La laicità c’entra

Poiché il tema è caldo, mi aspettavo non poche critiche al mio articolo sulla vaccinazione dei docenti uscito sul Tirreno di domenica. Ma non mi aspettavo che ad essere criticato fosse l’uso della parola laicità nella seguente frase: “La scuola dev’essere un presidio di razionalità, di laicità, di pensiero scientifico e di responsabilità sociale”. A qualcuno è sembrato fuori luogo, segno del mio essere monotematico.

Come è noto, la parola laico (da laos, popolo) indica in senso stretto coloro che non sono sacerdoti: per cui anche un cattolico, se non ha preso i voti, è laico. In senso più ampio è laico chiunque rivendichi la libertà della sfera pubblica dalla religione. Che non vuol dire essere antireligiosi: la scuola di Barbiana era molto più laica della scuola pubblica del tempo (ed anche di quella attuale, a dire il vero), pur essendo ospitata in una canonica.

Le nostre scuole sono oggi frequentate da studenti che provengono da mondi culturali diversissimi. C’è lo studente cattolico, quello evangelico, quello ortodosso, quello ateo, quello ebreo e quello musulmano. Ad ognuna di queste identità posso associare uno o più volti, una o più storie. Ora, che fare di questa diversità? E’ un problema enorme, la cui soluzione non pare facile. C’è chi dice che noi siamo cattolici, è questa la nostra identità e tradizione, ed occorre che chi è diverso si adegui. E’ questa la logica che giustifica il crocifisso alle pareti delle aule scolastiche e l’insegnamento confessionale della sola religione cattolica, sia pure opzionale. E’ una logica difettosa per diverse ragioni. La prima è che ignora un principio semplice: una democrazia non si riconosce per l’applicazione del principio di maggioranza, ma per il rispetto delle minoranze. La seconda è che ignora la nostra storia: perché la storia italiana ed europea non è la storia del cristianesimo e del cattolicesimo, ma è la storia di cattolici, evangelici, valdesi, ebrei, atei, massoni, liberi pensatori, e così via. E certo ritenere che uno studente ebreo sia meno italiano di uno studente cattolico è inaccettabile, così come lo è pensare che lo sia uno studente ateo. La terza è che ignora un principio pedagogico elementare: che non puoi educare nessuno se non rispetti la sua identità. Se gli dai il messaggio, implicito o esplicito, che la sua religione o la sua irreligione sono sbagliati.

Tenere i crocifissi alle pareti, insegnare religione cattolica agli studenti cattolici ed offrire qualche volta un insegnamento alternativo a coloro che non sono cattolici — dico qualche volta perché l’attivazione dell’Attività Alternativa è più eccezione che regola nella scuola italiana — è il modo migliore per far sì che questa diversità diventi chiusura e conflitto. Il compito della scuola non può essere quello di comunicare ad alcuni il loro essere dalla parte della ragione, della storia, della tradizione, e ad altri il loro essere ospiti, tollerati: diversi. Se ha ancora qualche senso, la scuola pubblica lo ha in quanto luogo in cui si costruisce il dialogo. In cui si insegna che non importa quanto potente e influente è il gruppo di cui fai parte, quanto convinto sei delle tue idee: quello che conta è che tu sappia argomentare le tue ragioni e stare in una situazione di dialogo. Una scuola laica è il luogo in cui tutti sono invitati ad argomentare in modo rigoroso, ad essere intellettualmente onesti, a dialogare con l’altro senza scorciatoie e scorrettezze: che si parli di Dio, di omosessualità, di politica o di vaccini.

Lo spettacolo indegno cui stiamo assistendo in questi giorni è il risultato, anche, di troppa pessima scuola. Di una scuola centrata sull’acquisizione individuale di contenuti culturali e non sul confronto razionale, dialettico, argomentativo. La scuola dell’interrogazione, non del comune interrogarsi. Una scuola che non ha mai contrastato la convinzione che sia sufficiente chiudersi in una identità per avere ragione. La scuola da cui sono uscite persone che si inquietano — o si indignano — al solo sentir parlare di laicità.

Photo by Tolga Ulkan on Unsplash

La laicità, la scuola e l’Islam

La brutale uccisione di Samuel Paty, il docente francese colpevole di aver mostrato le vignette di Carlie Hebdo durante una lezione sulla libertà d’espressione, mi ha colpito profondamente. Mi ha colpito perché sono un docente, perché sono laico, e perché negli stessi giorni ho tenuto nella mia terza una lezione sulla libertà d’espressione. Mi spiace che quella tragedia, che tanto sta facendo discutere in Francia, da noi non susciti grande interesse, e al tempo stesso ne sono un po’ sollevato, perché il livello del dibattito pubblico nel nostro Paese è infimo, e non ci sarebbe da aspettarsi molto di diverso dalla più becera islamofobia.
Confesso di essere stato tentato anch’io dalla rabbia. Di aver pensato che noi laici abbiamo conquistato la libertà di parola con il sangue di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini. E che è insufficiente ripetere fino alla nausea che “l’Islam è pace”, se poi si decapita qualcuno in nome di Allah. Ma è, appunto, una tentazione, e se cedere ad alcune tentazioni può essere cosa buona e giusta, cedere a questa tentazione è un errore grave.[read more]

Come docente italiano, e docente laico, una tragedia simile mi spinge a riflettere sull’istituzione di cui, con disagio sempre crescente, faccio parte. Io insegno filosofia e scienze umane. Insegno a studenti italiani, albanesi, romeni, nordafricani, centrafricani, sudamericani. Insegno la filosofia europea, perché così si vuole nel nostro Paese. E insegno le scienze umane dal punto di vista occidentale. Insegnando antropologia, faccio anche lezioni di antropologia della religione. E dal momento che non credo troppo nella scuola lezione-libro-interrogazione, cerco di far in modo che gli studenti incontrino dal vivo la diversità religiosa. Li porto, ad esempio, alla locale sinagoga, dove apprendono la storia, le vicende e le usanze della piccola comunità ebraica della città. Mi piacerebbe che potessero anche incontrare l’imam, perché nella città ci sono molti musulmani, e musulmani sono anche diversi studenti, e credo che sia importantissimo conoscere un punto di vista sull’Islam diverso da quello superficiale ed esterno dei mass-media. Ora so che no, non si può fare. L’imam a scuola spaventa. Se lo proponi, ti senti dire che la proposta dev’essere approvata dal Consiglio d’Istituto. E lì basta un genitore islamofobo per bloccare tutto. Questo in un Paese in cui non è infrequente che il vescovo locale faccia visita a questa o quella scuola in pompa magna, accolto da una folla di bambini festanti.
Provo a mettermi nei panni di uno studente musulmano. Sappiamo che il profilo dello studente attentatore è simile in diversi Paesi (ne parla Francesco “Bifo” Berardi in Heroes, Baldini e Castoldi): ragazzi che vivono un forte senso di esclusione, che alimenta un sentimento di rivalsa. Nelle nostre scuole l’Islam è il convitato di pietra. Compare sporadicamente, come una presenza imbarazzante; raramente c’è modo di parlarne in modo aperto, con la competenza necessaria. Uno studente musulmano (non solo lui, a dire il vero) sente di appartenere non tanto a una sottocultura, quanto a una controcultura. È lì che la società lo colloca. Finisce per lo più per vergognarsi di essere musulmano, abbracciando con un senso di liberazione i valori dominanti (e con le comprensibili, dolorose fratture con la sua famiglia); ma può succedere anche il contrario: che si chiuda nella sua identità, che faccia proprio lo sguardo dell’altro e diventi ciò che si crede che lui sia. Che reagisca al rifiuto generale della società nei confronti della sua cultura con un uguale rifiuto che, in particolari condizioni, può esplodere con violenza. Inclusività è una delle parole chiave della scuola italiana. Non c’è documento scolastico – non c’è pezzettino di quella scuola di carta che si sovrappone ormai alla scuola reale – che non la piazzi nei punti strategici. Ma la scuola italiana è davvero inclusiva? Culturalmente no, non lo è. Lo studente straniero non è il portatore di una diversità che bisogna conoscere e valorizzare. Non è una finestra su mondi altri (e la scuola cos’è, se non aprire finestre su mondi altri?). È segnato dalla negatività. È quello che non sa la lingua. Non quello che sa una lingua diversa – a volte ne sa diverse – che si può provare ad imparare insieme. È quello cui bisogna insegnare la lingua. E di fatto in questo consistono la maggior parte degli interventi in favore degli studenti stranieri. Si fa un corso di italiano L2, e finisce lì. E no, non può finire lì.
Da laico, amo poco l’Islam, come anche il cristianesimo e in generale le religioni. Penso che si vivrebbe molto meglio senza. Da cittadino, penso che le religioni comunque ci sono, ed è un diritto sacrosanto poter seguire la propria religione. E mi dispiace che tanti musulmani debbano pregare in luoghi di fortuna (nella mia città una sorta di garage). Da docente, penso che la scuola debba fare tutto il possibile per far sentire riconosciuti e rispettati gli studenti musulmani, come anche gli studenti portatori di qualsiasi alterità (comprese le diversità di classe sociale, di cui nessuno più si occupa). E mi pare che la scuola italiana lo stia facendo poco e male.

Gli Stati Generali[/read]

Scuola: la laicità difficile

Qualche mese fa ha fatto discutere la scelta del preside di un istituto comprensivo di Porto Tolle, nel cattolicissimo Veneto, di non consentire al vescovo di Chioggia di far visita alla sua scuola. L’argomento del dirigente era semplice: la scuola pubblica e statale è laica. La semplicità, sensatezza, evidenza dell’argomento naturalmente non sono state sufficienti ad evitare le polemiche, per lo più politiche: per certe forze conservatrici notizie del genere sono manna dal cielo.
Non si è fatto troppi problemi invece il dirigente dell’istituto “Ungaretti-Madre Teresa” di Manfredonia, che sulla homepage del sito pubblicizza con grande enfasi la visita di monsignor Moscone, nuovo vescovo della Diocesi. “Un pieno di emozioni questa mattina per alunni, docenti, personale e genitori”, si legge. E le foto fanno quasi tenerezza: sembrano uscite dagli anni Cinquanta, quando il Paese era fervidamente, unanimemente cattolico, i pochi anticonformisti, come i coniugi Bellandi di Prato – che si erano permessi di sposarsi solo civilmente – venivano pubblicamente umiliati e Dio, Patria e Famiglia era uno slogan che non faceva sorridere. Se non fosse per gli smartphone che spuntano qua e là, le foto sarebbero perfettamente vintage: il vescovo dall’aria bonaria, il preside compiaciuto, lo stemma episcopale in bella mostra, e soprattutto loro, i bambini. Col grembiulino azzurro, le bandierine, le mani sollevate per accompagnare chissà quale canto. Continue reading “Scuola: la laicità difficile”