Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)

In questo periodo di grave difficoltà per la scuola pubblica, pare segno di grande responsabilità e generosità che aziende piccole, grandi e grandissime abbiano messo a disposizione gratuitamente i loro servizi. Prime fra tutte, le multinazionali dell’informazione per eccellenza: Google e Microsoft. Google Suite for Education e Office 365 Education A1 fanno bella mostra di sé nella pagina del Miur dedicata alla didattica a distanza, quali piattaforme raccomandate; e di fatto, grazie a questo endorsement ministeriale, sono le piattaforme più usate dalle scuole in questo periodo. Il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione e l’Agenzia per l’Italia Digitale hanno poi promosso Solidarietà digitale, una pagina con il lungo elenco di aziende ed associazioni che mettono gratuitamente a disposizione i loro servizi: si va dall’immancabile Amazon ai gestori di telefonia fino alla aziende di trasporti che offre corse gratuite, una offerta poco comprensibile in un periodo di immobilità coatta.
Bisogna essere molto ingenui per non vedere dietro questa generosità la realizzazione di un sogno: quello di conquistare il lucroso settore della scuola pubblica, rendendo i propri servizi indispensabili per la didattica ed acquisendo i dati personali di migliaia, possibilmente milioni di studenti e docenti. Chi scrive ha conseguito un attestato di Docente esperto in tecnologie informatiche non meno di vent’anni fa. All’epoca per essere esperti di tecnologie informatiche bastava saper usare Microsoft Office; e l’attestato giunse proprio alla fine di un corso a distanza (naturalmente gratuito) di Microsoft, accompagnato e completato dal dono generoso di una copia gratuita della suite Office. La logica è quella commerciale del cavallo di Troia: si offre un servizio gratis, si entra nella scuola pubblica e si conquista il mercato dell’insegnamento.
Non ho nulla contro Google e Microsoft. Sono pieno di ammirazione per la digitalizzazione di milioni di libri presenti nelle biblioteche pubbliche da parte di Google, così come sono consapevole che una parte non indifferente dei guadagni di Bill Gates finiscono in beneficenza. Il punto è un altro. E’ che la scuola non può essere un mercato. In parte lo è, inevitabilmente. Questo è il periodo in cui in condizioni normali le sale docenti sono prese d’assalto dai rappresentanti delle case editrici per proporre i nuovi libri da adottare, un mercato particolarmente lucroso, che pesa parecchio sulle spalle delle famiglie. C’è una differenza, però. L’adozione di libri di testo resta necessaria perché non sono disponibili alternative gratuite. E, sia detto per inciso, è triste che migliaia di docenti non riescano a mettersi in rete per creare libri di testo affidabili, efficaci perché nati dall’effettiva esperienza didattica e, soprattutto, gratuiti. Non mancano, naturalmente, esperienze in questo senso, come la rete Book in progress promossa dall’Istituto Majorana di Brindisi; esperienze che restano tuttavia, e purtroppo, marginali, anche perché i materiali, per ovvie ragioni, possono essere offerti gratuitamente solo in versione digitale: e fino a quando non vi sarà un serio passaggio alla digitalizzazione dei materiali di studio, questo sarà un handicap. Nel caso dei servizi e dei software digitali la questione è diversa. Esistono alternative valide, gratuite e spesso open source non solo a Microsoft Office (OpenOffice e LibreOffice) ma anche alle piattaforme di didattica a distanza che stanno prendendo piede in questi giorni. Moodle è la piattaforma per la didattica a distanza più completa esistente, usata da centinaia di istituzioni in tutto il mondo, comprese molte università italiane. E’ un software gratuito, open source e sostenuto da una vasta comunità, pronta anche a dare assistenza in caso di bisogno. Ed è il grande assente in questi giorni di rincorsa agli strumenti per la didattica online. In sostanza il Miur potrebbe indicare a tutte le scuole un software gratuito e libero, ma preferisce indirizzarle verso le offerte di multinazionali con interessi privati. Perché?
Ho scritto che Moodle è un software completo. Essendo completo, è anche più complesso di altri strumenti. Non è difficile, basta davvero poco per imparare ad usarlo, anche se occorre un po’ più di pratica e di studio per sfruttarne tutte le potenzialità. Ma per molti docenti resta troppo difficile. E qui veniamo al punto. Nonostante gli investimenti del Miur nella formazione digitale dei docenti, nonostante il Piano Nazionale Scuola Digitale, nonostante l’introduzione della figura dell’animatore digitale (una figura, bisogna dire, con molti compiti cui non corrisponde in sostanza alcuna retribuzione), la scuola italiana arriva all’emergenza attuale ampiamente impreparata. La narrazione di questi giorni vuole i docenti impegnati eroicamente a far sentire ai propri studenti la loro presenza. E’ vero, l’impegno è massimo. Ma è un impegno scoordinato, tecnicamente rozzo, che procede per tentativi ed errori. E, soprattutto, con la rincorsa allo strumento più semplice da usare, alla soluzione agevole. Google e Microsoft appaiono soluzioni salvifiche perché sono noti anche a chi non è troppo avvezzo al digitale. Rassicurano.
C’è una conseguenza grave di questa improvvisazione. Cosa vuol dire fare didattica a distanza? Non significa, certo, scrivere sul registro elettronico le pagine da studiare e i compiti da fare. Ma non significa nemmeno mandare videolezioni o fare lezioni in videoconferenza. Massima stima per chi lo fa, ma manca qualcosa. Manca una riflessione su cosa è l’apprendimento e cosa è la scuola. (A dire il vero, manca anche, spesso, nella scuola in presenza, ma questo è un altro discorso.) Cosa vuol dire apprendere? Come apprendiamo? Si apprende davvero diventando fruitori di un prodotto digitale come una videolezione? Solo in parte. Come hanno mostrato studiosi come Etienne Wenger, il teorico delle comunità di pratica, l’apprendimento è un fatto sociale: si apprende realmente – in modo non nozionistico – solo in una situazione sociale, dialogica, comunitaria. In Italia tendiamo a pensare alla scuola centrando l’attenzione sulla relazione tra il docente e lo studente. Fondamentale è invece la relazione orizzontale. Una classe diventa un luogo di apprendimento nella misura in cui riesce a costituirsi come una comunità di persone che apprendono insieme. Senza questo aspetto sociale, di condivisione e ricerca comune, c’è la ricerca individualistica del profitto scolastico, troppo spesso ottenuto con una semplice simulazione di apprendimento. Non è dunque sufficiente creare una classe virtuale per caricare i materiali da studiare e farsi consegnare i compiti svolti. Una classe virtuale può e dev’essere anch’essa una comunità di apprendimento. Il suo centro non è la condivisione di materiali, ma la condivisione di esperienze. Lo strumento principale non è l’area per la condivisione di file e nemmeno il tool che consente la videochiamata di gruppo, ma il forum di discussione, il luogo virtuale nel quale le esperienze individuali possono farsi sociali nonostante i limiti della comunicazione on-line. E’ poiché la scuola è il luogo in cui si costruisce quella consapevolezza critica nei confronti del contesto sociale senza la quale non è possibile alcun cambiamento (e la scuola è chiamata a cambiare la società, non solo a riprodurla), è importante che anche questi luoghi di apprendimento virtuale siano quanto più è possibile liberi dalla logica del profitto.

Gli Stati Generali, 14 marzo 2020.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org

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