Congedo

Ho letto l’articolo di Biagio Riccio sul Giorgia Meloni sperando fino all’ultima riga che fosse ironico. No, non lo è. Riccio sostiene davvero che Meloni è una persona perbene, gentile e rispettosa con gli avversari eccetera. E che gli insulti che le sono stati rivolti da un tale in cerca di notorietà – che è poi uno dei migliori storici italiani, ma in un paese analfabeta come il nostro questo in effetti non dà alcuna notorietà – sono inaccettabili perché le donne rappresentano “la dolcezza e la letizia dell’universo”.
Non voglio entrare nel merito del giudizio su Giorgia Meloni. Chi sia, lo sanno tutti. Quale sia il suo contributo alla civiltà di questo Paese anche. Il punto è un altro. Sono sicuro che Riccio non se ne rende conto ma affermare, per difendere una donna, che le donne sono “la bellezza del creato” e sciocchezze simili significa collocarsi nella stessa logica discriminatoria e patriarcale da cui proviene l’insulto a Meloni. Leggere che le donne “si sfiorano solo per accarezzarle” – con la doverosa precisazione: “con tatto gentil e prezioso” – mi dà un fastidio fisico. Agli occhi di Riccio le donne sono una schiera di esseri quasi angelici messi lì da Dio per essere ammirati nella loro bellezza e accarezzati quando se ne presenta l’occasione. E posso immaginare il suo sconcerto quando qualche donna, magari meno garbata e perbene di Giorgia Meloni, si sottrae al suo penoso teatrino.[read more]

Dopo aver letto l’articolo di Riccio ho provato quella sensazione che i tedeschi chiamano Fremdschämen. Provare imbarazzo al posto di un altro. Ma mi sono vergognato anche per me stesso. Perché quell’articolo, che sarebbe scadente anche per un foglietto parrocchiale, è stato pubblicato sul mio giornale. Che da oggi non è più il mio giornale.
La mia collaborazione con Gli Stati Generali termina qui. Sono grato, sinceramente, per lo spazio che mi è stato dato. Sono grato soprattutto a quanti hanno letto, commentato, discusso – non sempre, fortunatamente, “con tatto gentil e prezioso” – le mie cose.

Gli Stati Generali, 24 febbraio 2021.[/read]

La solitudine della scuola

Sono grato a Paolo Fasce per la sua replica al mio articolo sul tempo della scuola. Gli sono grato anche – soprattutto – perché mi offre l’opportunità di tornare sul punto fondamentale di quell’articolo, che nella ricezione sembra essere invece rimasto sullo sfondo. Non replicherò a quello che scrive punto per punto, per pietà verso il lettore (già così questo articolo sarà, temo, troppo lungo). Continuerò un attimo la mia “difesa d’ufficio” dei docenti, per andare poi al punto.
Scrive Fasce che la DaD è “troppo spesso l’apoteosi” della scuola che chiama Spiego, Studi, Interrogo, Dimentichi (SSID). Come ho scritto, non sono un sostenitore entusiasta della DaD, e qui stesso sono intervenuto per denunciare la follia di certe derive. Ma non credo che essa abbia fatto diventare alcuni, per magia, dei pessimi insegnanti. Chi faceva la scuola SSID in classe ha continuato a farla, pessimamente, in DaD. Per gli altri, la DaD è stata occasione per sperimentare e riflettere ancora una volta su cosa vuol dire fare questo mestiere. Per me scuola è comunità, ed è la comunità che ho cercato di portare in DaD. Con l’aiuto di uno strumento come Moodle, pensato per la didattica, che però non mi è stato più possibile usare dopo che il Miur ha vergognosamente sostenuto le piattaforme proprietarie di Google e Microsoft. Mi piacerebbe poter dire che ci siamo inventati una nuova didattica con l’aiuto del Ministero; nel mio caso almeno, è più aderente alla realtà l’affermazione che lo abbiamo fatto nonostante il Ministero.[read more]

Paolo Fasce mi accusa di ingenuità, perché do valore ai voti dei docenti, affermando che non si può prescindere dai risultati degli scrutini del primo quadrimestre per ragionare di tempo perso o meno. (E tra parentesi: non ho affermato che nessuno può giudicare il lavoro dei docenti; ho sostenuto e sostengo che solo i docenti del Consiglio di classe e nessun altro al posto loro – certo non i politici – possono attribuire voti agli studenti.) I suoi argomenti sono due: 1) i voti sono riferiti ad una classe, e dunque ad un contesto particolare, e dunque non hanno un valore assoluto; 2) i docenti attribuiscono sufficienze o insufficienze secondo la personale convenienza.
Il secondo (presunto) argomento è semplicemente una calunnia, e come tale non merita di essere preso in considerazione, perché discuterlo significa dargli la dignità di un argomento, che evidentemente non ha. Mi limito ad osservare che ingenuo appare lo stesso Fasce: come può pensare che i docenti che alla fine del primo quadrimestre falsano i voti per non dover lavorare a giugno, a giugno poi possano trasformarsi in professionisti sinceramente preoccupati dei loro studenti e attivamente impegnati in attività didattiche in loro favore? Il primo argomento merita un ragionamento. Insegno da ventitré anni; ho insegnato alle medie, in diversi istituti professionali in un istituto tecnico, al liceo, al sud ed al centro. Ho una percezione abbastanza ampia della realtà scolastica. E sì, posso confermare che un 8 in un certo contesto non ha lo stesso valore di un 8 in un contesto diverso. A dire il vero, uno stesso voto può avere un contenuto diverso anche in due indirizzi dello stesso liceo. Mi sfugge però cosa questo c’entri con il prolungamento dell’anno scolastico. La disomogeneità è un problema strutturale del nostro sistema scolastico e richiede un intervento ugualmente strutturale, non certo l’eccezionale apertura delle scuole a giugno.
Il contesto era il vero tema del mio articolo. Permettetemi di tornarvi su. Nel modo più concreto possibile: raccontando, cioè, una storia. B. era un ragazzone alto più di un metro ed ottanta. All’improvviso cominciò a deperire sotto i nostri occhi. Tememmo qualche malattia, poi scoprimmo che semplicemente non mangiava. E toccava a noi portargli qualcosa da casa, perché mangiasse almeno a scuola. Che era successo? Qualche mese prima ero stato a casa sua per consegnarli un computer che eravamo riusciti a recuperare in qualche modo (dismesso da un docente; l’appello agli enti ed imprese locali affinché ci aiutassero a procurare computer usati ai nostri studenti più poveri cadde nel vuoto). Viveva in una baracca, con la sorellina, la madre e il padre. Il padre era disoccupato. Mi era sembrato un uomo in gamba, pieno di iniziative, che soffriva molto per la sua condizione di impotenza economica. Bene: il padre di B. ora era in galera. Tentato omicidio. Un lavoro su commissione della mafia per racimolare qualche soldo. Lo Stato aveva messo in prigione il padre di B. senza chiedersi come avrebbero fatto la moglie (una donna con disturbi mentali) ed i figli a mangiare. Abbandonandoli a loro stessi. Lo Stato avrebbe potuto investire qualche migliaio di euro per dare un lavoro a quell’uomo; ha preferito sprecare più di centomila euro all’anno, per non so quanti anni, per tenerlo in galera. Uno spreco assurdo, per me incomprensibile. Siamo un Paese impoverito dalla spaventosa evasione fiscale, e continuamo quotidianamente a gettar via soldi per tenere la gente in galera, mentre tutto ciò che potrebbe prevenire la galera è trascurato.
In questa situazione, in questi contesti, si chiede alla scuola di intervenire. Di fare il miracolo. Ma i miracoli non esistono. Buona parte del discorso pubblico sull’educazione è basato su affermazioni e frasi fatte dal sapore romantico. “Nessun bambino è perso se ha un insegnante che crede in lui”. Cose così. E sarebbe bello se le cose fossero così semplici. Ma la realtà è molto più complessa. Potrei riformulare: qualsiasi insegnante è perso se non ha una comunità che crede in lui. E: che lavora con lui. Non posso lavorare con B. se lo Stato lo affama. Se i servizi sociali lo abbandonano. Se non esistono politiche per combattere la disuguaglianza. Se nessun governo costringe i ricchi a pagare le tasse. Se diamo per scontati la povertà, il degrado, l’abbandono di intere comunità.
C’è qualcosa di molto più serio della differenza tra un 8 dato ai Parioli e un 8 dato a Scampia. C’è la vergognosa differenza di possibilità tra chi ha la fortuna di nascere in un contesto ricco e chi invece si trova fin dalla nascita a combattere con infiniti ostacoli, con forze che deformano e disumanizzano. Quello che intendevo dire con il mio articolo è che un discorso sugli studenti che “restano indietro” è ipocrita (“No Child Left Behind” era lo slogan della politica scolastica del repubblicano Bush, lo stesso le cui politiche hanno accresciuto il divario sociale ed economico negli Stati Uniti) senza una considerazione più ampia sui rapporti tra scuola e società. La scuola, lo ripeto, non fa miracoli, se è isolata. Se davvero interessa affrontare il problema di chi resta indietro – e sarei felicissimo se il governo se lo ponesse – allora occorre lavorare seriamente (e cioè: investendo soldi, molti soldi) per creare un solido sostegno sociale al lavoro degli insegnanti. Non c’è buona pedagogia senza buona economia. E non c’è buona economia senza lotta seria, non retorica, alla disuguaglianza. Tenere le scuole aperte a giugno, in mancanza di questo impegno più ampio, e strutturale, è nulla più che un’uscita populista.

Gli Stati Generali, 13 febbraio 2021.[/read]

Il tempo della scuola

Aprire le scuole a giugno, perché si è perso troppo tempo. Con questo proposito, che riprende una proposta diffusa da tempo dal gruppo Condorcet, Mario Draghi si presenta al mondo della scuola. Vorrei spiegare per quali ragioni questa proposta, che sembra nascere da una reale preoccupazione per il bene dei nostri studenti, rivela invece inconsapevolezza pedagogica e disprezzo per i docenti.
Per la scuola italiana questo è il periodo in cui si attua un primo bilancio dell’anno scolastico. Gli scrutini del primo quadrimestre sono stati appena conclusi, è possibile verificare se ci sono stati e quanto sono stati importanti i danni della didattica a distanza. Ora, un ragionamento serio sulla scuola partirebbe da qui. E’ stato fatto un lavoro e i risultati di questo lavoro sono stati valutati. Cosa è emerso dalle valutazioni? Quanti studenti sono rimasti indietro? Quante sono, nelle diverse scuole, le insufficienze? Dire che si è perso tempo, senza considerare questo dato, significa parlare del nulla. Se si è perso tempo o meno possono dirlo solo i docenti, gli unici che hanno il diritto di valutare i risultati del loro lavoro. Nel mio caso, ad esempio, in quattro delle cinque classi che mi sono state affidate sono rimaste alla fine del quadrimestre rarissime insufficienze. In una, invece, le insufficienze sono molte, ma ci sono anche almeno tre studenti che con la didattica a distanza sono migliorati sensibilmente. Il bilancio è nel complesso tutt’altro che allarmante.[read more]

Dichiarando che si è perso tempo, e che questo tempo bisogna recuperarlo, si manca di rispetto ai docenti in due modi. In primo luogo, considerando nulla il lavoro, spesso enorme, che è stato fatto in questi mesi di didattica a distanza. In secondo luogo – e in modo più grave – considerando nulle le loro valutazioni. I sette, gli otto, i nove messi in questi mesi non valgono niente. Si stabilisce dall’alto che sono invece delle insufficienze. Nulla vale la valutazione del docente, nulla vale il lavoro fatto da lui e dallo studente per giungere a quel risultato. Mesi di lavoro vengono nullificati dall’alto. Senza nulla sapere, senza nulla vedere. Così. Insegno da più di vent’anni, credo di poter dire che nessuno ha mai mancato di rispetto in questo modo a noi docenti. Ed ho l’impressione che non si tornerà indietro.Dicevo dell’inconsapevolezza pedagogica. Non è un grande argomento, perché in questo paese la pedagogia è circondata da disprezzo unanime, e dire di qualcuno che è pedagogicamente incompetente è quasi fargli un complimento, ma qualche considerazione vorrei farla comunque, da pedagogista e da docente.
Per dieci anni ho insegnato in un Liceo che aveva gravissimi problemi di abbandono scolastico, in particolare al biennio. Ragazzine – era un Liceo delle Scienze Umane – che venivano a scuola perché costrette dall’obbligo scolastico, e avevano spesso alle spalle famiglie che dicevano loro che lo studio e la scuola non servono a nulla. Le provammo tutte per affrontare il problema, con esiti frustranti. Ma una cosa comprendemmo: che aumentare il tempo scuola non funziona. Tenere a scuola più tempo ragazzine che la scuola non l’amavano sortiva un solo risultato: aumentare la nausea e il rifiuto. Bisognava piuttosto cambiare la qualità della scuola.
La didattica a distanza funziona con gli studenti motivati. Che nel mio caso sono la grande maggioranza. Credo anche di poter dire che sul piano strettamente cognitivo hanno anche acquistato qualcosa (se non altro molte competenze digitali); ciò che si è perso è sul piano umano e relazionale.
Il problema riguarda gli studenti con difficoltà. Ora, le difficoltà possono essere di due tipi: problemi cognitivo-relazionali e problemi di motivazione. Ho notato, e lo hanno notato anche molti miei colleghi, che i primi spesso traggono vantaggio dalla DaD. Perché, ad esempio, si fa al computer, e il computer è uno strumento che uno studente con disturbi di apprendimento è abituato ad usare più dei suoi compagni. O perché lo spostamento dell’aula nella dimensione virtuale blocca alcune dinamiche violente che rendevano frustrante per qualche altro studente l’esperienza scolastica. Il problema è grave invece per chi ha problemi di motivazione. Lo studente che a scuola frequentava saltuariamente, e in classe era assente, o si perdeva nei corridoi dopo aver chiesto di andare in bagno, a distanza lo perdi del tutto. Non si collega, o se si collega sta facendo chissà cosa.
Questi studenti rischiano di perdersi con la DaD. Ma aprire le scuole in estate per recuperarli significa non aver capito granché del problema. Bisogna che uno studente sia molto motivato per frequentate a giugno, in presenza, la scuola che non ha voluto frequentare a novembre comodamente collegato da casa sua. Bisogna, cioè, che abbia come prerequisito proprio ciò la cui mancanza ha causato il problema che si pretende di risolvere. La scuola si considera da sempre una istituzione salvifica. Chi sfugge ad essa è perso. Extra scholam nulla salus. Fare più scuola, aumentare la quantità dell’offerta, non può che essere un bene. Se fosse meno autoreferenziale, la scuola capirebbe invece di aver bisogno di un vasto sostegno sociale, senza il quale è inefficace nei contesti più difficili, lì dove la scuola non è un valore condiviso. Più che tenere aperte le scuole d’estate, bisognerebbe parlare di sostenere seriamente l’educazione di strada, il volontariato educativo, i gruppi che fanno da ponte tra la scuola e la famiglia nei quartieri difficili. E magari ragionare di qualità e non di quantità della scuola. Perché la scuola che facciamo da sempre è una scuola che piace solo a chi crede nello studio. La didattica a distanza ha i suoi limiti, e non mi schiererò certo tra i suoi sostenitori entusiasti (nemmeno, però, con i fanatici della presenza), ma ha avuto il merito indubbio di costringere i docenti italiani a riflettere sul loro lavoro. Cosa vuol dire davvero insegnare? Cosa è essenziale, cosa accessorio? Come apprendono gli studenti? Cosa vuol dire valutare? Cosa valutare? Tutte queste domande, cui credevamo di aver dato una risposta una volta per tutte, sono tornate a galla, e abbiamo dovuto trovare nuove risposte. Quello che è da fare, ora, è ripartire da queste domande. Può essere che mi sbagli, ma mi pare che mai in passato docenti, studenti, genitori siano stati costretti a riflettere sulla scuola, avendo l’esperienza concreta di una alternativa. Chiudere questa esperienza offrendo a tutti una dose supplementare di scuola tradizionale significa sprecare una occasione storica per ripensare davvero la scuola italiana. Significa davvero perdere tempo nel senso non del kronos, il tempo cronologico, ma del kairos, il tempo propizio, nel quale cose nuove possono accadere.


Gli Stati Generali, 9 febbraio 2021.
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Solidarietà al maestro
Giampiero Monaca

In visita a Shantiniketan, la meravigliosa scuola immersa nella natura creata dal poeta premio Nobel Rabindranath Tagore, un insegnante rimase sorpreso da una scena per lui insolita e tale da suscitare indignazione: uno dei bambini della scuola era salito su un albero e si era messo a leggere un libro. “Dovetti spiegargli – scrive Tagore – che la fanciullezza è l’unico periodo della vita in cui l’uomo civilizzato può esercitare la sua libertà di scelta tra i rami di una pianta e la sua sedia nella stanza da disegno; dovrei privare il ragazzo di questo privilegio perché il, come adulto, ne sono escluso?”[1]
Nella scuola italiana di oggi la risposta alla domanda di Tagore è senz’altro sì. Dobbiamo negare ai bambini il privilegio di salire sull’albero perché noi adulti ne siamo esclusi. Possiamo regalargli giocattoli costosi e tecnologici fin dalla più tenera età, anche se non ne ha bisogno; possiamo comprargli tutto il cibo spazzatura che desidera; possiamo consentirgli di passare la giornata alternando lo schermo del televisore con quello di uno smartphone; possiamo riconoscergli la libertà di accedere ai social network in età sempre più precoce. Ma non possiamo concedergli alcuna libertà di movimento reale. Non nella città: potrà uscire solo se accompagnato, sorvegliato, gestito da qualcuno. Nessuna esplorazione autonoma della città gli è consentita. Meno ancora fuori nella natura. Tutto è dannatamente pericoloso. Ovunque il mondo è pieno di insidie, e noi vogliamo tenere i bambini al sicuro.[read more]

Chi avesse dubbi può considerare quello che è successo al maestro Giampiero Monaca. Che è uno dei maestri più creativi che abbia il nostro Paese, di quella creatività fatta di coraggio che porta a tentare vie nuove. Nel suo caso, vie che conducono anche nella natura. Il progetto Bimbisvegli, realizzato da Giampiero Monaca a Serravalle d’Asti, è una delle realtà più innovative della scuola italiana. Al maestro Monaca è riuscita una impresa che sembrava quasi impossibile: realizzare una scuola nuova, sperimentale, creativa non in una scuola privata, necessariamente elitaria, ma lavorando nella scuola pubblica e statale. Chiunque, come chi scrive, cerci di introdurre nella scuola statale cambiamenti anche molto meno significativi, sa a quali veti, sospetti, ostilità si va incontro. Giampiero Monaca sembrava avercela fatta, anche grazie al sostegno delle famiglie, contagiato dall’entusiasmo e dalla felicità dei loro figli. Ieri invece la notizia: il maestro Monaca è stato sospeso dall’insegnamento per un giorno. Ad accusarlo una foto pubblicata su un social network: bambini arrampicati sugli alberi! Come l’accigliato insegnante di Tagore, la ex dirigente della scuola di Monaca s’è allarmata. Bambini sugli alberi? La cosa è evidentemente innaturale, antipedagogica. E’ naturale che i bambini stiano seduti ai loro banchi. Zitti. Immobili.
Un paese in cui la foto di bambini seduti e zitti non crea alcun problema, in cui non crea nessun problema nemmeno la foto di centinaia di bambini che nella scuola statale e laica accolgono festanti un vescovo agitando le bandierine (succede anche questo, in Italia), ma in cui allarma la foto di un bambino su un albero, è un paese che dovrebbe rivedere le idee correnti su cos’è l’infanzia e cos’è l’educazione. Un altro grande maestro, Gianfranco Zavalloni, denunciava l’uso distorto che si fa della sicurezza nella scuola italiana. Da principio sacrosanto, è diventato uno strumento per troncare sul nascere qualsiasi ipotesi di cambiamento. Perfino una cosa banale come un cambiamento nella disposizione dei banchi dell’aula viene negata in nome della sicurezza. Pare che sicura sia solo la scuola ipertradizionale, quella con le cattedre e i banchi, quella chiusa al mondo esterno. Quella nella quale lo studente non corre alcun rischio di incontrare la vita.
Soldarietà al maestro Giampiero Monaca, ai suoi studenti, alle loro famiglie. E l’invito a continuare nella strada che è giusta, che è poi la strada della migliore pedagogia italiana.

[1] R. Tagore, Il mondo della personalità, Guanda, Modena 1993, p. 103.

Gli Stati Generali, 6 febbraio 2021.[/read]

La DaD e gli aguzzini
dell’apprendimento

All’inizio non volevo crederci. Un docente, pensavo, non giungerà mai ad umiliare uno studente fino a questo punto. Mi sembrava che fosse una leggenda metropolitana o qualcosa del genere. Poi hanno cominciato a parlarmene persone a me vicine. E con riferimenti precisi: in quella tale scuola, quel tale docente. Che interroga a distanza, e per essere certo che lo studente non legga da qualche bigliettino sistemato sul monitor, lo interroga bendato. So che per gli studenti l’interrogazione è sempre motivo di un’ansia che a volte li blocca, ma solo sforzandomi posso immaginare come possa sentirsi uno studente bendato davanti al monitor del suo computer: come se si trattasse, più che di una verifica dell’apprendimento – e l’apprendimento è una cosa che mi ostino ad associare alla gioia – di un interrogatorio dei servizi segreti.
Ci sono varianti più creative, ma non meno umilianti. C’è il docente che chiede di mostrarsi in webcam mentre si posiziona il quaderno della disciplina a terra e poi di fare l’interrogazione con gli occhi al soffitto – la benda evidentemente pareva brutale, mentre gli occhi al cielo rientrano in una più accettabile iconografia religiosa – e c’è il Consiglio di classe che medita di chiedere agli studenti di piazzare una seconda webcam alle loro spalle, in modo da avere il controllo completo (una cosa, mi dicono, che fanno anche certe università).[read more]

Il controllo completo. E’ quello che i docenti hanno, o cercano di avere, in classe. E’ questa l’istituzione che abbiamo ricevuto dal passato. Una istituzione che ha molte affinità con il carcere, il manicomio, il convento. Un’istituzione disciplinare centrata sul controllo. Sono cambiate, nel frattempo, le concezioni pedagogiche. Si è scoperto l’ovvio: che l’apprendimento ha a che fare con l’interesse, con l’attività, con il piacere. Ma sono scoperte che sono finite sullo sfondo, quelle cose che studi all’università e poi dimentichi quando cominci a insegnare. In primo piano è rimasto l’impanto disciplinare, ortopedico, panottico della scuola. Osservare, sorvegliare, modellare.
La Didattica a Distanza rischia di mettere in crisi questo sistema, e questo può essere il bene che può venire da ciò che con ogni evidenza è un male. Perché l’insegnamento richiede una relazione viva, e dietro un monitor è davvero difficile. E tuttavia la scomparsa di quel setting scolastico che abbiamo ricevuto da una tradizione violenta e che non abbiamo mai avuto il coraggio di abbandonare apre qualche nuova possibilità. A scuola, per dire, è normale che uno studente chieda il permesso per andare in bagno. Si vorrebbe fare educazione civica, ma nelle scuole italiane non si riesce ad ottenere nemmeno – e nemmeno nei Licei – questa cosa minima: che gli studenti abbiano la libertà e la responsabilità di gestire da sé le andate in bagno. Anche ragazzi maggiorenni devono sottoporsi alla richiesta umiliante; e i docenti si riducono a gestire il traffico verso il gabinetto. Ma quando la richiesta viene da uno studente che è dietro un monitor, quando, cioè, uno studente ti chiede il permesso di andare in bagno a casa sua, il carattere surreale della richiesta non sfugge neppure al più ottuso sostenitore del conservatorismo didattico.
Valutare è il momento più delicato dell’insegnamento. I docenti hanno, evidentemente, la convinzione che questa cosa così delicata si faccia ottimamente, in classe. E che sia invece difficile a distanza: di qui le follie di cui s’è detto. Io questa certezza non l’ho mai avuta. Le interrogazioni mi lasciano da sempre l’amaro in bocca. Sono consapevole della estrema difficoltà di distinguere, in questo modo, l’apprendimento reale dalla simulazione di apprendimento. Uno studente può parlare per un quarto d’ora, a raffica, e tuttavia non aver imparato nulla. Anzi: più parla a raffica, più è probabile che non abbia imparato nulla.
Sto correggendo ora il compito di psicologia che ho dato in prima. Abbiamo studiato la percezione. Ho chiesto loro di realizzare una videolezione sull’argomento. I primi lavori che ho visto mi sembrano bellissimi. E quando ho chiesto loro se hanno incontrato difficoltà, diversi mi hanno risposto che non è stato facile, ma si sono divertiti. In terza, dove insegno filosofia, ho chiesto di scrivere dei dialoghi filosofici (tra Gorgia e Parmenide e tra Ippia e Trasimaco) e di riflettere sul relativismo di Protagora. Anche in questo caso ho letto cose molto creative, tra cui un dialogo a suon di rap. In un’altra terza stiamo studiando l’antropologia della parentela. Quando sarà il momento della verifica, chiederò di intervistare degli anziani a proposito del loro matrimonio. Valutare a distanza si può, se si abbandonano le modalità valutative usate in presenza. E oserei dire che si valuta anche meglio: perché vengono in primo piano capacità e competenze – prima fra tutte la creatività – che la didattica in presenza normalmente trascura.

Una cosa, intanto, dev’essere chiara. Se un docente non è in grado di adattare la valutazione alla didattica a distanza, è un problema suo. Non ha il diritto di scaricare la sua incompetenza pedagogica e didattica sugli studenti. Bendare uno studente o chiedergli di guardare il soffitto vuol dire umiliarlo e mancargli di rispetto; e, a ben vedere, significa anche umiliare sé stessi, ridursi da educatori a miserabili aguzzini dell’apprendimento.

Gli Stati Generali[/read]

La laicità, la scuola e l’Islam

La brutale uccisione di Samuel Paty, il docente francese colpevole di aver mostrato le vignette di Carlie Hebdo durante una lezione sulla libertà d’espressione, mi ha colpito profondamente. Mi ha colpito perché sono un docente, perché sono laico, e perché negli stessi giorni ho tenuto nella mia terza una lezione sulla libertà d’espressione. Mi spiace che quella tragedia, che tanto sta facendo discutere in Francia, da noi non susciti grande interesse, e al tempo stesso ne sono un po’ sollevato, perché il livello del dibattito pubblico nel nostro Paese è infimo, e non ci sarebbe da aspettarsi molto di diverso dalla più becera islamofobia.
Confesso di essere stato tentato anch’io dalla rabbia. Di aver pensato che noi laici abbiamo conquistato la libertà di parola con il sangue di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini. E che è insufficiente ripetere fino alla nausea che “l’Islam è pace”, se poi si decapita qualcuno in nome di Allah. Ma è, appunto, una tentazione, e se cedere ad alcune tentazioni può essere cosa buona e giusta, cedere a questa tentazione è un errore grave.[read more]

Come docente italiano, e docente laico, una tragedia simile mi spinge a riflettere sull’istituzione di cui, con disagio sempre crescente, faccio parte. Io insegno filosofia e scienze umane. Insegno a studenti italiani, albanesi, romeni, nordafricani, centrafricani, sudamericani. Insegno la filosofia europea, perché così si vuole nel nostro Paese. E insegno le scienze umane dal punto di vista occidentale. Insegnando antropologia, faccio anche lezioni di antropologia della religione. E dal momento che non credo troppo nella scuola lezione-libro-interrogazione, cerco di far in modo che gli studenti incontrino dal vivo la diversità religiosa. Li porto, ad esempio, alla locale sinagoga, dove apprendono la storia, le vicende e le usanze della piccola comunità ebraica della città. Mi piacerebbe che potessero anche incontrare l’imam, perché nella città ci sono molti musulmani, e musulmani sono anche diversi studenti, e credo che sia importantissimo conoscere un punto di vista sull’Islam diverso da quello superficiale ed esterno dei mass-media. Ora so che no, non si può fare. L’imam a scuola spaventa. Se lo proponi, ti senti dire che la proposta dev’essere approvata dal Consiglio d’Istituto. E lì basta un genitore islamofobo per bloccare tutto. Questo in un Paese in cui non è infrequente che il vescovo locale faccia visita a questa o quella scuola in pompa magna, accolto da una folla di bambini festanti.
Provo a mettermi nei panni di uno studente musulmano. Sappiamo che il profilo dello studente attentatore è simile in diversi Paesi (ne parla Francesco “Bifo” Berardi in Heroes, Baldini e Castoldi): ragazzi che vivono un forte senso di esclusione, che alimenta un sentimento di rivalsa. Nelle nostre scuole l’Islam è il convitato di pietra. Compare sporadicamente, come una presenza imbarazzante; raramente c’è modo di parlarne in modo aperto, con la competenza necessaria. Uno studente musulmano (non solo lui, a dire il vero) sente di appartenere non tanto a una sottocultura, quanto a una controcultura. È lì che la società lo colloca. Finisce per lo più per vergognarsi di essere musulmano, abbracciando con un senso di liberazione i valori dominanti (e con le comprensibili, dolorose fratture con la sua famiglia); ma può succedere anche il contrario: che si chiuda nella sua identità, che faccia proprio lo sguardo dell’altro e diventi ciò che si crede che lui sia. Che reagisca al rifiuto generale della società nei confronti della sua cultura con un uguale rifiuto che, in particolari condizioni, può esplodere con violenza. Inclusività è una delle parole chiave della scuola italiana. Non c’è documento scolastico – non c’è pezzettino di quella scuola di carta che si sovrappone ormai alla scuola reale – che non la piazzi nei punti strategici. Ma la scuola italiana è davvero inclusiva? Culturalmente no, non lo è. Lo studente straniero non è il portatore di una diversità che bisogna conoscere e valorizzare. Non è una finestra su mondi altri (e la scuola cos’è, se non aprire finestre su mondi altri?). È segnato dalla negatività. È quello che non sa la lingua. Non quello che sa una lingua diversa – a volte ne sa diverse – che si può provare ad imparare insieme. È quello cui bisogna insegnare la lingua. E di fatto in questo consistono la maggior parte degli interventi in favore degli studenti stranieri. Si fa un corso di italiano L2, e finisce lì. E no, non può finire lì.
Da laico, amo poco l’Islam, come anche il cristianesimo e in generale le religioni. Penso che si vivrebbe molto meglio senza. Da cittadino, penso che le religioni comunque ci sono, ed è un diritto sacrosanto poter seguire la propria religione. E mi dispiace che tanti musulmani debbano pregare in luoghi di fortuna (nella mia città una sorta di garage). Da docente, penso che la scuola debba fare tutto il possibile per far sentire riconosciuti e rispettati gli studenti musulmani, come anche gli studenti portatori di qualsiasi alterità (comprese le diversità di classe sociale, di cui nessuno più si occupa). E mi pare che la scuola italiana lo stia facendo poco e male.

Gli Stati Generali[/read]

Fratelli quasi tutti

Fratelli tutti, la nuova enciclica di papa Francesco, dice molte cose belle, buone e giuste. Dice che siamo tutti fratelli, e dobbiamo considerarci e trattarci come tali: e che dunque va condannata la disuguaglianza che constatiamo dolorosamente sia nel nostro Paese che nel mondo. Non ironizzo quando dico che sono cose giuste, anche se leggendola non ho potuto fare a meno di ripensare a quel passo de Il Regno di Dio è in voi di Tolstoj in cui il grande scrittore e pensatore russo – osannato come scrittore, rimosso come pensatore – scrive: “Siamo tutti fratelli, e nondimeno ogni mattina questo fratello e questa sorella fanno per me i servizi che non voglio far io. Siamo tutti fratelli – e nondimeno mi occorrono ogni giorno un sigaro, dello zucchero, uno specchio e altri oggetti alla cui fabbricazione i miei fratelli e le mie sorelle, che sono miei eguali, hanno sacrificato la loro salute; ed io mi servo di questi oggetti, ed anzi li pretendo” (edizione Bocca, Roma 1894, p. 129). E continua con una analisi spietata della miseria della società russa, fondata sull’ipocrisia e lo sfruttamento, con la benedizione di quella Chiesa ortodossa che lo scomunicherà. Ora, sono parole che papa Francesco sottoscriverebbe volentieri. Anzi, più che sottoscriverle, le scriverebbe. E in parte le ha scritte. Ma c’è una differenza essenziale. Il grande scrittore russo cercò – dolorosamente, tragicamente – il passaggio dalla teoria all’azione, la testimonianza, la coerenza tra vita e pensiero. Il papa, fratello di tutti, resta Sua Santità: per quanti tentativi faccia, sarà sempre infinitamente al di qua da quella orizzontalità che consente la vera fratellanza. Sarà padre – Santo padre – ma mai fratello. E la presenza nella società di figure come la sua è il maggior ostacolo alla diffusione di una effettiva cultura della fraternità.[read more]

Ma non è di questo che voglio parlare. Mi interessa il tema del dialogo, sul quale Francesco si sofferma nella seconda parte dell’enciclica. “L’autentico dialogo sociale – scrive – presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni e degli interessi legittimi” (§203). È vero: senza questa capacità non c’è dialogo. Ma Francesco è capace di questo rispetto? Nell’enciclica enfatizza la sua convergenza di vedute con quello che chiama il Grande Imam (un altro Padre, non fratello; magari in questo caso Zio: fratello del Padre) Ahmad Al-Tayyeb, noto da noi per alcune dichiarazioni non molto conciliabili con democrazia, civiltà e diritti umani; non mostra invece grande capacità di rispetto verso un punto di vista realmente diverso da quello religioso. Accogliendo pienamente l’eredità di Giovanni Paolo II e di papa Ratzinger, papa Francesco non riesce a vedere nel pensiero laico, ateo, agnostico, relativista, insomma nel pensiero che discute i fondamenti della sua fede, null’altro che una minaccia per la civiltà. Scrive: “Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità” (§244). Cioè: chi non crede in Dio non può davvero credere nella fraternità. Che è una sciocchezza colossale. Se non fosse chiaro, spiega citando la Centesimus annus di Giovanni Paolo II: “Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri” (§273). Dunque: se uno non crede in Dio, dovrà per forza opporsi agli altri, ad esempio in nome della Nazione. È ben noto, del resto, che i fascisti hanno fatto un concordato con la Lega degli Atei, e non con la Chiesa cattolica.
Il nemico è, ancora, il relativismo. “La carità ha bisogno della luce della verità che costantemente cerchiamo e questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, senza relativismi” (§185). “Il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento” (§191). Un’altra sciocchezza. Nel 1919 Giuseppe Rensi, con Carlo Michelstaedter il filosofo più inquieto del Novecento italiano, scrisse un libro – Lineamenti di filosofia scettica – in cui sosteneva che dopo la Grande Guerra era impossibile non dichiararsi scettici. La guerra è conflitto di verità: si uccide l’altro in nome della propria verità; e se le diverse verità si scontrano, è perché evidentemente nessuna è tale da imporsi da sé come Verità. L’anno successivo trasse le conseguenze politiche nella Filosofia dell’autorità: poiché non esiste alcuna verità, è solo la forza che stabilisce a chi spetta il potere. Ora, queste idee potevano storicamente incontrarsi con il fascismo. Non accadde, e Rensi fu anzi perseguitato dal Regime. La ragione è facile da comprendere. Un Regime, quale che sia, ha bisogno di una Verità forte. Nel caso del fascismo, il neoidealismo di Giovanni Gentile, con le sue solide certezze hegeliane. Sullo scetticismo, sul relativismo non è possibile fondare alcun Regime, né si dichiarano guerre per difendere la causa del dubbio. Ogni violenza organizzata ha bisogno di una Verità per muovere le masse, eccitarle, manipolarle.
Ecco insomma il limite della fraternità di papa Francesco. Fratello di chiunque creda nel suo stesso Padre immaginario (lo stesso, detto per inciso, su cui si fonda il suo potere, il fatto che viva una vita che è ben lontana da quella dell’uomo comune, e infinitamente distante dalla vita di quegli ultimi di cui i cattolici amano riempirsi la bocca), ha grandi difficoltà a confrontarsi e dialogare con chiunque non pretenda di avere in un certo volume rilegato in pelle, a richiesta anche in comoda versione tascabile, tutta la Verità.

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Gli illeciti della didattica a distanza

La chiusura improvvisa lo scorso marzo ha costretto le scuole a inventarsi dal nulla o quasi la didattica a distanza; e comprensibilmente sono stati scelti, anche grazie a un discutibilissimo endorsement ministeriale, gli strumenti più familiari e in qualche modo rassicuranti: Google Classroom e Microsoft Office 365. Si sperava che l’avvio del nuovo anno scolastico consentisse una riflessione più attenta sugli strumenti e le modalità della didattica a distanza, ma pare invece che sia cambiato poco: la maggior parte delle scuole continua ad affidarsi ai servizi Google e Microsoft.
La ragione addotta è spesso che questi servizi garantiscono la privacy degli studenti. In realtà usarli non è solo inopportuno, ma costituisce attualmente, dopo la sentenza Schrems II della Corte Europea di Giustizia, un illecito proprio per ragioni di privacy. Gli Stati Uniti si riservano per legge il diritto di accedere ai dati dei cittadini di qualunque Paese, se sono gestiti da una azienda statunitense, anche se i dati risiedono fisicamente su server situati al di fuori degli Stati Uniti. In sostanza tutti i dati dei nostri studenti, come di qualsiasi altro cittadino italiano ed europeo, gestiti da Google e da Microsoft, possono essere usati liberamente da un governo esterno all’Unione Europea. È appena il caso di ricordare che Trump ha cercato di bloccare la cinese Tik Tok negli Stati Uniti per ragioni di sicurezza nazionale.[read more]

La sentenza della Corte Europea di Giustizia, del 19 luglio scorso, dichiara che “le persone i cui dati personali sono trasferiti verso un Paese terzo sulla base di clausole tipo di protezione dei dati devono godere di un livello di protezione sostanzialmente equivalente a quello garantito all’interno dell’Unione da detto regolamento, letto alla luce della Carta [la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, NdR]”, cosa che non avviene con aziende statunitensi come Google e Microsoft, dal momento che “le limitazioni della protezione dei dati personali che risultano dalla normativa interna degli Stati Uniti in materia di accesso e di utilizzo, da parte delle autorità statunitensi, di siffatti dati trasferiti dall’Unione verso tale Paese terzo […] non sono inquadrate in modo da rispondere a requisiti sostanzialmente equivalenti a quelli richiesti, nel diritto dell’Unione, dal principio di proporzionalità, giacché i programmi di sorveglianza fondati sulla suddetta normativa non si limitano a quanto strettamente necessario” [1].
In sostanza, far usare ai nostri studenti le piattaforme Google e Microsoft significa esporli a un uso dei loro dati personali che viola i loro diritti di cittadini dell’Unione Europea. E a poco vale il consenso sulla privacy richiesto alle famiglie. Quali possibilità hanno? Se non dessero il consenso alla privacy, che dev’essere libero, i loro figli non potrebbero accedere alla didattica a distanza, ossia non potrebbero fruire del diritto all’istruzione. Il consenso non è dunque affatto libero. E un consenso non libero non ha alcun valore.
La gravità della situazione che si è venuta a creare può essere illustrata con un paragone. Immaginiamo che lo studente Tizio faccia per entrare a scuola ma venga fermato in portineria. Non può entrare a scuola se non ha la tessera. E non una tessera di ingresso rilasciata dalla scuola. No: occorre la tessera del negozio X, dell’ipermercato Y o dell’azienda Z. Senza avere la tessera di qualcuna di queste imprese private lo studente non può accedere alla scuola, ossia al diritto all’istruzione. È esattamente quello che accade quando si chiede allo studente, per accedere alla classe virtuale (che può anche sostituire del tutto, come sappiamo, la classe fisica), di avere un account Microsoft o Google, ossia di aziende commerciali private. Un assurdo che sarebbe comprensibile, forse perfino accettabile, se le scuole non avessero alternative. Ma le alternative ci sono. Ci sono strumenti gratuiti, liberi, con codice aperto, validi esattamente quanto quelli delle multinazionali, e che anzi risultano anche più efficaci, perché pensati appositamente per la didattica (si pensi a Moodle, usato dalle università in tutto il mondo e snobbato dalle scuole) . Servizi che bisognerebbe usare non solo per il rispetto dovuto agli studenti ed alla loro privacy, ma anche perché fare didattica a distanza, con gli strumenti tecnologici, non può non significare anche educare ad un uso consapevole ed attento della rete, dei servizi informatici e dei software.

[1] Corte di giustizia dell’Unione europea, Comunicato stampa n.91/20, Lussemburgo, 16 luglio 2020, url: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-07/cp200091it.pdf Nell’immagine: l’Edu Day di Microsoft. Fonte: https://www.mvservice.it
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Gli individui che non siamo

Il re greco Menandro, che regnò nel secondo secolo a.C. su un territorio che comprendeva l’India del nord e l’attuale Pakistan, fu con ogni probabilità uno dei primi occidentali convertiti al buddhismo, grazie ai lunghi dialoghi con un saggio buddhista, Nagasena, registrati in uno dei testi più importanti del buddhismo antico, il Milindapañha (Milinda è il nome greco del re). Al re che gli chiede il suo nome, il saggio buddhista risponde di chiamarsi Nagasena, ma precisa che si tratta solo di una convenzione, “perché nessuna persona è presente qui” (Milinda’s Questions, Luzac & Company, London 1969, vol I, p.34). Il re resta sconcertato. Come può essere che Nagasena dica una cosa del genere? Come può essere che lì, di fronte a lui, dica di non esistere?
Non è diverso lo sconcerto – lo choc culturale – di un occidentale di oggi quando si avvicina al pensiero buddhista. Fin dalle sue radici greche, la visione del mondo occidentale è fondata su tre cose: la solidità delle cose, assicurata dall’idea di sostanza; la solidità, razionalità, comprensibilità del mondo, assicurata dall’esistenza di Dio; la solidità di noi stessi, che nemmeno la morte può intaccare: l’immortalità dell’anima. A partire dall’età moderna questi tre pilastri dell’Occidente sono stati progressivamente attaccati, fino a sgretolarsi. Il mondo ordinato, solido, strutturato gerarchicamente come un sistema di enti con al centro l’uomo (proprio nel senso di maschio) entra in crisi sotto i colpi congiunti della scienza e del libero pensiero, mentre l’ascesa della borghesia spazza via i rapporti di produzione feudali. La morte di Dio annunciata da Nietzsche è il momento più noto, ma non necessariamente il più significativo, di questa lunga decostruzione. L’eclissi di Dio è un dato sociologico: nelle società occidentali il sacro tradizionale ha ormai un ruolo marginale. Restano saldi invece nel senso comune gli altri due pilastri: la certezza della cosa e la certezza dell’io.[read more]

Queste due certezze attacca uno dei libri più coraggiosi e interessanti prodotti dalla filosofia italiana negli ultimi anni: Tratti. Perché gli individui non esistono di Paolo Godani (Ponte alle Grazie, Milano 2020; il libro è uscito prima in edizione francese con il titolo: Traits. Une Métaphysique du singulier). La tesi di Godani, che ripercorre il pensiero occidentale da Aristotele ad Heidegger e Deleuze, ma rilegge anche L’uomo senza qualità di Musil, è quella del sottotitolo: gli individui non esistono. Non esiste tesi più irritante per il senso comune. L’individuo è ciò che ho di fronte a me, lo vedo, lo tocco, posso anche annusarlo: come dire che non esiste? E tuttavia le cose non sono così semplici. Questa realtà individuale, questa cosa o questa persona qui, è mutevole. Posso guardarla, farne esperienza, ma ogni volta sarà in modo diverso. Non ho mai una esperienza assolutamente identica di una realtà individuale. In cosa consiste allora il suo essere individuo? Dobbiamo postulare, in modo esplicito o implicito, che al di sotto di tutte le modificazioni esista qualcosa, un sostrato stabile, e che questo qualcosa sia l’individuo al di là delle sue modificazioni. Il libro di Godani, che sto riguardando ora per scrivere questo articolo, si presenta in un certo modo, con una certa luce dovuta al fatto che mi trovo alla mia scrivania, ed alla mia sinistra ho una finestra aperta con una tenda rossa. Se ora lo portassi in un’altra stanza, il libro apparirebbe diverso, con una diversa luce. Sarebbe lo stesso libro? Sì, pensiamo: è uno stesso libro che si mostra in modo diverso. Così pensando operiamo una distinzione tra un’essenza e le sue caratteristiche contingenti. Ma questa essenza, scrive Godani, è “una X indicibile e impensabile” (p. 145). L’alternativa proposta è quella di pensare “la coappartenanza essenziale dell’essere e delle sue determinazioni” (ivi). Il libro e l’ombra che appare sulla pagina in questo preciso momento; non un libro-essenza che ha ora, qui, questo particolare aspetto. Questo vuol dire pensare la realtà come una costellazione di tratti che si compongono in un certo modo, qui ed ora, ma che sempre possono tornare a comporsi in modi diversi.
Al re Menandro-Milinda, il saggio Nagasena rispose con il noto paragone del carro. Cos’è un carro, se non un insieme di elementi che non sono carro? Tolti le aste, le ruote, il telaio eccetera, non ne resta nulla. E tuttavia nessuna di queste cose, in sé, è il carro. Lo stesso vale per noi. Come ogni cosa, non siamo che il momentaneo aggregarsi di alcune caratteristiche. Nel libro di Godani il buddhismo compare di sfuggita, attraverso Derek Parfit, uno dei pensatori che con maggior rigore hanno messo in discussione l’identità individuale; ma vi compare nel momento decisivo: quando si tratta di trarre le conclusioni. Se non siamo individui, ma costellazioni di tratti, allora la morte non è (più), come nell’esistenzialismo, il segno della nostra irripetibilità ed autenticità, ma si spezza in “una molteplicità di piccole morti ricorrenti” (p. 223). E si presenta l’idea di una liberazione dall’io che non è davvero diversa dalla via che nel buddhismo conduce al nibbana.
Il libro di Godani conferma, mi pare, che al di là dei penosi e lucrosi fraintendimenti occidentali della tradizione spirituale orientale – con la meditazione vipassana che diventa mindfulness: una pratica per il trascendimento dell’io messa al servizio della crescita personale – è possibile una convergenza tra i temi più difficili e sofferti del pensiero occidentale contemporaneo e la millenaria riflessione buddhista. Il buddhismo è fin dall’inizio lì dove l’Occidente è sospinto dalla sua vis critica: un mondo fatto di relazioni più che di sostanze, una rete di connessioni che non impiglia, ma libera.

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Il santo, la strega e l’angelo della storia

Se andate in Piazza del Campo, a Siena, fermatevi un attimo proprio davanti al Palazzo Pubblico. Guardate a terra. Una mattonella ricorda il luogo esatto in cui San Bernardino vi predicò, nel 1427. Possiamo rivivere la scena grazie ad un quadro di Sano di Pietro, nel quale stranamente non c’è molta gente ad ascoltare il santo, anche se sappiamo che la sua predicazione fu un grande evento, e fu scelta Piazza del Campo perché nessuna chiesa avrebbe potuto contenere la gente accorsa. Il santo è su un pulpito in legno; gli ascoltatori, inginocchiati – i maschi rigorosamente separati dalle femmine da un telone rosso – non sono più di qualche decina. Nel quadro di Sano di Pietro San Bernardino mostra agli ascoltatori il trigramma raffigurato su una tavola di legno, come era solito fare durante le sue prediche (e un trigramma, lavoro dell’orafo senese Tuccio di Sano, fa bella mostra di sé anche sulla facciata del Palazzo Pubblico). Ma sappiamo anche cosa disse, in quelle prediche, grazie al lavoro umile di un cimatore di panni, Benedetto di Bartolomeo, che usò per trascrivere con grande fedeltà le prediche del santo un misterioso metodo di scrittura rapida su tavolette di cera di sua invenzione.[read more]

È il 21 settembre. Domenica. Il santo parla dei peccati capitali. La superbia, la lussuria, l’avarizia. Il discorso – lungo, pesante, violento, come si conviene a una predica – si fissa presto sul Diavolo. E su coloro che, con l’aiuto del Diavolo, praticano incantesimi. Che fare con loro? Il santo non ha dubbi: “Non vi so meglio dire: ‘al fuoco, al fuoco, al fuoco’. Oimmè! O non sapete voi quello che si fece a Roma mentre che io vi predicai? O non potrei fare che così si facesse anco qui? Doh, facciamo un poco d’oncenso a Domenedio qui a Siena!” [1] Quali imprese aveva compiuto a Roma il santo? Lo dice lui stesso: “E come io ebbi predicato, furono acusate una moltitudine di streghe e di incantatori.” [2] Aveva chiesto morte ed aveva ottenuto morte. Ora a Siena chiede lo stesso. Chiede che si uccida in suo nome, per la maggior gloria di Dio. Chiede che si brucino degli esseri umani per fare un po’ di incenso a Dio.
Lasciamo Piazza del Campo e spostiamoci in Porta Camollia. È la porta più suggestiva di Siena, con quella scritta – “Cor magis tibi Siena pandit”: Siena ti apre un cuore più grande – che piacerebbe leggere sulla porta di ingresso di qualsiasi città. Siamo nel 1540. È l’8 giugno. Al prato di Camollia viene condotta una donna. Viene strangolata, poi il suo corpo è dato alle fiamme. La donna si chama Lucia di Pienza, ed è stata condannata a morte per stregoneria, con l’accusa di aver “guasto” molti bambini e di essersi accoppiata più volte con il Diavolo. Due mesi più tardi vengono impiccate e bruciate altre quattro donne, con la stessa accusa. [3] Donne che diventano incenso per Dio. I sacrifici umani del cristianesimo.
Siamo in tempi in cui si abbattono le statue – e se non è possibile abbatterle, si imbrattano. Mi dispiacerebbe se qualcuno ora imbrattasse quella mattonella, che ricorda un santo, ma anche un uomo che chiede di uccidere delle persone (per lo più donne) in onore di Dio. Mi piacerebbe piuttosto che ci fosse in Camollia una targa per ricordare la povera Lucia di Pienza. O una mattonella piccola, poco invadente, che avvisi il turista non troppo distratto del punto in cui, in Piazza del Campo, tredici ebrei furono bruciati vivi da una banda inneggiante alla Madonna. Era il 28 giugno del 1799. Ma mi piacerebbe, soprattutto, che ci fosse una diversa sensibilità storica, in particolare a scuola.
Historein in greco significa investigare, esaminare, osservare. Mi pare di poter dire: considerare la complessità delle cose. Provare a dipanare l’intrico delle faccende umane, senza però semplificare mai, ugualmente attenti alle luci ed alle ombre. La storia che abbiamo incontrato sui banchi di scuola, e che continuano a incontrare i nostri studenti, è molto lontana da questa ermeneutica della complessità. È la storia dei grandi uomini e dei grandi eventi: battaglie, trattati, regni ed imperi, re e regine.
È nota l’interpretazione che Walter Benjamin ha dato del quadro di Paul Klee Angelus Novus nelle sue Tesi di filosofia della storia. L’angelo di Klee è, per lui, l’angelo della storia. “Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta” [4]. Sarei insincero se dicessi di aver compreso questo passo, ma avverto il fascino dell’immagine. Se dovessi figurarmi un angelo della storia, le sue fattezze richiamerebbero però quelle dell’Angelo caduto: il Diavolo. E il suo sguardo si fermerebbe sulla povera Lucia di Pienza, probabilmente colpevole di nulla, e su Giulio Cesare Vanini, come lei strangolato e dato alle fiamme con l’accusa di ateismo, e su Anania e Saffira, e su Ipazia, e sugli albigesi massacrati a Béziers, e sui neri ridotti in schiavitù, e sui poveri sempre umiliati, sfruttati, massacrati, e su David Lazzaretti, stroncato dagli spari dei carabinieri, Rocco Girasole, ucciso dalla polizia mentre reclamava pacificamente pane e lavoro, eccetera. Il suo sguardo compassionevole considererebbe le moltitudini schiacciate dal procedere violento della storia, di cui lui, l’Anti-Dio, l’Angelo caduto, è il simbolo. Perché se si considera quella cosa che chiamiamo storia – che sta appena nascendo: ha qualche migliaio di anni, appena un attimo nella vita di una specie vivente – la cosa che più colpisce è la violenza cieca che la percorre. E lo studio della storia mi sembra un esercizio di pietà umana. È lo studio, l’indagine, la pratica dell’attenzione che, in quel quadro terribile, coglie ciò che è costretto fuori dalla scena, ascolta le voci ridotte al silenzio – come quelle delle streghe, che affiorano qua e là nei documenti dei processi – e ricostruisce la molteplicità delle vie, la pluralità delle tradizioni alle quali apparteniamo. Questa pratica di pietà, di giustizia e di attenzione è il lavoro urgente che spetta alle scuole, ben oltre il rituale ormai stucchevole delle giornate della memoria o del ricordo.

Note
[1] Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, a cura di Carlo Delcorno, Rusconi, Milano 1989, vol. II, pp. 1006-1007.
[2] Ivi, p. 1007.
[3] D. Corsi, Diaboliche maledette e disperate. Le donne nei processi per stregoneria (secoli XIV-XVI), Firenze University Press, Firenze 2013, p. 83.
[4] W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1961, p. 80.

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La scuola salvata dagli smartphone

Nella prima metà degli anni Novanta presi, con la massima determinazione, una posizione che ancora oggi è oggetto di ironia nella mia famiglia: “Non mi vedrete mai con quel coso”. Quel coso era il telefono cellulare. In quegli anni erano davvero pochi ad averli, e chi lo aveva lo ostentava come status symbol, segno dell’ingresso in una ristretta cerchia di gente benestante e al passo con i tempi. I cellulari erano oggetti ingombranti, che fanno tenerezza se confrontati con gli smartphone attuali, e chi li usava era spesso costretto a contorsioni imbarazzanti per intercettare il campo. Nel ’98 insegnavo italiano in una scuola media. In una terza quasi tutti gli studenti avevano il telefono cellulare. Lo tenevano poggiato in bella mostra sul banco, in alto a destra, come qualcosa che non potevano sottrarre allo sguardo nemmeno per un istante. Mi sembrava una ostentazione che non faceva ben sperare sulle nuove generazioni, e lo stesso pareva ai miei colleghi.
Ho preso il primo cellulare sul finire degli anni Novanta, per ragioni affettive: una persona cui tenevo si era trasferita in un’altra città e mi aveva fatto capire che con il cellulare sarebbe stato più facile sentirci, anche via sms. Presi un Siemens C25, un oggettino compatto, piacevole da maneggiare. Scoprii che mi piaceva, per quanto ci si potesse far poco: telefonare, mandare sms, giocare a Snake.[read more]

Non so dire quanti telefoni cellulari ho cambiato da allora. Ma sono molti. Non ho mai speso troppo, mi sono tenuto lontano dai cosiddetti top di gamma e dalle marche più costose, ma ho sempre cercato dispositivi che mi permettessero di sfruttare tutte le possibilità della tecnologia. Oggi con il mio smartphone faccio le seguenti cose: leggo libri e giornali (nazionali ed internazionali, che leggo gratis grazie ad un servizio della biblioteca della mia città), studio le lingue (al momento sto rinfrescando il mio tedesco e studiando un po’ di giapponese: le app hanno scalzato pienamente i libri nello studio delle lingue), guardo documentari e film, ascolto musica, seguo corsi universitari gratuiti (con Coursera), gestisco le mie classi virtuali e preparo materiali didattici, suono la chitarra seguendo uno spartito che scorre sullo schermo, medito usando un timer apposito con una campana, leggo la posta… Potrei continuare a lungo. Quando mi capita di imbattermi nella diffusa e facile ironia sul fatto che una volta sull’autobous ti imbattevi in gente che leggeva il giornale mentre oggi sono tutti chini sugli smartphone, non posso fare a meno di obiettare che magari stanno usando lo smartphone per leggere. Oppure – è quello che ho fatto io fino a quando è stato possibile prendere gli autobus – per ascoltare Bach.
Abbiamo demonizzato il cellulare quando era una cosa da ricchi, quando sapeva di yuppie fuori tempo massimo, e forse avevamo ragione. Poi il cellulare si è trasformato in smartphone, un dispositivo semplicemente straordinario, che offre possibilità di conoscenza, di esperienza, di scambio prima nemmeno pensabili, e abbiamo continuato con la nostra demonizzazione. Mi riferisco soprattutto alla scuola. Lo smartphone era la fonte di distrazione suprema e come tale bisognava vietarlo, non prima di aver gettato un po’ di disprezzo sullo strumento e su chi ne fa uso. Solo pochi si sono accorti che poteva essere uno strumento didattico. Poi è arrivato il lockdown. Le scuole sono state chiuse, e con la chiusura delle scuole sono saltate anche tante certezze che sorreggevano la nostra prassi didattica.
Ci raccontiamo che la scuola continua, in forma diversa, grazie ai computer. E quando non ci sono, mandiamo i computer scolastici, o diamo un sostegno economico – immagino insufficiente – per colmare il gap tecnologico. Non ci rendiamo conto che non sono i computer che stanno salvando la scuola in questo momento. E non solo perché non in tutte le case ci sono i computer. E nemmeno perché in molte famiglie c’è un computer e ci sono tre figli che vanno a scuola (e magari il computer serve anche ai genitori). Quello che sta salvando oggi la scuola, che ci sta consentendo di continuare in qualche modo a far lezione, a seguire i nostri studenti, a continuare il dialogo, è il tanto demonizzato smartphone. Se noi adulti continuiamo a percepire lo smartphone come un bene di lusso, memori delle scene degli esordi, i ragazzi sanno che si tratta invece di un bene di necessità: e per questo è difficile che manchi uno smartphone anche nelle famiglie più povere, nelle quali i computer non sono mai entrati. Ed è, di fatto, un bene di prima necessità. Oggi la realtà si è sdoppiata, accanto a quella che tocchiamo con i sensi c’è la realtà parallela dei social network e della condivisione informatica. Essere fuori da questa realtà parallela significa vivere una realtà sociale dimezzata. E non solo per i ragazzi: la stessa politica oggi si fa sui social network. Se alla realtà quotidiana si accede attraverso i sensi, alla realtà parallela si accede attraverso un nuovo senso tecnologico: e tale è, e sta diventando sempre più, lo smartphone. Qualcosa di più di un semplice strumento. Un senso aggiunto. Un sesto senso. Bisogna tenerne conto anche sul piano politico, perché è sempre più evidente che l’accesso alla rete Internet ed alla tecnologia sono oggi fondamentali per il pieno esercizio degli stessi diritti di cittadinanza. Ma bisognerà tenerne conto anche a scuola, quando sarà possibile tornare nelle aule e, guardandoci in faccia, ci troveremo di fronte ad una scelta: continuare la vecchia, consolidata narrazione, o costruire un discorso nuovo, liberarci dai pregiudizi, avere il coraggio del cambiamento.

Gli Stati Generali, 24 aprile 2020.[/read]

Quella distanza che rende la scuola più vicina

I problemi, le difficoltà, i rischi della chiusura – non si sa fino a quando – della scuola sono evidenti: primo fra tutti la possibilità concreta che chi è già indietro resti ancora più indietro, a causa del divario culturale, cui si aggiunge ora, spesso, il divario digitale. Un piccolo studente che abbia difficoltà legate alla motivazione, con alle spalle una famiglia che non lo supporta, rischia di perdere anche l’incoraggiamento e il sostegno della comunità scolastica (quando c’è: cosa che non è purtroppo scontata). E può essere che la mancanza di computer o di una stabile connessione alla rete Internet finisca per aggravare il quadro.
Vorrei però ragionare anche sulle opportunità di questa fase così difficile. Procederò per punti.
1. Nuove modalità relazionali. Sono fortemente convinto che il principale problema della scuola italiana vada individuato nella relazione tra docenti e studenti. La scuola nasce come istituzione autoritaria, asimmetrica, disciplinare e tendenzialmente totalizzante. E’ una istituzione di potere, che promette di creare delle soggettività solo dopo un lungo assoggettamento, per dirla alla Foucault. Altrove i sistemi scolastici sono riusciti a fare i conti con questo passato autoritario ed a staccarsi da una modalità relazionale che ha poco a che fare con l’apprendimento. L’Italia no. Benché nella percezione di molti la causa della crisi attuale della scuola vada ricercata in un lassismo che si fa risalire all’influenza nefasta del Sessantotto, in realtà la scuola persiste nel suo delirio unidirezionale. Il docente fa lezione dalla cattedra, gli studenti sono nei loro banchi in fila, il sapere si trasmette dall’uno agli altri.[read more]

Ora, l’irruzione della distanza fa saltare il gioco. Quei docenti che persistono nel guardare le classi dall’alto della pedana sotto la cattedra (sì: in Italia persistono le pedane sotto le cattedre) dovranno adesso accontentarsi di mettere le pedane sotto le scrivanie. O sotto la webcam, se preferiscono. Il docente collegato in videoconferenza con la sua classe diventa, che lo voglia o no, quello che dovrebbe essere: una persona al servizio dei suoi studenti, pagata dallo Stato per favorire i loro apprendimenti. Tutto l’apparato di controllo, tutto il setting che sostiene e giustifica il suo potere, è venuto a crollare. Nessuno chiederà il permesso per andare in bagno. Lo studente è a casa sua, il docente entra nella sua cameretta, nel salotto, nella cucina a volte. E dovrà farlo necessariamente in punta di piedi. Paradossi di questo tempo sospeso: la didattica a distanza annulla la distanza.
2. Riflessione sulla valutazione. La domanda più pressante, in questi giorni, è: come valutare? Il sottinteso è: come essere certi che non copino? C’è dietro questa domanda la paura di perdere anche l’ultimo strumento di potere, il voto. Che dovrebbe solo servire ad aiutare lo studente a monitorare il suo percorso di apprendimento, ma in un sistema autoritario diventa uno strumento di potere e di manipolazione per gli uni, il fine reale del lavoro per gli altri. A meno che non si voglia interrogare lo studente in videoconferenza avendo cura che sia bendato, l’unico modo per valutare in questo periodo è concentrarsi sulle competenze. Non chiedere allo studente di ripetere quello che c’è sul libro, o che il docente ha detto a lezione, ma proporre delle attività dalle quali emerga la rielaborazione personale, la capacità di applicare le conoscenze, la creatività. Inutile fare la classica interrogazione sul pensiero di Nietzsche; chiedere piuttosto di scrivere soggetto e un pezzo di sceneggiatura di un film nicciano (che si leghi cioè, anche in modo critico, a qualcuno dei temi di fondo del suo pensiero). Ma concentrarsi sulla competenza è quello che bisognerebbe fare sempre, a scuola, per evitare il vuoto nozionismo, la penosa simulazione del sapere.
3. I gruppi. Un lavoro come quest’ultimo potrebbe essere troppo difficile per il singolo studente. Meglio proporlo come lavoro di gruppo. Ed è questa, forse, la principale opportunità di questo periodo. Il lavoro di gruppo a scuola – nella scuola italiana – è da sempre marginale. Lo è anche per l’ossessione docimologica: come valutarlo? come impedire che il lavativo di turno si avvantaggi del lavoro degli altri? Gli strumenti che utilizziamo in questi giorni sono nati spesso per favorire il lavoro nelle aziende. E’ il caso di Teams, strumento centrale di Microsoft Office 365 Education A1, tra le piattaforme raccomandate dal Miur. Penso tutto il male possibile di questa raccomandazione di servizi proprietari, quando sono disponibili alternative open source, e mi chiedo anche perché il Ministero non abbia approntato mai una sua piattaforma per l’apprendimento aperta, gratuita, con alle spalle una solida visione pedagogica. Cerco però di vedere il buono anche nelle cose che non mi piacciono, soprattutto quando sono cose che devo usare per lavoro. Teams funziona bene, come dice il suo nome, per il lavoro di gruppo. Usare strumenti come questo per continuare la didattica unidirezionale è sciocco. E’ bene che finalmente i nostri studenti imparino a coordinarsi, condividere le informazioni, dividersi i compiti, costruire l’intelligenza collettiva.
4. La scuola e l’altrove. La scuola pensa sé stessa come una cittadella del sapere. Un mondo chiuso nel quale c’è il sapere vero, autentico, certificato (con qualche eccezione: i voti scolastici in inglese o francese non certificano nulla di per sé; “conoscenza scolastica” nel curriculum in questo caso non fa fare una grande figura), autorevole. Fuori è tutto dilettantismo. La chiusura della scuola come luogo fisico abbatte questa barriera mentale. Il docente che fa lezione in videoconferenza ha come strumento il suo computer. Potrà usare, sul suo computer, il libro di testo. Ma potrà anche esplorare la rete insieme ai suoi studenti. La classe, di fatto, diventa questo: un ambiente di apprendimento connesso alla rete, e dunque parte di un più grande sistema informativo, che può essere un pericolo (ah, la privacy), ma anche una straordinaria risorsa.
La scuola a distanza, dispersa apparentemente nelle singole abitazioni dei docenti e degli studenti, può tentare nuove relazioni, nuove connessioni, nuove modalità di ricerca. Essere, forse, più vicina che mai.

Gli Stati Generali, 24 marzo 2020.[/read]

I limiti del controllo

Qualche settimana fa uno studente mi ha fatto una domanda cui non è facile rispondere. Avevo letto in classe alcune pagine de Il futuro della democrazia di Norberto Bobbio, un libro del 1984 per molti versi ancora molto attuale. Nel primo capitolo Bobbio ragionava delle “promesse non mantenute” della democrazia. Tra le altre, la persistenza delle oligarchie, di ambiti in cui si esercita il potere in modo non democratico (e molto c’è da riflettere, oggi, sui social network), di forme di potere che si sottraggono al controllo (un controllo, osservata Bobbio, “tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, è praticamente illimitato”), la mancanza di una educazione del cittadino, l’incapacità di uno Stato democratico di rispondere alle richieste sempre più numerose che provengono dalla società civile.
La domanda dunque era: come possiamo dimostrare che la democrazia sia in assoluto il miglior sistema di governo? Si trattava di una lezione di Scienze Umane, e studiando antropologia gli studenti già al terzo anno imparano cos’è il relativismo culturale. Se ogni cultura ha i suoi valori, come possiamo sostenere il valore transculturale della democrazia? Continue reading “I limiti del controllo”

Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)

In questo periodo di grave difficoltà per la scuola pubblica, pare segno di grande responsabilità e generosità che aziende piccole, grandi e grandissime abbiano messo a disposizione gratuitamente i loro servizi. Prime fra tutte, le multinazionali dell’informazione per eccellenza: Google e Microsoft. Google Suite for Education e Office 365 Education A1 fanno bella mostra di sé nella pagina del Miur dedicata alla didattica a distanza, quali piattaforme raccomandate; e di fatto, grazie a questo endorsement ministeriale, sono le piattaforme più usate dalle scuole in questo periodo. Il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione e l’Agenzia per l’Italia Digitale hanno poi promosso Solidarietà digitale, una pagina con il lungo elenco di aziende ed associazioni che mettono gratuitamente a disposizione i loro servizi: si va dall’immancabile Amazon ai gestori di telefonia fino alla aziende di trasporti che offre corse gratuite, una offerta poco comprensibile in un periodo di immobilità coatta.
Bisogna essere molto ingenui per non vedere dietro questa generosità la realizzazione di un sogno: quello di conquistare il lucroso settore della scuola pubblica, rendendo i propri servizi indispensabili per la didattica ed acquisendo i dati personali di migliaia, possibilmente milioni di studenti e docenti. Chi scrive ha conseguito un attestato di Docente esperto in tecnologie informatiche non meno di vent’anni fa. All’epoca per essere esperti di tecnologie informatiche bastava saper usare Microsoft Office; e l’attestato giunse proprio alla fine di un corso a distanza (naturalmente gratuito) di Microsoft, accompagnato e completato dal dono generoso di una copia gratuita della suite Office. La logica è quella commerciale del cavallo di Troia: si offre un servizio gratis, si entra nella scuola pubblica e si conquista il mercato dell’insegnamento. Continue reading “Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)”

Facciamo una scuola difficile

Uno studente che provenga dal ceto proletario si trova ad affrontare difficoltà che per lo studente borghese sono difficili anche da immaginare. La più grande, spesso insormontabile, è la differenza culturale: perché la cultura scolastica è la cultura elaborata nei secoli dal ceto nobiliare e poi da quello borghese, una cultura che esprime una visione del mondo che è diversa, diversissima da quella proletaria; una costellazione di valori altra, nella quale lo studente proletario non è a casa. E si trova di fronte a una scelta dolorosissima: abitare quella nuova casa e diventare un estraneo per il suo ambiente o rifugiarsi nel suo ambiente e disertare la nuova, improbabile casa. Spesso è questa seconda, la sua scelta, ed è tra le cause principali della dispersione scolastica. C’è poi la lingua. Il nostro studente proletario ha un codice ristretto, direbbe Basil Bernstein. Ha un codice diverso, direbbe qualche altro. Certo parla una lingua che non è quella scolastica. Un proletario foggiano ha termini estremamente precisi per indicare, che so, l’acqua di cottura della pasta o le briciole di polistirolo, ma non ha un lessico astratto o adatto alla complessità del mondo emotivo e sentimentale (quel mondo che si esprime nella poesia e nella letteratura): nella sua lingua non esiste nemmeno un modo per dire “ti amo”. C’è poi – lo diceva Gramsci, e l’aveva vissuto sulla sua pelle – l’attitudine a quel tipo particolare di fatica che è il lavoro intellettuale, che può essere piacevole e anche gioioso, ma resta un lavoro, e per lo studente proletario è un lavoro strano, diverso dal lavoro di suo padre e di suo nonno. Continue reading “Facciamo una scuola difficile”

La verità dell’annegato

La verità è reazionaria, l’interpretazione è rivoluzionaria. Questo, in sintesi estrema, è il messaggio che Gianni Vattimo affida a Essere e dintorni (La nave di Teseo, Milano 2018). Per chi, come chi scrive, si è formato filosoficamente tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, Vattimo è stato un maestro; attraverso di lui abbiamo letto Nietzsche e Gadamer, grazie ai suoi scritti siamo riusciti perfino ad entusiasmarci per Heidegger, prima che Franco Cassano ci richiamasse alla civiltà del mare contro l’ossessione heideggeriana per il bosco (Il pensiero meridiano, 1996: un libro che merita di essere riletto e rimeditato con attenzione). Ma, per quanto faccia piacere che giunga a pensarsi perfino come anarchico (gli anarchici non sono mai abbastanza), si fatica davvero a seguirlo.

Abbiamo, dice, una società neoliberista che si presenta come l’unica possibile, come la forma stessa che la realtà assume oggi, una cornice alla quale non è possibile sottrarsi, e che è anzi talmente solida da scomparire anche come cornice. Quale filosofia corrisponde a questo sistema? Il realismo, la filosofia che afferma che le cose sono come sono, e che dunque giustifica il fatto che queste cose siano come sono. Lo dimostra, per Vattimo, il fatto che George W. Bush anni fa abbia dato qualche riconoscimento al nuovo realismo di John Searle: che non è un grande argomento, per un filosofo. Ed ecco, se questa verità – la realtà esiste, ed è quella in cui siamo – è funzionale al capitalismo, l’affermazione che la verità non esiste, che esistono solo interpretazioni (che è quello che sostiene l’ermeneutica), sarà rivoluzionaria. Vattimo si spinge perfino a parlare di una “vocazione terroristica dell’ermeneutica” (p. 74), ed il lettore non può fare a meno di sorridere, o si piegare il labbro amaramente. Perché questa presunta anarchia ermeneutica Vattimo pretende di fondarla non solo su Gadamer, che era un brav’uomo borghese e conservatore, ma anche su Heidegger, che invece era un nazista e un antisemita. In tutto il libro avvertiamo la fatica, il fiato grosso, lo stridore di unghie di un Vattimo che cerca di dimostrare che no, Heidegger non era davvero nazista, cioè era nazista ma dietro c’era qualcosa che va meditato, e sì, era antisemita, però in fondo Israele… Fino all’affermazione che il filosofo di Messkirch “alla luce di ciò che sappiamo oggi” avrebbe potuto e dovuto “puntare sulla rivoluzione comunista” (p. 383): e tu non puoi fare a meno di annotare a margine che se tuo nonno avesse avuto le ruote, sarebbe stato una carriola. Su Heidegger aveva ragione Cassano. Non era un teorico del nazismo (il suo rapporto con il nazismo non è paragonabile a quello di Gentile con il fascismo); era un filosofo in cui sono giunte a maturazione (meglio sarebbe dire: sono marcite) diverse linee ideali che hanno costituito la matrice del nazismo: il rifiuto del mondo moderno, l’evocazione della natura, dell’originario (si può misurare il tasso di nazismo di un testo tedesco considerando la ricorrenza del prefisso Ur-), la condanna della conoscenza scientifica e della tecnica. I motivi ideali che facevano tenerezza nei Wandervoegel e che creeranno l’orrore qualche decennio dopo. Heidegger non ha da dirci nulla più di un René Guenon o di un Julius Evola. Cioè: non ha nulla da dirci, tout court. Non, almeno, a sinistra. Non sorprende che, dopo aver ispirato Ahmad Fardid, tra i principali pensatori della rivoluzione iraniana, oggi faccia battere forte il cuore ad Alexandr Dugin, il filosofo del sovranismo, che riesce perfino a riprendere il Geviert, la più colossale stronzata heideggeriana.
Quanto alla faccenda della verità, mi pare che Vattimo si sbagli. Il capitalismo avanzato non ha alcun bisogno della verità, e meno che mai del realismo vecchio o nuovo. Nel sistema in cui siamo la verità è stata soppiantata da un sistema di rimandi, da una significazione universale priva di qualsiasi significato, da un caleidoscopio di immagini che non hanno più alcun peso simbolico, ma che con il loro potere di seduzione costituiscono la forma stessa della realtà. Detto altrimenti: siamo nella società dello spettacolo, come aveva capito Guy Debord. E nella società dello spettacolo nulla è vero. Tutto è immagine, e in quanto immagine, è spettacolo. Ciò che non può esistere come spettacolo semplicemente non esiste. E’ questa la tragedia che viviamo, anche politicamente.
Consideriamo chi muore in mare nel tentativo di raggiungere un approdo negato. Se c’è un reale sul quale possiamo e dobbiamo fondare la politica, oggi, esso è l’annegamento di questo uomo, di questa donna, di questo bambino. Ma è reale? Quale realtà ha quella morte? Sappiamo il numero dei morti. E’ un numero impressionante. Ma lo sappiamo davvero? Se lo sapessimo davvero, se quello per noi fosse un reale, non potremmo continuare con le nostre vite. Quella morte è una interpretazione. Può essere che sia vera, può essere che non sia vera. E quando ci giunge la foto di un bambino con la maglia rossa annegata sulla spiaggia, non abbiamo l’irruzione del reale: abbiamo lo spettacolo. Pubblicata dai giornali, condivisa sui social network, vista su milioni di schermi, quella tragedia finisce per essere digerita dal sistema delle immagini, che non sarebbe tale – non sarebbe un sistema – se non avesse il potere di assorbire anche ciò che è tragico e doloroso.
In Realismo capitalista Mark Fischer parte dallo stesso assunto di Vattimo – il capitalismo è oggi la forma stessa della realtà – ma giunge a conclusioni opposte. Per combattere il capitalismo abbiamo bisogno, diceva Fischer, di reali, di ciò che il capitalismo rimuove e reprime. Tale era, per lui, la catastrofe ambientale, tale era la depressione, tale era la burocrazia. Si potrebbe aggiungere che tale è, oggi, la morte in mare di chi cerca salvezza. La fine della natura, la nostra maledetta sofferenza ed alienazione (sulla quale il Carlo Michelstaedter de La persuasione e la rettorica ha da dirci molto di più del primo Heidegger di Essere e tempo), la morte in mare sono tre reali che urgono farsi verità. E come possano trovare, farsi verità in un sistema che riduce tutto a spettacolo è forse il principale problema filosofico del nostro tempo.

Gli Stati Generali, 23 luglio 2019.

Come eliminare la bocciatura e vivere felici

Dopo la pubblicazione del mio articolo sull’orale dell’esame di Stato qualcuno si è chiesto come sia possibile che uno studente giunga agli esami finali senza saper risolvere un limite. Provo a spiegarlo. Il nostro studente, che chiameremo Taldeitali, giunge allo scrutinio finale del primo anno di liceo con una sola insufficienza, grave, in matematica; nelle altre discipline ha sufficienza piena, e anche qualche otto. Che si fa? Promosso con giudizio sospeso: dovrà recuperare matematica. Dopo due mesi lo studente si presenta all’esame di riparazione e, come è prevedibile, non ne sa più di prima. Allora? I casi sono due: o il docente di matematica, che due mesi prima era rigoroso, ora diventa improvvisamente malleabile e si fa bastare quel poco che lo studente sa, o resta irremovibile e il consiglio di classe, valutando complessivamente i risultati dello studente, decide comunque di ammetterlo alla classe successiva. Il nostro Taldeitali affronterà dunque il secondo anno di liceo con basi traballanti in matematica, e rimedierà con ogni probabilità una seconda insufficienza, che sarà sanata allo stesso modo. E così per tutti gli anni di liceo, fino a giungere agli esami di Stato senza sapere molto della disciplina.
È evidente che c’è una falla nel sistema (una tra le tante). Respingere peraltro uno studente per una disciplina significa condannarlo a ripetere, l’anno successivo, tutte le discipline nelle quali ha raggiunto la piena sufficienza, solo per recuperarne una. Un assurdo evidente. A dire il vero non è meno assurdo che lo si faccia per tre discipline; anche in questo caso lo studente dovrà ripetere dieci discipline nelle quali ha raggiunto la sufficienza: vale a dire decine e decine di argomenti che già conosce. Uno spreco umano, intellettuale ma anche economico, perché un anno di scuola costa allo Stato intorno ai settemila euro all’anno. E se lo studente è bocciato, quei settemila euro sono soldi buttati. Continue reading “Come eliminare la bocciatura e vivere felici”

Oui, je suis John Dewey

A chi scrive capita di controllare l’accoglienza dei propri libri, sia presso i lettori (quante copie vendute?) che presso gli addetti ai lavori. Ci si imbatte così in citazioni, riprese, qualche elogio e qualche critica. Se sensata, la critica fa anche più piacere dell’elogio, perché vuol dire che le cose scritte non sono banali e danno da pensare. Una cosa meno frequente, per fortuna, è che qualcuno ti critichi, anche aspramente, ma prendendoti per un altro. E che altro!
Tempo fa ho cominciato a lavorare ad un manuale on-line di pedagogia, che poi è confluito nel progetto di divulgazione delle scienze umane Discorso Comune. Avevo scritto, tra l’altro, un capitolo sul grande filosofo e pedagogista americano John Dewey, completandolo con una scelta di testi. Ora, nel volume Sulle orme di Athena (Libreria universitaria, Padova 2016) Aldo Rizza cita diversi passi di quella piccola antologia deweyana, ma per una svista particolarmente curiosa li attribuisce a me. E, cosa ancor più curiosa, li critica passo dopo passo, parola per parola. Nel bel mezzo di una citazione di Dewey, ad esempio, annota: “Certo neppure il pragmatismo americano si spinge a dire tanto; si tratta di una estremizzazione superficiale di qualcosa che è certamente presente nel positivismo e nel pragmatismo, ma con più fine e accorta visione” (p. 338, nota). Dunque: Antonio Vigilante riprende e sviluppa il pensiero di Dewey, ma lo fa estremizzando in modo superficiale, con una visione più rozza. Peccato che tutti i testi che Aldo Rizza ha letto non siano miei, ma di John Dewey. Il quale, dunque, si trova ad essere più superficiale di sé stesso.

La cosa, è chiaro, fa ridere. E al tempo stesso riflettere. Qualche tempo fa Antonio Menna si è divertito a ipotizzare cosa sarebbe successo se Steve Jobs fosse nato a Napoli. L’esito, inutile dirlo, sarebbe stato catastrofico. Ora, il sottoscritto non corre alcun rischio di scrivere libri importanti quanto quelli di John Dewey. Facciamo però questa ipotesi: che nasca, in Italia, un filosofo della levatura di John Dewey. Ipotizziamo che questo filosofo non abbia voglia, per ragioni pienamente comprensibili, di sottoporsi al calvario della carriera accademica. Che non voglia, o non possa, fare per anni il portaborse, affrontare la trafila del dottorato, delle borse, degli assegni di ricerca eccetera; che abbia, poniamo, l’urgenza di lavorare, in mancanza di una famiglia che lo mantenga in attesa che l’accademia si accorga della sua grandezza. E’ una ipotesi tutt’altro che peregrina: se facessi l’elenco di tutti i giovani in gamba che hanno rinunciato alla carriera accademica perché le condizioni economiche famigliari non consentivano loro la condizione di portaborse (o perché – e forse più spesso – disgustati dalle logiche di selezione dei più capaci ) questo articolo diventerebbe troppo lungo. Ipotizziamo ancora che questo John Dewey italiano abbia però voglia, come succede, di continuare a pensare, studiare, scrivere. Quante possibilità avrebbe, in Italia, di essere letto con serietà? Temo che la risposta sia a pagina 338 del libro di Rizza.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

Esami di Stato, ovvero
come ti ridicolizzo lo studente

Si siede davanti alla commissione. Ha lo sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata. A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata. Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente. Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché mi fate questo? Continue reading “Esami di Stato, ovvero
come ti ridicolizzo lo studente”

Elogio della competenza: una replica

Perdonami, lettore: questo è uno di quegli articoli lunghi e un po’ noiosi che però non è possibile non scrivere. E’ una risposta a questo articolo polemico di Giovanni Carosotti, che a sua volta replica a questa mia recensione di un libro di Galli della Loggia. I toni di Carosotti sono antipaticissimi, ma farò finta di niente, per non farti perdere altro tempo. Per la stessa ragione sorvolerò anche su alcuni punti dell’articolo, non proprio sintetico, di Carosotti.

Una premessa. Ritengo che la scuola abbia bisogno di qualcosa di più radicale di una riforma burocratica. Sono convinto che essa sia una istituzione che ha un difetto di origine piuttosto serio: la violenza. Per secoli le aule scolastiche sono state luoghi in cui si è perpetrata una violenza anche fisica; oggi la scuola continua a portare il peso di questa tradizione. Ed è necessaria una cesura, netta. Cesura che per me passa principalmente attraverso un ripensamento della relazione tra insegnante e studente, che si configura ancora come relazione di potere (o meglio: di dominio).
Questa premessa è necessaria per spiegare ciò che a dire il vero dovrebbe essere di per sé evidente: perché considero il discorso di Ernesto Galli della Loggia reazionario. Ecco: io considero qualsiasi discorso sulla scuola che non ne metta radicalmente in discussione l’impianto autoritario, l’asimmetria, la comunicazione unidirezionale, il setting burocratico come un discorso reazionario e conservatore. Continue reading “Elogio della competenza: una replica”

La controeducazione sessuale

“Ha forma ovoide con l’asse maggiore dall’avanti all’indietro, ed è delimitata in basso dal perineo, lateralmente dalle cosce, in alto dall’addome. Comprende in alto, davanti alla sinfisi pubica, una sporgenza di tessuto cellulare e di grasso, detta monte di Venere”. E’ l’incipit poco rassicurante – il seguito è anche peggio – della voce “vulva” in una vecchia edizione dell’Enciclopedia Curcio. Voce scritta in piccolo, quasi sussurrata, e naturalmente non accompagnata da nessuna immagine. Chi trovandosi ad essere adolescente negli anni Ottanta avesse voluto farsi un’idea di come funziona il corpo femminile, dopo aver fatto questo inutile tentativo con la divulgazione scientifica non aveva che una alternativa: la pornografia. Una alternativa però terribilmente imbarazzante, ché si trattava di andare all’edicola con qualche amico e sussurrare: “Vorrei quello…” E l’edicolante si divertiva a rispondere a voce altissima: “Quale, quello porno?”

Oggi la pornografia è accessibile agli adolescenti fin da subito, la prima esposizione avviene spesso già a dieci anni. Difficile dire però se si tratti di un cambiamento in meglio o in peggio. Quello che resta quasi costante è l’atteggiamento della scuola. Se negli anni Ottanta il sesso a scuola era rigorosamente tabù oggi qualche scuola tenta progetti di educazione sessuale, nei quali però si avverte il più delle volte il peso si una concezione medicalizzata, centrata sulle precauzioni necessarie per evitare malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate. Che è un passo avanti rispetto alla tradizionale sessuofobia, ma trasmette comunque una visione negativa della sessualità; ciò che prima era peccato ora diventa un pericolo da cui guardarsi. E il piacere? La cosa cioè per la quale si fa l’amore? Ha poco a che fare con la scuola, da sempre. Luogo in cui si perpetravano violenze continue, anche fisiche – non bisogna mai dimenticare che la scuola è stata questo, per secoli, e che ogni volta che un docente entra in classe ha alle spalle questa tradizione violenta – oggi la scuola è il luogo del dovere, e dunque della noia. In una società nella quale la ricerca del piacere è ovunque, vero principio regolatore dell’economia e della società, la scuola crede, in buona fede o per semplice abitudine, di dover educare al dovere, al sacrificio, all’impegno. Le sfuggono un po’ di cose. Le sfugge che la pornografia sta intanto educando i ragazzi a una certa concezione della sessualità, centrata sulla performance, mentre i mass media e Instagram presentano ossessivamente corpi levigati, scolpiti, privi della minima imperfezione. Gli adolescenti cercano di costruirsi un percorso tra il silenzio imbarazzato degli adulti e il chiasso del mercato del sesso, ma spesso è difficile.
Making of Love è il progetto coraggioso di quattro ragazze e quattro ragazzi che stanno lavorando ad un film da portare nelle scuole per fare educazione sessuale in modo diverso. “Creeremo un immaginario per i ragazzi diverso da quello del porno, perché è lì che oggi si impara a fare l’amore”, si legge nel Manifesto. Qualcuno obietterà che sì, è sbagliato imparare a fare l’amore su Internet, guardando film porno, ma l’alternativa non può essere la scuola: a fare l’amore si impara dalla vita. Può essere. Ma a scuola è importante che si imparino diverse cose che la vita, qualunque cosa si intenda con questo termine, può non insegnare. Ad esempio, ad accettare il proprio corpo con le sue imperfezioni reali o immaginarie (e chi insegna sa quanto è urgente un lavoro simile), a riconoscere che esistono forme diverse di sessualità, compresa la masturbazione, e liberarsi dall’idea che esistano cose sporche. Se davvero le scuole riuscissero a fare un lavoro in questa direzione, in futuro forse sarebbe meno grande, meno doloroso, lo scarto tra la sessualità che pratichiamo e la sessualità che raccontiamo.
Dietro il progetto, che è indipendente e si finanzia grazie ad una campagna di crowdfunding, c’è la riflessione di Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione all’università di Milano Bicocca, il cui Piccolo manuale di controeducazione è uno dei testi più vivi della pedagogia italiana contemporanea. Nel pensiero di Mottana, nella sua proposta di una controeducazione e di una educazione diffusa, si concentra il meglio della pedagogia e filosofia libertaria, da Fourier a Illich. In questi ragazzi a prevalere è piuttosto l’urgenza di diventare protagonisti di un momento importante nella formazione della loro generazione, sottraendo l’educazione sessuale tanto alla freddezza scientifica quanto al moralismo aperto o dissimulato degli insegnanti. Una urgenza che ad un’istituzione chiusa e autoreferenziale, quale è ancora la scuola, non può apparire che come una provocazione e una sfida. E probabilmente lo è: ma è una provocazione necessaria.

Gli Stati Generali, 23 giugno 2019.

Il nuovo esame di Stato
e i sogni del signor Miur

Il pianista sorride al pubblico, si accomoda davanti alla tastiera, si raccoglie un attimo e poi attacca con notturno di Chopin. Va avanti per qualche minuto, la sala è già quasi presa dall’intensità di quella musica, quando all’improvviso smette di suonare e sembra porsi in ascolto, con l’espressione sicura di chi sa cosa sta facendo. Il pubblico è perplesso. Qualcuno più scaltro, o meglio informato, avverte: sta suonando 4′ 33” di John Cage. Il pubblico annuisce, è ora ammirato da una così ardita evoluzione. Dopo quattro minuti e trentatré secondi il pianista posa nuovamente le mani sulla tastiera ed attacca un blues, per proseguire con la sigla dei Puffi e concludere, con l’aria trionfale, con Tanti auguri a te. Il pubblico è in delirio.
Ecco, fino allo scorso anno l’orale dell’esame di Stato funzionava più o meno così. Lo studente preparava il percorso o la tesina, una rete surreale di link tenuti insieme da un tema centrale, che nelle varie ramificazioni si smarriva miseramente, ma funzionava ottimamente come pretesto per scegliersi una parte significativa delle domande dell’esame. Ed era divertente assistere alle evoluzioni che portavano dal male di vivere (il tema più gettonato in assoluto) al sistema muscolare, da Schopenhauer alle derivate. Continue reading “Il nuovo esame di Stato
e i sogni del signor Miur”

Davide Marasco: fu accanimento terapeutico

Il 28 aprile 2008 è nato mio nipote Davide. Fu subito chiaro cose non erano andate granché bene. Con il passare delle ore i problemi presero forma in tre parole: sindrome di Potter. Non ne avevamo mai sentito parlare. Facemmo una ricerca in rete, e la tragedia si mostrò in tutta la sua crudezza. La sindrome di Potter, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è incompatibile con la vita. “Prognosi costantemente infausta”: vuol dire che i bambini con sindrome di Potter muoiono. Sempre.
Davide non muore subito, però. Viene intubato ed i medici dell’ospedale di Foggia pensano di trasferirlo in altro ospedale per sottoporlo a dialisi in attesa di un improbabile (no: impossibile) trapianto di reni. Ma è necessario il consenso dei genitori, che comprensibilmente non arriva. Il dottor Magaldi si rivolge allora al Tribunale per i minorenni e chiede ed ottiene la sospensione della potestà genitoriale dei genitori di Davide, viene nominato tutor del bambino e ne dispone il trasferimento all’ospedale di Bari, dove viene sottoposto a dialisi. La vicenda diventa un caso che divide. Per alcuni si tratta di un provvedimento gravissimo, che priva due genitori dei loro diritti naturali per consentire a dei medici di mettere in pratica forme dolorose di accanimento terapeutico; per altri, è una legittima e doverosa difesa della vita. Il 30 maggio il Tribunale per i minorenni di Bari restituisce ai genitori la potestà genitoriale, con un provvedimento che suona come una beffa: i genitori saranno tenuti ad aderire a “tutte le indicazioni loro impartite, con l’avvertenza che in caso di inottemperanza potranno essere adottati nuovamente nei loro confronti provvedimenti limitativi della potestà genitoriale” (1). “Questa potestà genitoriale, nella decisione non c’è, è solo formalmente restituita ma sostanzialmente non c’è nessuno dei contenuti che caratterizzano la potestà genitoriale”, commentava il compianto Stefano Rodotà (2).

Dopo più di dieci anni la sentenza del Tribunale di Bari: quello su Davide Marasco fu accanimento terapeutico. I medici a processo – il dottor De Palo dell’ospedale di Bari oltre al citato Magaldi – si sono difesi sostenendo che la dialisi cui Davide è stato sottoposto era l’unica terapia salvavita possibile. Ma, obiettano i giudici, “alcuna terapia salvavita era concretamente prospettabile, visto che non si conoscono in letteratura casi di guarigione da una siffatta gravissima patologia mediante l’effettuazione del trapianto renale, sopravvenendo invece il decesso dei neonati affetti da tale patologia dopo pochi giorni dalla nascita. Né i convenuti sono stati in grado di confutare tale affermazione, ma si sono limitati ad invocare genericamente protocolli nazionali ed internazionali, senza meglio supportare l’affermazione con riferimenti a specifica letteratura scientifica”. Nei suoi quasi tre mesi di vita – morì il 18 luglio – Davide fu sottoposto ad intubazione, drenaggio pleurico, impianto di catetere venoso centrale, nuova intubazione orotracheale, predisposizione di accesso vascolare per dialisi, intervento chirurgico di cateterizzazione peritoneale, oltre a continui esami diagnostici. Subì perfino un assurdo intervento per risolvere una ritenzione dei testicoli. L’ho visto staccato dalle macchine, tra le braccia della madre, una sola volta: poco prima di morire.
La vicenda di mio nipote ha rappresentato per me uno spiraglio drammatico sullo stato dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Ho un perfezionamento universitario in bioetica, come filosofo so quanto siano diversi i punti di vista su temi come il fine vita e l’eutanasia, ma quella che nelle aule universitarie è diversità di opinioni nelle televisioni, sui giornali, nei social network diventa uno scontro feroce, disumano, terribile. Persone che stanno vivendo una tragedia difficile da comprendere dal di fuori diventano nemici pubblici da attaccare senza nessuna pietà, senza risparmiare nessuna arma, comprese la diffamazione, l’irrisione, l’insulto. Eccelle in questa pratica disgustosa l’allora parlamentare cattolico Luca Volontè (attualmente a processo per corruzione). Evidentemente Volontè non ha la minima idea di cosa sia la sindrome di Potter, scrive che “sino all’età di dieci anni Davide dovrà sottoporsi a dialisi e poi sarà trapiantato e starà benone”, mentre gli sarebbe bastato perdere cinque minuti in rete per sapere che non esiste al mondo un solo bambino di dieci anni con sindrome di Potter, perché muoiono tutti poco dopo la nascita. In preda ad un autentico delirio, Volontè accusa fin dal titolo i genitori di Davide di “incredibile cinismo”, di voler “accoppare” il figlio perché non è perfetto, evoca l’eugenetica nazista, i sacrifici umani al demone Balaal, e conclude. “Davide vivrà, lo ha deciso il tribunale e il medico se ne prenderà cura, sempreché i genitori non montino una campagna per il funerale del proprio figlio” (3). Ora un tribunale ha stabilito che le cose non sono andate propriamente così.
Su un caso delicato, difficile, complesso come quello di Davide è legittimo avere posizioni diverse. Gli sviluppi della scienza e della tecnica ci pongono di fronte di continuo a nuove domande, che mettono a dura prova le nostre convinzioni. Quello che non è, che non può essere legittimo è fare le guerre ideologiche sulla pelle di chi sta soffrendo. Affermare la (presunta) purezza dei propri principi rivendicandoli sul corpo martoriato di un neonato. Incitare al disprezzo ed all’odio verso chi vive tragedie personali. I medici sono stati condannati per accanimento terapeutico. Nessun tribunale condannerà invece questo disgustoso accanimento ideologico, questo penoso sciacallaggio fondamentalista che rappresenta un cancro della nostra vita civile e morale.

(1) Il provvedimento si trova ora in Storia di Davide. Consenso informato e accanimento terapeutico, I quaderni di Eleonora, Napoli 2009, pp. 47-48.
(2) Intervista a Micromega on-line, 7 giugno 2008; ora la trascrizione è disponibile in Storia di Davide, cit., pp. 51-52.
(3) L. Volontè, L’incredibile cinismo di quei genitori di Foggia, in Liberal, 30 maggio 2008; ora in Storia di Davide, cit., pp. 45-46. Alle pp. 49-50 la mia risposta di allora: L’incredibile cinismo dell’onorevole Luca Volontè.

Gli Stati Generali, 19 giugno 2019.

Quale discorso di sinistra
sulla scuola?

Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n’esca con l’affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E’ invece l’editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: “Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo”. Pensate un po’ che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l’idraulica, non l’entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell’educazione! Continue reading “Quale discorso di sinistra
sulla scuola?”

La Siena spenta e un po’ cafona del sindaco De Mossi

Cacio e Pere è uno dei pochissimi locali in cui a Siena si faccia musica dal vivo di qualità. O meglio: in cui si faceva. Al termine di una vicenda che ha dell’incredibile, il locale ha dovuto chiudere a causa di un vero e proprio bullismo istituzionale da parte del Comune di Siena.
Prima di analizzare la vicenda occorre qualche nota di contesto. Siena è una città con un basso tasso di natalità e un crescente invecchiamento dei residenti. Di contro, è una città universitaria, con molti studenti fuori sede. Il terzo aspetto da considerare, fondamentale quando si parla di Siena, sono le contrade, che per chi di Siena non è possono essere un mondo difficile da comprendere; luoghi di una socialità intensa, che va ben oltre i giorni del palio. Ed ecco dunque il quadro: i ragazzi di Siena si divertono nelle contrade, che spesso e volentieri fanno musica da discoteca ad altissimo volume fino a notte fonda; gli universitari provano a divertirsi nei locali fuori dalle contrade, soprattutto in via Pantaneto, la via della movida della città; i residenti sopportano, volentieri (se sono contradaioli) o per forza di cose le intemperanze delle contrade, ma sono sul piede di guerra ogni volta che un locale non contradaiolo crea il minimo disagio.

Cacio & Pere ha subito più volte provvedimenti di chiusura temporanea da parte della vecchia amministrazione Valentini, per violazione delle norme comunali sulla musica dal vivo. Fino alla chiusura, nello scorso febbraio. Ad aprile il locale ha riaperto in una nuova sede, in via della Stufa Secca, già sede di uno storico pub. Prima ancora dell’apertura, un comitato di residenti si è rivolto al Comune per esprimere preoccupazione per l’apertura del locale. Il clima di campagna elettorale ha fatto il resto. Quanti voti porta un comitato di residenti? Non solo. Il sindaco De Mossi ha vinto le elezioni perché è riuscito a presentarsi come alternativa a un sistema di potere che appare compromesso con la crisi di Montepaschi, ma anche come il difensore indefesso (in senso tecnico: è stato l’avvocato dei contradaioli processati per la rissa dopo il palio del 2015) delle contrade, e quindi della senesità più autentica. E in questo caso difendere le contrade significa anche interpretare quel certo astio, nemmeno troppo sottile, verso luoghi e forme di divertimento al di fuori delle contrade.
Il locale è stato oggetto di un vero e proprio accanimento da parte dei vigili urbani, che non hanno tuttavia rilevato nessuna infrazione. Le norme comunali sulla musica dal vivo sono state rigorosamente rispettate; gli spettacoli sono terminati addirittura prima dell’orario prescritto. Ma, come nella favola del lupo e dell’agnello, ciò non è bastato: il Comune ha disposto il 23 maggio la sospensione a tempo indeterminato delle attività del locale. Motivazione: il rumore. Si chiede una relazione sulle attività svolte, che viene presentata il giorno dopo. E poi il nulla. Un nulla burocratico, fatto di risposte che non arrivano, assessori assenti, uffici che non sanno nulla e rimandano ad altri uffici, porte chiuse a qualsiasi forma di dialogo. E intanto i giorni passano, e per un locale ogni giorno di lavoro perso è un passo verso il fallimento. Oggi il comunicato: il locale chiude, per gli otto dipendenti partono le lettere di licenziamento. Una impresa giovane, che faceva cultura nel rispetto del regolamento comunale, distrutta scientemente da un’amministrazione comunale. Difficile trovare altri casi simili in Italia.
Il sindaco di una città come Siena ha un compito delicato: da un lato deve saper difendere e valorizzare la sua straordinaria tradizione culturale, dall’altro deve evitare il rischio della città-museo, ammirevole per la sua perfezione architettonica ma priva di vita. De Mossi non ha dimostrato fino ad ora di riuscire a fare né la prima né la seconda cosa. Non è un caso che non abbia mai nominato un assessore alla cultura. L’idea di cultura della sua giunta è espressa bene dal trenino disneyano che durante il periodo natalizio ha condotto i turisti in giro per la città. Il termine chiave è location. La città diventa la cornice, lo sfondo per eventi dal gusto discutibile, buon ultimo il raduno delle Ferrari in piazza del campo della prossima domenica 9 giugno. Lo stesso museo Santa Maria della Scala, che era stato rilanciato dal direttore Daniele Pitteri (prontamente liquidato), rischia di diventare un contenitore – una location, appunto – di eventi enogastronomici, mentre la meravigliosa Sala del Mappamondo del Palazzo pubblico potrà essere adoperata per i matrimoni, per promuovere il turismo matrimoniale. Una città che si svende al miglior offerente, pronta a qualunque cafonaggine pur di incassare, e intanto costringe al silenzio chi, nel rispetto delle rigorose norme comunali, cerca di fare musica di qualità. Siena merita di meglio.

Gli Stati Generali, 4 giugno 2019.

La cannabis light e i deliri della politica

Qualche mese fa ho provato la cannabis light. L’ho comprata  in una parafarmacia del centro di Siena, che la vendeva in diverse versioni aromatiche. Poi ho dovuto procurarmi le cartine: con qualche imbarazzo, quando il tabaccaio mi ha chiesto di quale tipo. Ho preso quelle più comuni, immaginando che andassero bene per rollare una canna, sia pure light. Ecco, rollare una canna: non avendo a portata di canna qualche studente, ho dovuto far ricorso a un video su Youtube. Esaustivo, comunque. Dopo due o tre tentativi mi sono trovato tra le mani una canna (sia pure light) rispettabilissima. Per essere sicuro di farne esperienza in modo autentico, non ho lesinato sulla quantità.
Seduto sul divano, mi sono dunque acceso la mia canna, sia pure light. Una parte di me sperava che benché fosse light, qualche interessante esperienza psichedelica l’avrei fatta. Ho fatto un tiro, poi un altro, e un altro ancora. Niente. L’ho finita. Niente. Mi son detto: dalle tempo, queste cose arrivano con calma. Ma niente niente. Ogni cosa restava testardamente sé stessa, me compreso. Dopo mezz’ora m’è venuto sonno, ma non saprei dire se per la canna (sia pure light) o per la stanchezza. Nella migliore delle ipotesi, in base alla mia esperienza posso riconoscere alla cannabis light una efficacia paragonabile a quella della tisana al tiglio.

Leggo ora che la Cassazione considera illegale la vendita di cannabis light. E il ministro Salvini si è affrettato a commentare:  “Siamo contro qualsiasi tipo di droga, senza se e senza ma, e a favore del divertimento sano”. Apprendo dunque di essermi drogato, quella sera. A dire il vero a me più che una esperienza Sesso, Droga & Rock’n’Roll è sembrata una cosa Brodino, Pigiamino & Nanna, ma se lo dice Salvini mi fido. Diciamo che mi hanno venduto dell’erba truccata, diversa da quella che ha provato Salvini (perché Salvini l’avrà provata, no, prima di esprimersi? mica sarà uno che parla a vanvera?). Cerchiamo ora di essere consequenziali. La tesi è che la cannabis, sia pure light, dev’essere vietata perché è una droga, e “qualsiasi tipo di droga” va vietata. Ma cos’è una droga? Ricorriamo, per imparzialità, alla Treccani: “Nel linguaggio corrente viene chiamata droga qualsiasi sostanza capace di modificare temporaneamente lo stato di coscienza o comunque lo stato psichico dell’individuo”. Bene: allora è droga anche il vino. E’ droga l’alcol, in qualsiasi forma. In base alla mia esperienza, è una droga infinitamente più potente di una cannabis light. Ed è una droga che fa in Italia quarantamila morti all’anno (dati di www.alcol.info). Un numero che include le persone morte per cirrosi epatiche, per malattie cardiovascolari, per infarto, ma anche le vittime causate dalla guida in stato di ebbrezza. Perché quando qualcuno beve, nessuno è al sicuro. Nemmeno il bambino che attraversa la strada.
Cosa dice Salvini, che è contro qualsiasi tipo di droga, di questa droga pericolosissima, che tante tragedie e tanti lutti provoca? Ecco: “La politica cerca il vino per quattro motivi: primo perché fa bene, secondo perché è un business, terzo perché è tutela del territorio, quarto perché rappresenta l’Italia nel mondo”. Queste le parole al Vinitaly dello scorso 7 aprile. Nelle sue parole, la droga che fa più morti in assoluto diventa un alimento che “fa bene”.
Quella della cannabis light è una faccenda in fondo marginale – i consumatori abituali di cannabis non sanno che farsene, e gli altri la provano per curiosità, e presto lasciano perdere – ma che dà la misura esatta della situazione nella quale siamo finiti. Una situazione di delirio continuo, nella quale il mondo è capovolto, problemi enormi scompaiono dall’agenda pubblica (chi parla del livello scandaloso dell’evasione fiscale?) ed altri inesistenti diventano ossessioni collettive. Un paese sotto effetto costante del delirio alimentato da “una politica che cerca il vino”. E ne abusa anche parecchio.

Gli Stati Generali, 1 giugno 2019.

Noi docenti non ci lasciamo intimidire

A Palermo una docente viene sospesa dall’insegnamento perché in un video i suoi studenti hanno accostato il decreto sicurezza alle leggi razziali.
Ragioniamo un attimo. L’accostamento tra il decreto sicurezza e le leggi razziali è stato fatto in modo plateale dal settimanale l’Espresso, che ha aperto il numero del 30 settembre 2018 con in copertina La difesa della razza e il titolo: “1938-2018. Un decreto che discrimina. Ottant’anni dopo le leggi razziali”. Dal suo profilo Twitter – che è l’ufficio virtuale dal quale svolge per lo più il suo lavoro di ministro (in quello reale s’è fatto vedere pochissimo) – Matteo Salvini ha commentato: “Questi non sono normali!!!”. Non gli è stato possibile andare oltre i tre punti esclamativi: perché l’Italia è un paese democratico, e la libertà della stampa è uno dei fondamenti di una democrazia. Non è una libertà assoluta, ovviamente: esiste un Ordine dei giornalisti che interviene in caso di palesi violazioni. Ma non è stato, non poteva essere questo il caso, perché l’accostamento tra i due dati storici può essere discutibile, ma non è né arbitrario né viola alcuna legge.
Ora, per una democrazia la libertà dell’insegnamento (e dell’apprendimento) è un principio non meno importante della libertà della stampa. Se non sono censurabili i giornalisti per aver paragonato il decreto sicurezza alle leggi razziali, non lo sono nemmeno gli studenti e la loro docente. La libertà di riflessione e di analisi degli studenti, la libertà di insegnamento dei docenti, la libertà di informazione, di critica, di denuncia sociale dei giornalisti sono tre aspetti di una stessa libertà: la libertà democratica. Quella libertà che è stata conquistata con il sangue dei partigiani. Continue reading “Noi docenti non ci lasciamo intimidire”

Le buddhanate di Fabrizio Rondolino

Il pāli è la lingua affine al sanscrito nella quale è scritto il Canone buddhista più antico (il Tipitaka). E’ una lingua apparentemente più semplice del sanscrito, se non altro perché non si presenta nella complessa (ma bellissima) scrittura devanagari, e tuttavia è una lingua difficile, che richiede anni di studio intenso per essere padroneggiata. Il Dhammapada è uno dei testi buddhisti più importanti e belli, una raccolta di insegnamenti che racchiudono il cuore dell’insegnamento buddhista con passi di grande intensità e forte suggestione; ed è scritto in lingua pāli.
Ora, mettiamo che un editore – un grande editore – voglia fare una edizione del Dhammapada. A chi affiderà la traduzione? A un sanscritista di fama? A qualche giovane studioso da valorizzare? Macché. A Fabrizio Rondolino. Che di pāli non sa una sola parola, ma compare spesso in televisione. A lui la Mondadori affida la traduzione e la cura della nuova edizione del Dhammapada nella collana Oscar. Nella introduzione seraficamente premette: “Questa nuova edizione ‘traduce’ altre traduzioni inglesi, italiane, francesi e tedesche”. Come il buon Vincenzo Monti, “traduttor de’ traduttor” (così lo coglionò Ugo Foscolo); con la differenza che Monti tradusse in endecasillabi.

Cristianesimo:
che farsene ormai?

Fa un certo effetto leggere Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede di François Jullien (Ponte alle Grazie). Jullien non è solo uno dei massimi pensatori europei; è uno dei pochissimi che riesca a pensare oltre l’Europa, grazie alle sue competenze di sinologo. In quest’opera si occupa, dunque, di cristianesimo. E comincia così: “Vi chiederete perché mi occupi oggi proprio di questo – ovvero, del ‘cristianesimo’. Che cosa farsene, ormai?”. E poco oltre aggiunge: “Finito il tempo del suo dominio e poi quello della sua denuncia, e oggi nel tempo della sua marginalizzazione, occorre infatti tracciare il bilancio di quel che il cristianesimo ha fatto avvenire nel pensiero”. Non voglio discutere, qui, le risorse che Jullien scopre nel cristianesimo e crede di poter riprendere anche senza la fede; dirò solo che sono risorse che con ogni probabilità sorprenderebbero buona parte dei credenti. Mi interessa soffermarmi sull’incipit, sul punto di partenza del suo discorso. Dunque: il cristianesimo è giunto al momento dei bilanci? Continue reading “Cristianesimo:
che farsene ormai?”

Sesso: quel divieto di parlarne in cui cresce la violenza

Ieri sera mi sono masturbato guardando un video porno. Se me ne uscissi con questa confessione durante una cena tra amici, le reazioni andrebbero dal sorriso imbarazzato allo sdegno; e probabilmente qualche amicizia ne uscirebbe compromessa. Se lo scrivessi sul mio profilo Facebook, molti mi accuserebbero – è successo per molto meno – di indegnità morale, chiedendo il mio urgente allontanamento da scuola. E se iniziassi così un articolo, come sto facendo ora, molti si chiederebbero dove voglio andare a parare.
E’ convinzione condivisa da coloro che a vario titolo si occupano di società – sociologi, psicologi, educatori – che ci siamo felicemente lasciati alle spalle la repressione sessuale, e che siamo in una società perfino ipersessualizzata. “Uomini e donne ora ricercano il piacere sessuale fine a se stesso, rinunciando persino agli orpelli convenzionali prescritti dal sentimentalismo”, scriveva Christopher Lasch ne La cultura del narcisismo. Era il 1979. In Italia si inaugurava la stagione delle commedie sexy ed ogni città poteva vantare almeno un cinema a luci rosse. Oggi un sito come Pornhub può vantare più di trentatré miliardi di visite all’anno. Ma la liberazione sessuale si è arenata di fronte ad un ultimo tabù: la confessione.

Nella Storia della sessualità Michel Foucault coglieva la relazione singolare che la sessualità occidentale ha intrattenuto con il cattolicesimo: la pratica della confessione ha costretto l’uomo e la donna occidentali a narrare di continuo, in modi anche minuziosi (quale peccato? quante volte?), la propria sessualità. E’ una narrazione che resta confinata nello spazio privatissimo del confessionale, ma è un sempre una narrazione, ossia una presentazione di sé all’altro. Una conseguenza non secondaria della crisi del cattolicesimo – una crisi significativamente legata anche ai continui scandali sessuali dei sacerdoti – è la fine di questa forma di narrazione, alla quale è forse da attribuire il fatto singolare che, mentre il sesso è ovunque, mentre l’accesso alla pornografia è facile come mai in passato, raccontare la propria sessualità resta un tabù.
Si obietterà che esistono libri erotici che scalano le classifiche. Senz’altro: ma la lettura di un libro erotico, o pornografico (alcune pornostar oggi sono anche scrittrici: si pensi a Sasha Grey) sta alla narrazione della propria sessualità come la lettura di un romanzo noir o di un giallo sta alla confessione di un omicidio.
La conseguenza di questo divieto tacito è che non ci è possibile costruire un discorso comune sul sesso: diventiamo etimologicamente idioti, abitiamo mondi privati, chiusi in sé, monadi di piacere senza porte né finestre. E in questi mondi privati, che sono stati sottratti allo sguardo pubblico col pretesto dell’intimità e del pudore, cresce il disagio, il malessere, la patologia (che non viene spesso curata perché non si riesce a parlarne nemmeno al medico), la solitudine. E cresce la violenza.
Se il discorso di ognuno di noi sulla propria sessualità (la narrazione, non la teoria: di teorie sul sesso ne abbiamo fin troppe) è vietato, lo è a maggior ragione quello dei soggetti che più di qualsiasi altro la nostra società costringe fuori dalla scena. Le chiama prostitute, ma il più delle volte non sono che schiave. Donne costrette a subire quotidianamente decine di stupri, ragazze africane o dell’est, a volte minori. La narrazione della propria vita sessuale – del proprio martirio sessuale – da parte di una schiava è la narrazione oscena per eccellenza, il racconto che non bisogna consentire, che bisogna ridurre al silenzio. Credo che uno dei libri più importanti usciti negli ultimi anni in Italia sia Le ragazze di Benin City di Isoke Aikpitanyi e Laura Maragnani. Un libro uscito nel 2007 presso un piccolo editore (Melampo) nel quale una ragazza nigeriana, ridotta in schiavitù in Italia, racconta la sua storia a una giornalista di Panorama. Un libro terribile. Un terribile atto di accusa contro la nostra idiozia sessuale, che diventa stupro, uno stupro continuo, una quotidiana umiliazione della donna nera da parte dell’uomo bianco, una follia violenta che la parola prostituzione riesce a far entrare nei canoni della normalità, quasi della accettabilità sociale, con il contributo di quel razzismo che torna sempre utile per favorire lo sfruttamento, sessuale o lavorativo, della donna e dell’uomo nero. “Le ragazze sono la vittima designata, l’agnello sacrificale. Chiamale come vuoi ma la sostanza è sempre questa. Un’africana stuprata è un’italiana salvata. E l’africana stuprata non può parlare perché non le dà retta nessuno”, scrive Aikpitanyi. Non può parlare. E se parla, il suo discorso non diventa discorso comune. E non perché soggetti come gli schiavi africani sono esclusi dai nostri discorsi comuni, ma perché un discorso comune sul sesso semplicemente non esiste.
Ecco, dunque, dove volevo andare a parare: “ieri sera mi sono masturbato guardando un video porno” potrebbe essere non la provocazione di una persona sopra le righe, non l’uscita infelice di una persona che non conosce o non è in grado di rispettare le regole sociali, e nemmeno l’esternazione di un porco, talmente ossessionato dal sesso da parlarne a sproposito, ma un primo passo, rivoluzionario, per cominciare a costruire un discorso comune e districare l’intreccio di sesso e violenza, di sesso e sfruttamento, di sesso e distruzione che è tra le ferite più dolorose della nostra società.

Pubblicato su Gli Stati Generali, 10 marzo 2019.