Il dovere di essere transculturali

I grandi capolavori del pensiero (e della poesia, della letteratura, dell’arte) appartengono all’umanità ed hanno uno straordinario valore formativo. Per questo abbiamo il dovere di farli conoscere agli studenti.

Nell’ultimo numero di “Educazione Aperta” è uscito un mio saggio piuttosto lungo su perché e come inserire il pensiero cinese nella didattica della filosofia. È un tema, quella della didattica comparata e transculturale della filosofia, di cui mi sono occupato in un altro saggio comparso sulla stessa rivista; mi piacerebbe raccogliere i due saggi in volume, integrandoli con uno studio sulla didattica della filosofia indiana. Sto intanto lavorando a un sito – Monimos. Mondi filosofici – con il quale intendo offrire con licenza aperta materiali per una simile didattica non eurocentrica.

Che non si possa continuare, in un mondo globalizzato, a insegnare filosofia (e storia, e arte, e non solo) come se esistesse solo l’Europa, o come se solo l’Europa avesse prodotto cultura, è per me una cosa che non dovrebbe richiedere troppo sforzo argomentativo. E invece le resistenze sono di gran lunga maggiori dei consensi, sia tra i filosofi che tra i docenti di filosofia. C’entra molto, evidentemente, la nostra tradizione storicistica, così come conta il fatto che, uscendo da Università per le quali la filosofia non occidentale semplicemente non esiste, essi non hanno il più delle volte elementi di conoscenza sufficienti per impegnarsi nell’insegnamento della filosofia cinese o indiana. Di fatto le rare volte che un filosofo italiano si azzarda a fare un passo oltre la filosofia occidentale mostra una impressionante incompetenza. Un esempio recente tra tutti: nel volume dedicato all’ Essere nella collana Le parole della filosofia del ’Corriere della Sera” Edoardo Acotto scrive sul buddhismo una bestialità assoluta:

il vuoto del Nirvana non è il nulla ma una sorta di Essere infinitamente rarefatto e svuotato di tutti gli enti (p. 31).

Simili resistenze non riguardano tuttavia solo il nostro Paese. Negli Stati Uniti c’è altra pratica filosofica e una ben diversa didattica della filosofia, ma non mancano le obiezioni ad un’apertura transculturale della didattica della filosofia. Bryan Van Norden ha analizzato criticamente le obiezioni in Taking Back Philosophy. A Multicultural Manifesto (Columbia Universy Press New York 2019). Alcuni argomenti usati da noi hanno un preciso corrispettivo negli USA. Ad esempio la tesi secondo la quale il carattere occidentale della filosofia è dimostrato dal termine stesso, che è greco e non ha equivalenti in altre culture, sostenuta tra gli altri da Maurizio Ferraris, oltreoceano è avanzata da un tal Kyle Peone, a quanto pare ben meno famoso di Ferraris. Oltre a rispondere punto per punto ed a mostrare come la chiusura della filosofia al mondo non europeo sia recente e proceda di pari passo con la formazione delle identità nazionali, con il loro portato di razzismo – interessanti le pagine sul razzismo di Kant – Van Norden mostra il carattere politico della questione, calandolo nella difficile attualità statunitense. In un Paese in cui la riflessione sulle differenze è infinitamente più avanzata che da noi – gli studenti di Stanford, racconta Van Norden, usavano l’acronimo DEWM per indicare un curriculum di studi basato sullo studio di Dead European White Males – si fa evidente il carattere politico della questione. Il rifiuto pregiudiziale di qualsiasi seria considerazione delle altre culture è parte del discorso politico conservatore, che vede nella tradizione occidentale qualcosa di unico, un deposito di sacri valori e di grandi capolavori che occorre non solo trasmettere alle nuove generazioni, ma anche mettere al riparo da qualsiasi contaminazione con elementi estranei ed evidentemente inferiori.

Il momento per così dire alto di questa posizione si può trovare in libri come il noto The Closing of the American Mind (1987) di Allan Bloom, che denunciando la crisi del sistema scolastico statunitense richiamava ad una formazione come confronto con le grandi opere della cultura occidentale. Il momento basso, anzi infimo, invece, è nell’anti-intellettualismo diffuso nella società statunitense, anche per via dell’influenza del cristianesimo evangelico, e la cui più becera espressione è stata la presidenza di Trump. In sostanza, Van Norden mostra come il passo dal disprezzo della filosofia non occidentale al disprezzo della filosofia tout court possa essere molto breve. Di fatto, capita di trovare in filosofi e docenti di filosofia, quando si parla delle filosofie altre, una rifiuto sprezzante che non è diverso da quello di chi rifiuta e disprezza la stessa filosofia occidentale.

Uno degli argomenti più forti in favore di una didattica transculturale è per me quello del diritto alla conoscenza delle opere fondanti. Si può, cioè, estendere il discorso di Bloom. I grandi capolavori filosofici, letterari, artistici, musicali dell’umanità ci educano. Per Bloom questi capolavori sono solo occidentali. Coltivare questo pregiudizio vuol dire scegliete consapevolmente di essere culturalmente più poveri. Una scelta che non abbiamo il diritto di compiere per i nostri studenti. Pensiamo che uno studente giapponese o cinese sarebbe più povero, se i sistemi scolastici dei loro Paesi non consentissero loro di conoscere Omero e Catullo e Spinoza. Ma un sistema scolastico italiano che non metta mai lo studente a contatto con Li Po, Chuang Tzu, Dogen e Nagarjuna, che non dedichi loro nemmeno qualche cenno in grado di suscitare curiosità, viene meno al suo dovere principale: quello di mettere le nuove generazioni a contatto con il valore.

Author: Antonio Vigilante

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