Un altro mondo (virtuale) è possibile

Se dovessi sintetizzare in poche parole il mio ideale politico-sociale, direi più o meno questo: un sistema in cui gli Stati siano sostituiti da ma un insieme di città libere di federarsi con altre città, di stringere accordi commerciali e di creare insieme infrastrutture tecnologiche; ogni città sarà governata secondo il criterio della massima partecipazione possibile al potere.Sono ben consapevole che una simile realtà non ha molte speranze di realizzarsi, almeno a breve, anche se nel Rojava i curdi stanno facendo un tentativo coraggioso di praticare il municipalismo libertario di Murray Bookchin, filtrato dalla lettura di Abdullah Öcalan. Siamo però nel terzo decennio del secondo millennio, e la realtà che viviamo non è più solo la cara vecchia dimensione fisica. Abitiamo due mondi paralleli: il mondo fisico, reale (ma cosa è reale?) e quello virtuale. E a quanto pare – se le speranze di Zuckerberg non saranno deluse – nel futuro prossimo questo secondo mondo sarà sempre più presente nelle nostre vite. È anche, se non soprattutto, ormai, alla luce del mondo virtuale che dobbiamo saggiare la plausibilità dei nostri ideali.

Ho parlato di mondi paralleli. Non è proprio corretto, a dire il vero: perché questi due mondi si incrociano costantemente. Sui social network si discute di ciò che accade nel mondo cosiddetto reale, che a sua volta è trasformato da queste discussioni. Adattando il teorema di Thomas si può dire che se nel mondo virtuale le persone si convincono che alcune situazioni sono reali, esse diventano reali nelle loro conseguenze. È sui social network, più che nei luoghi reali, che si costruisce ormai il discorso pubblico, e gli esiti di questo lavoro hanno conseguenze sulla vita di tutti, non ultimo il risultato delle elezioni politiche.

I social network sono il luogo in cui si svolge una parte assolutamente significativa della nostra vita sociale. E poiché le nostre interazioni con gli altri costruiscono la società, è cosa della massima importanza ragionare sulla natura di questi luoghi. Per spiegare per quale ragione ritengo che i social network più diffusi rappresentino un pericolo per la nostra società userò due immagini.

Prima. Il signor Tizio esce di casa. Saluta il vicino. In quell’istante qualcuno, da qualche parte, guadagna cinque centesimi. Il signor Tizio compra il pane. Cinque centesimi. E così per tutto il giorno. E così per tutto l’anno. E così per tutta la vita. Tutta la vita di Tizio, momento dopo momento, interazione dopo interazione – amore, odio, passioni e noia – sarà servita a far comparire tanti soldi sul conto in banca di qualcuno.

Seconda. Una stanza piena di persone che parlano. Una mano invisibile abbassa la voce ad uno, alza la voce a un altro, mette a tacere del tutto un terzo, un quarto lo sposta in fondo alla stanza, un quinto lo porta fuori dalla stanza. Mentre tutti parlano, e hanno l’impressione che ciò che accade sia per così dire naturale, c’è qualcuno che regola le cose in modo da portare le interazioni dove vuole. Se ne accorgerà chi sarà stato espulso dalla stanza, ma non saprà con chi protestare: perché la mano è invisibile.

La prima immagine riguarda la monetizzazione, la seconda l’azione degli algoritmi. I social sono realtà commerciali private che trasformano le nostre vite in denaro. Per farlo hanno bisogno di due cose: raccogliere una grande quantità di dati su di noi e regolare le nostre interazioni. Shoshana Zuboff ha mostrato ne Il capitalismo della sorveglianza in quale modo i social si sono evoluti per trarre ricchezza – una enorme ricchezza – dai nostri dati e dalle nostre interazioni, in un modo che è insano e pericoloso: perché un social network pacato, in cui le persone discutono in modo razionale, è meno economicamente vantaggioso di un social network polarizzato, in cui si litiga e ci si odia.

La nostra seconda vita sui social è dunque questa. Abitiamo un mondo interamente proprietario (come se fosse proprietà privata tutto: la strada, il parco, perfino l’aria che respiriamo) e interamente finalizzato alla creazione di profitto economico. Facebook, Instagram, Tik Tok, Twitter sono il capitalismo allo stato puro: la creazione di un mondo in cui tutto, letteralmente, crea profitto economico. Ma la nostra seconda vita è costantemente intrecciata alla prima. E dunque la nostra vita, tutta la nostra vita, sta diventando questo. Se è vero che la conoscenza e il potere sono sempre legati, quello che rischiamo è un nuovo, più perfetto totalitarismo. Perché il potere nazifascista e comunista aveva dei limiti ben precisi. Ho visitato anni fa il museo dei servizi segreti dell’Albania comunista (la Casa delle foglie, a Tirana). I dispositivi a disposizione di Enver Hoxha per spiare i potenziali nemici del regime oggi strappano un sorriso. Nessun regime totalitario ha avuto mai accesso a una conoscenza dei singoli anche solo lontanamente paragonabile a quella offerta oggi dai big data. E questa conoscenza è già usata per manipolarci: per orientare le nostre scelte di consumo, i nostri comportamenti, i nostri modi di pensare.

Sulla cittadinanza digitale nei social network pesa un potere che estrae profitto e che al tempo stesso agisce con modalità kafkiane, che può bloccare qualcuno senza una reale ragione e senza che vi sia la possibilità di sapere chi ha preso la decisione e di contestarla realmente. E, considerato il peso che hanno i social network sulla vita delle persone, essere bloccati in questo modo può avere pesanti ripercussioni psicologiche, ma anche lavorative ed economiche.Una società interamente finalizzata al profitto privato, in cui le interazioni sono manipolate e non esiste alcuna garanzia per nessuno: questa è la realtà dei social network. E, poiché mondo reale e mondo virtuale sono costantemente intrecciati, questa è la realtà che i social network portano nelle nostre vite. Il capitalismo perfetto della dimensione virtuale preme sul mondo reale per plasmarlo a sua immagine.

Con uno di quei rari casi per i quali è lecito rispolverare l’espressione eterogenesi dei fini, la bizzarra gestione di Twitter da parte di Elon Musk ha mostrato a migliaia di utenti dei social network una alternativa. Mastodon è stato creato nel 2016 da Eugen Rochko, programmatore tedesco di origine russa allora appena ventiquattrenne. L’idea era quella di creare una alternativa a Twitter con un software libero e non commerciale. La logica di Mastodon è quella del decentramento: non un’unica piattaforma, ma un insieme di istanze che comunicano tra di loro. Alcune di queste istanze sono generaliste (quella italiana più grande è mastodon.uno), altre tematiche: per gli accademici ad esempio esiste in Italia l’istanza poliversity.it, mentre a livello internazionale c’è l’istanza scholar.social. Ogni istanza ha uno o più amministratori e un regolamento. In genere le istanze vietano i discorsi d’odio, il razzismo, il fascismo e simili. Data la natura del software, a dire il vero, chiunque può crearsi una sua istanza ispirata a valori diametralmente opposti (lo stesso social network di Trump, Truth, è una versione modificata di Mastodon); tuttavia la logica federativa di Mastodon consente una reazione per così dire immunitaria: l’istanza può essere isolata dalle altre, con le quali non potrà più comunicare. Ogni istanza può escludere le istanze che non ne condividono i valori. D’altra parte, l’utente che non dovesse più riconoscersi in un’istanza può spostarsi su un’altra, senza perdere i suoi contatti.

Su Mastodon non esiste alcun algoritmo. Nessuno decidere cosa comparirà a chi. I post compaiono in base all’ordine di pubblicazione. Non esiste pubblicità; ogni istanza si mantiene grazie al contributo volontario degli utenti. Nessuno raccoglie dati da monetizzare. Il sistema non è pensato per moltiplicare i like, ma per favorire la discussione. Avrete capito che si tratta, più o meno, della realizzazione virtuale della mia utopia politico-sociale. Un insieme di mondi sociali più o meno grandi (alcune istanze sono piccolissime) legati tra loro e immersi in un contesto più ampio, il Fediverso, che comprende altre piattaforme che condividono la stessa logica e che rappresentano alternative a servizi commerciali (PeerTube come alternativa a YouTube, ad esempio).

Chi giunge su Mastodon provenendo da Twitter è colpito dal clima sereno, dalla pacatezza e civiltà del confronto. Ad alcuni tornano alla memoria i tempi dei newsgroup, di IRC e dei blog. C’è stato un tempo in cui molti, compreso chi scrive, hanno creduto che la rete potesse contribuire a migliorare la qualità della nostra democrazia, favorendo il confronto e la condivisione delle conoscenze. Leggevamo Naomi Klein e ci dicevamo che un altro mondo è possibile. Sappiamo quello che è accaduto poi, nel mondo reale e in quello virtuale. Oggi leggiamo Realismo capitalista di Mark Fischer e contempliamo le macerie di quei sogni. Quello che leggeremo tra altri vent’anni dipenderà dalle scelte che facciamo oggi. E essere o non essere su un social network, e su quale social network essere, non è la meno importante di queste scelte.

Pubblicato su MicroMega, 3 gennaio 2023.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *