Hitler e il vegetarianesimo

Anni fa la lettura del bellissimo The bloodless revolution di Tristam Stuart mi offrì una prospettiva inedita sul vegetarianesimo di Hitler (ma dovrei dire: sull’hitlerismo in generale). Sono tornato sul tema, leggendomi le Conversazioni a tavola di Hitler, per aprire una finestra in un libro che sto scrivendo sul Diavolo e la violenza cristiana.

In questo libro ho parlato del dispositivo diabolico del cristianesimo, cercando di dimostrare i suoi effetti terribili sulla storia dell’Occidente e del mondo intero. Questo non vuol dire, come è naturale, che si tratti dell’unico dispositivo violento dell’Occidente, né che solo l’Occidente abbia dispositivi simili. Come detto nell’introduzione, ritengo che sia urgente ed importante una riflessione sulle radici culturali della violenza, che sono molteplici e in qualche caso intrecciate tra di loro. Di particolare importanza è scoprire radici violente lì dove sono particolarmente occultate; dove pare che vi sia, al contrario, la radice dell’amore e della benevolenza.

Se dovessi citare un caso simile potrei far riferimento all’esaltazione mistica della Natura e delle sue energie, diffusa nei diversi atteggiamenti riconducibili alla sensibilità new age. Una esaltazione che normalmente fa corpo con una fede cieca nelle cure naturali e la convinzione che la malattia non sia che la conseguenza di una qualche forma di alterazione dell’equilibrio naturale. Frequente è anche la scelta vegetariana o vegana, quando non il crudismo.

Una obiezione frequente, nei confronti dei vegetariani, è che anche Hitler era vegetariano. Si obietta che si tratta di un caso particolarmente rozzo di reductio ad Hitlerum e che Hitler era vegetariano non certo per convinzione personale, ma per ragioni di salute. Questo è falso. Hitler era un vegetariano con tendenze crudiste talmente convinto, da desiderare che anche il suo cane da pastore Blondi diventasse vegetariano (p.571). In un certo senso non è falso che fosse per lui questione di salute; ma non si trattava di guarire da qualche disturbo di salute. Hitler considerava innaturale per l’essere umano il consumo di carne e lo associava alla decadenza. I soldati di Cesare, osservava, non mangiavano carne, e così gli antichi vichinghi (p. 114); ed in natura sono più forti e resistenti gli animali vegetariani. In una conversazione sul futuro dell’umanità, dopo aver affermato che le religioni sono destinate al declino, conclude: “Ma c’è una cosa che posso predire a quelli che mangiano carne: il mondo futuro sarà vegetariano” (p.125).

Continue reading “Hitler e il vegetarianesimo”

La verità è forte?
A proposito di Gandhi

Ho registrato un podcast sul tema “La verità è forte? A proposito di Gandhi” per il corso di Storia delle religioni di Elisabetta Colagrossi (Università di Genova) – il mio Il Dio di Gandhi. Religione, etica e politica è tra i testi d’esame. Lo metto qui a disposizione di chiunque sia interessato.

L’altro Gandhi

Il 30 gennaio del 1940 – settant’anni fa – Mohandas Karamchand Gandhi veniva ucciso dal suo ex-seguace Nathuram Godse. E’ uno dei pochissimi leader politici del Novecento in grado di essere ancora oggi punto di riferimento e fonte di ispirazione per molti; una figura che incarna al tempo stesso l’uomo buono ed il rivoluzionario, l’ascesi e l’impegno, la felice contaminazione di etica e politica. Naturalmente, dietro ogni icona c’è un uomo che le assomiglia solo in parte. E svelare le contraddizioni dell’uomo Gandhi è un gioco facile: lo fa, buon ultimo, Pramod Kapoor nel suo Gandhi. La biografia illustrata (Mondadori Electa). Meno frequente è che qualcuno sveli, invece, le contraddizioni teoriche di Gandhi, i problemi aperti del suo pensiero, e magari anche le cose inaccettabili. Nel nostro paese gli studi su Gandhi sono pochissimi, e quei pochi spesso non sono fondati su una conoscenza adeguata del contesto indiano. Nella raccolta più diffusa di scritti gandhiani – Teoria e pratica della nonviolenza, curato da Giuliano Pontana per Einaudi – Gandhi appare come un pensatore che affronta i temi politici e sociali partendo dal riconoscimento del valore dell’individuo, ed assegnando “grande valore allo spirito critico, all’autonomia di giudizio e conseguentemente al rifiuto di ogni autorità che non sia quella della ragione e di quella che egli chiama ‘la voce interiore’ (the inner voice)” (p. LXXXI). E’ una interpretazione rassicurante, che fa di Gandhi un nostro prossimo, ma che ignora la differenza gandhiana.

La ragione di Gandhi non ha molto a che fare con la ragione occidentale. Per il pensiero occidentale, l’esercizio della ragione è ciò che ci conduce alla verità, e va inteso soprattutto come rigore logico. A dire il vero, alle origini del pensiero occidentale c’è anche dell’altro. Come ha mostrato Michel Foucault nel suo corso al Collège de France sull’ermeneutica del soggetto, nella Grecia antica esistevano una serie di tecnologie del sé che avevano lo scopo di modificare il soggetto affinché diventasse capace di entrare in contatto con la verità. Non basta la ragione, ma occorre una disciplina che coinvolga l’intero essere intero attraverso pratiche come la meditazione e l’esame di coscienza. Ora, se il pensiero moderno e contemporaneo ha smarrito, da Descartes in poi, questo legame tra tecnologia del sé e verità, a favore di una ricerca logica della verità e di un metodo inteso in senso puramente razionale, in India le cose vanno diversamente. Per Gandhi quella “voce interiore” di cui parla Pontara è la voce stessa della Verità o di Dio. Ma è una voce che non può essere ascoltata da chiunque. Se per cogliere una verità matematica occorre aver studiato i principi di base della matematica, per entrare in contatto con quella che chiama Verità occorre per Gandhi sottoporsi ad alcune pratiche che non hanno a che fare con la filosofia, ma che riguardano principalmente il corpo e il desiderio. E’ noto che decise prima dei quarant’anni di darsi al brahmacarya, la castità; altre pratiche riguardavano il controllo dell’alimentazione e la povertà volontaria. Lo scopo era quello di ridurre progressivamente l’ego fino a farlo scomparire. Nulla di nuovo: è il principio su cui si basa lo yoga, che è in India la via di accesso a Dio ed alla Verità. Quando si legge negli scritti gandhiani l’affermazione “la Verità è Dio”, è bene considerare che nella sua visione nessun accesso alla Verità è possibile al di fuori delle pratiche di riduzione dell’io. L’apertura al mondo laico e perfino all’ateismo è solo apparente, perché chiunque rifiuti quel metodo – può non trattarsi dello yoga in senso stretto, ma qualche tecnologia del sé è indispensabile – è lontano dalla Verità.

C’è un altro aspetto importante da considerare. Gandhi, in conformità con la tradizione indiana, chiama tapascarya le pratiche cui si sottopone. Attraverso queste pratiche ritiene non solo di poter entrare in contatto con la Verità-Dio, ma anche di sviluppare il tapas, una energia spirituale di cui parla la tradizione yogica (ne parla Calasso ne L’ardore), e che per Gandhi ha a che fare con la sua attività politica. Entriamo qui nel punto più profondo e più distante da noi della spiritualità gandhiana. Tutta la sua attività politica è mossa dalla convinzione che il bene può, anzi deve vincere sul male. La violenza non può prevalere davvero, perché la violenza è male, è anti-Dio. Chi è dalla parte di Dio vincerà necessariamente: è questa convinzione che gli consente di affrontare con la sua straordinaria determinazione la lotta politica. Ma chi lotta per la Verità deve entrare in contatto con la Verità. Un cristiano parlerebbe della forza della preghiera. Gandhi, che è un hinduista, crede nella forza dello yoga. Sarà attraverso le pratiche di mortificazione del corpo e del desiderio che potrà entrare in contatto con la Verità, e vincere. E’ questa convinzione che consente di spiegare la pratica di dormire con ragazze nude, che negli ultimi anni scandalizzò così tanto, e che sarebbe fuorviante interpretare come una espressione senile del desiderio così a lungo depresso. Era una pratica che rientrava a pieno titolo nei suoi “esperimenti con la verità”, che per un indiano sono anche – ed in modo anche pericoloso – esperimenti con il desiderio.

C’è dunque al fondo della nonviolenza gandhiana un fondo che, dal punto di vista occidentale, appare irrazionale, addirittura magico. Un fondo ignorato, più che rimosso, nella percezione comune della sua figura, e con il quale dobbiamo fare i conti, se vogliamo ragionare, a settant’anni dalla sua tragica morte, di ciò che è vivo e ciò che è morto in Gandhi.

Articolo pubblicato il 30 gennaio 2018 su Gli Stati Generali.