Una faina. La vita di una faina. Un romanzo sulla vita di una faina. E non un romanzo qualsiasi: un romanzo che ha vinto il Campiello.
Come si racconta la vita di una faina? Bisognerà provare ad essere una faina. Chiedersi cos’è essere un animale. Qualcosa alla Uexküll, ma con in più il talento del narratore. Bello!
Questo pensavo, più o meno, apprestandomi alla lettura di I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni (Sellerio, Palermo 2021), con le migliori aspettative: sia perché, appunto, ha vinto il Campiello, sia perché se ne dice un gran bene.
Mi trovo subito alle prese con una faina che si chiama Archy. Perché Archy? Sarà perché le faine vivono negli Stati Uniti? Ma no. Il loro habitat è europeo e mediorientale. La nostra faina avrebbe più realisticamente potuto chiamarsi Peppino. Ma soprattutto: che faina è una faina che ha un nome? Per giunta parla. E dorme in un letto. Gli animali di Zannoni hanno il comodino e la lampada, e quando occorre chiamano il medico: e dunque no, niente Uexkül. Nessuno sforzo di essere una faina. Ma nemmeno ci si muove in un mondo disneyano: la cosa diventa chiara oltre ogni possibilità di equivoco quando la mamma di Archy fa saltare un occhio alla sorella con una zampata.
Gli animali di Zannoni compiono gli atti più efferati con assoluta naturalezza, come si conviene a degli animali. E sarebbe pur interessante, la storia, se ritrasse un mondo umano ricondotto ai suoi primordiali istinti animali: la sopravvivenza, la conquista della femmina, la riproduzione. Ma ciò avrebbe richiesto rigore e metodo. E invece abbiamo una femmina di faina che, contro ogni saggezza animale, si innamora del protagonista, pur sapendolo fragile, perché gli sembra buono. Siamo, insomma, in un mondo di mezzo, che oscilla di continuo tra l’umano e l’animale, e che rende poco plausibile il dramma della volpe Solomon, figura pur interessante, che scopre in un solo colpo che esiste la morte, che esiste Dio e che esistono la Scrittura (la Bibbia) e la scrittura. Quattro cose umane, la cui conoscenza illude la vecchia volpe di essere in realtà un essere umano: come se non fosse già un essere umano mascherato da volpe. Che muore disperatamente, in pagine tra le più belle del libro, nudo d’ogni certezza. Inverando, della sua amata Bibbia, il solo libro di Qohelet.
La morte del protagonista invece, con cui il libro si conclude, è la parte meno riuscita del libro. E non solo perché fa strano questa vecchia faina che in un lago di sangue prende la penna, anzi l’aculeo del suo amico istrice Klaus (anche qui non si capisce bene perché il nome tedesco), per raccontare in diretta la sua fine, ma perché anche nel momento supremo la nostra faina resta indecisa: morire da animale, finalmente, o sperare che ci sia qualcosa, come un uomo?
La storia della letteratura è piena di animali parlanti, di animali che non sono animali, le cui vicende contengono una morale o intendono semplicemente divertire. La particolarità degli esseri usciti dalla fantasia di Zannoni è non sono né animali né esseri umani e soffrono per questa loro condizione limbica, tentati ora dall’innocenza animale ora dall’immortalità che illude gli umani. E se il romanzo di Zannoni riesce con una certa efficacia a divertire – scorre bene dalla prima all’ultima pagina – a non convincere è la messe di questioni filosofiche e religiose che solleva (cos’è essere un animale? cos’è essere un umano? cos’è avere un Dio? cos’è scrivere?) e che restano appunto sollevate, sospese, come una nuvola che minaccia pioggia e invece non riesce che ad oscurare per un po’ il cielo.
Spiace per questi esserini, si simpatizza con loro, ma alla fine si resta un po’ come Said dopo aver ascoltato la storia di Grumwalski ne L’odio di Kassowitz: “Che ce l’ha raccontato a fare?’