E se il digitale fosse analogico?

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Il ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza ha posto un freno all’innovazione, che fino ad ieri pareva inarrestabile, consistente nella sostituzione dei libri scolastici cartacei con libri digitali. “L’accelerazione sui libri digitali – ha dichiarato – non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche”. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo: le case editrici, senz’altro, ma anche molti docenti, tutt’altro che entusiasti di questo passaggio epocale, affezionati alla cara vecchia carta ed ai tomi che con il loro peso sembrano additare l’importanza della cultura e dello studio e la necessità del sacrificio anche fisico. Molti altri invece si dicono preoccupati. Sono quelli per i quali l’introduzione dei libri digitali rappresenta l’avvio di un cambiamento reale che per la scuola non è più rimandabile.
Non voglio entrare nel merito delle parole di Carrozza, ossia indagare se davvero manca una “validazione pedagogica” e se i dispositivi di lettura digitale possono avere ricadute sulla salute dei bambini. Vorrei invece provare a dissipare un equivoco a proposito dell’uso dell’aggettivo “digitale”. In tutto questo dibattito, digitale è sinonimo di elettronico ed informatico. I libri digitali sono gli ebook, in formato Pdf ed ePub, mentre per scuola digitale si intende una scuola nella quale sono presenti e vengono adoperati molti dispositivi elettronici ed informatici (computer, lavagna elettronica, tablet eccetera). Ma l’aggettivo digitale, nelle scienze umane, ha un significato più complesso. Nella Pragmatica della comunicazione umana, pubblicata nel 1967 da Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson si legge, tra l’altro, che ogni comunicazione può essere analogica o digitale. Una comunicazione si può considerare analogica quando esiste, appunto, una analogia tra i segni e ciò che i segni indicano. Se disegno un cane, si tratta di comunicazione analogica, perché c’è somiglianza tra il cane disegnato ed il cane reale. Se, per indicare che ho fame, mi porto la mano alla bocca mimando l’atto di mangiare, sto comunicando ancora in modo analogico. Se invece scrivo o dico “cane”, non c’è alcuna somiglianza tra il segno e la cosa indicata. Quelle quattro lettere non hanno un rapporto evidente con ciò che indicano, e lo dimostra il fatto che chi non conosce la lingua non sarà in grado di capire cosa sto dicendo. Nella comunicazione numerica o digitale il rapporto tra il segno ed il suo significato è il risultato di una associazione convenzionale.

Ora, se le cose stanno così, l’introduzione di libri elettronici nel sistema scolastico ha poco a che fare con il digitale. Un libro elettronico è, appunto, elettronico: non digitale. Per libro elettronico si intende l’equivalente informatico di un libro di carta: come un libro di carta è costituito in gran parte di parole, accompagnate da qualche immagine. Una nota casa editrice scolastica offre ai docenti che adottano i suoi libri un cd-rom con il libro di testo proiettabile sulla lavagna elettronica. Eccola dunque, l’innovazione. Prima gli studenti stavano ognuno nel suo banco, col libro di testo davanti, ed il docente faceva lezione illustrando il libro di testo. Ora gli studenti stanno ognuno nel suo banco, davanti al tablet, o se preferiscono possono seguirlo alla lavagna elettronica. Non c’è nessun cambiamento. O meglio, un cambiamento c’è, ed è nel fatto che gli studenti potranno portare un solo tablet al posto di quattro o cinque libri. Ma si tratta di un cambiamento che interessa l’ortopedia, non la pedagogia.
Immaginiamo, però, che le case editrici propongano qualcosa di diverso da una semplice copia del libro di testo. Che facciano – come è auspicabile – delle vere e proprie app sulle diverse discipline. Cosa può offrire di più un’applicazione rispetto ad un libro? Un libro è fatto, abbiamo detto, di testo, soprattutto, e di immagini. Una applicazione può offrire, di più, video, suoni, animazioni, una diversità di informazioni che per il libro è impensabile. Ma di che tipo di informazioni si tratta? Siamo nel campo del digitale o non piuttosto in quello dell’analogico? Un libro di testo che descrive una teoria della fisica in via teorica procede sicuramente in modo digitale. Un’app che invece illustra quella teoria limitando il testo ed introducendo invece un’animazione, in grado di semplificare i concetti e mostrarli visivamente, ha un innegabile carattere analogico. Il che vuol dire, in sostanza, che la diffusione di strumenti cosiddetti digitali nelle nostre scuole avrebbe l’effetto di aumentare le informazioni analogiche offerte agli studenti, a discapito del digitale.
Paradossalmente, con gli strumenti digitali avremmo una scuola meno digitale.
Non esprimo alcun giudizio su questo dato di fatto: non lamento il tramonto della conoscenza astratta e la sua sostituzione con la conoscenza per immersione. Osservo piuttosto – ed in questa osservazione, sì, c’è un giudizio – che anche nel caso in cui arrivassero nelle scuole materiali didattici evoluti, docenti e studenti resterebbero dei semplici fruitori di materiali costruiti da altri. Ed è qui che la rivoluzione digitale si dimostra una falsa rivoluzione. Per meglio dire: l’illusione di rivoluzione di cui abbiamo bisogno per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto.
Eppure davvero l’informatica potrebbe rivoluzionare il nostro modo di fare scuola (fermo restando che, volendo rivoluzionarla davvero, potremmo anche fare a meno dell’informatica). In un’epoca che non conosceva i computer, Celestin Freinet lavorava così con i suoi ragazzi: niente libro di testo, niente lezione; si faceva ricerca, i risultati venivano scritti insieme e poi stampati nella tipografia scolastica. Nascevano così dei testi che venivano poi condivisi con le altre scuole, con le quali la scuola aveva un rapporto di cooperazione.
Tutte queste operazioni si potrebbero fare oggi molto più agevolmente con gli strumenti informatici, come ha mostrato Emanuela Zibordi nell’ebook Testi scolastici 2.0 (40k Unofficial). Per fare ricerca si può utilizzare la rete Internet con le sue straordinarie biblioteche digitali: Google Libri, Gallica, Web Archive. Per scrivere i testi insieme si possono usare strumenti di scrittura collaborativa come Google Drive. I testi possono essere facilmente impaginati per creare libri elettronici, oppure messi in rete sul sito Internet della scuola, o ancora, se si preferisce il cartaceo, stampati con il print-on-demand. Meglio ancora sarebbe rilasciare i testi con una licenza aperta che dia la possibilità ai lettori non solo di distribuire, ma anche di modificare i contenuti, avviando così una collaborazione tra più autori e più scuole.
Lo scenario appena tratteggiato è assolutamente irrealistico. Richiede un passaggio che sarebbe realmente rivoluzionario: il passaggio da sapere confezionato e consegnato dal docente allo studente attraverso la lezione (e per lo più acquisito mnemonicamente dallo studente) al sapere come ricerca comune, riflessione, analisi, discussione, confronto. In altri termini, un passaggio dalla ripetizione alla creatività.

Editoriale per Stato Quotidiano.

Sul buon uso del cellulare in classe

Socrative
Tra le molte battaglie perse della scuola italiana c’è quella contro il cellulare. La sola vista di un telefono cellulare sembra mandare in bestia i docenti: ogni giorno nelle scuole italiane vengono messe migliaia e migliaia di note in condotta a studenti che si macchiano della colpa di usarlo. Leggo in un Piano dell’Offerta Formativa a caso: “L’uso del cellulare in qualsiasi luogo di pertinenza della scuola sarà sanzionato col sequestro del cellulare stesso, che sarà consegnato al responsabile di sede, il quale provvederà a riportare l’episodio sul registro e restituito al’alunno al termine delle lezioni; in caso di recidiva il cellulare sarà restituito all’esercente la responsabilità genitoriale; dopo il secondo caso di uso del cellulare si provvederà all’allontanamento dalle lezioni per un giorno”. Nonostante questo, i cellulari continuano ad essere usati quotidianamente dagli studenti, rappresentando una insostituibile via di fuga contro la noia scolastica ed una finestra aperta sul mondo di fuori.

Cos’è un telefono cellulare? Dal punto di vista dei docenti è un oggetto sospetto per più ragioni. E’ tecnologia, quindi qualcosa con cui non hanno troppo dimestichezza; è un oggetto che fa parte dello stile di vita dei ragazzi, e quindi come tale è carico di tutte le negatività che attribuiscono alla condizione adolescenziale; è un bene di lusso, uno status symbol, una icona del mondo dell’effimero e del conformismo, da condannare senza appello. In quella che per molti versi è una istituzione totale, il cellulare è un oggetto troppo personale, consente un isolamento temporaneo, eppure imperdonabile, dalla concentrazione assoluta richiesta dall’ambiente. Lo studente che manda sms o gioca col cellulare nei tempi morti della giornata scolastica si dedica a pratiche masturbatorie: si procura un piacere illecito e solipsistico, mentre dovrebbe ragionevolmente gioire della lezione e delle tante altre eccitanti attività scolastiche.
Presi da questa crociata, non si bada al fatto che il cellulare, come oggetto tecnologico, potrebbe essere usato nella stessa didattica e sopperire alla mancanza di computer ed altri strumenti tecnologici. Tra i prodotti innovativi per la didattica ci sono i risponditori, piccoli telecomandi che, dati agli studenti, consentono loro di rispondere in tempo reale ai quiz proposti dal docente (qui un esempio). Oggetti che hanno evidentemente un loro mercato: vi sono scuole che spendono per queste cose. Potrebbero risparmiare quei soldi, se la smettessero di demonizzare i cellulari. La stessa cosa, infatti, si può fare utilizzando il cellulare degli studenti ed un sistema come Socrative. Il procedimento è semplice: il docente si iscrive nel sito ed ottiene una propria room, nella quale può creare tutti i test che vuole; lo studente si collega a sua volta al sito, entra nella room inserendo il codice ricevuto dal docente e svolge il test. Il risultato del test viene comunicato in tempo reale al docente, che può anche ricevere un report in formato xml, con i risultati di tutti gli studenti. Per gestire l’attività il docente può usare un computer o anche semplicemente un tablet, utilizzando l’apposita app Android, che esiste anche nella versione per studente (ma chi non dispone di un cellulare Android può effettuare il quiz attraverso il sito, come detto).
In attesa che arrivino a scuola i tanto invocati tablet – ai quali pare che si vogliano affidare le sorti della scuola italiana, a giudicare dai toni di certi interventi -, sarebbe buona cosa cominciare a sperimentare le possibilità di interazione digitale tra docente ed alunno impiegando i cellulari, che peraltro per prestazioni spesso dai tablet poco si differenziano. Per farlo, naturalmente, bisognerebbe liberarsi dai pregiudizi nei confronti dell’oggetto; il che vuol dire anche, almeno in parte, liberarsi da quel pregiudizio nei confronti degli studenti che è uno dei problemi più seri della scuola italiana.