La giustizia, scrive Simone Weil, consiste “nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini” (La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, p. 47). E “viene fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: ‘Perché mi viene fatto del male?'”.
Il diritto, per Weil, è altra cosa. Esso nasce dalla domanda: “Perché l’altro ha più di me?”.
Per Weil bisogna distinguere il grido della giustizia da quello dei diritti: ascoltare il primo e mettere a tacere il secondo “con la minore brutalità possibile, servendosi di un codice, dei tribunali e della polizia” (p. 48). Il che vuol dire che la ricerca dell’uguaglianza, per Weil, dev’essere repressa con la forza dallo Stato.
Ci sono due limiti in questo discorso. Quello più evidente è che mi si fa del male, se le disuguaglianze economiche non mi consentono di vivere una vita degna. Un povero è una vittima, non uno che prova invidia; ed esiste una violenza sistemica che non è meno grave della violenza diretta. Il limite meno evidente è la considerazione del solo essere umano. Anche agli animali viene fatto del male. Anzi, soprattutto a loro. E, se non hanno parola, tuttavia gridano. Non è anche il loro grido un fondamento della giustizia?
(Solita compresenza, nelle pagine di Weil, di idiozie e di cose sublimi. In questo stesso libretto ci sono cose esatte sulla dimensione transpersonale del bene.)