Il 30 gennaio del 1940 – settant’anni fa – Mohandas Karamchand Gandhi veniva ucciso dal suo ex-seguace Nathuram Godse. E’ uno dei pochissimi leader politici del Novecento in grado di essere ancora oggi punto di riferimento e fonte di ispirazione per molti; una figura che incarna al tempo stesso l’uomo buono ed il rivoluzionario, l’ascesi e l’impegno, la felice contaminazione di etica e politica. Naturalmente, dietro ogni icona c’è un uomo che le assomiglia solo in parte. E svelare le contraddizioni dell’uomo Gandhi è un gioco facile: lo fa, buon ultimo, Pramod Kapoor nel suo Gandhi. La biografia illustrata (Mondadori Electa). Meno frequente è che qualcuno sveli, invece, le contraddizioni teoriche di Gandhi, i problemi aperti del suo pensiero, e magari anche le cose inaccettabili. Nel nostro paese gli studi su Gandhi sono pochissimi, e quei pochi spesso non sono fondati su una conoscenza adeguata del contesto indiano. Nella raccolta più diffusa di scritti gandhiani – Teoria e pratica della nonviolenza, curato da Giuliano Pontana per Einaudi – Gandhi appare come un pensatore che affronta i temi politici e sociali partendo dal riconoscimento del valore dell’individuo, ed assegnando “grande valore allo spirito critico, all’autonomia di giudizio e conseguentemente al rifiuto di ogni autorità che non sia quella della ragione e di quella che egli chiama ‘la voce interiore’ (the inner voice)” (p. LXXXI). E’ una interpretazione rassicurante, che fa di Gandhi un nostro prossimo, ma che ignora la differenza gandhiana.
La ragione di Gandhi non ha molto a che fare con la ragione occidentale. Per il pensiero occidentale, l’esercizio della ragione è ciò che ci conduce alla verità, e va inteso soprattutto come rigore logico. A dire il vero, alle origini del pensiero occidentale c’è anche dell’altro. Come ha mostrato Michel Foucault nel suo corso al Collège de France sull’ermeneutica del soggetto, nella Grecia antica esistevano una serie di tecnologie del sé che avevano lo scopo di modificare il soggetto affinché diventasse capace di entrare in contatto con la verità. Non basta la ragione, ma occorre una disciplina che coinvolga l’intero essere intero attraverso pratiche come la meditazione e l’esame di coscienza. Ora, se il pensiero moderno e contemporaneo ha smarrito, da Descartes in poi, questo legame tra tecnologia del sé e verità, a favore di una ricerca logica della verità e di un metodo inteso in senso puramente razionale, in India le cose vanno diversamente. Per Gandhi quella “voce interiore” di cui parla Pontara è la voce stessa della Verità o di Dio. Ma è una voce che non può essere ascoltata da chiunque. Se per cogliere una verità matematica occorre aver studiato i principi di base della matematica, per entrare in contatto con quella che chiama Verità occorre per Gandhi sottoporsi ad alcune pratiche che non hanno a che fare con la filosofia, ma che riguardano principalmente il corpo e il desiderio. E’ noto che decise prima dei quarant’anni di darsi al brahmacarya, la castità; altre pratiche riguardavano il controllo dell’alimentazione e la povertà volontaria. Lo scopo era quello di ridurre progressivamente l’ego fino a farlo scomparire. Nulla di nuovo: è il principio su cui si basa lo yoga, che è in India la via di accesso a Dio ed alla Verità. Quando si legge negli scritti gandhiani l’affermazione “la Verità è Dio”, è bene considerare che nella sua visione nessun accesso alla Verità è possibile al di fuori delle pratiche di riduzione dell’io. L’apertura al mondo laico e perfino all’ateismo è solo apparente, perché chiunque rifiuti quel metodo – può non trattarsi dello yoga in senso stretto, ma qualche tecnologia del sé è indispensabile – è lontano dalla Verità.
C’è un altro aspetto importante da considerare. Gandhi, in conformità con la tradizione indiana, chiama tapascarya le pratiche cui si sottopone. Attraverso queste pratiche ritiene non solo di poter entrare in contatto con la Verità-Dio, ma anche di sviluppare il tapas, una energia spirituale di cui parla la tradizione yogica (ne parla Calasso ne L’ardore), e che per Gandhi ha a che fare con la sua attività politica. Entriamo qui nel punto più profondo e più distante da noi della spiritualità gandhiana. Tutta la sua attività politica è mossa dalla convinzione che il bene può, anzi deve vincere sul male. La violenza non può prevalere davvero, perché la violenza è male, è anti-Dio. Chi è dalla parte di Dio vincerà necessariamente: è questa convinzione che gli consente di affrontare con la sua straordinaria determinazione la lotta politica. Ma chi lotta per la Verità deve entrare in contatto con la Verità. Un cristiano parlerebbe della forza della preghiera. Gandhi, che è un hinduista, crede nella forza dello yoga. Sarà attraverso le pratiche di mortificazione del corpo e del desiderio che potrà entrare in contatto con la Verità, e vincere. E’ questa convinzione che consente di spiegare la pratica di dormire con ragazze nude, che negli ultimi anni scandalizzò così tanto, e che sarebbe fuorviante interpretare come una espressione senile del desiderio così a lungo depresso. Era una pratica che rientrava a pieno titolo nei suoi “esperimenti con la verità”, che per un indiano sono anche – ed in modo anche pericoloso – esperimenti con il desiderio.
C’è dunque al fondo della nonviolenza gandhiana un fondo che, dal punto di vista occidentale, appare irrazionale, addirittura magico. Un fondo ignorato, più che rimosso, nella percezione comune della sua figura, e con il quale dobbiamo fare i conti, se vogliamo ragionare, a settant’anni dalla sua tragica morte, di ciò che è vivo e ciò che è morto in Gandhi.
Articolo pubblicato il 30 gennaio 2018 su Gli Stati Generali.