La società delle persone

Vittorio Feltri ha scritto un tweet che contiene una delle cose più volgari che un essere umano possa dire a un altro essere umano.

Un tweet che con ogni probabilità non sarà rimosso, nonostante le molte prevedibili richiese. Perché le offese che vengono rimosse, su Twitter come su altri social, riguardano soprattutto (cito dal form di segnalazione di Twitter alla voce Attacchi per via della sua identità): “Offese, utilizzo intenzionale di un genere incorretto, stereotipi razziali o sessisti, incitamento di terzi a molestare oppure immagini d’odio”. Riguardano, cioè, soprattutto l’identità sessuale e razziale.

La morte è l’esperienza più nostra, più propria. O meglio: non la morte in sé, sulla quale in fondo aveva ragione Epicuro: quando c’è, noi non ci siamo. Ma la mortalità. L’esperienza di avere la morte come orizzonte vicino. Colui che sa di essere condannato a morte vive una esperienza che lo separa in modo irrimediabile da chiunque altro. Non è un caso che per filosofi come Michelstaedter e Heidegger quella esperienza sia la porta d’accesso alla autenticità.

Per un social network, che è un interprete infallibile della sensibilità comune che contribuisce a modellare, un attacco alla persone che tocchi la sfera della mortalità non è censurabile. Perché la mortalità, proprio perché così personale, non è questione pubblica. È fuori dalla scena. Sono sulla scena, invece, l’identità di genere e razziale.

Si ritiene comunemente che la nostra sia una società degli individui. Non lo è. Siamo invece sempre più una società delle persone. Il personalismo di Maritain e di Mounier – che in Italia è diventato un penoso balbettare democristiano – voleva contrapporre all’atomismo sociale una idea di essere umano incarnato, preso nelle sue relazioni, impegnato nella comunità. E questa sarebbe la persona. Termine infelice, però: perché persona è la maschera che l’attore indossa sul palcoscenico per interpretare un personaggio. E non è forse sbagliato dire che quella in cui siamo, e in cui sempre più saremo, è in effetti una società delle persone. Non siamo qualcuno in quanto individui, ossia per il nostro irripetibile modo di essere, per ciò che più è proprio, per la nostra haecceitas. Siamo qualcuno, esistiamo, nella misura in cui, invece, facciamo nostra una maschera sociale. Cosa non nuova, naturalmente. La novità è nella tipologia delle maschere. Un tempo erano maschere social-professionali – l’avvocato, l’ingegnere, il mitico commendatore -o politico-ideologiche (il fascista, il comunista eccetera). Oggi abbiamo maschere diverse. Che riguardano sfere intime, come la sessualità, l’identità di genere, la neurodiversità, l’etnia. E si potrebbe dubitare che si tratti di maschere. La sessualità non è una cosa profondamente mia, quasi al pari della morte? Lo sarebbero, se non facessero aggio su tutto il resto. Se chi è lesbica, o gender fluir, o Asperger, non si identificasse interamente con quello che non è, evidentemente, che un aspetto del suo essere un essere umano; e se il suo riconoscimento sociale non passasse attraverso questa riduzione della sua complessità.

Esistiamo socialmente nella misura in cui, appunto, esistiamo: sbalziamo fuori dalla nostra irriducibile complessità e ci collochiamo in una identità socialmente riconosciuta. Impresa rischiosa, da cui presto scaturisce qualche disagio, e che spiega l’inarrestabile parcellizzarsi delle stesse identità sociali: perché si cerca qualcosa che sempre più dica il nostro essere irripetibile. Cosa impossibile, perché noi siamo individui, e non categorie sociali. E intanto la nostra micro-categoria sociale, per individuarsi, è entrata in conflitto con le altre da cui ha dovuto prendere distanze. Un triste palcoscenico di maschere che si riproducono per scissione e che, appena nate, entrano in conflitto con le altre, prima di contorcersi per una ulteriore scissione interna.

Foto di Javad Esmaeili su Unsplash

Author: Antonio Vigilante

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