“Un po’ per gioco, un po’ per curiosità ricognitiva”, Piero Bevilacqua ha buttato giù sul manifesto di ieri, 28 gennaio, una lista di intellettuali italiani uniti dal comune denominatore della “critica alla cultura neoliberistica, alle sue strategie e alle sue pratiche”. E’ una lista che, come tutte le liste, fa discutere, sia per le presenze che, soprattutto, per le assenze. Io, ad esempio, vi trovo – e ne sono felice – Marco Maurizi, che considero uno dei più interessanti filosofi italiani, ma non vi trovo Marco Rovelli, uno dei punti di riferimento nel nostro paese per una cultura alternativa al neoliberismo. Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio soffermarmi, invece, sui territori che Bevilacqua ha segnato sulla sua provvisoria cartografia. Gli studiosi mappati appartengono a sette categorie: economisti; filosofi; giuristi; sociologi, politologi, antropologi; architetti, geografi, urbanisti; letterati; scienziati; storici. Bevilacqua premette che l’elenco è incompleto, perché ” mancano artisti, editori, giornalisti, uomini di cinema e di teatro, personalità di spicco fuori dall’accademia”. Solo? Non manca qualcos’altro?
Una volta si pensava – a sinistra – che il cambiamento sociale passasse anche, se non principalmente, attraverso la scuola e l’educazione. O, magari, attraverso la critica della scuola e dell’educazione, considerati strumenti in mano alle classi dominanti per riprodurre sé stesse e la loro cultura e giustificare, di fatto, le disuguaglianze sociali. C’è una scena di Centochiodi, di Ermanno Olmi, in cui il protagonista, un professore di filosofia della religione che ha dato di matto, crocifiggendo degli incunaboli della biblioteca universitaria, viene interrogato in Questura. “Fa parte di qualche organizzazione sovversiva o terroristica?”, gli chiedono. E lui risponde: “Ho fatto parte del corpo insegnanti”. A questo punto, nella piccola sala d’essai in cui vidi il film alla sua uscita, nel 2007, partì una risata irrefrenabile. Che la scuola sia una organizzazione terroristica, che gli insegnanti siano dei sovversivi, fa ridere. Fa ridere tanto. E fa ridere gli stessi docenti: perché quel piccolo cinema era frequentato soprattutto da docenti.
Non c’è figura che appaia più lontana dal rivoluzionario, o anche soltanto dal dissenziente, del professore seduto alla sua cattedra. O anche del professore universitario di pedagogia. Non è dunque per protestare per l’assenza di educatori, pedagogisti, docenti nella mappa di Bevilacqua, che scrivo questo articolo. Lo scrivo per riflettere sul fatto che una tale assenza è, oggi, giustificata.
Negli ultimi anni la scuola italiana è stata investita da interventi che sono andati tutti nelle direzione di renderla sempre più funzionale al sistema economico ed alle sue logiche. La legge 107 è solo l’ultimo atto. La classe docente non è riuscita ad opporsi a questa azione dall’alto, e non vi è riuscita anche perché, nella mia analisi, è mancata e manca una visione della scuola realmente alternativa a quella imposta dall’alto, che non sia la sola difesa di quello che c’era prima. E’ mancata e manca una chiara visione del senso politico del lavoro scolastico. Non mancano le parole d’ordine, ma si fa fatica ad individuare pratiche che corrispondano ad esse. Si vuole smantellare la scuola pubblica perché essa forma il pensiero critico, si dice. Ma in che modo, esattamente, si educa al pensiero critico nella scuola italiana? Con quali metodi? L’impressione è che per i più il pensiero critico sia una cosa che scaturisce magicamente dal contatto con alcune discipline, segnatamente quelle umanistiche. Si studia il greco, si studia la filosofia, e si sviluppa il pensiero critico. Una sciocchezza, naturalmente. Si sviluppa il pensiero critico dialogando, argomentando, appassionandosi, confrontandosi con gli altri, sporgendosi sulla scena pubblica: tutte cose che appaiono improbabili nella scuola cattedra-banco-lezione.
Sto leggendo in questi giorni due libri, non proprio recentissimi. Il primo è Teaching to Transgress. Education as the Practice of Freedom di bell hooks (Routledge, 1994). L’autrice è una nota femminista nera americana, che ha vissuto la segregazione razziale in una scuola pubblica del Kentucky. La sua tesi è che l’insegnamento può e deve essere una pratica di liberazione, un’azione politica contro i limiti razziali, culturali, sessisti della società. Ma può esserlo solo se si ripensa a fondo la stessa relazione educativa, che è la base del lavoro scolastico. La classe può diventare un luogo interessante, perfino eccitante, se ognuno in essa ascolta la voce dell’altro e ne riconosce la presenza. Ordinariamente a scuola si chiede al solo studente di parlare di sé, della sua vita, della sua famiglia, mentre il docente resta umanamente inarrivabile, celato dalla maschera del suo ruolo. In una relazione educativa ispirata ad una pedagogia impegnata i professori smettono di essere “all-knowing, silent interrogators”, per assumere in prima persona il rischio che chiedono agli studenti: il rischio della narrazione di sé.
L’altro libro è Teachers as Intellectuals: Toward a Critical Pedagogy of Learning di Henry Giroux (Praeger, 1988). Ancora quasi sconosciuto in Italia (sono a conoscenza di un suo solo libro tradotto in Italiano), Giroux è forse il maggior pedagogista statunitense, e le sue idee hanno suscitato e suscitano un ampio dibattito nel suo ed in altri paesi (il suo nome non potrebbe mancare, in una ipotetica cartografia americana della resistenza intellettuale al neoliberalismo). Reagendo alla teoria di Bourdieu e Passeron, secondo la quale la scuola è funzionale alla conservazione dello status quo ed alla riproduzione della cultura delle classi dominanti e della disuguaglianza sociale, Giroux presenta l’idea della scuola come “sfera pubblica democratica” nella quale si prepara una democrazia autentica. Cosa che non si può fare se non ripensando a fondo la scuola, a partire dallo stesso setting dell’aula, che ostacola l’autentico senso di comunità e favorisce l’ethos capitalistico della competizione. Gli insegnanti, sostiene Giroux, devono diventare intellettuali trasformativi, nel senso che lavorano politicamente per trasformare una società diseguale in una democrazia effettiva, attraverso l’empowerment degli studenti.
Non amo molto il termine intellettuale, che implica quella contrapposizione tra intellettualità e manualità che considero uno degli impliciti culturali della nostra società che occorre combattere; ma non mi dispiace questa idea dell’insegnante come intellettuale – perché di fatto il lavoro dell’insegnante non ha nulla di manuale, benché spesso sia molto artigianale – che lavora per la trasformazione: e non solo la trasformazione dell’individuo, ma anche quella della società e della cultura.
Tanto bell hooks quanto Henry Giroux risentono profondamente dell’insegnamento di Paulo Freire, il pedagogista brasiliano che, con un metodo profondamente innovativo, riuscì ad alfabetizzare in poco tempo i proletari di Angicos. In Freire l’alfabetizzazione andava di pari passo con la coscientizzazione, con la consapevolezza dell’oppressione e dell’ingiustizia sociale, che precede e fonda il cambiamento rivoluzionario. Ma risentono anche, in misura non minore, del nostro Gramsci e della sua teoria dell’egemonia, evocata dall’articolo di Bevilacqua. Esiste in America, sia al nord che al sud, una corrente di pedagogia critica ancora estremamente vivace, che anima il dibattito pubblico e la lotta politica. Qualche giorno fa ho parlato con un amico – Paolo Vittoria, napoletano che insegna filosofia dell’educazione all’università di Rio de Janeiro – del suo lavoro politico-educativo degli ultimi tempi: assemblee e riunioni nelle università e nei centri sociali con studenti, contadini, gruppi di indigeni. Un fermento straordinario, appena pensabile per chi osserva dall’Italia, pur in un periodo di grande difficoltà e di confusione politica per un paese che non ha meno contraddizioni del nostro.
In Italia c’è stato un fermento simile nel secolo scorso, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Più di un ventennio di analisi, di critiche appassionate, di denunce, di sperimentazioni, di tentativi, anche di errori, ispirati da un unico slancio: quello di attuare una democrazia reale, qualcosa di più alto della partitocrazia democristiana, con i suoi inquietanti risvolti criminali (mafia, stragi di stato, corruzione). Di tutto quel fermento, di quelle sperimentazioni, di quel lavoro del pensiero sembra essere rimasta solo la pallida e patetica evocazione di un don Milani sempre meno compreso, sempre più ridotto a figurina buona per tutte le stagioni.
Ho parlato di lavoro politico-educativo. L’obiezione che mi sento spesso fare, quando parlo della mia idea di educazione e di insegnamento, è che io voglio far politica, e questo non va bene. Una simile obiezione fecero a bell hooks i docenti dell’Oberlin College (il primo college americano che ha accettato studenti neri), quando parlò loro della sua formazione freiriana. E la sua risposta fu che “no education is politically neutral“. E’ naturale. Educare ed insegnare vuol dire lavorare per un certo tipo di società, ossia fare un lavoro politico. Chi non si è mai posto il problema di quale società favorisce con il suo modo di insegnare, è semplicemente un docente non pienamente consapevole del suo ruolo. O meglio, uno che lascia che il senso politico del suo lavoro sia stabilito da altri. Ma nell’accusa di fare politica c’è dell’altro. C’è il sospetto che io voglia fare una politica che può piacere ad alcuni e dispiacere ad altri: una politica di parte. Lo è, in effetti: fare politica vuol dire sempre stare da una parte.
Ma è una parte che è legittimata dalla stessa Costituzione. E’ una parte che vuole realizzare in modo pieno, e non retorico, i valori costituzionali: la democrazia, la partecipazione politica, l’uguaglianza, le opportunità per tutti, il superamento di ogni discriminazione. E’ una parte che consiste nel prendere semplicemente sul serio la democrazia. E prenderla sul serio non vuol dire lavorare, in modo spesso retorico, per una educazione alla democrazia, ma fare in modo che la democrazia sia presente già qui ed ora, nel presente del lavoro scolastico: educare nella democrazia. Che vuol dire costituire la classe come quella “sfera pubblica democratica” di cui parla Giroux. In che modo – con quali pratiche, metodi, strumenti concettuali – ciò si possa fare, dovrebbe essere il principale problema di cui discutere per pensare la scuola.
E’ diffusa la convinzione che l’innovazione della scuola possa e debba passare attraverso l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione. Per quanto sia tutt’altro che contrario alla tecnologia, la mia impressione è che sia un modo relativamente semplice per eludere il problema del cambiamento. Riempire le aule di lavagne interattive e di tablet non comporta alcun reale progresso, se non diventano strumenti per il confronto, la ricerca e la discussione comune. La democrazia esige la presa di parola: si entra in una comunità democratica nel momento in cui si esprime una propria idea, si discute l’idea di un altro, si cerca insieme una terza idea. Se la tecnologia favorisce questa presa di parola, allora la tecnologia è una buona cosa; se la ostacola, è una cosa non buona. La tecnologizzazione della scuola e dell’insegnamento sta costringendo molti docenti a sforzi notevoli per acquisite sia le competenze informatiche di base – che molti ancora non hanno – sia per applicare quelle competenze alla didattica. Il rischio è che tutto questo sforzo per così dire tecnico faccia passare in secondo piano o occulti la questione politica decisiva: insegnare perché? per cosa?
Rispondo con questo articolo alla riflessione di Daniele Lo Vetere, collega che personalmente conosco, sulla lezione frontale. Poiché l’articolo è lungo, enuncio subito la mia tesi: non si tratta di essere pro o contro la lezione, ma di affrontare il nodo della frontalità. Qualsiasi pratica didattica, non solo la lezione, è inefficace nella misura in cui docente e studenti si fronteggiano. Propongo come alternativa la circolarità, cui corrisponde, sul piano della riflessione educativa, la proposta di una sinagogia alternativa alla pedagogia, e sul piano politico l’idea di una democrazia assembleare, quale si presenta in particolare negli scritti e nella prassi di Aldo Capitini, teorico della nonviolenza e dell’omnicrazia (potere di tutti).
Esistono diverse tipologie di lezione, che possiamo disporre lungo una serie che va dalla lezione frontale a quella che vorrei chiamare lezione circolare. Frontalità e circolarità sono i due poli della lezione. La frontalità corrisponde al setting più diffuso. C’è la cattedra e di fronte alla cattedra ci sono i banchi, disposti in diverse file. Nella classe sono chiaramente distinguibili due aree, l’area del docente e quella degli studenti. Se a quella cattedra, magari sopraelevata (se ne trovano ancora, e non mancano docenti che la reclamano, come Paola Mastrocola) siede un docente che parla alla classe facendo una sorta di conferenza, e gli studenti prendono appunti in silenzio, abbiamo quella che possiamo considerare senz’altro una lezione frontale. La frontalità è fatta anche di una sua prossemica, esige la distanza e la separazione. Se il docente si alza dalla cattedra e gira per la classe, pur continuando a parlare, la lezione è meno frontale, perché viene meno, o viene diminuito, proprio il fronteggiarsi, l’essere l’uno di fronte agli altri. La situazione della lezione circolare è invece questa: non ci sono banchi, le sedie sono disposte in cerchio, il docente parla, cercando però di assicurare anche agli studenti la possibilità di esprimersi.
Sono dell’opinione che sia importante abbandonare la frontalità per passare alla circolarità, per ragioni che provo a spiegare brevemente. Il nostro lavoro di docenti consiste in diverse cose.
Siamo docenti di una disciplina – nel mio caso, la filosofia e le scienze umane – che abbiamo il compito di insegnare. Siamo anche, in un modo problematico, degli educatori, ossia persone che si occupano della crescita umana di altre persone. Infine, fare scuola vuol dire anche lavorare per avere, domani, un certo tipo di società. Ci sono dunque tre dimensioni del nostro lavoro: una disciplinare, una educativa ed una politica. Si tratta di tre dimensioni strettamente legate tra di loro. L’alternativa tra istruzione ed educazione, ad esempio, è mal posta. Quando un docente legge in classe un sonetto di Petrarca, e cerca di farlo apprezzare agli studenti, sta facendo qualcosa che ha a che fare con il valore della bellezza. E far apprezzare la bellezza vuol dire educare. I valori, che educano, non sono astratti, ma concretizzati negli argomenti di studio. D’altra parte, la scelta stessa degli argomenti, proprio perché questi sono sempre legati ad un valore, non è mai neutra, ma è sempre politica. Un docente può scegliere di attenersi scrupolosamente alle Indicazioni Nazionali, ma anch’esse sono politiche. Ed anche in questo caso, a meno che il docente non si limiti a replicare asetticamente il manuale (ma, e ci risiamo!, anche il manuale è politico), non potrà fare a meno di trattare alcuni autori con più enfasi, più partecipazione, più competenza di altri, magari in modo inconsapevole.
Quando entriamo in classe, lo facciamo guidati da una costellazione di convinzioni, più o meno chiare, su cose come l’importanza della cultura, o di un certo tipo di cultura, il significato dell’educazione e il tipo di società desiderabile. Queste cose, poiché hanno a che fare con i valori, sono purtroppo difficilmente dimostrabili. Insieme a queste nostre convinzioni e valori personali, ce ne sono altri di cui siamo portatori in quanto docenti della scuola pubblica di uno Stato democratico. Questo dovrebbe consentirci di avere una cornice assiologica di riferimento, benché molto minima. Ogni docente dovrebbe condividere, soprattutto, il valore della democrazia e delle cose che ad essa si ricollegano: il dialogo, il rispetto dell’altro, eccetera. La democrazia è il valore-cornice, che come docenti di uno Stato democratico non dobbiamo sforzarci di dimostrare.
Un’altra cosa che non bisogna sforzarsi troppo di dimostrare, perché è sotto gli occhi di tutti, è che la nostra democrazia è in crisi. Una crisi dimostrata in modo oggettivo dai dati riguardanti la partecipazione alle elezioni. Sempre più gente non va a votare, perché sempre più gente pensa che non ci sia nessuno degno di rappresentarla. O perché semplicemente non ha alcun interesse per la cosa. O perché non ha fiducia sistemica: pensa che tutto il sistema non funzioni, e che votare non serva a farlo funzionare. Ma in Italia la democrazia è da sempre in crisi. Il nostro è un paese che in fondo non ha mai smesso di essere fascista. Le pratiche, le logiche, i valori democratici non sono mai penetrati a fondo nella fibra della nazione, non hanno mai messo radici davvero solide, non sono riusciti a soppiantare le logiche autoritarie, mafiose, corrotte. Abbiamo avuto ed abbiamo la classe politica peggiore d’Europa, una tristissima teoria di delinquenti, mafiosi, corrotti e corruttori, piccoli boss di provincia messi a governare una nazione, semi-analfabeti cui è stato affidato il governo della scuola, eccetera. Abbiamo avuto ieri le stragi di Stato, abbiamo oggi – mentre ieri l’altro gettavamo l’iprite su gente inerme in Africa: ma lo abbiamo rimosso – un razzismo sempre più montante, e sempre più spesso omicida. Un docente di uno stato così imperfettamente democratico, insieme alle altre domande (come posso insegnare bene la mia disciplina? come posso favorire la crescita dei miei studenti), non può che porsi questa domanda: come posso, in quanto docente, contribuire alla realizzazione, nel mio paese, di una autentica democrazia?
Daniele Lo Vetere rivendica la tradizione in un mondo in cui, dice, “‘tradizionale’ è qualità negativa, tranne che nelle pubblicità dei biscotti”. Non ne sono così sicuro, sia perché insegno a Siena (ma, si potrebbe dire, Siena costituisce un’eccezione), sia perché, in una società consumistica, ciò che fa vendere i biscotti può assicurare anche il successo di un partito politico. Soprattutto, mi pare che usi come se fosse non problematico un concetto che invece è altamente problematico. Non esiste la tradizione, esistono le tradizioni. Il passato, che la tradizione rappresenta, non è un blocco compatto, ma una molteplicità di storie. A Siena, ad esempio, la tradizione è, per eccellenza, il Palio. Ma non è l’unica storia che ci consegna il passato. Siena è anche la città di Santa Caterina. È la città di San Bernardino. Ed è la città degli eretici: Fausto e Lelio Sozzini e Bernardino Ochino. Un senese può scegliere in quale di queste tradizioni collocarsi. Quella cattolica ed ortodossa o quella eretica, ad esempio. Veniamo alla scuola. Senza andare troppo indietro nel tempo, possiamo individuare due modelli scolastici che anticipano la scuola che abbiamo. Il primo è quello della scuola gentiliana e fascista (più fascista che gentiliana, a dire il vero). La scuola che insegna il razzismo, il colonialismo, il nazionalismo; la scuola che crea il perfetto fascista. Abbiamo avuto poi la scuola democristiana, la scuola nazional-popolare, al tempo stesso elitaria e di massa, alla quale Pasolini imputava la distruzione delle diverse culture di classe ancora presenti nel nostro paese, e che corrisponde storicamente all’avvento dell’era del consumismo. Dopo la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, che ha spazzato via sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista, si è aperta una terza stagione, caratterizzata per la scuola da diversi interventi che ne hanno rimodellato il profilo per meglio adattarla alle esigenze attuali del capitalismo: la scuola azienda.
Accanto, intorno, contro, oltre questa realtà c’è la tradizione della riflessione, della ricerca, della sperimentazione pedagogica. Una tradizione che, naturalmente, è anch’essa molteplice. C’è la pedagogia cattolica del personalismo di uno Stefanini o d’un Flores d’Arcais (Giuseppe, non Paolo), c’è la pedagogia laica che si richiama a John Dewey, c’è la pedagogia marxista, c’è la pedagogia che si pretende scientifica, c’è la pedagogia della nonviolenza, eccetera. Fare scuola oggi significa collocarsi criticamente non solo riguardo alla scuola attuale, ma anche riguardo alle tradizioni di cui s’è detto. Esclusa la scuola fascista, mi chiedo se si possa rivendicare la tradizione della scuola democristiana. È la scuola che ho vissuto da studente, e da studente proletario. È la scuola che mi ha indirizzato verso l’istituto professionale, nonostante la mia chiarissima vocazione umanistica. Ma il mio vissuto conta relativamente. Quello che mi sembra evidente è che la scuola democristiana non ha lavorato sufficientemente, o non ha lavorato con gli strumenti giusti, per la costruzione di una società autenticamente democratica.
Certo, rispetto alla scuola che abbiamo adesso, per qualcuno perfino la scuola democristiana può diventare un modello. Ma è, in gran parte, per quel bias che ci porta a considerare i tempi passati sempre migliori del tempo presente. Ho sotto mano un libretto del 1853. Ne è autore Tommaso Pendola, pedagogista (tra i pionieri in Italia dell’educazione speciale) e rettore del Regio Collegio Tolomei di Siena: che poi sarebbe diventato il liceo nel quale oggi insegno. Rivolgendosi ai genitori dei suoi studenti in occasione della “solenne distribuzione dei premj”, il rettore, che è anche un sacerdote, si duole di “vedere i genitori talvolta cooperare inavveduti alla ruina dei figli”, e fa la lode dei tempi antichi. Leggendolo, è difficile non pensare alle tante tirate pseudo-pedagogiche di oggi sull’assenza dei padri, sui genitori che non sanno più fare i genitori, sui no che aiutano a crescere, eccetera.
Ho citato, tra le altre, la tradizione della pedagogia della nonviolenza. Ne è stato il fondatore, in Italia, Aldo Capitini. Dopo aver sperimentato la prigione fascista, alla fine del Regime Capitini si oppose alla democrazia dei partiti, ritenendo che fosse troppo poco (presentendo, si direbbe oggi, quella che sarebbe stata la partitocrazia). Invece di entrare nel Partito d’Azione, creò i Centri di Orientamento Sociale. La democrazia è reale, pensa e scrive, se la gente di incontra a discutere degli affari pubblici. C’è democrazia se c’è assemblea. I COS erano assemblee partecipate, il cui principio di base era: ascoltare e parlare. Mi raccontava un suo collaboratore, Pietro Pinna, che il diritto rigoroso di parola era assicurato anche ai provocatori. “Ascoltare e parlare” dovrebbe essere scritto sulla porta di ogni aula scolastica, se vogliamo che la scuola sia un laboratorio di democrazia.
Lo Vetere cita il Dewey di Esperienza e educazione. Si tratta, come è noto, dell’opera con la quale il filosofo e pedagogista padre dell’attivismo reagisce alle derive del movimento da lui stesso iniziato. Questo non vuol dire che sia diventato un sostenitore della scuola tradizionale: semplicemente pensava che non fosse sufficiente, né pedagogicamente sensato, limitarsi a rovesciarla. Non bisogna dimenticare che Dewey è l’autore che nel 1899, in Scuola e società, così giudica il setting tradizionale della scuola, basato su cattedre, banchi, lezione e libro di testo: “Tutto è fatto ‘per ascoltare’ — poiché studiare semplicemente da un libro non è che un altro modo di ascoltare; tutto attesta dipendenza di una mente da un’altra mente. L’attitudine ad ascoltare significa, comparativamente parlando, passività, assorbimento: ci sono quei certi materiali già pronti, che sono stati preparati dalle autorità scolastiche, dall’insegnante: l’alunno deve accoglierne quanto più può e nel più breve tempo possibile”. Nella scuola che l’attivismo ha pensato come alternativa, l’insegnante finiva per non parlare più: di qui la correzione degli ultimi anni. Che non vuol dire tornare ad una scuola in cui parla solo l’insegnante. Vuol dire fare una scuola in cui l’insegnante parla e ascolta, lo studente parla e ascolta, e tutti cercano di fare esperienze reali e significative.
La scuola che abbiamo oggi è la scuola azienda; per essere più precisi, una scuola che ha avviato da tempo un processo di aziendalizzazione che i docenti non sono riusciti a contrastare efficacemente, e che corrisponde alle esigenze del sistema economico. In realtà, dal punto di vista del lavoro educativo e didattico, mi pare che la scuola di oggi sia poco differente da quella di ieri. Al centro del lavoro scolastico c’è ancora la lezione, così come il setting scolastico è ancora quello deplorato da Dewey nel 1899. Otto volte su dieci, se si entra in un’aula scolastica italiana si trova un docente che sta facendo lezione a degli studenti seduti in fila nei loro banchi. Con una variante: è probabile che, invece della lavagna, stia usando una lavagna elettronica. È però ugualmente probabile che stia usando la lavagna elettronica come avrebbe usato la cara lavagna tradizionale. Il sistema scolastico italiano è terribilmente conservatore. Da qualche tempo, si sta cercando di innovarlo dall’alto introducendo strumenti informatici e digitali. Una cosa assolutamente normale: sarebbe ben strano se, in una società tecnologica ed informatizzata, non fosse tecnologica ed informatizzata anche l’istruzione. Per molti, questo cambiamento rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione, un passaggio epocale nella scuola italiana. Mi permetto di esprimere qualche dubbio. Il computer, il tablet, la lavagna elettronica sono degli strumenti, e come tutti gli strumenti possono essere usati bene o male. Possono servire per fare una didattica innovativa, così come possono essere messi al servizio della didattica più antiquata. Mi pare che peraltro non si rifletta molto su quella che vorrei chiamare l’analogicità del digitale. Analogica è, insegna Palo Alto, quella comunicazione che si alimenta di analogia. Se disegno un gatto per indicare un gatto, sto comunicando in modo analogico, perché il gatto disegnato assomiglia al gatto reale. Ora, il diffondersi di strumenti digitali favorisce appunto questo tipo di comunicazione. Su strumenti digitali come i pc, le lavagne elettroniche, i tablet, i cellulari, più del testo compaiono immagini, video, simulazioni multimediali. Tutte cose analogiche. Insegnare ricorrendo ad un’immagine su pc o tablet significa fare didattica analogica con strumenti digitali. È una cosa buona? Non lo so. Certo non c’è nessuna particolare innovazione nel leggere un libro di testo sul tablet, o addirittura (come propone una nota casa editrice) proiettarlo sulla lavagna elettronica.
Célestin Freinet trasformò la scuola introducendo la tipografia. Gli studenti approfondivano un argomento, scrivevano un testo, poi lo stampavano. Il libro di testo, scritto da loro, era il punto d’arrivo, non di partenza. Poi i testi così stampati venivano condivisi con altre scuole. Una cosa del genere sarebbe oggi facilissima, dal punto di vista tecnico. Per cercare informazioni non bisogna più sondare le biblioteche (che però è una cosa così affascinante…), basta navigare la Rete; per scrivere in modo collaborativo basta aprire un documento su Google; per condividerlo con le altre scuole basta mandare una mail o creare un sito Internet. Ma quante scuole fanno questo lavoro? La scuola digitale è una scuola nella quale il più delle volte si è semplici fruitori di materiali prodotti da altri.
Informatizzazione non vuol dire necessariamente innovazione, e si può innovare anche senza strumenti informatici. Non è, sia chiaro, un argomento contro l’informatizzazione delle scuole. È un argomento contro chi crede che basti informatizzare per cambiare. Ed è anche un argomento contro chi vuole cambiare davvero, ma senza aver riflettuto su quale scuola vuole fare. Vedo colleghi entusiasti per la flipped classroom: hanno sostituito la lezione con un video che gli studenti guardano a casa, per poi fare i compiti, o altro, al mattino a scuola. Non esprimo un giudizio, ma non posso fare a meno di chiedere: perché? In quale direzione si va? Quale scuola si vuole fare, sostituendo il docente che parla con un video? È chiaro che molto importa quello che si fa al mattino a scuola. Si fa lavoro cooperativo? Si discute? O si fanno semplicemente quei compiti che prima si facevano al pomeriggio?
La scuola è cambiata, sta cambiando. È cambiata dall’alto, la stanno cambiando dall’alto. La stanno cambiando affinché corrisponda sempre meglio alle esigenze del mondo del lavoro. In questa direzione va, ad esempio, il discorso delle competenze. Che si debba lavorare per competenze, ossia che si debba insegnare anche a fare, è una ovvietà. Il problema è quali sono le competenze, quali sono le cose che uno studente deve saper fare. E la risposta è semplice: le competenze sono quelle che servono al sistema economico, con una spolveratina di competenze di cittadinanza, per dare una parvenza di formazione completa. Questo è il lavoro sostanziale che si sta facendo. Ora, questo è un problema per la scuola italiana, ma non è il problema maggiore. Il problema maggiore è che non c’è un’alternativa. Manca, nei docenti, negli studenti, nei pedagogisti perfino, una idea alternativa di scuola, come manca, dopo la crisi delle grandi narrazioni ideologiche, una idea alternativa di società. È per questo che le critiche, giuste, agli interventi dall’alto finiscono poi per risolversi in nulla più che vaghe affermazioni di principio, sotto le quali c’è la difesa (giusta, ma insufficiente) dei propri interessi corporativi. Si è creato un meccanismo perverso, per cui chi critica la scuola pubblica perché vorrebbe migliorarla è accomunato a chi, dall’alto, critica la scuola per indebolirla e depotenziarla (perché è diffusa nei docenti questa convinzione: che i governi siano interessati a svilire il loro lavoro e in generale la scuola per demolire l’uno e l’altra). È la riduzione al neoliberalismo, un procedimento dialettico sempre più diffuso, che sta prendendo il posto della reductio ad Hitlerum.
Apro Il paese sbagliato, di Mario Lodi. Leggo: “La condizione dello scolaro somiglia a quella dell’operaio della grande fabbrica…”; “Lo scolaro, in una scuola autoritaria fondata sui voti, studia perché ci sono i voti. Se strappi il voto dalle mani dell’insegnante, tutto il castello crolla. È come strappare le armi alla polizia di uno stato oppressivo”; “Il contenuto ideologico e il metodo autoritario sono espressioni di una scuola politica di classe, che tende a formare uomini docili e passivi, possibilmente ignoranti sulle cose che scottano”. Siamo nel 1970. Se qualcuno scrivesse oggi quelle parole, lo si accuserebbe di fare il gioco del sistema. Di voler demolire l’istituzione. Di essere in fondo un reazionario, contro il quale è bene difendere la tradizione. È una trappola che costringe all’afasia. O meglio, alla sola retorica della scuola pubblica che salva, che forma al pensiero critico, eccetera. La retorica dello spot ministeriale sull’importanza dello studio, con l’immancabile Vecchioni. Uno spot nel quale, ed è cosa assai interessante, il cantante-professore afferma: “non importa se leggiamo un libro con le pagine o il monitor di un computer”. Non importa molto, infatti. E torniamo al discorso di prima: lo spot ministeriale sull’importanza dello studio e della scuola è in fondo rassicurante. Sì, ci sono oggi computer e tablet, ma quello che si fa è sempre quello. Si legge, ieri su un libro, oggi su un monitor.
C’è una cosa condivisibile ed importante in quello spot. Dice Vecchioni: “E succede anche che siamo noi insegnanti a imparare dai ragazzi”. Prendiamo sul serio questa affermazione. Consideriamola, anzi, una affermazione dalla quale far partire la riflessione sull’educazione. Permettetemi di esprimere l’idea con le parole di un autore che, come esperto di processi educativi, considero un po’ più autorevole tanto di Vecchioni quanto degli autori degli spot ministeriali. Scrive Paulo Freire in quel libro bellissimo che è Pedagogia dell’autonomia: “…è necessario che fin dall’inizio del processo formativo, diventi via via sempre più chiaro un fatto: nonostante le differenze esistenti tra loro, chi forma si forma e si ri-forma nell’atto stesso di formare, mentre chi viene formato si forma e al tempo stesso diventa formatore nell’atto di essere formato”. C’è in queste parole un potenziale rivoluzionario straordinario. Da sempre l’educazione è una cosa che qualcuno fa a qualcun altro. C’è il soggetto e c’è l’oggetto dell’educazione. La parola pedagogia – peraltro poco amata dai docenti – esprime questo movimento. Pedagogia è educazione dei bambini: e già questo basterebbe a suggerire la necessità di abbandonare il termine, nel momento in cui si parla di formazione per tutta la vita. Ma soprattutto evoca l’immagine di colui che guida un soggetto in condizione di minorità. Per quanto Freire continui a usare la parola, pur ripensando profondamente la cosa, sarebbe opportuno usare una parola nuova per dire una nuova educazione. Si tratta di passare dall’educazione alla co-educazione. Da qualche tempo, adopero per indicare questo secondo approccio la parola sinagogia: educare sun, con. Si ha sinagogia ogni volta che due o più persone fanno insieme cose che contribuiscono alla crescita di ognuno di loro. E quando ciò accade, si realizza una συναγωγή, una assemblea. Quella cosa fondamentale per la democrazia.
Freire non è contrario, come forse ci si aspetterebbe, alla lezione. Scrive, sempre nell’opera citata (più immediatamente fruibile, per chi insegna, della più nota Pedagogia degli oppressi): “La dialogicità non nega la validità di momenti esplicativi, narrativi in cui l’insegnante espone o parla dell’oggetto. La cosa fondamentale è che insegnante e alunni sappiano che la loro posizione è dialogica, aperta, curiosa, investigativa e non passiva, mentre si parla o mentre si ascolta. L’importante è che insegnante e alunni si considerino epistemologicamente curiosi“. È quella che all’inizio di questo articolo ho chiamato lezione circolare. Nelle prime pagine del suo libro, l’educatore brasiliano scrive che in essa si propone di esporre “i saperi a mio avviso indispensabili per la pratica dell’insegnamento da parte di educatrici o educatori critici, progressisti”, ma aggiunge: “Alcuni di questi saperi, tuttavia, sono egualmente necessari anche per educatori conservatori”, perché sono richiesti dalla pratica educativa stessa, indipendentemente dalle idee politiche del docente. Non sono così sicuro sulla possibilità di accettare il principio appena esposto dell’educazione dialogica anche da parte di chi ha una Weltanschauung conservatrice. Fare sinagogia vuol dire ripensare profondamente il proprio ruolo di docente, porsi con gli studenti in una posizione di simmetria, anche se di simmetria dinamica. Per chi ha una visione conservatrice – non credo che sia il caso di Lo Vetere – questo può sembrare un salto nel buio, un cedimento che può avere effetti catastrofici. Significa passare da una posizione di potere ad una posizione di empowerment. Si dirà: il potere è ineliminabile, e negarsi come figure di potere significa in realtà ingannare gli studenti, presentandosi come loro pari quando in realtà si è, istituzionalmente, loro superiori. Di vero c’è che l’istituzione assegna al docente un potere nei confronti degli studenti. Un potere che, se esercitato fino in fondo, può trasformare la scuola in una istituzione totale. Un docente può imporre agli studenti di star zitti ed immobili per più di un’ora, senza che nessuno possa rimproveragli nulla: è un suo diritto. Naturalmente anche il suo potere ha dei limiti stabiliti dalla legge. Soprattutto, a chi fa una obiezione del genere sfugge un fatto sempre più evidente: il potere del docente non è basato tanto sull’investitura dall’alto, per così dire, quanto sull’accettazione degli studenti. Il docente ha potere se gli studenti pensano che sia giusto che abbia potere. Mi è capitato qualche giorno fa di vedere questo video su Youtube:
Una classe intera insulta e minaccia in modo pesantissimo l’insegnante, che si limita ad un poco convinto “adesso vado a chiamare il vicepreside”. È lei che non sa insegnare, non sa esercitare la sua autorità? Non ne sarei così sicuro. Ci sono intere scuole in cui entrare in classe vuol dire essere sistematicamente insultati e trovarsi nella impossibilità di fare qualsiasi lavoro didattico o educativo. In questi sistemi non c’è minaccia, rapporto disciplinare, sospensione didattica che basti. Del resto, se quella del docente fosse una figura che ha potere in sé, non occorrerebbe avere qualità personali per far valere quel potere. In realtà se degli studenti, in massa, decidono di non riconoscere il potere dei docenti, questi non hanno alcun modo per far valere il loro presunto potere. Il quale nasce, dunque, sempre da un tacito riconoscimento da parte dello studente. Ora, se sono io che ti accordo potere, al tempo stesso io ho potere su di te. Tu hai potere solo fino a quando io accetto che tu abbia potere su di me; il tuo potere dipenda dal mio riconoscimento. E questo ristabilisce, anche in una situazione asimmetrica, una simmetria latente, per così dire. Fare un lavoro sinagogico vuol dire portare alla luce questa simmetria latente e farla diventare evidente. E, soprattutto, ridefinire il potere, che è anche e soprattutto, come ricordava Danilo Dolci (che contrapponeva il potere al dominio, sua degenerazione), possibilità. La scuola sinagogica è quel luogo in cui più persone, insieme, attraverso il dialogo, confrontandosi con i saperi, possono esplorare insieme le possibilità individuali e collettive. La lezione, portata da polo della frontalità a quello della dialogicità, può essere uno strumento di questa scuola sinagogica. Non l’unico né il primo, ma nemmeno l’ultimo.
Articolo pubblicato su La letteratura e noi, blog diretto da Romano Luperini, Palumbo editore.
La pratica dell’homeschooling, o scuola parentale – istruire i propri figli a casa, rifiutando l’istituzione scolastica – si sta rapidamente diffondendo anche in Italia, benché non sia facile ottenere numeri sulla esatta entità del fenomeno. L’impressione è che si tratti di un realtà che coinvolge ancora poche famiglie ma che si sta rapidamente espandendo. Le ragioni sono piuttosto facili da individuare: la crescente insoddisfazione verso la scuola pubblica da un lato, l’esigenza di vivere nel modo più pieno possibile la genitorialità dall’altro. Homeschooling di Erika Di Martino, pubblicato in proprio lo scorso anno, ne è il manifesto nel nostro paese. L’autrice ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi all’istruzione dei figli ed ha creato il network www.educazioneparentale.org ed il blog www.controscuola.it, che sono diventati punti di riferimento per le famiglie che decidono di seguire questa via. Nel suo libro presenta l’esperienza scolastica come una violenza cui si sottopongono i bambini, sradicandoli dall’ambiente familiare e dalle relazioni con i genitori e i fratelli per inserirli in un ambiente freddo ed artificiale, nel quale vivono emozioni negative e stress che avranno effetti devastanti sulla loro vita adulta. Per Di Martino la scuola pubblica, non più elitaria dopo il ’68, è una scuola di massa che educa essenzialmente al consumo ed all’accettazione del sistema socio-economico in cui siamo (“l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com’è”, per dirla con l’Ivan Illich in Descolarizzare la società). Ricorrere, per dimostrare la tesi, ad una affermazione del ministro Baccelli datata 1894 (“Non devono pensare, altrimenti sono guai”: affermazione che si riferiva in verità solo all’istruzione femminile, non all’istruzione in generale) non è granché come argomento, così come è ingenuo sostenere che lo Stato “ieri come oggi, ha bisogno di una popolazione docile e ignorante da manovrare a proprio piacimento”. Una popolazione ignorante è tutto fuori che facilmente governabile. Proprio perché chi è ignorante può essere facilmente manovrato, indottrinato, plagiato, dove c’è ignoranza attecchiscono facilmente fenomeni preoccupanti per la stabilità dello Stato: il fanatismo, il fondamentalismo religioso, l’antipolitica rozza, il fascismo. Piuttosto, è vero che la scuola rende canonica ed ufficiale un certo tipo di cultura, che è quella delle classi dominanti, e così facendo giustifica e rafforza le differenze di classe: una osservazione che dev’essere attentamente rimeditata, in tempi di cultura di massa e di crisi della classe media, ma che mi pare che abbia ancora una qualche validità.
Ci sono molte buone ragioni per criticare la scuola pubblica, ma è lecito dubitare che l’homeschooling sia la soluzione. Provo a spiegare per quali ragioni.
Uno. Per dedicarsi a tempo pieno all’istruzione dei propri figli occorre avere molto tempo. Può farlo chi vive di rendita o, come appunto Erika Di Martino, ha rinunciato al proprio lavoro per questa missione. Ma c’è il rischio evidente che si finisca per attribuire nuovamente alla donna il compito di badare alle faccende domestiche, aggiungendo il ruolo di maestra a quelli di moglie e madre, mentre l’uomo si occupa di portare il pane a casa (il male breadwinner della tradizione). Nulla, si dirà, impedisce che i ruoli si inventano, e sia il padre a fare da maestro, ma non mi pare che questa inversione sia molto diffusa nel nostro paese. In ogni caso, uno dei due coniugi deve sacrificare la propria vita lavorativa per la missione domestica ed educativa.
Due. In questo voler trattenere con sé i propri figli c’è una concezione totalizzante della genitorialità che può essere pericolosa. E’ cosa buona e giusta che molti genitori vogliano vivere in modo più intenso il proprio essere genitori. E’ cosa meno buona, se vogliono sostituirsi a qualsiasi altra figura, negando a chiunque il diritto di contribuire all’educazione dei loro figli. Marcello Bernardi parlava, in Educazione e libertà, del pericolo rappresentato da quelle madri che vogliono essere Madri con la maiuscola.
Tre. Di Martino ritiene che la socializzazione di massa della scuola si accordi pienamente con le esigenze dell’economia neoliberista. L’argomento di può rovesciare: negare alla scuola ed alla comunità il diritto di educare, riconoscendo questo diritto solo alla famiglia, significa opporsi all’idea stessa di un legame sociale, e concepire la società come un insieme di atomi familiari. Il pubblico ed il politico cedono al privato: ma non è proprio questo che vuole l’economia liberista? Non escludo che vi siano, tra le famiglie che praticano homeschooling o ne sono affascinate, anche famiglie sinceramente anticapitaliste: famiglie senza televisore, ad esempio, o alla ricerca di stili di vita alternativi. Famiglie che temono, per dire, che i loro figli nella scuola pubblica imparino a desiderare i giocattoli pubblicizzati dalla televisione. E’ un timore condivisibile. Ma sottrarsi allo spazio pubblico non è la soluzione. La soluzione è rivendicare uno spazio pubblico che sia critico: esigere una scuola che ragioni sui consumi ed educhi fin da piccoli a riconoscere i bisogni necessari da quelli indotti.
Quattro. Gandhi non mandò a scuola i suoi figli: si assunse il compito di educarli da sé. Ma lo fece malissimo, ed uno dei suoi figli lo rimproverò per tutta la vita di non avergli dato un’istruzione. I docenti possono essere preparatissimi ed avere sensibilità educativa o avere una cultura passabile ed una sensibilità educativa pessima: ma sono sottoposti ad una selezione ed a più valutazioni, non ultima quella dei genitori. I quali, se proprio trovano inaccettabili i metodi del maestro o dei maestri, possono chiedere di cambiare classe o scuola. Un bambino che abbia dei genitori-maestri incapaci non può cambiare famiglia.
Cinque. La scuola, come ho detto, è uno spazio pubblico. La porta dell’aula non è mai davvero chiusa. Di quello che accade in aula gli studenti parlano con i genitori: un errore, una uscita infelice, una osservazione politicamente scorretta diventano motivo di discussione tra i docenti, quando non facile pretesto per miserabili campagne politico-giornalistiche. La strumentalizzazione è un male, il controllo è un bene. Un errore educativo può essere corretto, una persona inadeguata allontanata. Non si può dire lo stesso di una famiglia. Quello che vi accade è chiuso allo sguardo pubblico.
Sei. Uno dei non pochi gruppi Facebook dedicati in Italia all’homeschooling si chiama Homeschooling Famiglie Cristiane. In uno degli ultimi post si legge: “In questo periodo difficile è certamente l’unione che fa la forza. E se si alza la voce (e non solo) per idee malate che vogliono propinarci come giuste e buone per i nostri Figli, noi non dobbiamo mai abbassare la guardia e rinunciare ai valori grandi e nobili, da cui passa anche l’educazione culturale”. In occasione di Halloween scrivono: “Questo è il giorno in cui il male trova “pieno sfogo”, il giorno più pericoloso dell’anno. Ma non gli si da importanza o non ci si crede o solo ci si girà di là . Come se tutto quello che succede, riguardasse solo i cristiani. Anche nelle scuole, così come per il gender e tante altre cose, non c’è possibilità di scelta. Questo è uno dei tantissimi motivi, per cui abbiamo scelto l’educazione familiare”. Quello che si rivendica, qui, è il diritto ed educare i propri figli all’omofobia, al dogmatismo, al rifiuto dell’altro. Cosa che, sia chiaro, avviene in moltissime famiglie, cristiane e non cristiane; ma almeno con la possibilità, per i bambini, di ascoltare un punto di vista diverso, di incontrare una persona portatrice di una diversità, di confrontarsi.
La scuola non sta simpatica a molti; spesso nemmeno a quelli che la fanno. E’ affetta da una insopportabile arroganza: nonostante i suoi evidenti, disperanti insuccessi, è sinceramente convinta di essere una istituzione salvifica. Extra Scholam nulla salus. C’è una vera e propria religione della scuola, con i suoi dogmi ed i suoi rituali. Una religione che, come tutte le religioni, va demistificata. Ma non è una buona idea sostituirla con la religione della famiglia.
L’immagine è ripresa da http://www.catholicallyear.com.
Quello che sta accedendo in questi giorni non è soltanto il vergognoso attacco mediatico-politico ad un preside la cui unica colpa è stata quella di aver adoperato un po’ di buon senso e di non aver dimenticato il sacrosanto principio della laicità della scuola pubblica. Quello che sta accadendo è un più generale attacco alla autonomia della scuola pubblica, di cui si vorrebbe fare uno strumento docile al servizio delle fobie identitarie di un popolo la cui unica, vera identità da gran tempo è fragilmente abbarbicata alla pratica del consumo ed a vacui rituali televisivi. Quella che si vorrebbe è la scuola rassicurante e prona nella quale si rende omaggio a tutte le autorità, si esaltano tutti i buoni valori, si accoglie il diverso ma a condizione che non rompa le scatole e non pretenda di essere riconosciuto realmente come diverso. Quella che si vuole è una scuola cattolica, nazionalpopolare, appiattita sugli pseudo-valori dominanti, che riproduce la miseria culturale, morale e politica attuale, invece di essere il posto nel quale si potrebbe cercare, pur tra mille difficoltà, una società migliore, la via d’uscita dal pantano nel quale il paese è finito da qualche decennio. Quello che si vuole è togliere al paese la speranza già flebile che la scuola possa cambiare qualcosa. Quella che si vuole è una scuola non solo sottomessa docilmente agli umori della politica – un politico serio, chiamato a dire la sua su una qualsiasi decisione di una scuola, dovrebbe semplicemente rispondere: “rispetto l’autonomia di quella scuola” -, ma anche ridotta ai capricci delle famiglie.
Il buon Comenio, tra i fondatori della scuola moderna, pubblica e gratuita per tutti, faceva un ragionamento semplice. E’ solo attraverso l’educazione, diceva, che si diventa realmente esseri umani, come dimostra il fatto che bambini abbandonati e cresciuti nei boschi hanno tratti più animaleschi che umani. Se capita di nascere in una famiglia che non è in grado di dare una buona educazione, non si avrà dunque la possibilità di diventare pienamente umani. Occorre allora che ci sia una istituzione apposita per l’educazione, e che questa istituzione sia aperta a tutti, perché tutti hanno il diritto di diventare pienamente umani. Un discorso, dunque, che ha come premessa una certa sfiducia nei confronti della famiglia: ed è su questa sfiducia che si è costruita la scuola moderna. Ora, è una sfiducia che si può criticare, ed è un gran bene che si sia giunti, invece, a considerare la scuola e la famiglia come due istituzioni che operano insieme, in modo paritario, per l’educazione dei bambini e dei ragazzi. Ma quello che sta avvenendo adesso è il rovesciamento del discorso di Comenio. Si sta diffondendo l’idea che la famiglia offre al bambino le prime cure e gli dà la prima educazione, gli trasmette i valori e l’identità, affidandolo poi ad una istituzione diseducativa, nella quale impara cose sbagliate, smarrisce la propria identità, viene affidato a docenti che non sono veri professionisti dell’educazione. Lo Stato crea la scuola perché non ha fiducia nei genitori e nelle famiglie; ora sono i genitori che, non avendo fiducia nella scuola, la attaccano: ed i rappresentanti dello Stato danno loro voce. Si è spezzato il necessario rapporto di fiducia reciproca tra scuola e famiglia, e questo è uno dei problemi più gravi ed urgenti della società italiana. Questo rapporto di fiducia si può ricostruire in due modi: in alto o in basso. In alto, se famiglie e scuole, insieme, si fermano a riflettere sui loro modelli educativi e si impegnano a cercare un’educazione rispettosa della personalità di bambini e ragazzi, chiedendosi anche in che modo e per quali vie, educando, si possa costruire una società migliore. In basso, se la scuola, timorosa delle reazioni isteriche di qualche genitore, pronto a scatenare una canea mediatica e politica, si mette al servizio della peggiore pseudo-identità catto-fascista-leghista di tante famiglie. Le scuole si riempiranno di crocifissi, di presepi, di canti natalizi, forse anche di buoni sentimenti deamicisiani: ma non avrà più molto a che fare con l’educazione, e si giungerà a dover chiedere l’autorizzazione dei genitori anche per studiare lo scandaloso Freud.
Adeste fideles è il canto natalizio che i genitori avrebbero voluto insegnare agli studenti nella scuola di Rozzano. Adeste fideles læti triumphantes: venite fedeli, lieti e trionfanti. Le parole, oggi, hanno un suono sinistro. No, fedeli, mi dispiace. Credete in quello che vi pare, celebrate il vostro Natale, il vostro Ramadan, il vostro Vesak, massacrate gli agnelli a Pasqua in onore del vostro Dio, mettetevi il velo se vi piace o rapatevi la testa, fate il pellegrinaggio alla Mecca o alla santa casa di Loreto: ma lasciate in pace la scuola pubblica.
Intervistato da IntelligoNews a proposito della scuola di Renzi, Diego Fusaro dà espressione al più trito pregiudizio umanistico, affermando che le humanae litterae (il latino, il greco, la filosofia, la storia dell’arte) sono fondamentali perché hanno a che fare con “le nostre radici” e “per formare uomini in senso pieno”, e stigmatizzando il fatto che la scuola sia diventata “un’azienda dove il latino e il greco sono sostituiti dall’inglese e dall’informatica”. “Il problema è che così non si producono più teste pensanti”, conclude. Ragioniamoci un attimo.
Cos’è, realmente, umanistico? Ciò che ha a che fare con la formazione dell’uomo in senso pieno, dice Fusaro. Ma il concetto di “uomo in senso pieno” è quanto di più relativo si possa immaginare. Qualcuno, come Fusaro, può ritenere che uomo in senso pieno sia l’intellettuale occhialuto che passa la sua giornata a studiare testi greci e latini; qualche altro può considerare, invece, sprecata una vita del genere, ed esaltare il significato formativo del lavoro della terra; qualche altro ancora, con ottime ragioni, vedrà più pienezza nello studio scientifico, nella ricerca della cura di una malattia, nella soluzione di un problema ingegneristico. Scriveva John Dewey in Democrazia e educazione: “se si adotta un’idea della scienza appropriata al suo metodo sperimentale e alla dinamica di una società democratica e industriale, è facile dimostrare che la scienza naturale è più umanistica di un preteso umanesimo che basa i suoi piani educativi sugli interessi specializzati della classe agiata”. La scienza dunque è umanistica non meno del greco, del latino e della filosofia. Ma è umanistico anche il lavoro dell’operaio, senza il quale non esisterebbero nemmeno i libri (quelli di carta, almeno) e la scrivania del nostro occhialuto filologo.
Fino a non molto tempo fa, dice Fusaro, questo sapere umanistico, “che caratterizza la tradizione occidentale”, “era al centro dei programmi dell’istruzione”. Vero. Il compito della scuola, per secoli, è stato esattamente questo: lavorare per far sì che questo sapere, che non è che uno dei saperi possibili, diventasse il sapere per eccellenza; fare dell’ideale umano del filologo occhialuto l’ideale umano tout court. E al tempo stesso, naturalmente, squalificare qualsiasi altro ideale umano. Grazie all’opera della scuola, il sapere intellettuale diventa l’unico sapere degno dell’essere umano, ed ogni attività pratica viene squalificata come indegna di un uomo libero. E’ il riflesso, naturalmente, di una società diseguale. Per Aristotele l’attività più degna di un essere umano è la contemplazione, mentre la techne, l’attività che costruisce qualcosa, è inferiore; e gli schiavi è giusto che siano tali. E’ il pensiero di un filosofo che vive in una società in cui alcuni sono liberi ed altri schiavi, e la schiavitù dei secondi rende possibile l’agio – anche di filosofare – dei primi. La cultura umanistica di Fusaro è questa secolare giustificazione ideologica della disuguaglianza e del privilegio, questa secolare calunnia del lavoro manuale, che ancora oggi giustifica le differenze di status, se non di condizione economica, tra l’operaio e l’intellettuale.
E’ almeno dai tempi di Rousseau che la pedagogia, scrollandosi di dosso il pregiudizio umanistico, ha affermato il valore formativo del lavoro. Per Pestalozzi un uomo completo è tale se sviluppa tre dimensioni: cuore, mente, mano. Che vuol dire: formazione morale, intellettuale e manuale. Gandhi, che con ogni probabilità ignorava Pestalozzi, diceva più o meno le stesse cose. E nelle sue scuole il lavoro aveva molta più importanza dello studio intellettuale. La mano per la pedagogia moderna e contemporanea non è contrapposta alla mente. Lo sviluppo delle abilità manuali, la concentrazione del lavoro, lo sforzo necessario per costruire qualcosa hanno un valore formativo per nulla inferiore allo studio di un passo di Seneca. Una buona scuola reale metterebbe al centro entrambe le cose: la formazione intellettuale e quella manuale. Purtroppo grazie al pregiudizio di cui le parole di Fusaro sono espressione, abbiamo in Italia una separazione rigida tra scuole nelle quali si fa formazione intellettuale e scuole nelle quali si fa formazione professionale. Una separazione che è naturalmente di classe: le prime sono per la borghesia, le seconde per il proletariato. Ed è noto il lamentevole stato delle scuole professionali in Italia.
Dalle parole di Fusaro traspare anche un certo orgoglio per la “tradizione occidentale”. Quella tradizione, è bene ricordarlo, che ha portato violenza, distruzione e morte in tutti i continenti. Quella tradizione che, in nome della sua pretesa superiorità culturale e religiosa, ha sterminato gli indiani d’America e ridotto in schiavitù gli africani. Quella tradizione che non è riuscita ad evitare, all’Europa ed al mondo, l’orrore dei campi di sterminio.
Possiamo ancora permetterci di chiuderci nella “nostra tradizione”? Al latino ed al greco della nostra cara tradizione umanistica non dovremo aggiungere almeno il sanscrito – del resto le radici vanno indagate fino in fondo – ed il cinese? Le nostre aule scolastiche sono abitate da studenti che vengono in ogni parte del mondo. Ognuno di loro porta con sé una sua visione dell’uomo (e della donna), una sua concezione dell’umanesimo. Lo studente cinese ha alle spalle millenni di riflessione sui problemi della società umana, così come lo studente indiano e quello africano. Cosa facciamo? Li mettiamo tutti ad imparare le superiori virtù dell’umanesimo occidentale – i manuali di filosofia tacciono sulle filosofie non occidentali -, o facciamo finalmente della scuola il luogo d’incontro di visioni del mondo diverse? Nell’immagine: Raffaello, La scuola dei filosofi.
Non ritengo che sia in atto la distruzione della scuola pubblica, come temono quelli che sono contrari alla riforma denominata, un po’ pomposamente, la Buona Scuola, così come non mi pare che essa possa cambiare significativamente la scuola pubblica. Mi convincerò che è in atto una vera riforma della scuola italiana quando qualcuno proibirà per legge la lezione frontale e il setting attuale con banchi e sedie in fila; fino ad allora, considererò qualsiasi riforma come un aggiustamento – in senso migliorativo o peggiorativo – che non intacca la sostanza della scuola italiana.
In questo articolo vorrei presentare quattro pratiche che possono cambiare profondamente la scuola italiana, intervenendo non su aspetti marginali, ma sul suo cuore in crisi. Quattro pratiche dal basso, con le quali docenti e studenti potrebbero riprendere in mano la scuola pubblica e trasformarla senza aspettare decreti e riforme dell’alto. Prima però vorrei dire ancora qualcosa su ciò che non va nella scuola. Come ho già provato a spiegare in un articolo comparso su questa stessa testata, ritengo che la crisi della scuola italiana (e non solo italiana) sia principalmente una crisi di senso. Perché veniamo a scuola? Perché facciamo scuola? Perché gli studenti impiegano tante ore della loro giornata seduti ad un banco? La risposta a queste domande è oggi sempre più difficile. Una volta il senso della scuola era estrinseco: si studiava per ottenere un diploma da spendere nel mondo del lavoro. Poi è giunta la scuola di massa, con l’inflazione di diplomi e lauree. E allora, perché stiamo a scuola? Per ottenere un diploma che ci consentirà di iscriverci all’università ed ottenere una laurea grazie alla quale potremo aspirare ad un lavoro precario e malpagato? No, la risposta non può essere questa. La risposta dev’essere: perché stare a scuola è sensato; perché a scuola facciamo cose importanti; perché stare a scuola è perfino bello.
E’ evidente che quasi nessuno studente, cui si chiedesse che ne pensa della scuola, risponderebbe che stare a scuola è una cosa sensata, importante e bella. C’è qualcosa che non va. Noi docenti non riusciamo a fare una scuola bella e sensata. E’ solo parzialmente colpa nostra. Non ci riusciamo perché abbiamo ereditato schemi professionali che non funzionano più, e non siamo in un’epoca ed in un contesto sociale granché aperto alle sperimentazioni. Non abbiamo, per dirla tutta, lo slancio necessario per toglierci l’abito vecchio ed ormai liso e provarne uno nuovo. E tuttavia occorre provarci, se non vogliamo che il nonsenso della nostra pratica scolastica quotidiana cresca fino a paralizzarci.
La prima pratica che propongo è la maieutica reciproca. E’ un metodo creato quasi per caso nella Sicilia degli anni Cinquanta da Danilo Dolci, finalizzato allo sviluppo comunitario. Il grande sociologo ed educatore mise in cerchio contadini e pescatori per discutere della situazione locale. Come si può cambiare? Che si può fare? Ognuno diceva la sua, ognuno contribuiva alla soluzione del problema. Ognuno era maieuta dell’altro: la verità non veniva fuori da sé stessi, ma dalla discussione di tutti. Dolci si spese generosamente, negli ultimi anni della sua vita, per diffondere la pratica della maieutica reciproca nelle scuole italiane. Incontrò centinaia di docenti, tenne seminari maieutici in decine di scuole. Era fermamente convinto che quella pratica potesse aiutare a guarire una scuola malata di incomunicabilità. Distingueva, Dolci, il trasmettere, che è unidirezionale, dal comunicare, che è circolare: e riteneva che la scuola avesse il problema di essere trasmissiva, e non comunicativa. Oggi i docenti che praticano la maieutica reciproca in Italia sono pochissimi. Eppure si tratta di una pratica che dà risultati straordinari. Gli studenti prendono la parola, ragionano, e quel che è più importante ragionano insieme. Imparano a confrontare i punti di vista, ad arricchirsi reciprocamente, a scontrarsi anche. Non sono più destinatari passivi della trasmissione di un sapere preconfezionato, ma co-costruttori di un sapere condiviso. E sensato, perché rappresenta la risposta ad una domanda.
La seconda pratica che propongo è quella del service learning, o aprendizaje servicio solidario. La prima espressione è adoperata negli Stati Uniti, la seconda nei paesi dell’America Latina. C’è qualche differenza, perché pedagogicamente il service learning fa riferimento soprattutto a John Dewey ed alla tradizione americana di impegno comunitario non privo però di individualismo, mentre l’aprendizaje servicio solidario si ispira alla pedagogia di Paulo Freire, con la sua passione per la liberazione degli oppressi. Ma l’idea di fondo è la stessa: l’apprendimento che avviene a scuola dev’essere collegato, in modo strutturale e non estemporaneo, a qualche forma di servizio in favore della comunità. Non si tratta di volontariato, perché nel volontariato manca, in genere, il raccordo con lo studio curriculare. Si tratta invece di un modo diverso di concepire lo studio scolastico. La comunità locale ha i suoi problemi, la scuola ha i suoi saperi e le sue pratiche. In che modo questi saperi e queste pratiche possono incontrare i problemi della comunità locale? Quale contributo possono dare gli studenti al miglioramento del quartiere, del paese, della città? L’apprendimento-servizio va al cuore del problema del nonsenso scolastico. Perché studiare? Perché il mio studio può servire a rendere migliore, qui ed ora, la vita di tutti.
La terza pratica che propongo si chiama Student Voice, e per quello che ne so è quasi sconosciuta in Italia, mentre è molto diffusa in molti paesi. Nelle scuole italiane la partecipazione attiva degli studenti ha raggiunto i minimi storici. Strumenti come le assemblee di classe e di istituto si sono ormai svuotati di significato; in molte scuole le assemblee di istituto nemmeno si fanno, in altre durano mezz’ora, e poi tutti a casa. Gli studenti sembrano assolutamente disinteressati alla gestione della scuola, e se da un lato si lamentano di tutte le cose che non vanno, dall’altra non sembrano disposti a muovere un dito per migliorarle (salvo poi scioperare o chiedere l’occupazione). Con l’espressione Student Voice si indicano tutte quelle pratiche con le quali si cerca di ascoltare, appunto, la voce degli studenti, e di fare in modo che sia una voce che ha un suo peso reale nella comunità scolastica. Gli studenti hanno l’impressione che la loro voce non si ascoltata da nessuno: ed in effetti in ambito scolastico subiscono spesso quella che in psicologia si chiama disconferma. Come dire: chi sei tu per parlare? E’ importante che ogni scuola trovi i modi migliori per ridare voce agli studenti. L’empowerment, il conferimento di potere, dovrebbe essere considerato uno degli scopi del lavoro scolastico. Per farlo naturalmente occorre un profondo cambio di mentalità. Chi pensa alla relazione educativa come ad una relazione di dominio non potrà aiutare gli studenti a prendere la parola ed a percepirsi come soggetti attivi di cambiamento. Ma chi pensa alla relazione educativa come una relazione di dominio dovrebbe essere emarginato a scuola, sperando che la specie cui appartiene si estingua al più presto.
Per l’ultima pratica prendo a prestito un’espressione del già citato Paulo Freire: circoli di cultura. E’ una proposta che riguarda i docenti. Noi docenti ci incontriamo periodicamente nei consigli di classe, nei collegi dei docenti, nelle riunioni di dipartimento. L’eccesso di riunioni è una delle cose di cui ci lamentiamo. Eppure in nessuna di queste riunioni abbiamo l’opportunità di riflettere realmente sul nostro lavoro. Discutiamo dell’andamento didattico-disciplinare degli studenti, della gestione della scuola, della programmazione annuale ed individuale. Ma perché facciamo scuola? E’ una domanda di fronte alla quale spesso siamo soli. I circoli di cultura creati da Freire erano dei luoghi dialogici per la formazione degli adulti. Dei circoli di cultura di docenti potrebbero essere le strutture adeguate per l’auto-formazione e l’auto-aggiornamento, per lo scambio di pratiche, per l’arricchimento culturale reciproco, ma anche per riconquistare quello slancio collettivo, quella voglia di smettere il vestito vecchio e provare il nuovo – anche a costo di restare nudi per qualche tempo – senza la quale non ci sarà che la sempre più stanca ripetizione di ciò che da gran tempo ha perso il suo senso. C’è una cosa che accomuna queste pratiche. Anzi due. La prima è che non costano nulla (anche l’apprendimento-servizio, che negli Stati Uniti è finanziato dal governo, si può fare investendo le sole risorse umane della scuola). La seconda è che riguardano i rapporti, la relazioni umane. Sono fermamente convinto che il punto nevralgico sul quale agire sia questo. La scuola è malata di rapporti falsi, inautentici, asimmetrici, che non fanno crescere. Fino a quando studenti e docenti non diventeranno membri di una comunità di ricerca, aperta al mondo esterno, non si avrà nessuna buona scuola.
Per approfondire
Sul Danilo Dolci e la maieutica reciproca rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012 (si può scaricare qui: http://educazionedemocratica.org/?page_id=2010) ed al libro di Francesco Cappello Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci nella scuola, EMI, Bologna 2011. Sul service learning si veda: M. N. Tapia, Educazione e solidarietà. La pedagogia dell’apprendimento-servizio, Città Nuova, Roma 2011 e A. Vigilante, Il service learning: come integrare apprendimento ed impegno sociale, in Educazione Democratica, n. 7, gennaio 2014 (http://educazionedemocratica.org/?p=2777). Su Student Voice: Aa. Vv., Student Voice. Prospettive internazionali e pratiche emergenti in Italia, a cura di V. Grion e A. Cook-Sather, Guerini e Associati, Milano 2013.
Andrea Gilardoni ha avuto la bontà di replicare con un suo articolo al mio La crisi culturale della scuola italiana, “ennesimo articolo negativo sulla scuola italiana in un periodo in cui le scelte del governo potrebbero risultare decisive per il nostro futuro” – come se il governo non aspettasse che il mio articolo per bistrattare la scuola, ed eventuali provvedimenti negativi dovessero essere messi sul mio conto. Avrei apprezzato maggiormente la sua replica, devo dire, se si fosse limitato a discutere le mie tesi, evitando osservazioni antipatiche sulla mia persona (e paradossalmente facendomi al contempo la lezione sul galateo della discussione). Spero che non me ne vorrà se nella mia controreplica mi limiterò agli argomenti.
Vediamo dunque le critiche punto per punto.
Primo punto. “A scuola si insegna il pensiero critico e lo si esercita (quasi sempre)”, afferma Gilardoni. Non aggiunge altro. Una affermazione apodittica: prendere o lasciare. Al terzo punto aggiunge: “i metodi didattici sono infinitamente differenziati”. Le due affermazioni vanno discusse insieme, perché la mia tesi è che nella scuola italiana non si insegna il pensiero critico prevalentemente per il ricorso assolutamente preponderante alla lezione frontale. Una scuola nella quale il docente parla, ripetendo in modo più o meno fedele quello che c’è scritto nel libro di testo, e gli studenti a casa studiano il libro, magari integrandolo con gli appunti presi a lezione, per prepararsi all’interrogazione, durante la quale ripeteranno quello che dice il libro e quello che ha detto il docente, non è una scuola che abitua e forma al pensiero critico. Mancano due cose. La prima è la ricerca autonoma, anche se guidata dal docente, del sapere. Lo studente è passivo, riceve un sapere già confezionato, che bisogna digerire così com’è. La seconda è la riflessione comune sulle cose studiate: il momento in cui le informazioni acquisite vengono passate al vaglio, appunto, della critica. Per fare queste due cose occorrono metodologie diverse dalla lezione frontale.
Ma in base a cosa posso dire che la scuola italiana è ancora fondata sulla lezione frontale? Su cosa si basa il mio giudizio sulla scuola italiana? Su quattro cose:
Uno. La mia esperienza di docente. Insegno da più di quindici anni; ed ho insegnato alla scuola media, agli istituti tecnici, ai licei, ai professionali, sia al sud che al centro-nord. La mia esperienza naturalmente non è assoluta – nessuna esperienza lo è. Ma è vasta. Certo più vasta di quella di chi ha sempre insegnato in un liceo. O di chi parla di scuola senza aver mai insegnato.
Due. Il confronto con i colleghi di ogni parte d’Italia, sia fisicamente che in rete. Confronto che raramente mi ha aperto spiragli su modi di fare scuola diversi da quello tradizionale della lezione.
Tre. La considerazione del setting. Per fare scuola in modo diverso occorre una diversa organizzazione dello spazio scolastico. Occorrono tavolini al posto ei banchi, spazi aperti, niente cattedre. Basta entrare in una qualsiasi scuola italiana per constatare che invece nel nostro paese il setting scolastico prevede una cattedra che fronteggia file di banchi. Un setting che era considerato superato da Dewey già alla fine dell’Ottocento, e che è funzionale alla lezione frontale. Non manca qualche coraggioso tentativo di riorganizzazione degli spazi, come quello del “Majorana” di Brindisi; ma si tratta di iniziative isolate e sporadiche.
Quattro. La lettura di buona parte dei libri sulla scuola scritti dai docenti italiani. Si tratta di un filone letterario che, a quanto pare, tira parecchio e non conosce crisi. E l’immagine che ne emerge della scuola, anche quando si tratta di libri piene di romanticherie, non è propriamente quella di una scuola metodologicamente all’avanguardia. Faccio qualche esempio. I libri più discussi ed apprezzati in sala docenti degli ultimi anni sono senza alcun dubbio quelli di Paola Mastrocola. Il suo ultimo libro sulla scuola – Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda, Modena 2011) – sostiene la tesi che chi non vuole studiare farebbe bene a starsene a casa. Ora, che cosa vuol dire scuola? Semplice: “l’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga e l’allievo ripete”. Tutto qui [1]. Mi pare che non ce ne sia molto, qui, di pensiero critico. Un libro recente di grande successo – ad un livello diverso – è quello di Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per una erotica dell’insegnamento (Einaudi, Torino 2014). “Un insegnamento degno di questo nome non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma sa animare il desiderio di sapere. Per questa ragione ogni insegnamento che sia tale muove l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto in cui consiste in ultima istanza il fenomeno che in psicoanalisi chiamiamo ‘transfert'”, scrive Recalcati. Ed ha molta ragione, così come ha ragione nel considerare il docente non come colui che possiede un sapere o una verità, ma come colui che li ricerca. Ma cosa fare, in concreto, a scuola? Qui finiscono, sembra, le competenze di Recalcati, che non va al di là dell’evocazione di una lezione appassionata ed appassionante – ma pur sempre lezione. Immagino l’obiezione: una lezione appassionante non è sufficiente a stimolare il pensiero critico? A me pare che faccia venire in primo piano soprattutto la figura del docente. Può essere che molti studenti si appassionino e si mettano a studiare seriamente la sua disciplina, così come può essere che si innamorino del docente e cerchino di scimmiottarlo. Per usare il lessico psicoanalitico di Recalcati, in questo caso, attraverso la lezione, il docente diventa un oggetto erotico. Per presentarsi davvero agli studenti come colui che cerca il sapere, e non come colui che lo possiede, dovrebbe rinunciare alla lezione e mettersi realmente a fare ricerca insieme ai suoi studenti. Socrate non faceva lezione. Interrogava e cercava insieme. Un terzo esempio è Cosa significa insegnare? della filosofa Eleonora De Conciliis (Cronopio, Napoli 2014). Anche qui si leggono cose sensatissime su come dovrebbe essere la scuola. Per l’autrice l’insegnante ha in primo luogo il dovere di dire la verità e di insegnare a sospettare dello stesso sapere che trasmette: “‘v’insegno questo perché c’è un’istituzione che mi costringe, ma al tempo stesso vi dico come storicamente si è giunti a questa costrizione’”. Il paradosso di questa posizione appare evidente però quando si legge, poco più avanti: “l’insegnante parresiasta può fabbricare soggetti autonomi in grado di non farsi fregare da un mediocre pastore o dalle forme mediatico-populistiche assunte dall’economia politica”. Si fabbricano cose, non persone. Si formano soggetti autonomi coinvolgendoli nel processo di formazione e nella ricerca comune degli aspetti problematici del sapere tradizionale. Anche qui, invece, non si va oltre la lezione, dal punto di vista metodologico. Sia in Recalcati che in De Conciliis la scuola ha ancora al centro il docente che parla. Lo studente appare sullo sfondo, come un soggetto passivo, che si lascia innamorare del sapere o “fabbricare” dal docente demiurgo.
Punto secondo. A scuola non si trasmette solo la cultura italiana ed europea, come sostengo io, ma anche quella extraueropea, sostiene Gilardoni. Qui si fa presto: basta dare uno sguardo alle Indicazioni nazionali, quelli che una volta si chiamavano programmi. Autori raccomandati al secondo biennio di filosofia del classico: presocratici, sofisti, Socrate, Platone, Aristotele, scuole ellenistiche, Agostino eccetera. Non un solo pensatore orientale. Storia dell’arte: “Nel corso del secondo biennio si affronterà lo studio della produzione artistica dalle sue origini nell’area mediterranea alla fine del XVIII secolo”. E così via, per le altre discipline e le altre tipologie di scuola. Mi dica Gilardoni, se mi sono distratto, in quale tipologia di scuola, e nell’ambito di quale disciplina, viene raccomandato lo studio di Nagarjuna, o di Chuang-tzu, o del Mahabharata, o del Genji Monogatari.
Quarto punto. “Il precariato intellettuale non è faccenda che riguardi la scuola, dove i pochi precari esistenti sono comunque pagati tutto l’anno e, probabilmente, a breve saranno anche tutti assunti”, scrive Gilardoni. Mi piacerebbe condividere il suo ottimismo; ma non è questo il punto. Nel mio articolo sostenevo che oggi è difficile motivare gli studenti allo studio dicendo loro che studiare serve ad affermarsi nella vita, perché questa affermazione è semplicemente falsa. Oggi esistono persone con più di una laurea, che sono disoccupate o precariamente occupate. Spero che Gilardoni non voglia negare questo fatto evidente.
Quinto e sesto punto. “La scuola forma anche i nuovi docenti, e lo fa quasi sempre bene, meglio dell’Università”. Non me ne voglia Gilardoni, ma questa affermazione mi ha fatto sorridere. Il cosiddetto anno di prova è stata una delle maggiori buffonate della mia carriera scolastica. Una sorta di pro-forma, con lezioni online dai contenuti molto discutibili ed un esame-farsa finale. La valutazione finale dell’anno di prova dovrebbe essere rigorosissima, e fermare quei docenti che non sono adatti all’insegnamento. Può essere che sia male informato, ma non sono a conoscenza, invece, di casi di docenti che siano stati licenziati per non aver superato l’esame finale dell’anno di prova.
Settimo punto. “L’alternanza scuola-lavoro, sempre più capillare, è la negazione della presunta scissione tra i due mondi affermata nell’articolo”. L’alternanza scuola-lavoro è una realtà soprattutto negli istituto professionali. Ma quello che contestavo nel mio articolo è il fatto che la scuola italiana riproduce e giustifica la rigida separazione e gerarchizzazione tra sapere intellettuale e sapere manuale-professionale. Ora, gli studenti liceali potranno anche impegnarsi in un lavoro intellettuale, ad esempio presso un museo o una biblioteca: la realtà non cambierà di una virgola.
Ottavo e decimo punto. “Il servizio sociale è prassi comune in tutte le scuole, dal volontariato organizzato dalla scuola al riconoscimento di quello già praticato in privato”. Confondere volontariato e service learning significa non conoscere il service learning. Anche questo è un segno della scarsa disponibilità al cambiamento ed alla sperimentazione di molti docenti italiani: qualsiasi proposta innovativa viene ricondotta, in men che non si dica e prima ancora di averla compresa, a qualche pratica consolidata, per giungere alla trionfante conclusione: “Ma noi questo lo facciamo già”. “Se poi si vuole proprio usare il modello statunitense (ma perché proprio quello, con tutti quelli, di gran lunga migliori, che ci sono?), si ricordi che quando la valutazione è internazionale, gli Stati Uniti non fanno proprio una bellissima figura”, aggiunge Gilardoni. Proporre il service learning non vuol dire affatto proporre un modello americano. Il service learning è diffuso praticamente in tutto il mondo, ed è una realtà importante in America Latina, dove si ispira alla pedagogia critica di Paul Freire. Esistono numerosi studi sui risultati positivi dell’introduzione del service learning su diversi aspetti: miglioramento dal punto di vista disciplinare, maggiore frequenza, maggiore partecipazione, migliori risultati in diverse discipline, e così via [2]. Se i risultati di un sistema scolastico che fa ricorso al service learning non sono i più brillanti nel confronto con gli altri paesi, bisognerebbe chiedersi quasi sarebbero i risultati senza il service learning (al di là del fatto che la metodologia è efficace su dimensioni fondamentali, come la formazione etica, politica ed alla cittadinanza, generalmente trascurate quando si valuta a livello internazionale l’efficacia di un sistema scolastico).
Nono punto. “La separazione classista è una bufala, mentre invece conta la cultura dei genitori”, dice Gilardoni. Ma è esattamente quello che sostengo io, e che evidenziano numerose analisi del sistema scolastico italiano: la scelta della scuola secondaria, e la scelta di continuare all’università, riflettono la situazione di partenza della famiglia. Coloro che hanno genitori diplomati o laureati frequentano i licei, gli altri vanno ai professionali. Ed all’università vanno soprattutto quelli che hanno genitori a loro volta laureati. Il che vuol dire che la scuola italiana non fa che riprodurre e confermare le differenze di classe esistenti nella società. Le critiche di Gilardoni, che mi hanno costretto ad una replica lunga, puntigliosa e probabilmente molto noiosa, non hanno sfiorato nemmeno il tema centrale del mio articolo, che è nella domande: che tipo di cultura si fa oggi a scuola? che senso ha oggi insegnare? possiamo insegnare oggi come venti anni fa? Nei libri citati di Recalcati e di De Conciliis ci sono delle risposte a queste domande meritevoli di considerazione. La mia risposta è che la scuola può riconquistare significato soltanto se docenti e studenti conquistano il senso della cultura come ricerca, lotta e costruzione comune di un mondo migliore, superando l’individualismo insito tanto nella concezione della cultura come formazione personale, quanto nella promessa di affermazione sociale e lavorativa. Si tratta, né più né meno, di quel “sortire insieme” di cui parlava Don Lorenzo Milani.
La qualità di un sistema scolastico è data da quattro cose: qualità della cultura, qualità delle relazioni umane, qualità dell’apertura alla società, qualità strutturale. Un sistema scolastico che funziona è un sistema nel quale la cultura è viva, piena di senso, tale da appassionare, le relazioni umane sono reciprocamente arricchenti e prive di violenza e di ipocrisia, le scuole non sono chiuse in sé ma partecipano alla vita sociale, alla quale offrono un loro contributo, e le strutture sono tali da rispecchiare l’importanza del lavoro che si svolge in esse.
In questo articolo vorrei soffermarmi sul primo punto: la qualità della cultura nella scuola italiana. Ritengo che una delle ragioni della crisi della scuola italiana vada cercata nella crisi culturale, nel fatto cioè che a scuola non si fa – non si fa più o non si è mai fatta: se ne potrebbe discutere – cultura autentica. I docenti italiani si autorappresentano come coloro che formano le nuove generazioni al pensiero critico. Non c’è molto di vero in questa autorappresentazione. Per la sua stessa struttura, perfino per il setting delle aule, la scuola favorisce più il pensiero convergente ed il conformismo che il pensiero critico. Lo studente a scuola per lo più impara, spesso a memoria, le cose dette a lezione dal docente, che a loro volta rispecchiano quanto è scritto nel manuale, e lo ripete durante l’interrogazione. E’ lo schema dominante, ed è uno schema che ha poco a che fare con una vera formazione intellettuale. Lo schema è talmente consolidato, che molti docenti si chiedono sinceramente cos’altro si potrebbe fare. Fare scuola è fare lezione. Il docente parla, gli studenti ascoltano ed assimilano. Poi ripetono.
Soffermiamoci ancora un attimo sulla figura del docente. Che si autorappresenti come formatore di coscienze critiche, mentre lavora in una istituzione conformistica, è cosa comprensibile. Il suo prestigio sociale ha subito un calo verticale negli anni, lo stipendio lascia a desiderare, spesso la sua stessa situazione lavorativa è precaria: a più di quarant’anni insegue ancora una supplenza, ed è spaventato da ogni annunciata riforma scolastica (ed ogni governo ne annuncia una). E’ comprensibile che rivendichi il suo fondamentale ruolo sociale. La sua frustrazione aumenterebbe, se si soffermasse a considerare il modo in cui è stato selezionato. Ad un docente in Italia non si chiede se non di saper insegnare la sua disciplina; che sappia anche far ricerca nel suo campo disciplinare è superfluo. In altri termini, il docente è uno che non produce cultura, ma la trasmette. Se scrivesse un libro, quel libro non avrebbe alcun peso sul suo curriculum; e la stessa cosa varrebbe se ne scrivesse dieci. Si giunge a questo curioso paradosso: un docente di scuola secondaria che superasse l’abilitazione per l’insegnamento universitario sarebbe adatto, appunto, ad insegnare all’università, ma questo non gli darebbe comunque alcun vantaggio nella scuola secondaria: non sarebbe titolo preferenziale, ad esempio, se volesse ottenere un passaggio di cattedra sulla disciplina per la quale è abilitato all’insegnamento universitario. Lo Stato stabilisce che puoi insegnare filosofia all’università, ma questo non ti avvantaggia per insegnare filosofia al liceo. Sono due mondi a parte, privi di qualsiasi punto di contatto.
Una scuola che intendesse formare al pensiero critico dovrebbe avere docenti capaci loro stessi di pensiero critico: vale a dire docenti ricercatori. Il contatto tra scuola ed università dovrebbe essere costante e la produzione intellettuale dei docenti valorizzata anche economicamente. E’ significativo che le periodiche proposte di differenziazione dello stipendio dei docenti in base alle loro funzioni non considerino la produzione intellettuale. Non si vuole che guadagni di più il docente che scrive libri; meglio premiare quello che fa più progetti, quale che sia la loro utilità.
Il docente che trasmette una pseudo-cultura condensata nei libri di testo è il primo aspetto della crisi della cultura scolastica italiana. Il secondo aspetto è la crisi di senso. Perché si studia? Che senso ha la cultura? A che serve? Alla domanda il docente-trasmettitore risponde con una certa sicurezza, almeno se è un docente liceale. Si studia per farsi una cultura personale, ossia per diventare persone migliori (perché è fuori discussione che il colto sia una persona migliore dell’incolto); e al tempo stesso così facendo si diventa persone affermate, che trovano un posto nella società. La risposta non convince per diverse ragioni. La prima è che è sempre meno vero che studiare serve a conquistarsi un posto nella società. Esiste oggi un nuovo proletariato intellettuale, super-formato, che insegue lavori precari a vita – un nuovo proletariato di cui spesso lo stesso docente fa parte. D’altra parte, la cultura scolastica non è che una parte – ed una piccola parte – della cultura reale, e non è da escludere che la cultura vera, quella viva, si trovi al di fuori delle aule scolastiche. Ma il punto decisivo è un altro. La concezione della cultura come formazione individuale pecca, appunto, di individualismo. Questo soggetto che passa anni ed anni a curare sé stesso, per di più in un contesto competitivo (perché la scuola è competizione), riuscirà poi a diventare un membro responsabile della società? Chi e quando gli ha insegnato a lavorare insieme agli altri per il bene comune? Quella che manca alla scuola italiana è la concezione della cultura come servizio: studiare non perché così divento migliore, né perché questo mi permetterà di far carriera, ma perché studiando posso dare il mio contributo al bene comune. Il mio studio ha senso solo se lo metto al servizio della società. Nelle scuole americane esiste una pratica, il service learning, che è la concretizzazione di questa percezione dello studio e della cultura. Gli studenti devono impegnarsi in attività in favore della comunità, legate al loro studio curriculare. L’aula scolastica non è un mondo chiuso, ma un luogo nel quale si studia la soluzione per i problemi della comunità locale. Il metodo è diffuso anche nei paesi latino-americani, come aprendizaje servicio, e si sta diffondendo anche in Europa. In Italia niente, o quasi.
La cultura scolastica italiana risente anche della separazione, propria della tradizione occidentale, tra sapere intellettuale e sapere manuale e professionale. Una separazione che naturalmente si intreccia con le differenze di classe. Il sapere intellettuale è riservato ai figli delle classi borghesi, che frequentano il liceo classico e scientifico, mentre il sapere manuale e professionale è riservato ai figli del proletariato. La separazione classista nella scuola italiana funziona in modo infallibile. Ed è una separazione che impoverisce tutti: i professionali, sempre più squalificati, alle prese con carenze strutturali e problemi disciplinari, e gli stessi licei, condannati ad un sapere libresco che non trova alcuno sbocco in un fare, e finisce per avvitarsi su sé stesso. Non c’è grande pedagogista degli ultimi secoli che non abbia evidenziato il valore formativo del lavoro e della professione, e tuttavia la separazione tra le due culture resta quale segno distintivo della cultura scolastica italiana – riflesso di una società nella quale differenze sociali e di distribuzione della ricchezza e delle risorse sono più marcate che altrove in Europa, e la mobilità sociale è bloccata.
La pseudo-cultura scolastica, libresca e astratta, senza contatto con un fare, è anche una cultura provinciale, miope, asfittica. E’ la cultura occidentale, con in primo piano quella italiana. Mica poco, si dirà. Poco, invece; pochissimo in una società globalizzata. E’ un pezzettino di cultura occidentale che nulla sa e nulla vuole saperne delle culture altre, sicura di sé e della propria superiorità. Il liceale si inorgoglisce per l’Iliade, ma nulla sa del Mahabharata; lo conoscerà, forse, uscendo da scuola, se è una persona curiosa; o forse non lo conoscerà mai, ritenendo che al di fuori dell’Europa non si sia scritto nulla di significativo. Dalla scuola italiana si esce con la convinzione che la civiltà europea sia la civiltà per eccellenza, che la Grecia abbia insegnato la democrazia al mondo, ed altre sciocchezze simili. Il resto non esiste, e merita al più una nota a margine, una digressione curiosa. La scuola italiana è strutturalmente non attrezzata per comprendere l’altro, al di là delle dichiarazioni di principio sull’interculturalità e l’accoglienza del diverso. Non lo è, perché è penosamente monoculturale, priva di curiosità per tutto ciò che è al di fuori dei sacri confini dell’Europa. La lezione, ancora onnipresente nella scuola italiana – e l’introduzione di LIM, computer e tablet non la mette realmente in discussione – è la metodologia perfettamente adeguata a questa pseudo-cultura, insieme al suo correlato materiale, il libro di testo. Rinunciare a queste due cose, o ripensarle profondamente, è il primo passo necessario per riappropriarsi di una cultura sensata.
La verticalità del rapporto docente-studente va spezzata in favore della orizzontalità della comunità che apprende e che è in rapporto aperto e vivo con le diverse comunità che sono fuori dalla scuola. Fin dalle prime classi della scuola primaria, il bambino va abituato non a interiorizzate quello che è scritto in un libro, ma a cercare attivamente la conoscenza, a costruirla, a discuterla. Si tratta di passare da una scuola nella quale l’insegnante, unico soggetto (più o meno) attivo, imprime segni nella mente dell’alunno, ad una scuola nella quale docenti e studenti, membri di una stessa comunità di ricerca, imprimono insieme segni nella più ampia realtà sociale.
Vorrei dare il mio contributo alla discussione sulla possibilità di una scuola diversa, avviata da Paolo Mottana (25 idee per una scuola diversa), presentando dodici tesi che costituiscono il nucleo di un libro che sto scrivendo, ed il cui titolo sarà La scuola conviviale. L’aggettivo conviviale fa riferimento da un lato al Convivio platonico e dall’altro alla convivialità di Ivan Illich (La convivialità). Si tratta, in breve, di ripensare la scuola – la scuola pubblica – mettendo al centro due cose: le relazioni, che devono essere aperte, simmetriche, dialogiche, ed il rapporto tra scuola e mondo economico-sociale, che non deve essere di riproduzione, ma di ripensamento critico, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di realizzazione umane.
Sarò grato a chi vorrà discutere le tesi.
Prima tesi
La scuola conviviale è fondata sul dialogo non solo tra studenti e docenti, ma degli studenti tra loro. Studenti e docenti costituiscono una comunità che apprende, studia, ricerca e cresce insieme.
Seconda tesi
La scuola conviviale fa dunque a meno della relazione asimmetrica tradizionale tra docenti e studenti, ed instaura invece una simmetria dinamica, perché tesa verso la crescita comune. Il darsi del tu è il segno esteriore, ma non superficiale, di questo cambiamento.
Terza tesi
La scuola conviviale è una scuola serena, nella quale gli inevitabili conflitti vengono affrontati con gli strumenti del dialogo e della ragione. La serenità, l’armonia, la bellezza che sono elementi indispensabili di una situazione educativa saranno espressi anche esteriormente nell’ambiente dell’aula.
Quarta tesi
La scuola conviviale è un laboratorio di critica sociale. Questo non vuol dire che a scuola si debbano insegnare concezioni critiche verso il sistema e cercare di formare dei rivoluzionari: ciò sarebbe indottrinamento. Vuol dire, invece, che nella scuola si discute in modo aperto e critico del sistema sociale, economico, assiologico. Il problema del rapporto tra scuola e mondo esterno di risolve così: la scuola è il luogo in cui il mondo esterno viene passato al vaglio della critica. Il sistema sociale ed economico ha una straordinaria pervasività; alla scuola spetta il compito di rifiutarsi di essere una delle tante agenzie pubblicitarie del capitalismo, ed offrire agli studenti visioni del mondo alternative.
Quinta tesi
La scuola conviviale mette tra parentesi tutti i sistemi ideologici, religiosi, assiologici. Il suo atteggiamento di fondo è la scepsi, intesa come ricerca. Come tale, è rigorosamente laica, anche se non anti-religiosa.
Sesta tesi
La scuola conviviale riflette criticamente su sé stessa in quanto istituzione, configurandosi come meta-scuola.
Settima tesi
La scuola conviviale non si considera l’unico luogo in cui sia possibile un apprendimento reale ed una crescita umana completa. Ritiene, invece, che sia possibile imparare ovunque, e che la scuola sia solo uno dei tanti luoghi di apprendimento possibile.
Ottava tesi
La scuola conviviale è aperta ai saperi tradizionalmente esclusi dalla scuola, anche per ragioni di classe.
Nona Tesi
La scuola conviviale è aperta al contributo di molteplici soggetti. Sa che ascoltare le persone è uno dei modi migliori per imparare e crescere. E dunque ascolta il contadino, l’operaio, la casalinga, il commerciante, l’immigrato e così via.
Decima tesi
La scuola conviviale non è eurocentrica, ma guarda con interesse a tutte le culture del mondo. La scuola conviviale considera criticamente tutti i contenuti culturali, cercando diverse interpretazioni, punti di vista alternativi, fonti minori.
Undicesima tesi
La scuola conviviale considera il sapere come contributo al bene comune.
Dodicesima tesi
La scuola conviviale si occupa dell’educazione spirituale non meno che dell’educazione intellettuale.
Rovistando tra le bancarelle d’un mercatino mi è capitato, di recente, di ritrovare uno dei non molti libri letti al tempo delle scuole medie: Le scapole dell’angelo di Giovanna Righini Ricci (1973). Ricordo che il libro, che era una lettura scolastica, inaspettatamente mi piacque, al punto che della stessa autrice lessi anche, vincendo la mia assoluta antipatia per la lettura, Là dove soffia il mistral, un romanzo ambientato nella Camargue, che mi piacque ancor di più. L’ho preso dunque, il libro; e l’ho riletto. A metà della vita queste riletture servono a ricostruire il puzzle della propria identità, a capire perché – per quali influenze – siamo diventati quello che, nel bene o nel male, siamo. In qualche caso, anche, a capire nonostante chi e nonostante cosa siamo diventati quello che, nel bene e nel male, siamo.
Il romanzo di Righini Ricci è la storia di un gruppo di ragazzini in età da scuola media in una metropoli del nord. Vero protagonista è Lorenzo, un immigrato meridionale – ed all’immigrazione rimanda l’immagine di copertina, la foto di una donna con un bambino alla stazione, ingombra di valigie: lo stereotipo del meridionale con la valigia di cartone. E’ un bravo ragazzo, questo Lorenzo, ma parecchio disadattato, con una inopportuna nostalgia per il paesello natale da cui si libererà solo dopo aver scoperto, durante una breve vacanza, che anch’esso ha subito le trasformazioni imposte dalla modernità
Il messaggio del libro è naturalmente positivo, progressivo, rassicurante. Questi ragazzetti, che parlano come un libro stampato (anche Lorenzo e la sua famiglia proletaria), sono bravi giovani, alle prese con l’incomprensione dei genitori, le difficoltà di costruirsi una personalità, la città anonima e tutti gli altri problemi attuali degli anni Settanta (e Ottanta). Prendiamo Lorenzo. Si imbatte, un giorno, in una banda di teppisti che lo malmenano e gli strappano il giacca; ma il giorno dopo fa un incontro più piacevole: una ragazzetta più piccola di lui che a scuola lo vede così conciato e, come nulla fosse, tira fuori dalla borsa ago e filo e si mette a rammendargli la giacca. Questa ragazzina, che si chiama Rossella, è uno dei personaggi positivi del romanzo. E’ ancora una bambina, ma è già molto religiosa, e riesce a trascinare il riluttante Lorenzo ad un incontro spirituale, momento importante della sua maturazione personale.
Quando la piena del fiume travolge la case dei poveri, questi ragazzetti costituiscono una squadra di volontari e si adoperano per liberare dal fango la tipografia del quartiere, mentre le proteste della gente ottengono la costruzione di uno scolmatore che impedirà nuovi allagamenti. La fabbrica in cui lavorano i genitori di Lorenzo chiude i battenti, ma anche qui si tratta di una crisi solo momentanea: grazie all’intervento dei politici, e probabilmente all’interessamento del ricco e potente padre di uno dei ragazzetti, la fabbrica viene rilevata da un’altra azienda, e tutti i posti di lavoro sono salvi.
L’apoteosi si ha nel finale. Il nostro Lorenzo è travagliato dal dubbio di non aver collaborato con le forze dell’ordine nella soluzione di un caso che riguarda il fidanzato della sorella. Per sgravarsi la coscienza, va dal commissario e vuota il sacco. E trova un uomo buono e paterno, che gli fa la lezione di vita: “Devi imparare ad avere un po’ più fiducia in te stesso, in noi, nel tuo prossimo, nella bontà della legge, nella vita insomma!”. Parole sante: Lorenzo esce dal commissariato che è un altro: positivo, fiducioso, con voglia di fare. Certo, spiega l’autrice in nota, quando Lorenzo sarà più maturo capirà che “le istituzioni umane hanno anche delle carenze”, ma per il momento è importante “uscire dalle nebbie del dubbio, trovare il proprio posto nel mondo” (corsivo dell’autrice).
Il nostro Lorenzo lo trova, alla fine, il suo posto nel mondo. Vince il dubbio e guarda con fiducia al futuro: “Fra un mese ci sono gli esami. Se tutto va bene, forse potrò iscrivermi a un Istituto Professionale. L’insegnante di italiano mi ha comunicato che posso concorrere per una borsa di studio e non è detto che non ce la faccia: in fondo l’italiano è il mio forte”.
Tra le cose che colpiscono di più, in questo libro, è la rappresentazione della vita scolastica. Nella classe di Lorenzo nessun professore fa lezione; tutti coordinano civilissimi dibattiti su tematiche di attualità. Bello, ma falso. E’ la scuola come dovrebbe essere, ma non come è stata ed è. Cosa è stata ed è la scuola italiana ce lo dice invece la conclusione. Benché sia forte in italiano, il nostro Lorenzo non potrà aspirare al liceo, ma solo – e forse – ad un istituto professionale. Lui, immigrato meridionale e figlio di operai, è un proletario, ed il liceo è per la buona borghesia. Il posto nel mondo degli uni e degli altri è diverso. Dev’essere grazie alla lettura di questo libro se non mi sono meravigliato molto quando, alla fine degli esami delle medie, benché come il nostro Lorenzo fossi abbastanza forte in italiano, lessi sul diploma la raccomandazione di frequentare l’istituto professionale.