.
Ecco, fino allo scorso anno l’orale dell’esame di Stato funzionava più o meno così. Lo studente preparava il percorso o la tesina, una rete surreale di link tenuti insieme da un tema centrale, che nelle varie ramificazioni si smarriva miseramente, ma funzionava ottimamente come pretesto per scegliersi una parte significativa delle domande dell’esame. Ed era divertente assistere alle evoluzioni che portavano dal male di vivere (il tema più gettonato in assoluto) al sistema muscolare, da Schopenhauer alle derivate. Continue reading “Il nuovo esame di Stato
e i sogni del signor Miur”

Davide Marasco: fu accanimento terapeutico

Il 28 aprile 2008 è nato mio nipote Davide. Fu subito chiaro cose non erano andate granché bene. Con il passare delle ore i problemi presero forma in tre parole: sindrome di Potter. Non ne avevamo mai sentito parlare. Facemmo una ricerca in rete, e la tragedia si mostrò in tutta la sua crudezza. La sindrome di Potter, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è incompatibile con la vita. “Prognosi costantemente infausta”: vuol dire che i bambini con sindrome di Potter muoiono. Sempre.
Davide non muore subito, però. Viene intubato ed i medici dell’ospedale di Foggia pensano di trasferirlo in altro ospedale per sottoporlo a dialisi in attesa di un improbabile (no: impossibile) trapianto di reni. Ma è necessario il consenso dei genitori, che comprensibilmente non arriva. Il dottor Magaldi si rivolge allora al Tribunale per i minorenni e chiede ed ottiene la sospensione della potestà genitoriale dei genitori di Davide, viene nominato tutor del bambino e ne dispone il trasferimento all’ospedale di Bari, dove viene sottoposto a dialisi. La vicenda diventa un caso che divide. Per alcuni si tratta di un provvedimento gravissimo, che priva due genitori dei loro diritti naturali per consentire a dei medici di mettere in pratica forme dolorose di accanimento terapeutico; per altri, è una legittima e doverosa difesa della vita. Il 30 maggio il Tribunale per i minorenni di Bari restituisce ai genitori la potestà genitoriale, con un provvedimento che suona come una beffa: i genitori saranno tenuti ad aderire a “tutte le indicazioni loro impartite, con l’avvertenza che in caso di inottemperanza potranno essere adottati nuovamente nei loro confronti provvedimenti limitativi della potestà genitoriale” (1). “Questa potestà genitoriale, nella decisione non c’è, è solo formalmente restituita ma sostanzialmente non c’è nessuno dei contenuti che caratterizzano la potestà genitoriale”, commentava il compianto Stefano Rodotà (2).

Dopo più di dieci anni la sentenza del Tribunale di Bari: quello su Davide Marasco fu accanimento terapeutico. I medici a processo – il dottor De Palo dell’ospedale di Bari oltre al citato Magaldi – si sono difesi sostenendo che la dialisi cui Davide è stato sottoposto era l’unica terapia salvavita possibile. Ma, obiettano i giudici, “alcuna terapia salvavita era concretamente prospettabile, visto che non si conoscono in letteratura casi di guarigione da una siffatta gravissima patologia mediante l’effettuazione del trapianto renale, sopravvenendo invece il decesso dei neonati affetti da tale patologia dopo pochi giorni dalla nascita. Né i convenuti sono stati in grado di confutare tale affermazione, ma si sono limitati ad invocare genericamente protocolli nazionali ed internazionali, senza meglio supportare l’affermazione con riferimenti a specifica letteratura scientifica”. Nei suoi quasi tre mesi di vita – morì il 18 luglio – Davide fu sottoposto ad intubazione, drenaggio pleurico, impianto di catetere venoso centrale, nuova intubazione orotracheale, predisposizione di accesso vascolare per dialisi, intervento chirurgico di cateterizzazione peritoneale, oltre a continui esami diagnostici. Subì perfino un assurdo intervento per risolvere una ritenzione dei testicoli. L’ho visto staccato dalle macchine, tra le braccia della madre, una sola volta: poco prima di morire.
La vicenda di mio nipote ha rappresentato per me uno spiraglio drammatico sullo stato dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Ho un perfezionamento universitario in bioetica, come filosofo so quanto siano diversi i punti di vista su temi come il fine vita e l’eutanasia, ma quella che nelle aule universitarie è diversità di opinioni nelle televisioni, sui giornali, nei social network diventa uno scontro feroce, disumano, terribile. Persone che stanno vivendo una tragedia difficile da comprendere dal di fuori diventano nemici pubblici da attaccare senza nessuna pietà, senza risparmiare nessuna arma, comprese la diffamazione, l’irrisione, l’insulto. Eccelle in questa pratica disgustosa l’allora parlamentare cattolico Luca Volontè (attualmente a processo per corruzione). Evidentemente Volontè non ha la minima idea di cosa sia la sindrome di Potter, scrive che “sino all’età di dieci anni Davide dovrà sottoporsi a dialisi e poi sarà trapiantato e starà benone”, mentre gli sarebbe bastato perdere cinque minuti in rete per sapere che non esiste al mondo un solo bambino di dieci anni con sindrome di Potter, perché muoiono tutti poco dopo la nascita. In preda ad un autentico delirio, Volontè accusa fin dal titolo i genitori di Davide di “incredibile cinismo”, di voler “accoppare” il figlio perché non è perfetto, evoca l’eugenetica nazista, i sacrifici umani al demone Balaal, e conclude. “Davide vivrà, lo ha deciso il tribunale e il medico se ne prenderà cura, sempreché i genitori non montino una campagna per il funerale del proprio figlio” (3). Ora un tribunale ha stabilito che le cose non sono andate propriamente così.
Su un caso delicato, difficile, complesso come quello di Davide è legittimo avere posizioni diverse. Gli sviluppi della scienza e della tecnica ci pongono di fronte di continuo a nuove domande, che mettono a dura prova le nostre convinzioni. Quello che non è, che non può essere legittimo è fare le guerre ideologiche sulla pelle di chi sta soffrendo. Affermare la (presunta) purezza dei propri principi rivendicandoli sul corpo martoriato di un neonato. Incitare al disprezzo ed all’odio verso chi vive tragedie personali. I medici sono stati condannati per accanimento terapeutico. Nessun tribunale condannerà invece questo disgustoso accanimento ideologico, questo penoso sciacallaggio fondamentalista che rappresenta un cancro della nostra vita civile e morale.

(1) Il provvedimento si trova ora in Storia di Davide. Consenso informato e accanimento terapeutico, I quaderni di Eleonora, Napoli 2009, pp. 47-48.
(2) Intervista a Micromega on-line, 7 giugno 2008; ora la trascrizione è disponibile in Storia di Davide, cit., pp. 51-52.
(3) L. Volontè, L’incredibile cinismo di quei genitori di Foggia, in Liberal, 30 maggio 2008; ora in Storia di Davide, cit., pp. 45-46. Alle pp. 49-50 la mia risposta di allora: L’incredibile cinismo dell’onorevole Luca Volontè.

Gli Stati Generali, 19 giugno 2019.

Quale discorso di sinistra
sulla scuola?

Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n’esca con l’affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E’ invece l’editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: “Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo”. Pensate un po’ che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l’idraulica, non l’entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell’educazione! Continue reading “Quale discorso di sinistra
sulla scuola?”

La “logica” del leghista foggiano

Il signor Joseph Splendido lamenta la presunta omissione della nazionalità degli autori di reati sulla stampa locale e nazionale. “Perché nasconderlo quando si tratta di uno straniero a delinquere?” La risposta non è difficile, ed è sulla sua stessa pagina Facebook. Solo due giorni fa il leghista foggiano ha pubblicato la notizia di una rapina compiuta da una banca da una persona di etnia Rom. I suoi amici hanno prontamente commentato che “gli zingari sono la feccia della società” e che “la razza piu [sic] inaffidabile e [sic] quella dei rom: zingari si vendono anche le madri ma di che cosa stiamo parlando non ce [sic] gente piu [sic] bastarda”. Quando, nel novembre dello scorso anno, un incendio ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, sulla pagina del signor Splendido ho letto, con le lacrime agli occhi e vergognandomi profondamente per loro, questi commenti dei suoi amici: “Speriamo che bruciano anche loro”; “Io vi bruciavo vivi”; “Finalmente“; “Fate la pipì sopra così sapete dove andarla a fare”. Il signor Splendido non ha censurato nessuna di queste bestialità, che peraltro configurano il reato di istigazione all’odio razziale.
In sostanza il signor Splendido lamenta la mancanza di frattaglie sanguinanti da dare in pasto al suo branco di cani. Una lamentela ipocrita, perché Splendido sa bene che nell’Italia salviniana non si perde occasione, anche sui giornali, per dare addosso agli stranieri. Da leghista foggiano – chissà cosa si prova ad essere un ossimoro vivente – dovrebbe però riflettere su una cosa. Io vivo da cinque anni in un paesino sui colli della Montagnola senese. Poco più di duemila e cinquecento anime. Il tasso di stranieri è dell’11,50% circa, quasi tre volte quello di Foggia (4%). Ai quali bisogna aggiungere i numerosissimi immigrati meridionali, soprattutto siciliani, impegnati nel settore edilizio. Nel paese non si hanno notizie di reati compiuti da immigrati. Li trovo al mattino nel bus delle 7.25 che ci porta al lavoro a Siena. Da quando viviamo qui io e la mia compagna abbiamo una percezione di sicurezza tale da lasciare senza problemi le buste della spesa incustodite. E tuttavia nemmeno qui è il paradiso. Undici anni fa, nel 2008, c’è stata una rapina a mano armata in una gioielleria del paese, che finì con l’uccisione di uno dei rapinatori. Era una banda di napoletani. Due anni fa un’altra rapina, questa volta in banca. Il rapinatore, arrestato, era un pugliese residente a Grosseto, che durante le rapine fingeva di essere marocchino. Pugliese era anche l’autore di diverse rapine tra Siena e San Gimignano, compiute tra il 2015 e il 2016; un cerignolano nel 2016 ha fatto una rapina a Colle Val d’Elsa con pistole e kalashnikov, mentre era foggiano l’autore di una rapina del 2015 a Stacciano Scalo. Potrei continuare a lungo.
Una parte significativa degli atti di delinquenza nella zona in cui vivo sono compiuti da persone meridionali, molte delle quali pugliesi. Seguendo la logica del signor Splendido, i giornali dovrebbero enfatizzare la provenienza dei delinquenti. Quindi io al mattino, andando a scuola, ai Banchi di sopra dovrei imbattermi nello strillo della “Nazione”: “Foggiano assalta banca con kalashnikov”. E poi, una volta entrato in classe, affrontare gli sguardi sospettosi degli studenti.
Ecco: quando si chiede che venga sbattuta in prima pagina la provenienza di chi compie un reato, bisognerebbe ricordarsi che i foggiani continuano ad essere emigranti. E che alcuni di loro compiono reati esattamente come gli extracomunitari. E che la logica razzista per la quale se uno sbaglia sbagliano tutti – che nel caso degli extracomunitari giunge a picchi di follia pura: un etiope in quanto extracomunitario è corresponsabile di quello che ha fatto un ghanese, anche se Etiopia e Ghana sono due paesi lontanissimi – è una logica che, se applicata a noi stessi, ci porterebbe ad essere additati in molti luoghi come delinquenti della peggior specie, pur essendo persone perbene.
Ma forse sto pensando male del signor Splendido. E forse i suoi amici sono raffinati analisti sociali, che si nascondono dietro espressioni colorite perché di questi tempi fare gli intellettuali non va di moda. Forse il signor Splendido vuole che i giornalisti diano la possibilità ai lettori di ragionare sui rapporti tra reati e provenienza. In questo caso, insegnando sociologia, mi permetto di anticipare le conclusioni. Non esistono etnie peggiori di altre. Non esistono persone predisposte al crimine per il colore della pelle o per la provenienza. Non esistono dna criminali, nemmeno in senso culturale. Esistono le classi sociali e le dinamiche di classe. Esistono quelli in giacca e cravatta (benché spesso travestiti con le felpe) che ha i loro reati: ad esempio rubare allo Stato, ossia a tutti noi, quarantanove milioni di euro. Esistono poi i proletari ed i sottoproletari, che hanno reati diversi: più visibili, anche se spesso meno gravi. Ed esistono poi i sotto-sottoproletari. Sono gli equivalenti italiani dei paria indiani: persone letteralmente intoccabili come i rom o gli schiavi neri delle campagne foggiane, gente che subisce quotidianamente una impressionante disumanizzazione, persone spinte ai margini dell’umano, destinatari di una considerazione e di una cura di gran lunga inferiore a quella che ottengono i cani. Anche loro compiono reati. Non sono più gravi di quelli compiuti dalla gente in giacca e cravatta, né di quelli dei proletari. Sono reati dettati dalla disperazione, dall’esclusione sociale, dall’essere non più esseri umani, ma extracomunitari, clandestini, esseri sospesi tra l’umano e l’inumano, tra la vita e la morte. La responsabilità di questi reati, quali essi siano, è tutta sulle spalle di chi, piuttosto di lavorare per restituire a tutti dignità, riconoscimento e possibilità di vita, capitalizza l’odio sociale e razziale per il proprio vergognoso tornaconto elettorale.

L’Attacco, 26 giugno 2019.