Etiévant in una stampa popolare |
Un vero duro, Georges Etiévant. Il 16 gennaio del 1898 aggredisce con ventidue coltellate un poliziotto, altre sedici le riserva ad un collega che corre a soccorrerlo. Lo portano al posto di polizia, ma si dimenticano di perquisirlo: c’è ancora tempo per un colpo di pistola al secondo agente. Ha trentatré anni. Lo condannano a morte, con pena commutata nei lavori forzati a vita. Gli è andata bene. O male, dipende dai punti di vista. Morirà non troppo tempo dopo.
Un vero filosofo, Georges Etiévant. Qualche anno prima, nel 1892, aveva rubato della dinamite che serviva al più famoso Ravachol. Al tribunale che lo processa presenta una dichiarazione difensiva che è, in realtà, una durissima accusa. Questo giovane tipografo la sa lunga: contesta il diritto stesso di giudicare. Il diritto, si sa, ha una sua rozzezza; per funzionare ha bisogno di categorie che all’occhio del filosofo appaiono fragili, evanescenti. Perché un contratto sia valido, occorre che vi siano dei soggetti, e che questi soggetti restino uguali a sé stessi nel tempo. Perché mai, altrimenti, dovrebbe obbligarmi un contratto, se a firmarlo è stato uno che non sono io – e cioè: un io che non è il mio io attuale? Il diritto ha bisogno del soggetto; ma la filosofia sa che il soggetto è finzione. Il diritto ha bisogno, per giudicare, della responsabilità e della libertà. Anch’esse finzioni. L’imputato Etiévant ha le sue ragioni: quel che facciamo non è che il risultato di ciò che abbiamo percepito e delle reazioni che queste percezioni hanno suscitato in noi. Ho ucciso. Perché? E’ sorto in me un odio, che ha le sue cause. Certo, avrei potuto resistere a quell’odio. L’avrei fatto senz’altro, se avessi avuto in me una forza capace di resistere; se non l’ho fatto, evidentemente quella forza non l’avevo: e di ciò che non ho, non posso essere responsabile. Ecco dunque l’assurdo di ogni tribunale. Per giudicare un uomo, accusa Etiévant, bisognerebbe conoscere alla perfezione le percezioni che hanno agito su di lui e le reazioni che esse hanno suscitato; bisognerebbe, in altri termini, essere quell’uomo. Nessuno può giudicare un altro. Aggiungerei che nemmeno noi stessi siamo in grado di giudicarci, perché il nostro essere ci accade come, fuori di noi, accade la pioggia o il vento.
E’ un uomo contro tutti, Etiévant. Nella seconda parte della sua dichiarazione rivendica il suo diritto di ribellarsi. Con la nascita, acquisiamo il diritto di vivere e di essere felici. Abbiamo polmoni per respirare, occhi per vedere, gambe per camminare. Ma, ecco: nasciamo in un mondo che non ci appartiene. Facciamo due passi, ma dobbiamo arrestarci perché c’è un confine: oltre, è proprietà di qualcuno. Il mondo è stato fatto a pezzi, e questi pezzi appartengono a qualcuno, e questo qualcuno non siamo noi. Il diritto di godere del nutrimento, dell’aria, del sole, della terra, ci viene negato. Lo stesso diritto alla vita viene calpestato. Possiamo sopravvivere solo se ci sottomettiamo ai padroni della terra, se accettiamo le loro condizioni – se accettiamo la schiavitù. Ma noi siamo nati per ben altro. Nascendo, abbiamo acquisito il diritto su tutto, ed in questo consiste la nostra dignità.
C’è ancora spazio, nella dichiarazione di Etiévant, per l’immagine di un mondo libero dallo sfruttamento, dalla proprietà, dalla stratificazione sociale. Una immagine che nella mente del giovane tipografo era circondata e sostenuta dalle certezze della scienza, e che oggi sopravvive in un’area singolare della nostra coscienza inquieta, in cui quel che resta della religione s’incontra con quel che resta della politica.
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Nessuna idea è innata in noi: esse ci vengono tutte con l’aiuto dei sensi, dall’ambiente in cui viviamo. Ciò è talmente vero che, se ci manca un senso, non possiamo farci alcuna idea dei fatti corrispondenti a quel senso. Ad esempio, mai un cieco dalla nascita potrà farsi una idea della diversità di colori, perché gli manca la facoltà necessaria per percepire l’irradiamento degli oggetti. Inoltre, seguendo le nostre attitudini, che abbiamo dalla nascita, possediamo, sia in un ordine di idee che nell’altro, una facoltà di assimilazione più o meno grande, che proviene dalla più o meno grande facoltà di ricettività che noi abbiamo su tale soggetto. E’ così, ad esempio, che alcuni apprendono facilmente la matematica ed altri hanno una maggiore attitudine per la linguistica. Questa facoltà d’assimilazione che è in noi può svilupparsi in una proporzione che varia all’infinito di persona in persona, a seguito della molteplicità di sensazioni analoghe percepite.
Ma, così come, se ci serviamo quasi esclusivamente delle nostre braccia, queste acquisteranno più forza, a spese di altre membra o parti del nostro corpo, e diventeranno più adatte a svolgere il loro ruolo, mentre le altre lo saranno meno; ugualmente, più la nostra facoltà di assimilazione si eserciterà in seguito ad una molteplicità di sensazioni analoghe sviluppate in un ordine di idee, più, relativamente all’insieme delle nostre facoltà, presenteremo una forza di resistenza all’assimilazione di idee che provengano da un ordine avverso. E’ così che, se siamo arrivati a credere che tale cosa o tale idea sia vera e buona, qualsiasi idea contraria ci urterà ed opporremo alla sua assimilazione una resistenza molto forte, mentre essa sembrerà ad un altro così naturale e giusta che, in buona fede, non potrà immaginarsi che qualcuno possa pensarla diversamente. Di tutti questi fatti abbiamo esempi ogni giorno, e non credo che se ne contesti seriamente l’autenticità. Posto ed ammesso questo, e poiché ogni azione è la risultante di una o più idee, diventa evidente che, per giudicare un uomo, per giungere a conoscere la responsabilità di un individuo nel compimento di un atto, bisognerebbe conoscere ciascuna delle sensazioni che hanno determinato il compimento di quell’atto ed apprezzarne l’intensità, sapere quale facoltà ricettiva o quale forza di resistenza ciascuna di esse ha potuto incontrare in lui, così come il lasso di tempo durante il quale egli è stato sotto l’influenza di ciascuna prima, di molte poi, e di tutte alla fine.
Ora, chi vi darà la facoltà di percepire e di sentire ciò che gli altri percepiscono e provano, o hanno percepito o provato? come potrete giudicare un individuo se non potete conoscere esattamente la cause determinanti delle sue azioni? E come potrete conoscere queste cause, tutte queste cause, così come la loro reciproca relatività, se non siete in grado di penetrare negli arcani della sua mentalità e identificarvi con lui, in modo tale da conoscere alla perfezione il suo io? Per farlo, bisognerebbe conoscere il suo temperamento meglio di quanto, spesso, si conosce il proprio; di più: avere un temperamento simile, sottomettersi alle stesse influenze, vivere nello stesso ambiente nello stesso lasso di tempo, unico modo per rendersi conto del numero e della forza delle influenze di questo ambiente, comparativamente alla facoltà di assimilazione che queste influenze hanno potuto incontrare in quell’individuo.
E’ dunque impossibile giudicare i nostri simili, a causa della impossibilità in cui ci troviamo di conoscere con esattezza le influenze cui essi obbediscono e la forza delle sensazioni che determinano le loro azioni, comparativamente alle loro facoltà di assimilazione o alla loro capacità di resistenza. Ma se questa impossibilità non esistesse, non non arriveremmo, al massimo, che a renderci conto esattamente del gioco delle influenze cui essi hanno obbedito, dei rapporto reciproci tra loro, della più o meno grande ricettività nel subire queste influenze, ma non potremmo da ciò conoscere la loro responsabilità nel compimento di un atto, per questa buona e magnifica ragione, che la responsabilità non esiste.
Per rendersi conto della inesistenza della responsabilità, basta considerare il gioco delle facoltà intellettuali nell’uomo. Perché la responsabilità esistesse, occorrerebbe che la volontà determinasse le sensazioni, così come esse determinano l’idea, e l’idea l’azione. Ma, al contrario, sono le sensazioni che determinano la volontà, che la fanno nascere in noi e che la dirigono. Poiché la volontà non è altro che il desiderio che abbiamo di compiere una cosa destinata a soddisfare uno dei nostri bisogni, vale a dire a procurarci una sensazione di piacere e ad allontanare da noi una sensazione di dolore, e, di conseguenza, bisogna che queste sensazioni siano o siano state percepite perché nasca in noi la volontà. E la volontà, creata dalle sensazioni, non può essere cambiata se non da nuove sensazioni, vale a dire che essa può prendere un’altra direzione, perseguire un altro scopo, solo se delle sensazioni nuove fanno nascere in noi un nuovo ordine d’idee o modificano in noi l’ordine delle idee preesistente. Ciò è stato riconosciuto da tutti i tempi, e voi stessi lo riconoscete tacitamente, poiché, in definitiva, far perorare davanti a voi il pro e il contro non è provare che sensazioni nuove, che vi giungono attraverso l’udito, possono far nascere in voi la volontà di agire in un modo o in un altro, o modificare la vostra volontà preesistente? Ma, come ho detto all’inizio, se ci siamo abituati, in seguito ad una lunga successione di idee analoghe, a considerare questa cosa o questa idea come buona e giusta, qualsiasi idea contraria ci urterà, e noi opporremo una grande forza di resistenza alla sua assimilazione.
E’ per questa ragione che le persone anziane adottano meno facilmente delle idee nuove, atteso che nel corso della loro esistenze hanno percepito una molteplicità di sensazioni provenienti dall’ambiente in cui sono vissute, e che le hanno portati a considerare come buone le idee conformi alla concezione generale di questo ambiente sul giusto e l’ingiusto. E’ ancora per questa ragione che la nozione di giusto ed ingiusto è variata senza fine nel corso dei secoli e che anche ai nostri giorni differisce stranamente in base da clima a clima, da popolo a popolo ed anche da uomo a uomo. E dal momento che queste diverse concezioni non possono essere che relativamente giuste e buone, dobbiamo concludere che una grande porzione, se non la totalità dell’umanità, sbaglia ancora a questo riguardo. E’ ciò che ci spiega ugualmente perché un argomento che comporta il convincimento dell’uno lascia l’altro indifferente.
Ma, in un modo o nell’altro, colui che l’argomento avrà impressionato non potrà fare in modo che la sua volontà non sia determinata in un senso, e colui che l’argomento avrà lasciato indifferente non potrà fare in modo che la sua volontà non resti la stessa, e di conseguenza l’uno non potrà non agire in un modo e l’altro nel modo contrario, a meno che nuove sensazioni non vengano a modificare la loro volontà.
Benché ciò abbia l’aria di un paradosso, noi non compiamo alcuna azione buona o cattiva, per quanto minima essa sia, che non siamo forzati a fare, atteso che ogni atto è il risultato della relatività che c’è tra una molteplicità di sensazioni che ci vengono dall’ambiente in cui viviamo e la più o meno grande facoltà d’assimilazione che essa può incontrare in noi. O, dal momento che non possiamo essere responsabili della più o meno grande facoltà d’assimilazione che è in noi, relativamente a un ordine di sensazioni o a un altro, né dell’esistenza o dell’inesistenza delle influenze provenienti dall’ambiente in cui viviamo e delle sensazioni che ce ne vengono, più che della loro relatività e della nostra più o meno grande facoltà di ricettività o di resistenza, non non possiamo essere responsabili del risultato di questa relatività, atteso che essa è non solo indipendente dalla nostra volontà, ma anche che essa ne è determinante. Dunque, qualsiasi giudizio è impossibile e qualsiasi ricompensa, come qualsiasi punizione, è ingiusta, per quanto minima essa sia, e per quanto grandi possano essere il bene o il male compiuti.
Non è dunque possibile giudicare gli uomini, e nemmeno le azioni, a meno di avere un criterio sufficiente. Ora, questo criterio non esiste. In ogni caso, non lo si potrà trovare nelle leggi, perché la vera giustizia è immutabile e le leggi cambiano. Per le leggi vale quello che vale per tutto il resto. Se le leggi sono buone, a che deputati e senatori per cambiarle? E, se sono cattive, a che magistrati per applicarle?
Per il fatto stesso di essere nato, ciascun essere ha il diritto di vivere e di essere felice. Questo diritto di andare, di venire liberamente nello spazio, il suolo sotto ai piedi, il cielo sulla testa, il sole negli occhi, l’aria nel petto – questo diritto primordiale, anteriore a tutti gli altri diritti, imperscrittibile e naturale – lo si contesta a milioni di esseri umani.
Questi milioni di diseredati ai quali i ricchi hanno preso la terra – la madre nutrice di tutti – non possono fare un passo a destra o a manca, mangiare o dormire, godere in una parola dei loro organi. soddisfare i loro bisogni e vivere, senza il permesso di altri uomini; la loro vita è sempre precaria, alla mercé dei capricci di coloro che sono diventati i loro padroni. Non possono andare e venire nel grande dominio umano senza incontrare ad ogni passo una barriera, senza essere fermati con queste parole: non andate in questo campo, appartiene a un tale; non andate in questo bosco, appartiene a questo qui; non cogliete questi frutti, non pescate questi pesci, sono proprietà di quello là.
E se domandano: Ma allora, noi cosa abbiamo? Niente, si risponde loro. Voi non avete niente – e per mezzo della religione e delle leggi si plasma il loro cervello affinché accettino senza mormorare questa evidente ingiustizia.
Le radici delle piante assimilano il succo della terra, ma il prodotto non è per voi, si dice loro. La pioggia vi bagna come gli altri, ma non è per voi che essa fa crescere i raccolti, ed il sole splende per dorare le messi e maturale i frutti di cui non godrete.
La terra gira intorno al sole e presenta alternativamente ciascuna delle sue facce all’influenza vivificante di quell’astro, ma questo grande movimento non si fa a profitto di tutte le creature, perché la terra appartiene agli uni e non agli altri, degli uomini l’hanno comprata con il loro oro ed il loro argento. Ma non quali sotterfugi, dal momento che l’oro e l’argento sono contenuti nella terra con questi metalli?
Come può essere che una parte possa valere quanto il tutto?
Come può essere che, comprando la terra con il loro oro, essi siano proprietari anche di tutto l’oro? Mistero!
Ma se i diseredati domandassero: Come faremo a vivere, se non abbiamo diritto a niente? Rassicuratevi, si risponderebbe loro: i possidenti sono brava gente, e se siete un poco saggi e obbedite a tutte le loro volontà, vi permetteranno di vivere, ed in cambio voi lavorerete i loro campi, gli farete dei vestiti, costruirete le loro case, tosare le loro pecore, potare i loro alberi, costruire delle macchine, dei libri; in una parola, procurare loro tutti i godimenti fisici e intellettuali ai quali essi soli hanno diritto. Se i ricchi hanno la bontà di lasciarvi mangiare il loro pane, di bere la loro acqua, dovete ringraziarli infinitamente, perché la vostra vita appartiene a loro nel tempo stesso che le resta.
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