La pace di Piero

Guardate questa foto. Seduti sull’erba ci sono, tra gli altri, tre pregiudicati. Il primo è l’uomo al centro, seduto in una posa giovanile che gli suscita un visibile imbarazzo. Si chiama Aldo Capitini. Durante il fascismo è finito in galera per antifascismo. Con Guido Calogero è stato il teorico del movimento liberalsocialista, ma è noto soprattutto come colui che ha introdotto in Italia la nonviolenza. Per la polizia politica, che lo ha sorvegliato per tutta la vita, è un misantropo. La sua filosofia sostiene che per portare nella nostra vita l’infinito – quell’infinito che la religione chiama Dio – non abbiamo che un modo: amare infinitamente. Amare infinitamente l’altro essere umano, il tu, ma anche l’animale, anche la pianta. In politica, sostiene che il potere non dovrebbe essere di alcuni, ma di tutti. La democrazia dei partiti non è sufficiente. Occorre una democrazia reale, effettiva, piena, che dia ad ognuno il potere di decidere, di scegliere, di partecipare in modo consapevole e concreto alla gestione della cosa pubblica. La chiama omnicrazia. Continue reading “La pace di Piero”

Cambiare la scuola dal basso: quattro pratiche

Non ritengo che sia in atto la distruzione della scuola pubblica, come temono quelli che sono contrari alla riforma denominata, un po’ pomposamente, la Buona Scuola, così come non mi pare che essa possa cambiare significativamente la scuola pubblica. Mi convincerò che è in atto una vera riforma della scuola italiana quando qualcuno proibirà per legge la lezione frontale e il setting attuale con banchi e sedie in fila; fino ad allora, considererò qualsiasi riforma come un aggiustamento – in senso migliorativo o peggiorativo – che non intacca la sostanza della scuola italiana.

In questo articolo vorrei presentare quattro pratiche che possono cambiare profondamente la scuola italiana, intervenendo non su aspetti marginali, ma sul suo cuore in crisi. Quattro pratiche dal basso, con le quali docenti e studenti potrebbero riprendere in mano la scuola pubblica e trasformarla senza aspettare decreti e riforme dell’alto. Prima però vorrei dire ancora qualcosa su ciò che non va nella scuola. Come ho già provato a spiegare in un articolo comparso su questa stessa testata, ritengo che la crisi della scuola italiana (e non solo italiana) sia principalmente una crisi di senso. Perché veniamo a scuola? Perché facciamo scuola? Perché gli studenti impiegano tante ore della loro giornata seduti ad un banco? La risposta a queste domande è oggi sempre più difficile. Una volta il senso della scuola era estrinseco: si studiava per ottenere un diploma da spendere nel mondo del lavoro. Poi è giunta la scuola di massa, con l’inflazione di diplomi e lauree. E allora, perché stiamo a scuola? Per ottenere un diploma che ci consentirà di iscriverci all’università ed ottenere una laurea grazie alla quale potremo aspirare ad un lavoro precario e malpagato? No, la risposta non può essere questa. La risposta dev’essere: perché stare a scuola è sensato; perché a scuola facciamo cose importanti; perché stare a scuola è perfino bello.

E’ evidente che quasi nessuno studente, cui si chiedesse che ne pensa della scuola, risponderebbe che stare a scuola è una cosa sensata, importante e bella. C’è qualcosa che non va. Noi docenti non riusciamo a fare una scuola bella e sensata. E’ solo parzialmente colpa nostra. Non ci riusciamo perché abbiamo ereditato schemi professionali che non funzionano più, e non siamo in un’epoca ed in un contesto sociale granché aperto alle sperimentazioni. Non abbiamo, per dirla tutta, lo slancio necessario per toglierci l’abito vecchio ed ormai liso e provarne uno nuovo. E tuttavia occorre provarci, se non vogliamo che il nonsenso della nostra pratica scolastica quotidiana cresca fino a paralizzarci.

La prima pratica che propongo è la maieutica reciproca. E’ un metodo creato quasi per caso nella Sicilia degli anni Cinquanta da Danilo Dolci, finalizzato allo sviluppo comunitario. Il grande sociologo ed educatore mise in cerchio contadini e pescatori per discutere della situazione locale. Come si può cambiare? Che si può fare? Ognuno diceva la sua, ognuno contribuiva alla soluzione del problema. Ognuno era maieuta dell’altro: la verità non veniva fuori da sé stessi, ma dalla discussione di tutti. Dolci si spese generosamente, negli ultimi anni della sua vita, per diffondere la pratica della maieutica reciproca nelle scuole italiane. Incontrò centinaia di docenti, tenne seminari maieutici in decine di scuole. Era fermamente convinto che quella pratica potesse aiutare a guarire una scuola malata di incomunicabilità. Distingueva, Dolci, il trasmettere, che è unidirezionale, dal comunicare, che è circolare: e riteneva che la scuola avesse il problema di essere trasmissiva, e non comunicativa. Oggi i docenti che praticano la maieutica reciproca in Italia sono pochissimi. Eppure si tratta di una pratica che dà risultati straordinari. Gli studenti prendono la parola, ragionano, e quel che è più importante ragionano insieme. Imparano a confrontare i punti di vista, ad arricchirsi reciprocamente, a scontrarsi anche. Non sono più destinatari passivi della trasmissione di un sapere preconfezionato, ma co-costruttori di un sapere condiviso. E sensato, perché rappresenta la risposta ad una domanda.

La seconda pratica che propongo è quella del service learning, o aprendizaje servicio solidario. La prima espressione è adoperata negli Stati Uniti, la seconda nei paesi dell’America Latina. C’è qualche differenza, perché pedagogicamente il service learning fa riferimento soprattutto a John Dewey ed alla tradizione americana di impegno comunitario non privo però di individualismo, mentre l’aprendizaje servicio solidario si ispira alla pedagogia di Paulo Freire, con la sua passione per la liberazione degli oppressi. Ma l’idea di fondo è la stessa: l’apprendimento che avviene a scuola dev’essere collegato, in modo strutturale e non estemporaneo, a qualche forma di servizio in favore della comunità. Non si tratta di volontariato, perché nel volontariato manca, in genere, il raccordo con lo studio curriculare. Si tratta invece di un modo diverso di concepire lo studio scolastico. La comunità locale ha i suoi problemi, la scuola ha i suoi saperi e le sue pratiche. In che modo questi saperi e queste pratiche possono incontrare i problemi della comunità locale? Quale contributo possono dare gli studenti al miglioramento del quartiere, del paese, della città? L’apprendimento-servizio va al cuore del problema del nonsenso scolastico. Perché studiare? Perché il mio studio può servire a rendere migliore, qui ed ora, la vita di tutti.

La terza pratica che propongo si chiama Student Voice, e per quello che ne so è quasi sconosciuta in Italia, mentre è molto diffusa in molti paesi. Nelle scuole italiane la partecipazione attiva degli studenti ha raggiunto i minimi storici. Strumenti come le assemblee di classe e di istituto si sono ormai svuotati di significato; in molte scuole le assemblee di istituto nemmeno si fanno, in altre durano mezz’ora, e poi tutti a casa. Gli studenti sembrano assolutamente disinteressati alla gestione della scuola, e se da un lato si lamentano di tutte le cose che non vanno, dall’altra non sembrano disposti a muovere un dito per migliorarle (salvo poi scioperare o chiedere l’occupazione). Con l’espressione Student Voice si indicano tutte quelle pratiche con le quali si cerca di ascoltare, appunto, la voce degli studenti, e di fare in modo che sia una voce che ha un suo peso reale nella comunità scolastica. Gli studenti hanno l’impressione che la loro voce non si ascoltata da nessuno: ed in effetti in ambito scolastico subiscono spesso quella che in psicologia si chiama disconferma. Come dire: chi sei tu per parlare? E’ importante che ogni scuola trovi i modi migliori per ridare voce agli studenti. L’empowerment, il conferimento di potere, dovrebbe essere considerato uno degli scopi del lavoro scolastico. Per farlo naturalmente occorre un profondo cambio di mentalità. Chi pensa alla relazione educativa come ad una relazione di dominio non potrà aiutare gli studenti a prendere la parola ed a percepirsi come soggetti attivi di cambiamento. Ma chi pensa alla relazione educativa come una relazione di dominio dovrebbe essere emarginato a scuola, sperando che la specie cui appartiene si estingua al più presto.

Per l’ultima pratica prendo a prestito un’espressione del già citato Paulo Freire: circoli di cultura. E’ una proposta che riguarda i docenti. Noi docenti ci incontriamo periodicamente nei consigli di classe, nei collegi dei docenti, nelle riunioni di dipartimento. L’eccesso di riunioni è una delle cose di cui ci lamentiamo. Eppure in nessuna di queste riunioni abbiamo l’opportunità di riflettere realmente sul nostro lavoro. Discutiamo dell’andamento didattico-disciplinare degli studenti, della gestione della scuola, della programmazione annuale ed individuale. Ma perché facciamo scuola? E’ una domanda di fronte alla quale spesso siamo soli. I circoli di cultura creati da Freire erano dei luoghi dialogici per la formazione degli adulti. Dei circoli di cultura di docenti potrebbero essere le strutture adeguate per l’auto-formazione e l’auto-aggiornamento, per lo scambio di pratiche, per l’arricchimento culturale reciproco, ma anche per riconquistare quello slancio collettivo, quella voglia di smettere il vestito vecchio e provare il nuovo – anche a costo di restare nudi per qualche tempo – senza la quale non ci sarà che la sempre più stanca ripetizione di ciò che da gran tempo ha perso il suo senso. C’è una cosa che accomuna queste pratiche. Anzi due. La prima è che non costano nulla (anche l’apprendimento-servizio, che negli Stati Uniti è finanziato dal governo, si può fare investendo le sole risorse umane della scuola). La seconda è che riguardano i rapporti, la relazioni umane. Sono fermamente convinto che il punto nevralgico sul quale agire sia questo. La scuola è malata di rapporti falsi, inautentici, asimmetrici, che non fanno crescere. Fino a quando studenti e docenti non diventeranno membri di una comunità di ricerca, aperta al mondo esterno, non si avrà nessuna buona scuola.

Per approfondire
Sul Danilo Dolci e la maieutica reciproca rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012 (si può scaricare qui: http://educazionedemocratica.org/?page_id=2010) ed al libro di Francesco Cappello Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci nella scuola, EMI, Bologna 2011. Sul service learning si veda: M. N. Tapia, Educazione e solidarietà. La pedagogia dell’apprendimento-servizio, Città Nuova, Roma 2011 e A. Vigilante, Il service learning: come integrare apprendimento ed impegno sociale, in Educazione Democratica, n. 7, gennaio 2014 (http://educazionedemocratica.org/?p=2777). Su Student Voice: Aa. Vv., Student Voice. Prospettive internazionali e pratiche emergenti in Italia, a cura di V. Grion e A. Cook-Sather, Guerini e Associati, Milano 2013.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 5 maggio 2015.

Danilo Dolci, quindici anni dopo

Quindici anni fa, il 30 dicembre 1997, moriva Danilo Dolci. Il telegiornale della Rai ne diede notizia in modo sbrigativo; del resto, da molti anni ormai Danilo aveva smesso di interessare i giornali: da quando – alla fine degli anni Sessanta – aveva abbandonato la pratica dei digiuni e si era concentrato sul lavoro educativo.
Devo ammettere che non avevo, allora, un interesse particolare per Danilo. Cominciavo a leggere e studiare invece Aldo Capitini, su cui due anni dopo avrei pubblicato il mio primo libro. Mi interessava di più, Capitini, per la sua singolare religiosità, in qualche modo eretica: ed io sono stato sempre attratto dagli eretici. Cinque anni dopo avrei fatto una lunga chiacchierata su Capitini e Dolci con Pietro Pinna, che è stato collaboratore prezioso sia dell’uno che dell’altro. Mi servì, quella chiacchierata, a demitizzare Dolci, mi restituì con una certa crudezza la sua umanità piena di contraddizioni. Contraddizioni così forti che sulle prime mi allontanarono da lui. Mi ci è voluto del tempo per riscoprire la sua grandezza, che i suoi limiti umani e le sue contraddizioni non valgono a diminuire. Fino alla decisione di prendermi del tempo per studiarlo a fondo.
Ho passato gli ultimi tre anni della mia vita a studiare Dolci, dunque; a cercare di conoscerlo e di farlo conoscere ed a sperimentare il suo metodo della maieutica reciproca. Come direttore scientifico di Educazione Democratica ho promosso un dossier su Dolci nel numero 2 della rivista e la pubblicazione del libro di Michele Ragone Le parole di Danilo Dolci nella collana di libri collegata alla rivista, nella quale quest’anno ho pubblicato il mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci: tutti testi liberamente scaricabili.
Credo di poter dire di aver dato, con gli amici della rivista, un contributo non irrilevante alla riscoperta di Dolci e della sua opera. Ma molto resta da fare. Dolci ha lasciato in eredità una quantità di intuizioni – alcune anche religiose: e del massimo interesse -, ma soprattutto un metodo, quello della maieutica reciproca. Ha sperimentato questo metodo in due direzioni: lo sviluppo comunitario e l’educazione. Da un lato, esso è servito a scuotere la gente di Partinico, Trappeto, Palermo, a far nascere dighe e cooperative, a combattere la mafia; dall’altro si è insinuato nelle scuole pubbliche cercando di combattere dall’interno la logica trasmissiva ed unidirezionale della lezione frontale. E’ urgente riprendere il metodo di Dolci ed applicarlo in etrambe le direzioni. Scoprire le sue potenzialità per combattere lo spegnersi di tanti quartieri, l’allargarsi del deserto relazionale nelle periferie urbane, l’abbandono della speranza di giovani e vecchi nella società post-industriale e quanto può ancora fare per portare nelle scuole il fuoco vivo della discussione, del confronto, dell’analisi comune – e perciò politica – dei problemi: lo spirito della ricerca della verità.
Nel mio libro su Dolci mi sono soffermato in particolare sul tema del potere. Danilo distingueva il potere, che è una cosa positiva, dal dominio, che è la sua degenerazione. Potere è possibilità di fare. Le persone possono avere potere insieme, se fanno insieme, in modo collaborativo. Il potere si corrompe nel dominio quando il fare di alcuni impedisce il fare di altri; quando l’equilibrio relazionale si infrange, e c’è uno che sta in alto ed uno che sta in basso.
La distinzione di Dolci, che a prima vista può apparire semplicistica, mi sembra preziosissima, perché ci offre al tempo stesso una chiave di lettura del labirinto della contemporaneità ed una indicazione per uscirne. Quello che accade è che si sta moltiplicando il dominio. Per il pensiero anarchico classico, dominio è quello dello Stato, che è il nemico da combattere. Oggi questa analisi è parziale. Il dominio assume una forma sovranazionale, e tende anzi a combattere ed a ridimensionare il ruolo dello Stato. Come una rete, la logica del dominio penetra la società intera, si insinua nelle istituzioni, permea di sé ogni forma di relazione. Che alcuni abbiano più possibilità ed altri meno – e che alcuni abbiano la possibilità di cancellare le possibilità di altri – diventa una realtà accettata ed accettabile, perché sperimentata mille volte durante la vita quotidiana. Di qui può partire il cambiamento. Dal rifiuto, in ogni campo, in ogni situazione, di stare in una relazione asimmetrica. Dalla pretesa dell’uguaglianza. Dal rifiuto della trasmissione unidirezionale, dalla richiesta pressante di comunicazione autentica.
Quanto più la società si irrigidisce, si fa piramidale e gerarchica, tanto più è importante inventarsi situazioni nelle quali le persone possano comunicare in modo orizzontale, scoprendo che insieme le possibilità degli uni si alimentano delle possibilità degli altri.
Si tratta, diceva Danilo, di diventare obiettori di coscienza. Un concetto che contiene, a ben vedere, due movimenti. Il primo è quello del gettare-contro, del rifiutarsi, del ribellarsi perfino: del dire no. Il secondo è quello della scienza comune, della cum-scientia. E’ il momento in cui ci si mette a discutere con altri per ritrovare il filo della umanità comune, per tessere una verità che non sia ideologica né dogmatica, ma esprima una ricerca comune, nella quale il contadino sta accanto al docente universitario, l’operaio all’intellettuale.

Per una scuola maieutica

ALL’INIZIO degli anni Settanta Danilo Dolci maturò il progetto di creare un centro educativo che impiegasse la metodologia della maieutica reciproca, già sperimentata con successo come strumento per lo sviluppo comunitario. Il progetto non era particolarmente audace per chi, con la sola forza della maieutica e della protesta nonviolenta, era riuscito tra l’altro a creare una diga, quella sullo Jato, sottraendo alla mafia il controllo dell’acqua. Doveva essere, il centro educativo, una struttura progettata maieuticamente, vale a dire ascoltando le aspirazioni di bambini e ragazzi, padri e madri, educatori della zona. Nasce così il centro educativo di Mirto, in una bellissima posizione collinare che consente di vedere il mare, come richiesto soprattutto dai bambini. Ma le difficoltà non sono poche.

Per la mancanza di fondi si riesce a costruire solo una parte dell’edificio progettato, e ciò consente una sperimentazione limitata ai bambini più piccoli, mentre le cattive condizioni della strada di accesso al Centro costringono perfino alla chiusura per assicurare l’incolumità dei bambini. La sperimentazione procede comunque per qualche anno, con esiti interessantissimi, grazie anche alla collaborazione di pedagogisti come Paulo Freire e Bogdan Suchodolski, finché si decide di chiedere che il centro venga riconosciuto come scuola statale sperimentale. Il riconoscimento arriva nell”83, ma per Mirto è l’inizio di una rapida normalizzazione, che renderà sempre più labile l’impronta del suo fondatore e la presenza del metodo maieutico.

Negli anni successivi Dolci si è impegnato in una attività capillare per la diffusione del metodo maieutico presso le scuole: ha incontrato centinaia di docenti, mostrando loro la possibilità di fare scuola in modo diverso, di aprire uno spazio comunicativo autentico pur nel contesto scolastico. La sua visione della scuola statale è così duramente critica, da far pensare all’analisi di descolarizzatori come Illich e Reimer. La scuola non comunica realmente, ma si limita a trasmettere nozioni; è fatta di rapporti unidirezionali, e perciò inautentici; non educa ad esercitare creativamente il potere, ma abitua al conformismo ed all’ipocrisia. Questa visione così critica è però accompagnata dalla fiducia nella possibilità di cambiare il sistema scolastico introducendo in esso il germe della maieutica reciproca.

A distanza di quasi quindici anni dalla sua scomparsa (Dolci è morto nel ’97), sembra che ben poco sia rimasto di questa speranza di trasfigurazione, di cambiamento dall’interno della scuola. Stiamo vivendo una stagione di ulteriore chiusura dell’istituzione scolastica. Mentre vengono tagliati i fondi e si moltiplicano le classi «pollaio», nelle quali un vero lavoro educativo è sostanzialmente impossibile (a danno degli studenti più fragili, che hanno bisogno di maggiore attenzione), molti docenti si abbarbicano alla routine della loro professione, alla cara vecchia scuola fatta di lezioni frontali, interrogazioni, voti e note disciplinari. È per questo che si accoglie con particolare piacere l’uscita di un libro come Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci di Francesco Cappello (EMI, Bologna 2011; con prefazione di Johan Galtung). Cappello, che è stato amico e collaboratore di Dolci ed è un insegnante di scuola secondaria, è la persona più indicata per mostrare in modo non accademico le possibilità reali della maieutica reciproca nella scuola di oggi.

La maieutica reciproca, è bene ricordarlo, è un metodo per la ricerca comune della verità. Si tratta, di fatto, di una cosa semplicissima: si mettono le sedie in cerchio e si discute insieme – di questioni filosofiche ed esistenziali o dei problemi concretissimi della comunità di cui si fa parte. È maieutica reciproca, poiché in questa circolarità comunicativa la verità vien fuori dal contributo di tutti: ognuno aiuta gli altri, ognuno è maieuta. In un seminario maieutico si impara a cercare insieme, a comunicare in modo aperto, ad essere creativi, a scoprire dimensioni di sé normalmente soffocate, e anche ad avere potere, poiché attraverso la parola si prende coscienza della propria dignità e della possibilità di difenderla attraverso la lotta comune.

Gli usi possibili della maieutica nel contesto scolastico sono disparati. È possibile usarla per tentare qualcosa di radicalmente diverso dal lavoro didattico, per aprire parentesi nella normale vita scolastica, oppure per fare quella che potremmo chiamare meta-scuola, ossia per discutere della scuola stessa, delle modalità relazionali, di quello che c’è e di quello che si vorrebbe, dei voti eccetera. Si può usare la maieutica per discutere in classe gli episodi che normalmente vengono sanzionati con note disciplinari, i casi di violenza e di discriminazione o il cosiddetto bullismo. Possono usare la maietica i docenti, per crescere professionalmente confrontando le proprie esperienze e mettendo in comune le proprie ansie. È possibile, ancora, tenere seminari maieutici di docenti e genitori, per migliorare la comunicazione e trovare intese educative. Ma si può usare la maieutica anche in sostituzione della lezione, per affrontare in modo non trasmissivo gli stessi argomenti del programma. Il lavoro di Cappello mostra le possibilità della maieutica in varie direzioni. Da gran tempo i pedagogisti hanno evidenziato che un apprendimento per scoperta ha un valore di gran lunga maggiore dello studio libresco. Le cose che sono state scoperte restano nel tempo, come conquiste individuali, diventano saperi consilidati, mentre l’apprendimento libresco, poco significativo e spesso finalizzato al voto, è fragile e non resta nel tempo (a meno che non vi sia un interesse molto forte dello studente per quei temi). Il primo dei seminari riportati da Cappello nel suo libro riguarda una questione connessa alla didattica della matematica: «cercare i pro e i contro relativamente alla scelta di installare un impianto a gas su un’autovettura alimentata a benzina». Come si vede, si tratta di una questione pratica e concreta. «Questo genere di problemi – nota Cappello – entusiasma gli studenti. Valorizza la matematica come strumento per pensare e come ausilio importante nella valutazione delle scelte possibili. Contribuisce a motivarne l’apprendimento» (p. 57). La discussione porta ad utilizzare in modo assolutamente naturale, e con la partecipazione di tutti, strumenti matematici anche piuttosto raffinati. Vien da pensare, leggendo la trascrizione della discussione, alle appassionate discussioni che si tennero a Mirto proprio sulla didattica della matematica, che avevano per protagonisti personalità come Lucio Lombardo Radice, grande matematico ed amico e collaboratore di Dolci, e James Bruni, un docente di matematica all’università di New York che, lasciata la cattedra universitaria, si era messo ad insegnare matematica a dei bambini di otto anni, e ci era riuscito portandoli in strada e mettendosi a registrare i dati delle automobili che passavano. Interessante è anche un seminario maieutico sui rifiuti solidi urbani, che è scaturito dallo studio della legge di conservazione della massa e dell’energia e che a sua volta è stato seguito dalla visita all’inceneritore più vicino. Un momento di meta-scuola è un seminario tenuto durante una assemblea scolastica per discutere dell’assemblea stessa. Come è noto, le assemblee studentesche, introdotte con i Decreti Delegati del ’74 quale importante strumento di democratizzazione dell’istituzione scolastica, sino in crisi da diversi anni: gli studenti sembrano non essere in grado di gestire uno spazio libero di discussione, che spesso degenera nella confusione più totale, quando non viene semplicemente disertato. Chi lavora nella scuola sa che questa situazione ha cause diverse, alcune anche molto lontane, e che non è estranea ad essa l’importanza che ha la televisione per i ragazzi. Quando si tenta di tenere dei dibattiti in classe, succede spesso che la discussione si faccia presto esageratamente animata, con fazioni contrapposte. Non occorre molto per comprendere che si tratta della riproposizione degli scontri che caratterizzano alcune trasmissioni televisive particolarmente apprezzate dai più giovani. Di qui l’importanza di discutere dell’assemblea stessa, di metacomunicare per smontare i modelli televisivi e ritrovare una comunicazione autentica.

Sono evidenti le potenzialità del metodo della maieutica reciproca. La diagnosi di Danilo Dolci è esatta: la società è malata di rapporti sbagliati. La scuola, il luogo in cui si prepara la società di domani, vive anch’essa di rapporti sbagliati: unidirezionali, trasmissivi, poco creativi. Sono evidenti a scuola tanto il malessere degli studenti, che si esprime in modo silenzioso nell’abbandono scolastico ed in modo eclatante nella violenza, nel conflitto, negli atti di devastazione delle strutture scolastiche, quanto quello dei docenti, che si manifesta con la frustrazione, l’apatia, l’insofferenza, fino al burnout vero e proprio. La scuola è un luogo in cui si sta male, ed in cui è possibile stare bene, con alcune semplici mosse. La prima è: comunicare. Comunicare realmente, in modo aperto, sincero. Dolci ha capito una cosa fondamentale, che era chiara anche a Carl Rogers: che è fondamentale, per la nostra salute, comunicare in modo autentico con gli altri, accettandoli e sentendoci accettati da loro. Questa accettazione è non facile a scuola, l’istituzione che giudica e classifica, che promuove e boccia, così come non è facile comunicare in modo orizzontale e franco in una istituzione in cui la libertà dei rapporti umani è subordinata alle necessità della discplinina e dell’ordine. Dolci distinguere l’istituzione dalla struttura, considerando la prima come la sclerotizzazione della seconda. Una struttura è fatta di rapporti vivi, creativi, dinamici, mentre nell’istituzione prevalgono le norme fisse ed i ruoli stabiliti. La maieutica reciproca tenta l’opera di trasformare la scuola-istituzione in scuola-struttura, di immettere in essa creatività, franchezza, apertura comunicativa, di conquistare la gioia che viene dal comunicare autentico e dalla scoperta comune del sapere.

L’impresa non è facile, ma nemmeno impossibile, ed il libro di Francesco Cappello lo dimostra. Le opinioni degli studenti dopo i seminari maieutici confermano la positività dell’esperimento. Tutti concordano nel rilevare che il metodo maieutico rende possibile una partecipazione più attiva, superando la noia della lezione frontale e trasmissiva; alcuni notano che così sono maggiromente stimolati a pensare con la propria testa, ad essere creativi e propositivi; qualcuno apprezza il metodo perché gli consente di esprimere le proprie opinioni senza essere giudicato, ed è libero anche di sbagliare. Ma l’esito maggiormente degno di nota riguarda probabilmente i cambiamenti nella relazione. Nel cerchio maieutico è trascesa la struttura competitiva della scuola. C’è all’inizio l’ansia di prendere la parola davanti agli altri, ma presto viene superata dalla serenità del setting comunicativo, che consente a tutti di sentirsi accettati. Questa conquista della parola in un contesto nel quale a parlare è sempre il docente – e lo studente parla solo se interrogato – è il contributo più rilevante della maieutica alla trasformazione della scuola.

La scuola italiana (e non solo) sta attraversando una profonda crisi. Secondo una analisi tanto diffusa quanto superficiale, essa è in crisi perché i giovani non hanno più voglia di studiare. Bisognerebbe invece interrogarsi sulla profonda inadeguatezza di un sistema scolastico che ancora si affida senza riserve alle modalità trasmissive, ad una concezione depositaria del sapere, ad una strutturazione gerarchica ed autoritaria dei rapporti umani. Non è difficile scorgere dietro l’apatia e la disaffezione di molti studenti una protesta muta contro un sistema inautentico, che nulla offre di vivo né sul piano umano né sul piano conoscitivo. È facile verificare l’improvviso attivarsi di quegli stessi studenti, quando si passa dalla lezione frontale a forme più aperte di lavoro didattico; e spesso gli ultimi, quelli che sembrano irrecuperabili, persi alla scuola, diventano i più attivi e partecipi.

L’interesse non manca, a scuola, quando si fanno cose che hanno una significatività intrinseca; quando si fa esperienza in modo autentico, e non libresco; quando ci comunica davvero, e non dietro la maschera del ruolo e dello status. La maieutica reciproca di Dolci può essere una delle vie per ridare senso al lavoro scolastico, per riscoprire la gioia di fare scuola strutturandosi come una comunità impegnata nella ricerca della verità. C’è da sperare che il libro di Cappello venga letto da molti docenti, e che sia l’occasione decisiva per riprendere a distanza di anni il filo dell’eredità di Danilo Dolci, che si era assottigliato fin quasi a spezzarsi.