Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.
Scrive Cognetti:
Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)
La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).
Vediamo ora l’autorità. Viene da augeo, certo. Come la parola autore. Ma c’è una differenza essenziale tra le due cose. Un autore è una persona che fa crescere, che crea, che promuove. “Chi è causa o origine di una cosa, artefice, promotore”, si legge nel dizionario Treccani. Se autore è chi fa crescere l’altro (o altro), autorità è invece chi è cresciuto sull’altro. Come dice Cognetti, ha prestigio sociale. Ora, credere che il prestigio sociale vada a persone che hanno merito particolari, siano essi morali o intellettuali, richiede una fiducia nella società che non ho. Tendo piuttosto a considerare la società come il grosso animale di Simone Weil. Le dinamiche sociali sono per lo più violente e fanno sì che a emergere non sia chi ha più cultura, o sensibilità, o qualità morali, ma chi è più spregiudicato. Anche perché schivare la visibilità, il prestigio, il successo sono spesso caratteristiche delle persone moralmente o spiritualmente migliori. Per questa ragione anche nelle organizzazioni religiose ad emergere sono quelli che più amano il successo, più che coloro che sono spiritualmente migliori. Una autorità, dunque, non è propriamente una persona che rende migliori gli altri. Anzi: possiamo sospettare che accada il contrario.
Potremmo definire autorialità la qualità di chi è autore, e considerare l’autorità una sua degenerazione. La differenza è evidente se pensiamo all’assetto sociale corrispondente ai due casi. Una società nella quale esistano delle autorità è una società organizzata gerarchicamente, con ruoli e status definiti e distinti dall’alto al basso. Una società nella quale chi è più ambizioso di muove verso l’alto. L’autore appartiene a un mondo diverso. Scrive, fa musica, educa. Ciò che gli interessa è la sua opera, non scalare una gerarchia sociale. Se è un bravo scrittore, o fa ottima musica, o educa in modo efficace, può essere che riceva anche riconoscimento sociale. Ma si tratterà di qualcosa di diverso.
Consideriamo una personalità che è stata entrambe le cose. Papa Benedetto XVI è stato, in quanto papa, l’autorità suprema della Chiesa cattolica. Per molti il papa è una delle persone più importanti al mondo, e anche molti laici lo considerano con un grande rispetto. Ma Joseph Ratzinger è stato anche, e forse soprattutto, uno studioso, autore di molti libri. In quanto papa, Benedetto XVI ha un valore che gli viene dal proprio ruolo, indipendentemente o quasi da quello che fa o dice. In quanto studioso, Ratzinger vale per quello che scrive: per le sue opere. Se queste sono valide, l’autore merita rispetto. Se non lo sono, no. Anche chi come me considera retrive le posizioni di Ratzinger sul piano teologico ed ecclesiale riconosce tuttavia il valore di Ratzinger come studioso. Non si può dire lo stesso di papa Francesco. Chiunque ne legga gli scritti libero da pregiudizi converrà che sono di una banalità sconcertante. Si può convenire con le posizioni di papa Francesco, si può essere perfino entusiasti per esse, ma è difficile negare l’assoluta irrilevanza dei suoi scritti sul piano intellettuale. Papa Francesco è una autorità, ma non è un autore. A meno che non lo si consideri tale in quanto educatore.
Una caratteristica di chi è autore, e non autorità, è che è sempre in una relazione orizzontale, e dunque aperto al dialogo, al confronto e alla crescita comune. Uno scrittore fa parte di una comunità di scrittori, e così un artista. È sempre disposto a imparare da ciò che gli accade intorno, curioso delle novità e dei cambiamenti. Se, raggiunta la celebrità, si chiudesse nella celebrazione di sé stesso, cesserebbe di essere un autore.
Questo vale anche per l’educatore? È il campo educativo quello in cui la distinzione tra essere autorità ed essere autore è più importante e significativa. Un educatore che si consideri autorità si muoverà in un ordine gerarchico, in una visione sociale fatta di gradi; ai suoi occhi lo studente, il figlio, l’educando occuperà il grado più infimo. L’educazione sarà un processo unidirezionale. In quanto autorità, l’educatore non ha nulla da imparare dall’educando. Si pone nei suoi confronti come modello, meta del primo movimento di ascesa sociale. L’educatore autore al contrario si sottrae a qualsiasi ordine sociale. Vive in una società che è fatta di persone che, su uno stesso piano, comunicano, discutono, litigano, dicono sciocchezze o cose interessanti, creano e distruggono, ma sempre senza mai abbandonare l’orizzonte della comune umanità; senza costruire piramidi sociali che cristallizzano, anzi ghiacciano le relazioni. Occupando questo piano, è lui stesso immerso in questi processi: insegna quel che sa, mette in comune i valori in cui crede: e impara insieme a tutti.
Se consideriamo vera educazione questa seconda via (e io ne sono persuaso), essere una autorità è cosa assolutamente incompatibile con l’essere un educatore. Si dirà che l’educatore dev’essere autorevole, ma si tratta appena di una variazione, perché l’autorevolezza è la condizione di qualcuno che crea il silenzio intorno a sé, quando parla. E può essere che quel silenzio sia riempito da parole densissime e vere: ma l’educazione è incrocio dialogico di voci, anche traballanti, e non ascolto di una voce.