Le menzogne di Houellebecq

Scrive Pierluigi Peggini su Le parole e le cose che Annientare di Michel Houellebecq (La nave di Teseo) “è un romanzo-romanzo, perfino ‘di genere’; non un romanzo a tesi, come i suoi libri più interessanti” (https://www.leparoleelecose.it/?p=43356).

Davvero difficile condividere questo giudizio. Sia perché quello di Houellebecq non è, con ogni evidenza, un romanzo di genere, ma un romanzo che prende a pretesto un genere per affrontare poi, in modo spiazzante per il lettore, un tema universale; e poi perché la tesi nel libro – se si ha la forza di leggerlo fino in fondo, e non lo si abbandona (scelta legittima) dopo l’ennesima uscita alterofobica – è chiarissima: e non mi sembra esagerato affermare che si tratta proprio di un romanzo a tesi.

Il tema del romanzo è la fragilità. Una doppia fragilità. Da una parte quella generale. La fragilità di un sistema sociale ipertecnologico, che può essere mandato in crisi facilmente proprio perché è diventato ipertecnologico. Una società che non può ormai più essere governata. Le riflessioni amare del ministro Bruno Juge, consapevole che la politica conta poco ormai, perché a governare gli eventi è “una forza oscura, segreta, la cui natura poteva essere psicologica, sociologica o semplicemente biologica, non si sapeva cosa fosse ma era terribilmente importante perché da essa dipendeva tutto il resto”, sono significative. Una società fragile e infelice, talmente infelice che il protagonista sente quasi di poter simpatizzare con i terroristi – anarco-primitivisti? – che vorrebbero distruggerla.

C’è poi la fragilità personale. La fragilità del padre del protagonista, ex agente dei servizi segreti colpito da un ictus, e poi quella del protagonista stesso, Paul Raison, alto funzionario sul quale si abbatte, appena compiuti i cinquant’anni, un cancro la cui soluzione chirurgica appare quasi peggiore della morte.

Il tema del libro è l’incrocio di queste due fragilità. Il fatto, cioè, che non abbiamo più qualcosa come un’arte della morte. Che si muore sostanzialmente vergognandosi un po’, allontanandosi dagli altri per i quali la fragilità è semplicemente oscena, abbandonandosi all’abbraccio della tecnica medica, senza saper bene come collocarsi di fronte alla prospettiva dell’ultimo respiro.

Houellebecq prova a pensare la crisi partendo da lì: dalla prospettiva di un uomo che sta per morire. E da quella prospettiva tenta una analisi storica. Il problema è, per lui, l’Illuminismo; e la guida è un ultrareazionario come Joseph de Maistre. L’Illuminismo dunque è stato satanico, così come satanica è stata la Rivoluzione francese. Mentre il Romanticismo aveva riportato l’Europa sulla via giusta. “Difendendo Dio e il re contro le atrocità rivoluzionarie, – è ancora il ministro Bruno Juge a parlare, in un monologo fondamentale per l’interpretazione del libro – appellandosi a una restaurazione cattolica e monarchica, cercando di far rivivere lo spirito della cavalleria e del Medioevo, i primi romantici avevano avuto, come gli oppositori del nazismo, la certezza di appartenere al campo del Bene”. Nazismo che sarebbe dunque l’equivalente contemporaneo dell’Illuminismo. Una equivalenza bizzarra ma rassicurante: Bruno, e con lui Hoellebecq, sarà tentato dalla più bieca reazione, ma non dal nazifascismo.

Qua e là nel romanzo compaiono due filosofi che si collocano alle soglie della modernità. Il primo è Spinoza. Aborrito. Ragionando sulle pratiche wicca cui è dedica la moglie, il protagonista pensa: “Doveva essere una roba più o meno pagana, se non panteista o politeista, faceva confusione tra le due cose, insomma, una roba vagamente ripugnante, alla Spinoza”. E in un altro passo: “Il determinismo, proprio come l’assurdo, non fa davvero parte delle categorie cristiane; le due cose del resto sono collegate, un mondo interamente deterministico appare sempre più o meno assurdo, non solo a un cristiano, ma a qualsiasi uomo”.

Pascal è invece l’autore che, insieme a Conan Doyle, accompagna il protagonista negli ultimi giorni della sua vita. Spinoza il razionalista, il deteminista, l’ateo; Pascal il matematico che crede nonostante tutto. Houellebec sta dalla parte del secondo e contro il primo. Sta dalla parte delle “meravigliose menzogne” che il protagonista evoca nell’ultima battuta del libro. Quali? Le menzogne del cristianesimo, evidentemente; o le menzogne di una qualsiasi fede o convinzione religiosa.
Ci sono alcune cose che sfuggono a Houellebecq, che non diversamente dal suo protagonista non sembra essere andato, nello studio della filosofia, molto oltre il corso intensivo dell’ultimo anno del liceo francese. Lo Spinoza panteista che tanto lo irrita è stato tra i pensatori di riferimento del Romanticismo; e i legami tra il nazismo e il Romanticismo sono certo storicamente molto più solidi dei legami con l’Illuminismo. Il suo quadro storico semplicemente non regge.

Come è noto, Spinoza affermava che un uomo libero a nulla pensa meno che alla morte. E un lettore superficiale potrebbe pensare che si tratti di qualcosa di non troppo diverso dalla attuale rimozione della morte. È, invece, tutt’altro. Spinoza è, con Hume, il più orientale dei filosofi occidentali. “Quello che non poteva sopportare, si era reso conto con inquietudine, era l’impermanenza di per sé; era l’idea che una cosa, qualunque cosa, finisse; quello che non poteva sopportare, non era altro che una delle condizioni essenziali della vita”, dice Houellebecq del suo protagonista. L’impermanenza, il punto di arrivo di Paul Raison, è il punto di partenza del buddhismo. Il cui punto d’arrivo è qualcosa di vicino al terzo genere di conoscenza di Spinoza: una visione del mondo nel quale l’ego è trasceso, attraversato. E in questo senso né il buddhismo né Spinoza si occupano della morte. Perché la morte è morte dell’io, ma tanto lo spinozismo quanto il buddhismo sono visioni che trascendono l’io.

Le meravigliose menzogne evocate da Paul/Hoeullebecq sono ancora possibili – la religione è (purtroppo) tutt’altro che morta, e la stessa tecnologia della comunicazione favorisce la diffusione inarrestabile di visioni irrazionali. Ma restano, appunto, menzogne, e per giunta menzogne pericolose, che hanno reso meno dolorosa la morte ad un prezzo troppo alto: l’abbrutimento dei singoli e delle collettività. Quella di Paul Raison vorrebbe essere la storia della ragione occidentale costretta a riconoscere la sua impotenza di fronte alla morte. È più probabile che sia il documento del disorientamento di uno scrittore che di fronte alla complessità del mondo attuale si scopre culturalmente sprovveduto. Un documento con quale si spera che possa essere definitivamente archiviato l’equivoco di un Houellebecq progressista.

Articolo pubblicato su Morel. Voci dall’isola, n. 4, 7 febbraio 2022.

Ismail Kadare e i labirinti della cultura

Ismail Kadare

“Per l’albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all’infinito”, recita all’articolo 101 il Kanun, l’onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell’altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all’infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.
In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell’onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni  di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell’altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana.  L’incontro con la realtà dell’altopiano – interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti – farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l’incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.

L’atmosfera è kafkiana, soprattutto nelle pagine in cui il giovane Gjiorg si avvia, dopo l’omicidio,  verso la kulla di Orosh, una sorta di fortezza che vigila sull’applicazione del Kanun, e dove dovrà depositare al più presto l’imposta del sangue, la tassa dovuta dopo aver compiuto la vendetta. Questo cuore oscuro dell’altopiano, che si alimenta anche economicamente con lo sterminio di intere generazioni, è tuttavia minacciato dalla modernità: dal sud, da Tirana, spira un vento diverso, un modo nuovo di pensare e di vivere che rischia di far vacillare le antiche regole. Si uccide sempre meno, e sempre meno soldi arrivano ad Orosh con le imposte del sangue.
Il romanzo di Kadare è ambientato in un tempo imprecisato, ma prima dell’avvento del comunismo; e ad una prima lettura può sembrare una denuncia dei mali antichi di parte del paese in un momento in cui essi sono già, almeno in parte, trascesi (“In nessun’altra parte del mondo puoi incontrare per strada persone che, come alberi marcati per essere abbattuti, portano su di sé il segno della morte”, dice Besian Vorpsi alla moglie). Ma leggendo il romanzo  (che è del 1978, il periodo della rottura dei rapporti tra Albania e Cina, con il conseguente isolamento del paese) si ha anche la sensazione che il vero bersaglio di Kadare sia un altro. Lo scrittore si sofferma sui mille modi in cui le regole del Kanun imbrigliano la vita quotidiana, gettando una intera popolazione, oltre che nell’orrore degli assassinii incrociati, in una sorta di sindrome ossessivo-compulsiva collettiva: e questi furono i tratti del comunismo di Enver Hoxha, che terrorizzò il popolo paventando una improbabile invasione dei nemici e disseminando l’Albania di bunker antiatomici. La kulla di Orosh fa pensare a quell’altro segno di potere che fu la villa di Hoxha nel Bloku, il quartiere centrale di Tirana allora riservato alle gerarchie del Partito. Ma quello di Kadare è anche un dramma che tematizza il rapporto tra cultura ed esistenza individuale. Attraverso il Kanun, Kadare mostra quanto può una cultura: una definizione capillare, precisissima, rigorosa e che non consente alcuna deviazione di tutte le azioni umane, una sorta di copione immanente al quale nulla e nessuno sfugge, un meccanismo che pesa come una maledizione da cui nessuno riesce a liberarsi. “Il Kanun era più forte di quanto sembrasse. Si trovava ovunque, strisciava per terra, ai margini dei campi, entrava nelle fondamenta delle case, nelle tombe, nelle chiese, nelle strade, nei mercati, nelle feste di matrimonio, saliva sino ai pascoli alpini, ancora più in alto, fino allo stesso cielo, per poi ridiscendere in forma di pioggia per riempire i corsi d’acqua, a causa dei quali accadeva almeno un terzo degli omicidi”. Quello di Gjorg è (anche) il dramma di chi si trova imprigionato nella sua stessa cultura. preso nella morsa di un modo di vivere che non consente scarti e che avvolge con un manto di lutto intere regioni. E’ un dramma che noi italiani conosciamo bene: e il libro di Kadare ha la stessa oscura forza e il medesimo valore di denuncia di romanzi come Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e di opere sociologiche come Fare presto (e bene) perché si muore di Danilo Dolci.

{1} Kanun i Lekë Dukagjinit, EDFA, Tiranë 2016, p. 70.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.