Lea Ypi: dall’altra parte della storia

Accade non di rado che la successione delle nostre letture, apparentemente casuale, sveli invece una sua logica e suggerisca un’interpretazione. Mi è capitato di leggere Libera. Diventare grandi alla fine della storia (Feltrinelli, Milano 2022) di Lea Ypi (titolo originale: Free: Coming of Age at the End of History) dopo L’altra parte di Alfred Kubin e di accorgermi che, nonostante siano due opere separate da più di un secolo e che non potrebbero essere più diverse per lo stile, raccontano forse una stessa storia.

Kubin ha scritto il suo libro enigmatico nel 1908, dopo la morte del padre, in uno di quei momenti in cui è inevitabile fare i conti con la propria vita. Ma il suo romanzo, che anticipa le atmosfere di Franz Kafka, è anche una grandiosa rappresentazione del finis Austriae, il crollo dell’impero austro-ungarico e del mondo culturale che esso ha rappresentato. Il protagonista, alter ego dell’autore, parte su invito di Patera, un suo ex compagno di scuola, per il Regno del sogno, collocato in un luogo indefinito, al di fuori dell’Europa, separato dal resto del mondo e quasi inaccessibile. L’isolamento è la sua caratteristica principale. Il secondo tratto caratteristico è il suo aspetto per così dire vintage. A Perla, capitale del Regno, tutto, a cominciare dalle case, ha un aspetto vecchio. E di fatto lo è. Ogni cosa, comprese le case, è preso da altrove e riciclato. Per il resto, questa strana utopia non sembra muovere da nessuna delle promesse forti che da sempre danno vita alle utopie. Tranne una: il denaro. A Perla il denaro conta poco, gli scambi di denaro hanno un carattere più simbolico che reale, e c’è “una giustizia mostruosa” che regola l’avvicendarsi di ricchezza e povertà. “Quella sconfinata potenza, piena di tremenda curiosità, un occhio che penetrava ogni fessura, era onnipresente: nessuno le sfuggiva” (L’altra parte, Adelphi, Milano 2020, p. 70). È l’occhio di Patera, padre, stregone, perfino Dio di questo mondo sospeso. E colpisce, in questo romanzo di inizio Novecento, la prefigurazione per così dire onirica dei totalitarismi del Novecento.

Se provo a figurarmi una qualsiasi abitazione di Perla mi torna in mente la Casa delle foglie, il suggestivo museo dei servizi segreti comunisti di Tirana. In una stanza di quella che era la sede della Sigurimi è stato ricreato l’interno di una casa albanese tipica del periodo comunista. Tipica in senso stretto: i mobili erano gli stessi, il divano, il tavolino con il centrino ricamato, perfino la pianta in un angolo, la pianta aquila che ricorda la bandiera albanese. Oggi ripensando a quell’interno non posso fare a meno di pensare anche un televisore con sopra una lattina vuota di Coca-Cola. Era, racconta Lea Ypi, un cimelio dell’Occidente capitalista che veniva acquistato a caro prezzo, e che meritava una posizione di tutto rilievo in casa. Ma anche questa ricollocazione è in piena continuità con la logica di riciclo di Perla.

Il protagonista del romanzo di Kubin sceglie di vivere nel Regno del sogno, stanco della civiltà occidentale. Lea Ypi non ha scelto; è nata in un Regime comunista, incarnazione storica del sogno di Karl Marx. È nata in quello che pretendeva di essere il più ortodosso dei Paesi comunisti. Enver Hoxha si era distaccato progressivamente sia dalla Russia che dalla Cina, accusando entrambi di aver tradito gli ideali socialisti, chiudendo l’Albania in un isolamento perfetto e in una perfetta paranoia, di cui sono ancora oggi testimonianza i numerosi bunker antiatomici sparsi ovunque, diventati ormai uno dei simboli dell’Albania e venduti ai turisti nei negozi di souvenir.

Attraverso il racconto di Lea Ypi – il racconto della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua giovinezza – guardiamo questo regno isolato, ostinatamente fedele a sé stesso, attraverso gli occhi di una bambina che vive in quello che sembra il migliore dei mondi possibili. Certo, le difficoltà quotidiane sono evidenti – le file interminabili per ottenere i generi di prima necessità, ad esempio – ma acquistano senso grazie al confronto costante con il male occidentale. Loro, gli occidentali, mettono il denaro davanti a tutto. Loro hanno gente ricchissima e gente che muore di fame. Loro fondano la loro ricchezza sullo sfruttamento. Questa è la narrazione che viene dalla scuola e che è confermata dalla famiglia, ma con qualche incertezza. Perché i genitori esitano tanto a sistemare sul televisore il ritratto di Enver Hoxha? E cosa sono quegli strani discorsi su gente che si è laureata in stranissime università?

Sulla famiglia di Lea Ypi pesa un equivoco. Xhafer Ypi, l’odiato primo ministro albanese sotto il regno di re Zogu, per il regime comunista null’altro che un traditore della nazione, aveva lo stesso nome di suo padre. Una coincidenza spiacevole, ma nulla più. Solo dopo la fine del Regime Lea Ypi scoprirà che non si trattava di una coincidenza, perché quell’uomo era il suo bisnonno. E tutta la sua famiglia era segnata dalla biografia che ne faceva nemici di classe. Le università di cui i genitori parlavano erano i campi di rieducazione del regime comunista. La sua famiglia le aveva mentito sulle sue origini per proteggerla, per impedire che il peso della biografia la opprimesse.

Lea Ypi dunque esce contemporaneamente dall’infanzia e dal comunismo. Diventa grande, come dice il sottotitolo, alla fine della storia: perché tale parve a Francis Fukuyama la fine del comunismo (The End of History and the Last Man è del 1992). Come spesso accade (e come è accaduto anche da noi) molti si riciclano con grande abilità, diventano immediatamente sostenitori della democrazia e del liberalismo. Società civile, annota Ypi, diventa l’espressione chiave. L’Albania ha bisogno di costruire una società civile che manca. Questo dicono gli esperti occidentali, chiamati a guidare la transizione del Paese verso la democrazia. E le loro parole echeggiano quelle di Hercules Bell, l’antagonista e sfidante di Patera nel romanzo di Kubin, che rappresenta in modo assolutamente trasparente il capitalismo americano. Questo uomo ricchissimo, attivissimo, positivo, fautore della democrazia e della partecipazione, così si rivolge ai cittadini di Perla: “Il grande mondo fuori di noi ha fatto passi giganteschi verso la luce dell’avvenire! Voi siete ricaduti indietro e vivete accovacciati in una palude. Non partecipate in alcun modo alle meravigliose invenzioni della nostra nuova epoca, le innumerevoli invenzioni che diffondono l’ordine e la felicità, e di fronte a cui l’abitante del Sogno sta come un estraneo! Cittadini, vi meraviglierete quando uscirete di qui!” (Ivi, p. 179). Come estranei saranno gli albanesi di fronte all’Occidente più a portata di mano, quell’Italia con i supermercati pieni di cose troppo costose per poterle comprare, ma che è bello intanto visitare per il senso di pienezza che trasmettono.

Il Regno del Sogno, mandato in crisi dalla tensione tra Patera e Bell, precipita nel caos. La società stessa di disgrega, le case si sgretolano, la città è presa d’assalto dagli animali. L’Albania precipita nel 1997 ella cosiddetta anarchia, quando la crisi delle imprese piramidali, incarnazioni della promessa di benessere occidentale, manda sul lastrico la maggior parte delle famiglie albanesi, e la rabbia collettiva esplode incontrollata, seminando ovunque terrore e distruzione.

Quella di Kubin non è la storia del pragmatismo occidentale che sconfigge le fantasticherie utopistiche e stabilisce il regno del benessere. La conclusione del romanzo di Kubin è una riflessione sulla complicazione dei contrari. “Der Demiurg ist ein Zwitter” è la conclusione lapidaria ed enigmatica. Zwitter: ermafrodito, ibrido. Il Demiurgo è un ibrido.

Nemmeno la storia di Ela Ypi, raccontata con equilibrio, sensibilità e uno stile assolutamente nitido, racconta il passaggio della prigionia del comunismo alla libertà del capitalismo. L’autrice, che è una filosofa della politica, ci mostra che le cose non sono così semplici. Se per i suoi genitori comunismo era “la negazione di ciò che avrebbero voluto essere, del diritto di sbagliare e di imparare dai propri errori, di esplorare il mondo nei loro termini”, lei associa il liberalismo “alle promesse infrante, alla distruzione della solidarietà, al diritto di ereditare il privilegio, di chiudere gli occhi davanti all’ingiustizia” (p. 298). Quando raccontava la sua vita sotto il regime comunista ai compagni universitari di sinistra italiani – Lea Ypi ha studiato alla Sapienza – suscitava in loro imbarazzo ed irritazione. Per gli italiani di sinistra il comunismo era Allende e Ernesto Che Guevara, non certo un grigio dittatore come Enver Hoxha. “Nella migliore delle ipotesi, i miei racconti sul socialismo in Albania e i riferimenti a quello degli altri paesi con cui il nostro si era confrontato venivano tollerati come le osservazioni imbarazzanti di una straniera che stava ancora imparando a integrarsi”, scrive Ypi (p. 295). Il suo racconto mostra quanto di romantico e falso c’è in questa narrazione che è ancora fondante da noi (e non solo) per l’identità di sinistra, ma mostra anche che non meno falsa è la narrazione dell’Occidente come luogo della democrazia, della libertà e dei diritti. La società liberale è un altro sogno fragile, attraversato da crepe, destinato ad infrangersi; a ben vedere, l’altra parte – die andere Seite – della medesima medaglia del comunismo.

Ismail Kadare e i labirinti della cultura

Ismail Kadare

“Per l’albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all’infinito”, recita all’articolo 101 il Kanun, l’onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell’altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all’infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.
In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell’onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni  di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell’altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana.  L’incontro con la realtà dell’altopiano – interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti – farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l’incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.

L’atmosfera è kafkiana, soprattutto nelle pagine in cui il giovane Gjiorg si avvia, dopo l’omicidio,  verso la kulla di Orosh, una sorta di fortezza che vigila sull’applicazione del Kanun, e dove dovrà depositare al più presto l’imposta del sangue, la tassa dovuta dopo aver compiuto la vendetta. Questo cuore oscuro dell’altopiano, che si alimenta anche economicamente con lo sterminio di intere generazioni, è tuttavia minacciato dalla modernità: dal sud, da Tirana, spira un vento diverso, un modo nuovo di pensare e di vivere che rischia di far vacillare le antiche regole. Si uccide sempre meno, e sempre meno soldi arrivano ad Orosh con le imposte del sangue.
Il romanzo di Kadare è ambientato in un tempo imprecisato, ma prima dell’avvento del comunismo; e ad una prima lettura può sembrare una denuncia dei mali antichi di parte del paese in un momento in cui essi sono già, almeno in parte, trascesi (“In nessun’altra parte del mondo puoi incontrare per strada persone che, come alberi marcati per essere abbattuti, portano su di sé il segno della morte”, dice Besian Vorpsi alla moglie). Ma leggendo il romanzo  (che è del 1978, il periodo della rottura dei rapporti tra Albania e Cina, con il conseguente isolamento del paese) si ha anche la sensazione che il vero bersaglio di Kadare sia un altro. Lo scrittore si sofferma sui mille modi in cui le regole del Kanun imbrigliano la vita quotidiana, gettando una intera popolazione, oltre che nell’orrore degli assassinii incrociati, in una sorta di sindrome ossessivo-compulsiva collettiva: e questi furono i tratti del comunismo di Enver Hoxha, che terrorizzò il popolo paventando una improbabile invasione dei nemici e disseminando l’Albania di bunker antiatomici. La kulla di Orosh fa pensare a quell’altro segno di potere che fu la villa di Hoxha nel Bloku, il quartiere centrale di Tirana allora riservato alle gerarchie del Partito. Ma quello di Kadare è anche un dramma che tematizza il rapporto tra cultura ed esistenza individuale. Attraverso il Kanun, Kadare mostra quanto può una cultura: una definizione capillare, precisissima, rigorosa e che non consente alcuna deviazione di tutte le azioni umane, una sorta di copione immanente al quale nulla e nessuno sfugge, un meccanismo che pesa come una maledizione da cui nessuno riesce a liberarsi. “Il Kanun era più forte di quanto sembrasse. Si trovava ovunque, strisciava per terra, ai margini dei campi, entrava nelle fondamenta delle case, nelle tombe, nelle chiese, nelle strade, nei mercati, nelle feste di matrimonio, saliva sino ai pascoli alpini, ancora più in alto, fino allo stesso cielo, per poi ridiscendere in forma di pioggia per riempire i corsi d’acqua, a causa dei quali accadeva almeno un terzo degli omicidi”. Quello di Gjorg è (anche) il dramma di chi si trova imprigionato nella sua stessa cultura. preso nella morsa di un modo di vivere che non consente scarti e che avvolge con un manto di lutto intere regioni. E’ un dramma che noi italiani conosciamo bene: e il libro di Kadare ha la stessa oscura forza e il medesimo valore di denuncia di romanzi come Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e di opere sociologiche come Fare presto (e bene) perché si muore di Danilo Dolci.

{1} Kanun i Lekë Dukagjinit, EDFA, Tiranë 2016, p. 70.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

Tirana città aperta

Ho passato il Natale e Santo Stefano a Roma – giusto il tempo di visitare la mostra su Bernini alla Galleria Borghese e quella, bellissima, su Hokusai all’Ara Pacis e di bere una birra al Blackmarket di Monti – ed il capodanno a Tirana. Mancavo dall’Albania da quattro anni. Se Roma mi è sembrata una città in decadenza (non l’avevo mai vista così sporca), mi ha sorpreso il cambiamento di Tirana. Quattro anni fa scrivevo:

E’, diresti, una donna che veste abiti lussuosi su una biancheria che ha troppi segni d’usura. E’ la metafora che ti viene in mente quando osservi i tavolini all’aperto degli infiniti locali del centro – elegantissimi, tutti dotati di connessione wifi gratuita – e, alzando appena lo sguardo, constati che sono sovrastati da palazzi fatiscenti, con i mattoni a vista ed un groviglio di cavi elettrici e telefonici. Se la povertà continua a mordere, la ricchezza è comunque a un passo…

Oggi il contrasto tra gli abiti lussuosi e la biancheria usurata è diminuito in modo impressionante, se si considera che sono passati solo quattro anni. Sono quasi scomparsi dal centro, ad esempio, i grovigli di cavi elettrici e telefonici che attraversavano le strade e davano un senso di degrado che la magnificenza dei locali non riusciva a vincere del tutto, e sono cambiati perfino i font e la grafica della insegne dei negozi. Quell’aria di diffuso ottimismo, che notavo quattro anni fa, ora è ancora più tangibile. Non sembra essere solo il progresso, naturalmente discutibile, del capitalismo, con i suoi mastodontici centri commerciali, né solo l’occidentalizzazione inarrestabile che porta in una piazza Scanderbeg irriconoscibile dopo i lavori di rifacimento un enorme albero di Natale ed una suggestiva stella all’ingresso del bulevardi Zogu I:

Quattro anni fa avevo visto alla periferia della città alcune famiglie rom che vivevano letteralmente su un marciapiede. E’ di qualche giorno fa, invece, la notizia che il comune di Tirana ha consegnato sessanta case alla comunità rom, con una cerimonia di consegna alla presenza dell’ambasciatore americano. Immaginate cosa succederebbe a Roma se si consegnassero sessanta case ai Rom alla presenza di ambasciatori stranieri.

Mi hanno colpito in particolare due cose che non esistevano quattro anni fa. La prima è il Bektashi World Center, uno straordinario edificio religioso inaugurato nel 2015 alla periferia della città. I Bektashi sono una confraternita sufi molto rispettata in Albania, caratterizzata da una forte tolleranza ed apertura religiosa, che del resto è uno degli aspetti della identità albanese.

Visitandolo, riflettevo sul fatto che in ambito islamico esiste una continuità nell’architettura religiosa che si è persa in ambito cristiano. Una cosa che può essere positiva dal punto di vista strettamente architettonico, ma che fa sì che un cristiano resi spesso perplesso e disorientato di fronte ad edifici come la chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo fatta da Renzo Piano, mentre edifici religiosi islamici contemporanei restano immediatamente leggibili anche per chi non è musulmano.
L’altra cosa è la Casa delle Foglie (Shtëpia e Gjetheve). E’ il nome suggestivo che è stato dato all’ancor più suggestivo museo dei servizi segreti comunisti (Sigurimi). Negli anni trenta era una clinica, trasformata dal Regime di Hoxha nel centro del quale si teneva sotto osservazione buona parte della città, con cimici distribuite anche negli hotel per stranieri e nelle ambasciate.

In una stanza del museo le pareti sono ricoperte interamente dai nomi delle migliaia di persone imprigionate o uccise dal Regime.

Tutte le foto del post sono di Antonio Vigilante. Nel caso volessi utilizzarle ti prego di rispettare la licenza di questo blog

Albania: (foto)appunti di viaggio

Tirana
Tirana sta al confine tra oriente ed occidente, tra tradizione e modernità, tra povertà e ricchezza. E’, diresti, una donna che veste abiti lussuosi su una biancheria che ha troppi segni d’usura. E’ la metafora che ti viene in mente quando osservi i tavolini all’aperto degli infiniti locali del centro – elegantissimi, tutti dotati di connessione wifi gratuita – e, alzando appena lo sguardo, constati che sono sovrastati da palazzi fatiscenti, con i mattoni a vista ed un groviglio di cavi elettrici e telefonici. Se la povertà continua a mordere, la ricchezza è comunque a un passo: il sogno della modernità sembra farsi realtà nelle molte costruzioni ardite, come la Sky Tower, un palazzo di quindici piani che termina con una cupola in vetro che ruota su sé stessa ed ospita l’immancabile bar.
Simbolo delle diverse anime della città e della loro capacità di coesistere è piazza Skanderbeg. Fino a non molto tempo fa era un enorme spazio vuoto, buono per le parate militari del regime comunista; oggi si è riempita di giardini.

Piazza Skanderbeg
Intorno alla piazza lo sguardo abbraccia il museo storico, con il murale frontale (qui), la torre dell’orologio, la moschea, la statua di Skanderbeg, la cattedrale ortodossa. Le due costruzioni religiose – la moschea e la cattedrale ortodossa – sono simmetriche per forma e grandezza, quasi ad esprimere il rispetto reciproco tra islam e cristianesimo. La cattedrale cristiana è una costruzione recente (di fatto è ancora in costruzione), offerta dallo Stato alla comunità cristiana quale risarcimento per la vecchia cattedrale distrutta dal regime comunista.

La cattedrale ortodossa

La moschea Et’hem Bey, risalente invece alla fine del Settecento, è un ambiente molto raccolto, suggestivo, anche se uno sguardo attento ai dettagli (che so, l’orologio da tre soldi appeso alla parete a far da supporto all’orologio a pendolo) coglie una certa trascuratezza. E’ talmente piccolo, l’interno, che ci si sente a disagio come turisti con la fotocamera: ma lo sguardo del custode che pregusta qualche monetina all’uscita è incoraggiante.

La moschea Et’hem Bey

Gli albanesi, quando non sono atei o indifferenti alla religione, sono per lo più musulmani. Eppure le due figure simboliche del paese appartengono al cristianesimo: Madre Teresa (a Nënë Tereza è intitolato l’aeroporto di Tirana) e Skanderbeg, l’atleta della cristianità. Se chiedi ad un albanese conto di questa contraddizione, ti risponde ricordando le parole del poeta Pashko Vasa: Feja e shqiptarit është shqiptaria (la religione degli albanesi è l’albanesità). Skanderbeg, il cristiano che ha combattuto gli ottomani, è stato però anche e soprattutto il difensore della libertà e dell’indipendenza del paese contro l’invasore. Su Madre Teresa non mi esprimo.

Oggi bisognerebbe aggiornare il verso di Vasa ed aggiungere alla albanesità l’italianità. A Tirana, ma anche nelle città più interne, l’Italia è ovunque. Non c’è strada che non abbia negozi con insegne italiane. L’aggettivo italiano, aggiunto a qualsiasi cosa, sembra darle più consistenza: un negozio di materiale elettrico italiano è diverso da un semplice negozio di materiale elettrico. L’Albania è rimasto l’unico posto al mondo, forse, in cui italiano è ancora sinonimo di buon gusto, creatività, eleganza: qualità. Ed anche, purtroppo, l’unico posto al mondo in cui si continua ad ascoltare Toto Cutugno.
Per un peppino – così i tiranesi chiamano con affettuoso sfottò gli italiani, ironizzando sulla nostra scarsa fantasia nella scelta dei nomi – l’Albania è un po’ come casa propria: in tutti i ristoranti o quasi c’è un menu italiano (con predilezione per la cucina emiliana), se si vuole una pizza si va in una piceri, e se si parla in italiano quasi sempre si è compresi da qualcuno che, se non è stato in Italia, ha guardato tanta televisione italiana da imparare la lingua. E però direi di non approfittarne, ché la cucina albanese è ottima, ed il salep può sostituire alla perfezione il cappuccino, così come il byrek non farà sentire troppo la nostalgia della pizza.
Tirana è attraversata dal fiume Lana, la cui acqua non è propriamente di sorgente. E’ qui che è possibile apprezzare maggiormente l’opera dell’ex sindaco ed attuale capo del governo, Edi Rama. Fino a qualche anno fa le sponde del fiume erano occupate interamente da costruzioni abusive e chioschi, che sono stati completamente eliminati. Oggi il fiume, con le sue sponde verdi ed alberate, offre una vista gradevole, anche se l’acqua continua ad essere non propriamente di sorgente. Resta solo, sui ponti che lo attraversano, qualche bancarella di libri usati. In una di questa ho trovato, tra i tanti dell’ex dittatore Enver Hoxha, un libro in italiano intitolato L’eurocomunismo è anticomunismo (Tirana 1980). La tesi è chiara fin dal titolo: Hoxha attacca l’eurocomunismo – principale obiettivo polemico è lo spagnolo Carrillo, ma ce n’è anche per il nostro Berlinguer – accusandolo di essere una teoria borghese e reazionaria. “L’epoca delle rivoluzioni proletarie – scriveva – è appena cominciata. L’avvento del socialismo rappresenta una necessità storica che deriva dallo sviluppo oggettivo della società. Ciò è inevitabile. Le controrivoluzioni avvenute finora, come pure gli ostacoli che sorgono, possono prolungare un po’ l’esistenza al vecchio sistema sfruttatore, ma non hanno la forza di impedire la marcia della società umana verso il suo futuro socialista” (pp. 6-7). Quando si dice essere profetici.
Quest’uomo che tuonava contro la borghesia e l’imborghesimento dei partiti comunisti occidentali dalla sua villa con piscina nel centro di Tirana ha lasciato il più grande monumento alla paranoia: le migliaia e migliaia di rifugi antiatomici che avrebbero dovuto difendere il popolo albanese dai nemici. Li vedi affiorare ovunque: sugli argini del Lana, nei parchi e nei giardini, nelle campagne. Smantellarli costerebbe troppo, e così gli albanesi l’hanno presa con filosofia: nei negozi di souvenir i bunker in miniatura con la scritta “Albania” sono gli oggetti più presenti, dopo le immagini di Skanderbeg e di Madre Teresa.
La tonalità emotiva dominante, a Tirana, sembra essere un certo fiducioso ottimismo, quella Weltanschauung meridionale che vale più di tante filosofie. Ska problem: non c’è problema. Che vuol dire, certo, che non è il caso di vedere il diavolo più brutto di quel che è, ma anche che i problemi, quando ci sono, possono essere risolti grazie alla meridionale e mediterranea arte di arrangiarsi. Si trova sempre un modo, non è il caso di drammatizzare. Meno ottimisti sono i marginali della città: gli jevg ed i rom. I primi, confusi spesso con i rom, sono ashkali, un popolo presente nei Balcani fin dall’antichità e proveniente probabilmente dall’Egitto. Più scuri di pelle dei rom, parlano correntemente l’albanese e costituiscono un sottoproletariato urbano dedito per lo più ai servizi di pulizia. Peggiore la condizione dei rom. Ho visto famiglie rom letteralmente buttate sul marciapiede davanti al terreno da cui il proprietario le aveva cacciate, mentre altri vivono in casupole di lamiera.
Monte Dajti
Il mali (monte) Dajti con i suoi mille e seicento metri d’altezza è il posto migliore per osservare Tirana dall’alto – ma lo sguardo spazia, se il tempo lo permette, fino alla costa. Ci si arriva con una funivia costruita dagli austriaci ed inaugurata nel 2005. Il viaggio dura circa venti minuti e permette di ammirare i vasti boschi di faggi che circondano Tirana. Arrivati sulla cima si è accolti dalla Dajti Tower, una delle costruzioni avveniristiche che tanto piacciono ai tiranesi. Se si ha il buon senso di ignorarla, si può salire ancora, accompagnati da un pulmino, al ristorante Veranda, che mantiene quello che promette il nome: si mangia letteralmente immersi nel panorama.

Panorama dal ristorante Veranda


Kruja

Se la religione degli albanesi è l’albanesità, Kruja è per l’Albania quel che il Vaticano è per i cattolici o la Mecca per i musulmani. Qui è nato nel 1405 Giorgio Castriota Skanderbeg, e del castello di Kruja, risalente al quinto secolo dopo Cristo, ha fatto il centro della resistenza cristiana all’invasione ottomana.
Oggi il castello è sede del Museo Storico Nazionale e del Museo Etnografico. Le sue sale sono ricoperte da affreschi che raccontano le varie fasi della resistenza agli ottomani; in quella centrale sono conservate copie dell’elmo e della spada dell’eroe. L’elmo di Skanderbeg è sormontato da un paio di corna di capra. Secondo la leggenda, l’eroe durante una battaglia mandò contro i nemici un esercito di capre, cui aveva legato delle fiaccole: con il favore della notte agli ottomani sembrarono soldati albanesi. (L’elmo caprino è oggi il simbolo di Kastrati, la principale compagnia petrolifera del paese.)

La sala centrale del castello di Kruja

Di grande fascino è il bazar di Kruja (qui e qui). Un tempo impressionava i viaggiatori per la sua grandezza; quasi scomparso nel corso del Novecento, è stato riportato in vita negli anni sessanta dal regime di Hoxha. Oggi consiste in un solo vicolo lastricato in pietra sui cui due lati si affacciano botteghe artigianali affollate di vestiti tradizionali, tappeti, strumenti musicali e l’immancabile qeleshe, il tipico cappello albanese in lana di pecora. In una bottega una donna sta lavorando ad un tappeto. Con squisita cortesia, per nulla infastidita dalle nostre fotocamere, ci spiega che impiega circa una settimana per finire un tappeto che poi venderà per l’equivalente di 35 euro.

Uscendo dal bazar sento l’inconfondibile dialetto pugliese. Sono turisti che vengono da Trani. Vengono qui da anni, dicono, perché costa poco ed è bello, anche se Saranda – la località di mare del sud – è ormai diventata troppo affollata.
Petrela
La fortezza di Petrela, a una trentina di chilometri da Tirana, è un altro dei luoghi chiave della resistenza all’invasione ottomana. Costruita su una roccia, ci si arriva arrampicandosi su una scalinata ripida, sconsigliata agli anziani e se si hanno bambini al seguito. Man mano che si sale, la vista inquadra la valle del fiume Erzen: uno spettacolo che da solo vale la salita. In cima si potrà riprendere fiato in un bar ricavato in una stanzetta in cima al castello che sembra appartenere ad un’altra epoca.

Vista da Petrela

Verso il lago Ohrid
Petrela è sulla strada che da Tirana porta ad Elbasan, la città scelta dal regime per la creazione delle più grandi industrie del paese. Finito il comunismo, le industrie hanno smesso di funzionare, ma è rimasto l’inquinamento, con il suo portato di tumori e malformazioni. Ci fermiamo pochi minuti – giusto il tempo di ammirare le mura del castello – e proseguiamo verso il lago Orhid. La strada si inoltra tra montagne e boschi fittissimi, costeggiando il fiume Shkumbini. Presso una fonte una bambina vende della frutta. A Tirana sono stato positivamente colpito dalla attenzione ai bambini: librerie, biblioteche, teatri per bambini, e strutture per loro in quasi tutti i curatissimi parchi pubblici. Fuori da Tirana, nell’Albania rurale, il lavoro dei bambini sembra invece essere diffuso.
Per i tiranesi la gente di questa zona è un po’ sempliciotta. Un tempo i campi qui erano pieni di marijuana. I contadini non ne sapevano niente, si limitavano a piantare i semi che ricevevano, convinti che si trattasse di un’erba medicinale.
Ci ferma la polizia stradale. “Hai i fari spenti”. “Chiedo scusa, mi sono fermato a comprare dei fagioli ed ho dimenticato di riaccenderli”. E lui, ridendo: “Che ti facciano bene”. (“Che ti faccia bene” è un augurio ricorrente in Albania.)
Dopo circa due ore e mezzo di viaggio giungiamo al lago Ohrid, confine naturale tra l’Albania e la Macedonia. Costeggiandolo, oltre agli immancabili bunker, si è colpiti da cartelli che indicano la vendita del Koran. Non si tratta del Corano, ma di un tipo di trota che si trova solo nel lago Ohrid, e che alcuni bambini reclamizzano facendola oscillare appesa ad un gancio. Sul lago Ohrid si affaccia Pogradec, patria di Lasgush Poradeci, uno dei maggiori poeti albanesi contemporanei. Il lago di Ohrid ha i suoi lidi, anche se piuttosto rudimentali, ma la nostra destinazione è un’altra: il punto in cui dal lago sorge il Drin. Qui le acque calme del fiume, popolate di cigni ed anatre e circondate da una natura quasi intatta, creano un ambiente di grande suggestione.

Sul fiume Drin

Korça
La cattedrale ortodossa

Korça! Ah, Korça! Devo confessare che questa cittadina, a sud del lago Ohrid e poco distante dal confine greco, mi ha rapito. Non ho avuto modo, purtroppo, di visitarla con calma, ma quel poco che ho visto mi ha fatto nascere il proposito di tornarci. Non ho visto il bazar, conosciuto come bazar delle serenate (tutta la città è nota per la tradizione delle serenate), che a quanto pare ha perso anch’esso lo splendore di un tempo, e che ci si propone di restaurare. Ho attraversato, invece, la strada lastricata con il caratteristico ciottolato (kalldrëm) che conduce alla cattedrale, attorniata da suggestivi edifici che rivelano le molteplici influenze culturali ed architettoniche che hanno formato l’identità di quella che molti chiamano la Parigi dei Balcani (qui e qui). A metà strada ci si imbatte anche in quella che è stata la prima scuola albanese, e che oggi ospita il Museo dell’educazione. Per una triste ironia della sorte, proprio davanti alla scuola ci fermano due piccoli mendicanti per chiedere l’elemosina. Hanno con sé una scatola di cartone con un gattino nero appena nato. Non lo vendono, lo tengono per suscitare la curiosità dei passanti. Diamo loro qualche lek, e ci ringraziano augurandoci di “fare milioni”. Sulle prima non capiamo: la pronuncia del posto è particolare. Alla fine della strada c’è un monumento che ricorda i caduti nella lotta contro l’impero ottomano. Alle sue spalle la meravigliosa cattedrale ortodossa. E’ una costruzione recente – è stata costruita nel 1992 nel luogo in cui sorgeva la cattedrale di San Giorgio, distrutta dal regime comunista negli anni Sessanta -, ma ha tutto il fascino delle chiese cariche di secoli.

Lasciando la città abbiamo ancora modo di apprezzare un enorme parco cittadino. Nel quale di tanto in tanto spunta l’inevitabile bunker.

Tutte le foto del post, comprese quelle linkate, sono di Antonio Vigilante. Nel caso volessi utilizzarle ti prego di rispettare la licenza di questo blog. Altre foto sono sulla mia pagina Flickr.

25.8.2013