Lo scorso anno Maurizio Parodi, tra gli interpreti più interessanti delle istanze della pedagogia libertaria nel nostro paese, mi ha chiesto di collaborare con un mio contributo ad un libro che stava scrivendo. Si trattava di rispondere alla domanda: Cosa bisogna fare perché i bambini non vadano a male? Ho risposto a questa domanda con un contributo intitolato “Camminare insieme”, che si trova nel libro uscito quest’anno: Gli adulti sono bambini andati a male (Sonda editore).
Se ripenso al mio percorso scolastico, mi pare di potermi riconoscere nella categoria dei “bambini andati a male”. Me lo conferma la rilettura delle mie pagelle scolastiche, che segnano una progressione negativa, da una iniziale quasi perfezione al disastro della scuola secondaria. Il fatto di essere un ex bambino andato a male (che poi si è ripreso per tempo, comunque) è un grande vantaggio per un pedagogista, appunto perché permette di rispondere alla domanda di Parodi con una qualche base di esperienza.
Il mio esordio scolastico è stato esaltante, almeno a giudicare dalla mia prima pagella:
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, molto serio e silenzioso prende però parte attiva alla vita della classe e riesce bene in tutte le attività scolastiche nonostante i primi tre mesi di assenza. Costante nel rendimento predilige le attività matematiche e la recitazione.
Intelligente, silenzioso, partecipe: alunno modello. Ero arrivato a scuola con tre mesi di ritardo per via di problemi di salute, gli stessi che mi hanno salvato dalla scuola dell’infanzia. Ma non arrivi in una classe tre mesi dopo senza pagarne le conseguenze. Ricordo poco della prima elementare, più che altro sensazioni: e tra tutte questo senso di estraneità che mi ha accompagnato per tutto il percorso scolastico (fino all’università, direi).
Della maestra della prima elementare ho un bel ricordo. Paziente, dolce, buona. Tra i pochi ricordi c’è l’immagine di lei che alla cattedra legge Zanna bianca, e tutti in silenzio ad ascoltarla. Io sono all’ultima fila, il mio compagno di banco è uno bambino precocemente obeso, ed a pensarci oggi c’è il sospetto di essere finito subito nel settore sfigati della classe. Ho bisogno di andare in bagno, ma sono troppo timido per chiederlo. E così il piacere dell’ascolto della lettura si mischia subito al disagio.
Terza elementare. La maestra brava non c’è più: si è trasferita a Bologna. Al suo posto c’è un maestro. Uno anziano, massiccio, autoritario. Ha una mazza di legno con la quale ci colpisce sulle mani quando sbagliamo qualcosa. Se ci ripenso, ricordo ancora il dolore sulle mani, ma soprattutto l’umiliazione. Sono fortemente a disagio in classe. Ho legato solo con il mio compagno di banco – questa volta uno smilzo pel di carota. Senza alcun dubbio faccio parte del settore sfigati. Oltre alla bacchettate sulle mani, di questo periodo della mia vita scolastica ricordo un metodo escogitato per rendere più sopportabili le ore scolastiche: pensare al dopo. Immaginare che a casa vi sia qualcosa di buono – le figurine Panini, ad esempio – che mi aspetta, e pregustare in ogni istante il momento in cui le attaccherò sull’album, godendo il loro inconfondibile odore di colla.
Il maestro, è appena il caso di dirlo, non si accorge del mio disagio. In terza scrive:
Alunno dotato di pronta e vivace intelligenza, socievole con i compagni, segue il corso con ottimo profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con evidente piacere e collabora con gioia con tutti i compagni nelle attività di gruppo. Ama molto il disegno e la recitazione.
Bisogna essere davvero molto distratti per scorgere un “evidente piacere” lì dove c’è un disagio costante.
Il giudizio dell’anno seguente è quasi la fotocopia di quello della terza:
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, serio e silenzioso, segue il corso con grande profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con molto piacere e collabora con i compagni nelle attività di gruppo. Bravo nella lettura e nella recitazione, ma un po’ incerto nella risoluzione dei problemi. Bravissimo in disegno e nella recitazione.
E’ evidente che il maestro ha dei giudizi standard corrispondenti alle classiche tre fasce di studenti: quelli bravi, quelli così così, quelli mediocri. Quelli bravi hanno tutti una pronta e vivace intelligenza e frequentano con molto piacere. Chissà come erano i giudizi sull’intelligenza di quelli meno bravi.
Da notare che nel passaggio dalla prima alla quarta elementare ho perso per strada la mia predilezione per le attività matematiche.
In quinta elementare, non ricordo per quali peripezie, mi sono liberato del maestro e mi sono ritrovato in una classe nuova con una nuova maestra. Anche qui senso di estraneità. Mi rivedo al secondo banco della fila centrale, con dietro di me una tipa che mi è ostile: e mi imbarazza molto sapere che l’ho costantemente alle spalle. La maestra non è male, ma ha una fissa per la religione. Stiamo sempre a pregare ed a cantare canzoni di chiesa. Comunque me la cavo:
Alunno molto tranquillo ed educato, ma un po’ timido. Lavora con serietà e profitto, impegnandosi con costanza e amore nello studio. Approfondisce i contenuti culturali, esprimendosi con molta chiarezza. Nel disegno si evidenzia in modo così notevole da rivelare spiccate doti di fantasia e di espressività.
Questa cosa del disegno va approfondita. Sono sempre stato bravino a disegnare, anche se al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in disegno. Temo però che giudizio così positivo risenta del fatto che all’epoca amavo particolarmente disegnare soggetti religiosi, e soprattutto madonne doloranti e sante lucie con gli occhi al cielo, che mandavano in visibilio la mia maestra e venivano esposte nel corridoio.
Una cosa ricordo della mia quinta elementare. Si era nel 1982, l’anno della guerra delle Falkland. La prima guerra della mia vita. Devo dar atto alla mia religiosissima maestra di averci fatto partecipare emotivamente all’evento. Certo, non ci capivamo granché, dal punto di vista politico. Ma sentivamo che era una cosa brutta: e naturalmente pregavamo. Mi piace pensare che il mio successivo orrore per la guerra abbia qui le sue radici.
Veniamo alle medie. Si dice che le medie costituiscono il ventre molle del nostro sistema scolastico. In base alla mia esperienza, mi pare che sia così. Se alle elementari mi vedo a disagio, impacciato, bloccato, alle medie mi pare di essere addirittura angosciato. Anche qui, però, la mia angoscia viene scambiata per buona educazione, e riesco a strappare un giudizio positivo. In seconda media il giudizio è:
Dato il carattere riflessivo e ritroso, l’alunno rifugge da qualsiasi forma di ostentazione e da ogni intervento che non sia opportuno e meditato. Così facendo, egli dimostra maturità e serietà di propositi, metodo, propensione e disponibilità all’ascolto, ma soprattutto disponibilità ad accettare positivamente ciò che gli viene proposto. Possiede sufficienti mezzi espressivi e buon livello di preparazione. Qualche prova deludente in matematica.
Insomma, me la cavo ancora. Non sarò il primo della classe, ma si vede che piaccio. Sto al mio posto, sono docile e tranquillo: e questo per i miei professori è senz’altro segno di maturità. Non di timidezza, non del sentirsi spaesati, fuori posto, bloccati. Di maturità.
L’anno del mio andare a male è quello successivo. Nel giudizio finale della terza media si legge:
L’azione didattico-educativa nei suoi confronti ha incontrato qualche difficoltà a causa di certe sue immotivate resistenze psicologiche, che non gli hanno permesso un approccio proficuo al colloquio. Nel complesso, comunque, la sua formazione è di livello accettabile soprattutto nella lingua straniera e nel campo tecnico-pratico. Ha rivelato attitudine e abilità nel disegno ornato.
Che è successo al nostro studente maturo e riflessivo? E’ successo che, in seguito ad un episodio increscioso, si è posto la domanda: ma i miei professori mi apprezzano per quello che sono, come persona, o solo perché faccio tutto quello che dicono loro, studio e non rompo le scatole? ci tengono a me? si interessano a me? Domande cui è seguito l’esperimento: provare a non studiare, a mostrarmi indifferente, perfino sfrontato. E vedere se qualcuno mi chiede che è successo. Risultato dell’esperimento: a nessuno dei miei docenti importa molto di me. Di quello che sto vivendo davvero. Il mio professore di italiano – in italiano sono tra i primi della classe – commenta il mio calo così: “Fino ad ora ti abbiamo sopravvalutato, ora si vede quanto vali davvero”. Ho capito, insomma, che quello dei professori è un amore (sì, uno studente pensa che i suoi professori possano amarlo) condizionato. Se fai quello che dico io, ti faccio sentire amato; altrimenti, per me diventi meno di niente.
Qualche altra noterella a margine del giudizio. Ero bravo nella lingua straniera: che era il francese. Nella scuola media che frequentavo in quegli anni gli studenti erano divisi nelle sezioni a seconda dell’appartenenza di classe: quelli più borghesi nelle classi con lingua inglese, quelli più proletari nelle classi con lingua francese. Io, figlio di operaio, ero destinato al francese.
La mia predisposizione per il “campo tecnico-pratico” è una invenzione bella e buona. Non ho avuto mai nessuna predisposizione per nulla di tecnico o di pratico (e, sia chiaro, è una cosa di cui non mi vanto affatto). Ero bravo nelle materie umanistiche, soprattutto in italiano. Ma cerchiamo di metterci nei panni dei professori. Ero un ex-studente brillante che però ultimamente aveva dato problemi, e poi ero figlio di un operaio. Bisognava indirizzarmi al liceo? Cosa rischiosa. I figli degli operai in quegli anni venivano indirizzati all’industriale o al professionale, a meno che non fossero brillantissimi, senza la minima macchia. Non era chiaramente il caso mio. Licenziandomi con la sufficienza, mi consiglieranno dunque di iscrivermi in un istituto professionale. Consiglio che fortunatamente non ho seguito.
Mi sono iscritto all’istituto Magistrale, che aveva il vantaggio di essere una scuola umanistica ma di non essere un Liceo, scuola proibita ai figli degli operai. Gli anni della secondaria superiore sono stati anni di lotta continua con i professori. Ormai come studente ero andato definitivamente a male. Le premure dei miei professori erano ammirevoli: il professore di musica mi invitava ripetutamente – per il mio bene, sia chiaro – a lasciar stare la scuola per tentare il concorso in polizia, quella di latino aveva a cura la mia salute psicologica, raccomandandomi lo psichiatra, mentre quello di matematica si occupava concretamente del mio benessere mandandomi a prendere aria nel corridoio, dove si stava certamente meglio che nell’aula. Eppure qualcosa mi è rimasto, di quegli anni. Il mio professore di pedagogia aveva tanta stima nei miei confronti, da consentirmi di sostenere le interrogazioni su qualsiasi argomento. Potevo parlare, se volevo, di filosofia indiana, l’argomento che a quel tempo più di qualsiasi altro mi appassionava. Ricordo una interrogazione-discussione sul Vedanta, che è uno dei pochi ricordi piacevoli della mia vita scolastica. E, penso, è anche per questo che poi ho studiato pedagogia. E che oggi sono un pedagogista, uno che cerca di capire come impedire che i bambini vadano a male.