L’inciampo ecopacifista

Alcune persone hanno scritto una lettera aperta intitolata Per un cammino ecopacifista, sul tema dei vaccini e del green pass. Poiché tra i firmatari ci sono diversi amici, poiché penso di potermi considerare anch’io ecopacifista, o qualcosa del genere, e poiché tra i primi firmatari c’è anche Nicholas Bawtree, direttore di Terra Nuova, rivista ed editore con cui ho pubblicato un libro, sento di dover spendere due parole.

Farò, anzi, un commento puntuale del comunicato, che nella sua interezza incommentata si può leggere qui.

Come pacifist* ed ecologist*, vorremmo contribuire al dibattito che attualmente infiamma e spacca la società.
Siamo profondamente preoccupat* per la pericolosa polarizzazione e radicalizzazione del conflitto: da una parte i gruppi più violenti ed eversivi che cavalcano il malessere sociale, dall’altra il blocco di potere politico-industriale-mediatico che governa il paese e che impone il suo programma liberista.

Che esista un blocco di potere politico-industriale-mediatico è tutto da dimostrare. Naturalmente siamo in un Paese capitalista, nel quale la ricchezza è distribuita in modo fortemente diseguale, ed esistono potenti gruppi industriali e portatori di interessi privati, alcuni dei quali controllano anche i media. Quello che è contestabile è il concetto di blocco. Non esiste alcun blocco: c’è una società nella quale forze e interessi diversi si scontrano. Non è un dettaglio: dal blocco al Nuovo Ordine Mondiale il passo è breve. Ed è il passo dall’analisi della realtà alla paranoia.

Condanniamo nel modo più fermo i neofascisti ed ogni violenza, e tutti coloro che spalleggiano questi gruppi, chiedendoci perché siano stati lasciati agire impunemente dalle autorità, negli eventi del 9 ottobre a Roma. Queste violenze non fanno altro che delegittimare ogni forma di protesta e sono l’occasione per stringere e limitare il diritto a manifestare (cosa che puntualmente sta accadendo).

Io mi chiederei invece due cose. La prima è come mai chi protesta contro il green pass si trova in piazza insieme ai fascisti. Se nella mia causa convergono i fascisti di Forza Nuova, qualche domanda sulla mia causa me la faccio. La seconda è perché coloro che erano in piazza a manifestare pacificamente, se davvero non avevano nulla in comune con loro, sono rimasti a guardare mentre i fascisti devastavano la sede della Cgil.
Ritenere che le violenze fasciste abbiano fatto comodo per limitare il diritto di manifestare è ancora una volta una interpretazione paranoica. Nessuno sta limitando alcun diritto di manifestare. Oggi stesso nella città in cui vivo si è tenuta una manifestazione contro il green pass, assolutamente incontrastata.

La nostra è una società malata, e non solo a causa della pandemia Covid-19. Una società che ha ereditato, ancor prima del Covid-19, modelli socio-economici e stili di vita insostenibili che incidono fortemente sulla salute delle persone, delle comunità, dei territori e dell’intero Pianeta. Una società centrata su un modello di sviluppo che ha distrutto l’equilibrio tra le persone e l’ambiente, e che alimenta enormi ingiustizie nord-sud del mondo.
Oggi più che mai, è importante coltivare un pensiero critico che metta la salute (nel suo aspetto globale), il rispetto e la nonviolenza al centro del dibattito. Contestiamo quindi la narrazione “bellica” che tende a mettere in un angolo anche il semplice diritto al dubbio.
Abbiamo vissuto con sgomento e preoccupazione le “guerre all’untore” che in Italia si sono scatenate contro coloro che per dubbio, convinzioni o scelte di vita decidono di non affidarsi al vaccino. Come ecopacifist* rigettiamo l’”hate speech”, da ogni parte esso provenga, il linguaggio violento, umiliante, disumanizzante verso chi non la pensa allo stesso modo. Vogliamo favorire l’empatia, il dialogo, l’ascolto.

Dev’essere sfuggito a chi ha scritto questo appello che i manifestanti contro il green pass hanno devastato il pronto soccorso di Roma, ferendo due sanitari e due agenti di polizia.
E sì, il linguaggio violento va sempre evitato. Ma nonviolenza è anche forza della verità. Veniamo da una vera e propria strage. Sono morte più di centotrentamila persone solo in Italia. È come se fosse scomparsa una intera città di media grandezza. Ora, in questo momento una cattiva informazione può uccidere, letteralmente. Mio padre è sopravvissuto al coronavirus grazie alla doppia dose di vaccino Pfizer. Senza vaccino, con la sua età e le sue gravissime patologie, difficilmente avrebbe avuto scampo. Quante persone evitano di vaccinarsi a causa di informazioni distorte, palesemente false, diffuse da persone ideologicamente prevenute verso la scienza? E quante di queste persone moriranno? Dire il falso è linguaggio violento. Perché uccide.
Quanto alle scelte di vita, sarebbero tutte rispettabilissime, se vivessimo su un’isola. Viviamo, invece, in società, siamo in relazione, che ci piaccia o meno. Quello che facciamo o non facciamo ha ricadute sugli altri. Rivendicare le proprie scelte di vita in un periodo così grave, e in base a queste scelte rifiutare quel gesto minimo di responsabilità sociale che è vaccinarsi durante una pandemia, significa aver scelto, di fatto, quella visione iper-individualistica che si attribuisce all’aborrito liberismo. Anche questo ha poco — anzi: nulla — a che fare con la nonviolenza.

Crediamo nel sistema sanitario, una conquista da difendere, e rifiutiamo ogni malaugurata idea di un sistema sanitario dove chi ha “colpe” deve pagarsi le cure.

Nessuno ha seriamente proposto nulla del genere. Basterebbe che i no-vax non aggredissero medici e infermieri.

Purtroppo molti media hanno abdicato al proprio dovere di esercitare un controllo sull’operato del governo e di garantire un dibattito effettivamente pluralista, aperto e trasparente: ragionevoli e accorati appelli contro il greenpass (di docent, student, scrittor* e filosof*), non hanno trovato adeguato spazio nei media “mainstream”.

I media hanno dato tutto lo spazio possibile a scempiaggini come quelle di Agamben e Cacciari.

Anche a nostro parere lo strumento del greenpass (così come è declinato in Italia), è pieno di contraddizioni e fallacie sul piano sanitario, finalizzato a un rigido e burocratico controllo sociale, umiliante e divisivo, oltre a contraddire i principi contenuti nella Risoluzione 2361 (2021) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa e nel Regolamento Ue n. 953/2021.
Sul greenpass e sulle scelte politiche di gestione della pandemia, la differenza tra i singoli Stati, anche all’interno della Unione Europea, è molto forte. Perché quindi non si può discutere e criticare apertamente questa misura, che non è, come spesso si dice “scientifica” ma meramente “politica”?

A proposito di cattiva informazione. La Risoluzione 2361 del Consiglio d’Europa raccomanda di “ensure that citizens are informed that the vaccination is not mandatory and that no one is under political, social or other pressure to be vaccinated if they do not wish to do so” (qui). Ma il Consiglio d’Europa non è l’Unione Europea. È una organizzazione internazionale che si occupa di diritti umani, i cui documenti non hanno alcun valore vincolante. Quanto al Regolamento 953 dell’UE, si fa riferimento all’art. 36. Che però non è un articolo, ma un “considerando”, privo di qualsiasi valore normativo; e peraltro non si riferisce ai green pass nazionali, ma all’EU Digital COVID Certificate.

L’11 ottobre il Collettivo Lavoratori Portuali di Trieste e Genova (gli stessi che negli ultimi anni hanno incrociato le braccia al traffico di armi diretto in Arabia Saudita), ed i sindacati di base hanno indetto uno sciopero generale, anche (ma non solo) contro il greenpass. Tra le altre richieste avanzate, che noi condividiamo, il reddito universale, la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, il rilancio dello Stato sociale, investimenti nella scuola pubblica, nella sanità pubblica, potenziamento del trasporto pubblico, sicurezza vera sul lavoro.

A proposito di fallacie. Il fatto che i lavoratori portuali abbiano incrociato le braccia quando si trattava di traffico d’armi dovrebbe garantire che ora hanno ragione? Si può avere ragione in un caso e torto nell’altro. In ogni caso, i portuali di Livorno — e nessuno apprezza la libertà più di un livornese — si sono opposti alla protesta contro il green pass.

Rivendichiamo un pensiero critico sulla pervasività degli interessi economici e politici nella medicina e nella sanità, sull’invadenza del digitale e delle tecnologie del controllo, sul mito della crescita economica infinita, sulla deriva scientista che si accanisce contro visioni del mondo e approcci di cura considerati non conformi.

Ma non ci si rende conto degli abusi che la difesa di approcci di cura considerati non conformi può consentire? Non ci si rende davvero conto di quante persone, con questo mito delle cure alternative, possono finire nelle mani di cialtroni di ogni genere e rimetterci la vita?
Può essere che ci sia una deriva scientista. Ma c’è anche, ed è vistosa e ben più pericolosa, una deriva antiscientifica. Che peraltro alimenta anch’essa un mercato fiorentissimo.

Se davvero la salute non è solo assenza di malattia ma presenza di uno stato di benessere psico-fisico che va dalle persone alla comunità, allora la via d’uscita è nella rivisitazione globale dei nostri stili di vita (e quindi politiche che sappiano indirizzare e favorire queste scelte, modificando l’attuale sistema economico senza lasciare impuniti i crimini ambientali che minacciano la salute pubblica).

Ah, certo, ci mancherebbe. Ma intanto c’è una pandemia. E una pandemia la fermi solo con i vaccini, in attesa che sette miliardi di persone cambino i loro stili di vita.

Si è più in salute mangiando cibo sano, locale, modificando radicalmente il nostro modo di muoverci e rapportarci alla terra, riducendo la nostra impronta ecologica, i nostri frenetici e consumisti stili di vita, praticando la sobrietà e la lentezza, organizzando vere e proprie comunità educanti, rafforzando la medicina di base.
La capacità di accettare i limiti che ci impone la natura ci condurrà ad un nuovo equilibrio sociale ed esistenziale, con l’ambiente e con gli altri popoli del mondo.

Ho come l’impressione che questo quadretto idilliaco comprenda la morte di qualche milione di persone, messe sotto la voce accettazione dei limiti. Sarebbe bello, davvero, se la natura benevola offrisse a tutti i suoi doni eccetera. Non è così. Viviamo in un ambiente che può essere molto ostile. Abbiamo, per difenderci e sopravvivere, gli strumenti dell’intelligenza: la tecnica — dalle pietre scheggiate alla farmacologia — e la scienza. E abbiamo un altro strumento, che ci accomuna al mondo animale: l’unità. Quando sono aggrediti da qualsiasi realtà esterna, gli esseri di qualsiasi specie reagiscono compatti, facendosi forza con la resistenza comune. È quello che sta facendo la specie homo sapiens di fronte al coronavirus. Tranne alcuni che si riempiono la bocca con parole come comunità, ma in realtà sono disperatamente individualisti.

Siamo più in salute se ci prendiamo cura del territorio in cui viviamo, se anche la scuola diventa più democratica, esperenziale e all’aperto, (da qui l’importanza di spazi verdi, cortili, parchi e giardini anche in città), un luogo dove educare al pensiero critico, alla cittadinanza attiva, a sani stili di vita.

Fuori tema, si direbbe.

Purtroppo la gestione securitaria e fobica della pandemia rischia di schiacciare questo cammino, costringendoci ancora più di prima dentro vite segnate dal predominio della tecnocrazia, della farmacologia e della medicalizzazione spinta.

La gente acquista quotidianamente una quantità di prodotti farmacologici — per lo più integratori: compresi quelli naturali — di cui non ha alcun bisogno. Lo fa per propria scelta. E vogliamo parlare di medicalizzazione spinta quando di fronte a una pandemia si chiede alla gente il gesto minimo di vaccinarsi?

Il continuo martellamento di messaggi ansiogeni, repressivi e colpevolizzanti ha contribuito ad aumentare sindromi depressive, consumo di alcool e psicofamaci.

Dunque se vedo che ti sta cadendo in testa una tegola devo evitare di dirtelo, perché altrimenti ti metto ansia. Le persone cadono in depressione e cominciano a bere perché qualcuno dice loro che sarebbe cosa buona e giusta se si vaccinassero? E su cosa si basa quest’affermazione? Cos’è, se non una colpevolizzazione di chi invece sostiene che vaccinarsi è doveroso?

La scuola è sempre più “ingessata” e chiusa in sé, con progetti e realtà educative innovative (ricordiamo ad es. Bimbisvegli), bloccate da regole senza senso.

Fuori tema.

Oltretutto queste imposizioni controproducenti ed ingiuste, esasperano gli animi e rendono le persone insofferenti anche ai “limiti ambientali” che multinazionali e mafie calpestano quotidianamente in totale impunità. Limiti all’inquinamento e al consumo che saranno sempre più necessari per fronteggiare l’emergenza climatica ed ambientale.

Oh, vediamo. Dunque i poveri no-vax, esasperati da “imposizioni controproducenti e ingiuste”, non solo diventano depressi e cominciano a bere e prendere psicofarmaci, ma si fanno per giunta insofferenti anche a qualcosa che non ho capito bene, se proprio devo essere sincero. Quello che è chiaro è che questa persone stanno male. Mi spiace per loro. Dev’essere per questo che devastano un pronto soccorso. Direi che occorre fornire loro assistenza psicologica, ma mi si accuserebbe di medicalizzare.

Abbiamo bisogno di ripartire dalla salute globale di ogni essere vivente, dobbiamo creare le condizioni per iniziare un nuovo cammino, contrastando il dominio di un capitalismo che non potrà mai avere un volto umano.
Non vogliamo arrenderci a una deriva che schiaccia i mondi diversi possibili o già praticati, vogliamo disegnare un nuovo umanesimo ecologista, pacifista e antifascista.

Torna il quadretto idilliaco, che spiega alla perfezione perché c’è bisogno di una seria revisione critica della nonviolenza. Una visione ipersemplificata del reale, di una ingenuità disarmante: da una parte tutto il bene — la natura, la comunità, la lentezza — dall’altra tutto il male: il capitalismo, il liberismo, la tecnica. Non è proprio così semplice. Una casa farmaceutica persegue interessi commerciali, dunque i farmaci sono un male, dunque il vaccino va evitato. Ma una casa farmaceutica è anche il lavoro, la ricerca, la passione di centinaia di persone. La salute globale di ogni essere vivente? Credo fermamente nel valore di ogni essere vivente, ma sono consapevole che non posso vivere senza distruggere quotidianamente una certa quantità di vite. Vite vegetali, che evidentemente nella percezione comune non sono vere vite; e invece lo sono. Non siamo in un mondo ideale. Non esiste nessuna natura benigna. Lo sapeva bene Aldo Capitini, che parlava della necessità di andare oltre la natura-vitalità. Così come sapeva che essere nonviolenti significa stare nella lotta, non tirarsene fuori usando la semplice evocazione di un mondo un sacco bello, nel quale tutto va magicamente a posto.

Proviamo a camminare insieme.

L’importante è non inciampare.

Quella distanza che rende la scuola più vicina

I problemi, le difficoltà, i rischi della chiusura – non si sa fino a quando – della scuola sono evidenti: primo fra tutti la possibilità concreta che chi è già indietro resti ancora più indietro, a causa del divario culturale, cui si aggiunge ora, spesso, il divario digitale. Un piccolo studente che abbia difficoltà legate alla motivazione, con alle spalle una famiglia che non lo supporta, rischia di perdere anche l’incoraggiamento e il sostegno della comunità scolastica (quando c’è: cosa che non è purtroppo scontata). E può essere che la mancanza di computer o di una stabile connessione alla rete Internet finisca per aggravare il quadro.
Vorrei però ragionare anche sulle opportunità di questa fase così difficile. Procederò per punti.
1. Nuove modalità relazionali. Sono fortemente convinto che il principale problema della scuola italiana vada individuato nella relazione tra docenti e studenti. La scuola nasce come istituzione autoritaria, asimmetrica, disciplinare e tendenzialmente totalizzante. E’ una istituzione di potere, che promette di creare delle soggettività solo dopo un lungo assoggettamento, per dirla alla Foucault. Altrove i sistemi scolastici sono riusciti a fare i conti con questo passato autoritario ed a staccarsi da una modalità relazionale che ha poco a che fare con l’apprendimento. L’Italia no. Benché nella percezione di molti la causa della crisi attuale della scuola vada ricercata in un lassismo che si fa risalire all’influenza nefasta del Sessantotto, in realtà la scuola persiste nel suo delirio unidirezionale. Il docente fa lezione dalla cattedra, gli studenti sono nei loro banchi in fila, il sapere si trasmette dall’uno agli altri.[read more]

Ora, l’irruzione della distanza fa saltare il gioco. Quei docenti che persistono nel guardare le classi dall’alto della pedana sotto la cattedra (sì: in Italia persistono le pedane sotto le cattedre) dovranno adesso accontentarsi di mettere le pedane sotto le scrivanie. O sotto la webcam, se preferiscono. Il docente collegato in videoconferenza con la sua classe diventa, che lo voglia o no, quello che dovrebbe essere: una persona al servizio dei suoi studenti, pagata dallo Stato per favorire i loro apprendimenti. Tutto l’apparato di controllo, tutto il setting che sostiene e giustifica il suo potere, è venuto a crollare. Nessuno chiederà il permesso per andare in bagno. Lo studente è a casa sua, il docente entra nella sua cameretta, nel salotto, nella cucina a volte. E dovrà farlo necessariamente in punta di piedi. Paradossi di questo tempo sospeso: la didattica a distanza annulla la distanza.
2. Riflessione sulla valutazione. La domanda più pressante, in questi giorni, è: come valutare? Il sottinteso è: come essere certi che non copino? C’è dietro questa domanda la paura di perdere anche l’ultimo strumento di potere, il voto. Che dovrebbe solo servire ad aiutare lo studente a monitorare il suo percorso di apprendimento, ma in un sistema autoritario diventa uno strumento di potere e di manipolazione per gli uni, il fine reale del lavoro per gli altri. A meno che non si voglia interrogare lo studente in videoconferenza avendo cura che sia bendato, l’unico modo per valutare in questo periodo è concentrarsi sulle competenze. Non chiedere allo studente di ripetere quello che c’è sul libro, o che il docente ha detto a lezione, ma proporre delle attività dalle quali emerga la rielaborazione personale, la capacità di applicare le conoscenze, la creatività. Inutile fare la classica interrogazione sul pensiero di Nietzsche; chiedere piuttosto di scrivere soggetto e un pezzo di sceneggiatura di un film nicciano (che si leghi cioè, anche in modo critico, a qualcuno dei temi di fondo del suo pensiero). Ma concentrarsi sulla competenza è quello che bisognerebbe fare sempre, a scuola, per evitare il vuoto nozionismo, la penosa simulazione del sapere.
3. I gruppi. Un lavoro come quest’ultimo potrebbe essere troppo difficile per il singolo studente. Meglio proporlo come lavoro di gruppo. Ed è questa, forse, la principale opportunità di questo periodo. Il lavoro di gruppo a scuola – nella scuola italiana – è da sempre marginale. Lo è anche per l’ossessione docimologica: come valutarlo? come impedire che il lavativo di turno si avvantaggi del lavoro degli altri? Gli strumenti che utilizziamo in questi giorni sono nati spesso per favorire il lavoro nelle aziende. E’ il caso di Teams, strumento centrale di Microsoft Office 365 Education A1, tra le piattaforme raccomandate dal Miur. Penso tutto il male possibile di questa raccomandazione di servizi proprietari, quando sono disponibili alternative open source, e mi chiedo anche perché il Ministero non abbia approntato mai una sua piattaforma per l’apprendimento aperta, gratuita, con alle spalle una solida visione pedagogica. Cerco però di vedere il buono anche nelle cose che non mi piacciono, soprattutto quando sono cose che devo usare per lavoro. Teams funziona bene, come dice il suo nome, per il lavoro di gruppo. Usare strumenti come questo per continuare la didattica unidirezionale è sciocco. E’ bene che finalmente i nostri studenti imparino a coordinarsi, condividere le informazioni, dividersi i compiti, costruire l’intelligenza collettiva.
4. La scuola e l’altrove. La scuola pensa sé stessa come una cittadella del sapere. Un mondo chiuso nel quale c’è il sapere vero, autentico, certificato (con qualche eccezione: i voti scolastici in inglese o francese non certificano nulla di per sé; “conoscenza scolastica” nel curriculum in questo caso non fa fare una grande figura), autorevole. Fuori è tutto dilettantismo. La chiusura della scuola come luogo fisico abbatte questa barriera mentale. Il docente che fa lezione in videoconferenza ha come strumento il suo computer. Potrà usare, sul suo computer, il libro di testo. Ma potrà anche esplorare la rete insieme ai suoi studenti. La classe, di fatto, diventa questo: un ambiente di apprendimento connesso alla rete, e dunque parte di un più grande sistema informativo, che può essere un pericolo (ah, la privacy), ma anche una straordinaria risorsa.
La scuola a distanza, dispersa apparentemente nelle singole abitazioni dei docenti e degli studenti, può tentare nuove relazioni, nuove connessioni, nuove modalità di ricerca. Essere, forse, più vicina che mai.

Gli Stati Generali, 24 marzo 2020.[/read]

I limiti del controllo

Qualche settimana fa uno studente mi ha fatto una domanda cui non è facile rispondere. Avevo letto in classe alcune pagine de Il futuro della democrazia di Norberto Bobbio, un libro del 1984 per molti versi ancora molto attuale. Nel primo capitolo Bobbio ragionava delle “promesse non mantenute” della democrazia. Tra le altre, la persistenza delle oligarchie, di ambiti in cui si esercita il potere in modo non democratico (e molto c’è da riflettere, oggi, sui social network), di forme di potere che si sottraggono al controllo (un controllo, osservata Bobbio, “tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, è praticamente illimitato”), la mancanza di una educazione del cittadino, l’incapacità di uno Stato democratico di rispondere alle richieste sempre più numerose che provengono dalla società civile.
La domanda dunque era: come possiamo dimostrare che la democrazia sia in assoluto il miglior sistema di governo? Si trattava di una lezione di Scienze Umane, e studiando antropologia gli studenti già al terzo anno imparano cos’è il relativismo culturale. Se ogni cultura ha i suoi valori, come possiamo sostenere il valore transculturale della democrazia? Continue reading “I limiti del controllo”

Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)

In questo periodo di grave difficoltà per la scuola pubblica, pare segno di grande responsabilità e generosità che aziende piccole, grandi e grandissime abbiano messo a disposizione gratuitamente i loro servizi. Prime fra tutte, le multinazionali dell’informazione per eccellenza: Google e Microsoft. Google Suite for Education e Office 365 Education A1 fanno bella mostra di sé nella pagina del Miur dedicata alla didattica a distanza, quali piattaforme raccomandate; e di fatto, grazie a questo endorsement ministeriale, sono le piattaforme più usate dalle scuole in questo periodo. Il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione e l’Agenzia per l’Italia Digitale hanno poi promosso Solidarietà digitale, una pagina con il lungo elenco di aziende ed associazioni che mettono gratuitamente a disposizione i loro servizi: si va dall’immancabile Amazon ai gestori di telefonia fino alla aziende di trasporti che offre corse gratuite, una offerta poco comprensibile in un periodo di immobilità coatta.
Bisogna essere molto ingenui per non vedere dietro questa generosità la realizzazione di un sogno: quello di conquistare il lucroso settore della scuola pubblica, rendendo i propri servizi indispensabili per la didattica ed acquisendo i dati personali di migliaia, possibilmente milioni di studenti e docenti. Chi scrive ha conseguito un attestato di Docente esperto in tecnologie informatiche non meno di vent’anni fa. All’epoca per essere esperti di tecnologie informatiche bastava saper usare Microsoft Office; e l’attestato giunse proprio alla fine di un corso a distanza (naturalmente gratuito) di Microsoft, accompagnato e completato dal dono generoso di una copia gratuita della suite Office. La logica è quella commerciale del cavallo di Troia: si offre un servizio gratis, si entra nella scuola pubblica e si conquista il mercato dell’insegnamento. Continue reading “Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)”