Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n’esca con l’affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E’ invece l’editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: “Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo”. Pensate un po’ che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l’idraulica, non l’entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell’educazione!
Sia chiaro: è cosa buona e giusta criticare, anche con la dovuta decisione, le concezioni pedagogiche che pretendono di orientare la prassi scolastica e la sua organizzazione; ma farlo significa, appunto, fare pedagogia. Qualsiasi discorso sensato, fondato, documentato, ragionato sulla scuola è un discorso pedagogico. Un discorso sulla scuola che non sia pedagogico è semplicemente un discorso a vanvera. In una recensione al vetriolo Christian Raimo ha dimostrato punto per punto che è esattamente questo il caso del libro di Galli della Loggia. E dal momento che la sua stroncatura è così puntuale, potrei evitare la mia.
Su una cosa però mi pare importante riflettere.
Si è consolidato ormai da diversi anni un certo discorso di sinistra sulla scuola (ne è una sintesi efficace l’articolo di Girolamo De Michele sul primo numero di Jacobin, significativamente intitolato – il numero – Vivere in un paese senza sinistra). In sintesi, dice che la scuola è alla deriva perché le ultime riforme, buon ultima la Buona Scuola renziana, l’hanno svenduta al mercato, facendo dell’istruzione pubblica uno strumento al servizio delle aziende e delle logiche neoliberiste. Lo dimostra l’introduzione dell’alternanza scuola lavoro e delle competenze e l’attacco all’istruzione classica e umanistica. Ora, l’aspetto interessante del libro di Galli della Loggia è che la sua critica da destra della scuola si concentra sugli stessi temi: alternanza, competenze e cultura umanistica. La scuola deve preservare la purezza della tradizione umanistica e tenere alti i suoi fini, che sono di preparazione generale alla vita, non di formazione al lavoro; grave è che si sia “lasciato deperire l’antico retaggio umanistico” facendo “sempre più spazio agli insegnamenti tecnico-scientifici”. Una lamentela singolare, in un Paese che sconta un penoso ritardo sul piano della formazione scientifica, e nel quale la diffusa mentalità antiscientifica sta diventando un problema sociale serio. Di questo tradimento della sua alta missione è per Galli della Loggia espressione “la misura – peraltro largamente fallimentare – dell’alternanza scuola-lavoro, laddove sarebbe stato certamente assai meglio, invece, mettere a punto il rilancio dei negletti istituti tecnici”. Quanto alle competenze, esse scalzano le vecchie conoscenze e mirano ad un fine “innanzitutto pratico sperimentale”.
Abbiamo dunque un caso curioso: una medesima narrazione sulla scuola, a destra quanto a sinistra (a sinistra del Pd, s’intende). C’è qualcosa che non torna.
Galli della Loggia ricorda la conferenza sulla scuola che il Partito comunista tenne nel 1971, nella quale si affermava con forza l’importanza del legame tra istruzione e lavoro e si proponeva l’idea di una “sperimentazione perpetua”, che a Galli della Loggia pare un “agghiacciante auspicio” frutto di una “pedagogia fai da te”: e detto da lui suona davvero surreale. Il legame tra istruzione e lavoro è stato in effetti sempre uno dei punti fermi della pedagogia comunista, a cominciare da Anton Makarenko. Ma lo si trova anche nella pedagogia di sinistra in generale. Perfino nel socialista Gandhi, il cui Nai Talim è centrato sul lavoro molto più che sullo studio. Ma si può andare indietro nel tempo, fin prima di Marx: non c’è educatore progressista che non abbia affermato il valore formativo del lavoro. Ora si è invece deciso, a sinistra, che parlare di lavoro a scuola significa formare al neoliberismo. La cosa curiosa è che tra i riferimenti ideali di questa critica di sinistra c’è don Milani, la cui Scuola di Barbiana aveva due ambienti: un’aula per lo studio e, accanto, un’officina per la formazione professionale. E non è che il capitalismo del tempo di don Milani fosse meno capitalismo di quello di oggi.
Galli della Loggia ne imbrocca una, anche se mette a nudo le contraddizioni del suo discorso. Dopo aver sostenuto che la crisi della scuola italiana è dovuta alla diffusione dei valori del Sessantotto ed all’azione dei comunisti, osserva che “l’istituzione scolastica e i suoi addetti, infatti, possiedono una straordinaria capacità di resistenza al cambiamento, che si manifesta attraverso il ben noto meccanismo dell’obbedienza simulata. Si finge, cioè, di applicare la novità, ma lo si fa solo formalmente, sulla carta, compilando tutte le scartoffie di prescrizione ministeriale, adoperando il nuovo lessico richiesto dalla novità stessa e facendo come se dietro tutto quel mare di parole ci fossero dei fatti: i quali invece in larga misura non ci sono”. E’ verissimo. Ma proprio questa straordinaria capacità di resistere al cambiamento neutralizzando qualsiasi novità ha fatto sì che la scuola italiana sia rimasta drammaticamente uguale a sé stessa nel corso dei decenni. La pedana sotto la cattedra, tanto compianta da Galli della Loggia (e non è il solo), in realtà resiste in non poche scuole; e se non c’è fisicamente, c’è psicologicamente. Al centro della scuola resta la penosa routine lezione-manuale-studio a casa. In uno dei momenti più infelici di un libro infelice, Galli della Loggia se la prende con Tullio De Mauro, colpevole di aver parlato all’inizio degli anni settanta di cose cose come la sostituzione del manuale scolastico con le biblioteche, il superamento del nozionismo, il ripensamento dei banchi e delle aule, il lavoro di ricerca. Ecco, bisognerebbe rileggerlo, il De Mauro di quegli anni. C’era lì una concezione coraggiosa, e di sinistra, della scuola. La terminologia era diversa, ma cos’è, se non lavoro sulle competenze, passare dallo studio manualistico alla ricerca? Perché competenza è saper fare, e c’è un saper fare critico, così come c’è un saper fare funzionale al sistema. Ai docenti che a sinistra si riempiono la bocca con il pensiero critico sfugge che questa è, appunto, una competenza. E fare una scuola critica non è possibile se non lavorando su competenze.
Uno dei maggiori pericoli per la scuola è questo discorso sulla scuola, di cui il libro di Galli della Loggia offre una sintesi efficace, per quanto penosa – e nella sua penosa efficacia è la sua utilità – che sta diventando trasversale: pur essendo di destra, viene apprezzato anche a sinistra; pur essendo acritico, conservatore, autoritario, si spaccia per resistente, anti-sistema, innovatore. E mentre la scuola tira a campare come sempre, viene a mancare una vera proposta di sinistra (a sinistra del Pd, s’intende) sulla scuola.
Gli Stati Generali, 18 giugno 2019.