Consentitemi di scusarmi subito per il titolo inelegante. E di spiegare. La parola stronzata traduce l’inglese bullshit; chiedendomi se l’insegnamento sia una stronzata mi riferisco alla analisi fatta dall’antropologo David Graeber dei bullshit jobs [1]: i lavori-stronzata, appunto. Chi fa un lavoro-stronzata — nell’edizione italiana del libro di Graeber si traduce pudicamente “lavori del cavolo” — se ne accorge, non c’è bisogno che giunga un antropologo a dirglielo: perché la prima caratteristica di un lavoro-stronzata è che il lavoratore torna a casa, la sera, e sente di non aver dato nessun contributo alla società. È evidente che il lavoro dello spazzino, dell’idraulico, dell’operaio, del benzinaio non sono stronzate. Ognuno di loro può essere sicuro di aver dato il suo piccolo contributo alla società, anche se la società non sembra riconoscerlo granché. In molti altri casi non è così facile raggiungere questa sicurezza. Graeber si sofferma sulla figura dei barracaselle (box tickers), “quei dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire a un’organizzazione di affremare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo”. Un barracaselle è una persona che compila schede, stila rapporti, riempie carte che nessuno userà mai, che sono nulla più che adempimenti formali.
La tesi di Graeber è che l’economia attuale sta creando sempre più figure lavorative che rientrano in questa infelice categoria. Sempre più persone pagate per fingere di lavorare, funzionali a sistemi organizzativi di cui fa parte in modo determinante, appunto, la finzione.
Torniamo alla domanda: insegnare è una stronzata? La suggestione delle ultime righe che ho scritto mi indurrebbe a rispondere senz’altro di sì. Perché la scuola è diventata da tempo un sistema largamente basato sulla finzione. Nella visione ministeriale, le scuole sono aziende che mirano ad offrire un servizio di qualità agli utenti e che per questo attivano processi di costante auto-valutazione ai fini del miglioramento. Di fatto, le scuole sono sistemi che più che autovalutarsi si autogiustificano ed autoassolvono. Il Rapporto di Autovalutazione è un ottimo esempio di finzione burocratica, un documento che non serve realmente a nessuno, ma che costa lavoro. Lavoro-stronzata, appunto. Si volesse davvero migliorare la scuola, si terrebbero ampie assemblee con gli studenti ed i genitori, per ascoltare, analizzare, capire insieme. No: si vuole solo mettere a punto il documento richiesto dal Ministero. E la lista potrebbe continuare a lungo. Il piano di lavoro del docente, ad esempio, è un documento importante. È il documento nel quale il docente dice cosa vuole insegnare, con quale metodo, perseguendo quali obiettivi. Ma anche questo documento importante diventa una formalità burocratica e nulla più. Molte scuole offrono ai docenti dei moduli precompilati, sui quali basta, appunto, barrare delle caselle. E gli studenti puntualmente si sorprendono quando scoprono che sul sito della scuola esistono, accessibili a tutti, questi piani di lavoro. Che dovrebbero essere scritti per loro e le loro famiglie.
Noi docenti lamentiamo da tempo l’eccessivo carico di lavoro burocratico. Ma il vero problema non è il carico di lavoro. È la qualità del lavoro. L’aggettivo burocratico non è probabilmente adeguato. Va da sé che un sistema non può funzionare senza una burocrazia. Quello che è disperante è il lavoro-stronzata, appunto. Il lavoro senza senso. Compilare carte che nessuno legge, perché lo richiede il sistema.
Concluderei, dunque: sì, il lavoro dell’insegnante comprende ormai anche una parte più o meno consistente di stronzate. Aggiungerei che il lavoro dei dirigenti ne comporta anche di più, e non ci si può spesso liberare dall’impressione che siano diventati, ormai, poco più che barracaselle.
Ma c’è una domanda da fare ancora. Lasciamo da parte le carte. Consideriamo l’insegnamento in sé. Insegnare è una stronzata?
La risposta non è facile. Se il criterio è il modo in cui ci si sente dopo essere tornati a casa dal lavoro, bisognerebbe rispondere: sì e no. Perché a volte si ha l’impressione di aver fatto qualcosa di importante per la società, altre volte ci si sente sconfitti; qualche volta si piange perfino.
Interroghiamoci sulla natura, per così dire, dell’insegnamento. Cosa è insegnare?
Alla mia prima supplenza capitai in una scuola media di Foggia. Andai in segreteria per firmare il contratto. Dopo la firma l’applicato di segreteria mi congedò con uno sguardo che diceva: “Va’ in classe e insegna!”. Ora, a distanza di più di venti anni, so che quella ingiunzione — insegna! — è una ingiunzione paradossale. Qualcosa come: sii spontaneo. Se faccio come dici tu, non sono spontaneo. Ecco: insegnare mi sembra, ora, un lavoro paradossale, contraddittorio, forse impossibile. Perché richiede due cose. La prima è una relazione viva, autentica, sincera, come deve essere qualsiasi relazione educativa — perché insegnare è anche educare. La seconda è la creatività. Insegnare vuol dire portare delle persone nel mondo della poesia, dell’arte, della filosofia, della scienza. Tutte queste cose sono creative al massimo grado. E non è possibile condurre qualcuno in mondi prodotti dalla creatività se non in modo creativo. “Va’ in classe e insegna!” vuol dire dunque: sii autentico, sii creativo. Ma c’è quel’in classe che fa difficoltà. Perché la classe — intendo: il sistema scolastico — è la negazione compiuta di quelle due cose essenziali. Le relazioni umane in ambito scolastico sono pensate sul modello di sistemi disciplinari e gerarchici. Modelli che in passato avevano una ampia legittimazione sociale ed oggi appaiono anacronistici e insensati. L’insegnamento avviene secondo modalità che, nella loro essenza, sono quelle di sempre. L’insegnamento come liturgia. Come è noto, la parola liturgia indica il servizio pubblico, l’azione compiuta in favore del popolo. Ma liturgia è anche l’azione ripetitiva, rituale, uguale a sé nei secoli. La scuola italiana è vittima di questo slittamento: il gesto dell’insegnante perde di vista il pubblico e si avvita su sé stesso, si fa autocelebrativo, soddisfatto di sé. Nulla ha in orrore la scuola più della creatività, della sperimentazione, del tentare e ritentare. Del provare altre vie. Si teme che questo metta in discussione l’istituzione, che trae il proprio prestigio appunto dal seguire vie consolidate. Sfugge che la scuola non ha ormai più alcun prestigio, e proprio perché si ostina a seguire le vie consolidate, nonostante i suoi continui, devastanti fallimenti.
Questa dunque la contraddizione. Insegnare vuol dire creare relazioni vive ed essere creativi. Ma insegnare vuol dire anche stare in una istituzione in cui le relazioni sono inautentiche e la creatività è apertamente avversata (si pensi alla vicenda del maestro Giampiero Monaca). È una contraddizione che i più avvertono già dopo i primi mesi di supplenza. E restano pensosi sul da farsi. Molti rinunciano: si adeguano, fanno quello che il sistema richiede, e si persuasono perfino che insegnare sia quello. Del resto, se a tutti va bene così, dev’essere bene così. Altri si portano avanti per anni dentro la ferita di questa contraddizione, che a volte sembra rimarginarsi, altre volte sanguina copiosamente.
[1] David Graeber, Bullshit Jobs, tr. it., Garzanti, Milano 2018.
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