Come fare un blog di insuccesso

Questo blog esiste ormai da molti anni ed è riuscito nel tempo a mantenere un numero di visitatori meravigliosamente basso: in media meno di dieci al giorno. Uno di questi sparuti visitatori qualche giorno fa mi ha fatto notare che il mio blog non è più quello di una volta: troppe cose tecniche e poca poesia. Il nostro lettore è deluso, e questo vuol dire che probabilmente il numero di visitatori diminuirà ulteriormente. Attendo con ansia il giorno in cui il contatore dei visitatori sarà stabile sullo zero. E il mio blog avrà raggiunto la sua entelechia.
Intanto, forte di questa esperienza, sento di poter offrire una guida minima alla creazione di un blog di insuccesso. Continue reading “Come fare un blog di insuccesso”

Siena e i fronteggiamenti

Non ho mai amato andare dal barbiere. Vuol dire stare davanti a uno specchio per molto tempo, e per me gli specchi sono una tortura. Da ragazzino attenuavo l’ansia andando da Franco, il barbiere all’angolo, che era quasi uno di famiglia. E quasi uno di famiglia era Adolfo, il suo garzone di bottega. Abitava proprio di fronte a casa mia ed eravamo cresciuti insieme.

Adolfo è morto a vent’anni. La sua fidanzatina gli riferì un giorno che un tale l’aveva infastidita. Lui fissò un appuntamento con il tale e, come chiedeva la cultura del luogo, si presero a botte. Fu colpito da un pugno in un occhio. Perse i sensi. Morì qualche ora dopo in ospedale. Per quello che ne so sua madre – sono passati decenni – veste ancora di nero.

A Siena una sentenza che i giornali definiscono storica ha assolto ventisette contradaioli per la rissa in piazza alla fine del Palio di agosto del 2015; altri tre contradaioli sono stati condannati a multe dai seicento euro in giù. Non è possibile conoscere la motivazione della sentenza, che sarà depositata tra novanta giorni. Ma intanto i senesi – o meglio: i contradaioli – esultano. Sicuri che quella sentenza avalli il loro teorema: quelle in piazza durante il palio non sono volgari risse, ma nobilissimi fronteggiamenti, che fanno parte della cultura e dell’identità senese, e che come tali sono incensurabili; e processare dei contradaioli che si picchiano vuol dire, pertanto, attaccare Siena. Continue reading “Siena e i fronteggiamenti”

Potere, autorità e autorialità

Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Scrive Cognetti:

Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)

La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).

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Peppe Sini, la nonviolenza e l’anello debole

Peppe Sini replica al mio La nonviolenza si è fermata, su “MicroMega”, protestando. Nel mio articolo ho scritto che lui, Sini, nell’intervento che ho preso in esame e da cui sono partito per ragionare della nonviolenza italiana, “evita accuratamente di parlare di Putin”. No, protesta Sini, questo non è vero. Perché già nella terza riga ha scritto che occorre “continuare a denunciare la criminale follia di chi la guerra ha scatenato”. Il problema è, appunto, che parla di chi la guerra ha scatenato, ma non fa il nome di Putin. Come se solo nominarlo fosse difficile. Mentre poco dopo dice:

Con l’azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di mettere il veto ad ogni iniziativa della Nato, l’organizzazione terrorista e stragista di cui i nostri paesi tragicamente fanno parte: paralizzare immediatamente i criminali della Nato occorre, e successivamente procedere allo scioglimento della scellerata organizzazione.

La Nato dunque è scellerata, terrorista e stragista. Perché mai un lettore non dovrebbe pensare che è questa organizzazione criminale, nell’analisi di Sini, ad aver scatenato la guerra?

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Quel che resta della nonviolenza

Su MicroMega intervengo ancora sulle posizioni della nonviolenza italiana di fronte alla guerra in Ucraina. E mi chiedo intanto che fare della nonviolenza. Che fare, cioè, di oltre vent’anni di studi e, forse, di passione.

La mia porta d’accesso a ciò che chiamiamo nonviolenza è stato Aldo Capitini. Era l’inizio degli anni Novanta. Trovai per la prima volta il suo nome in un numero di una rivista dedicato agli irregolari della filosofia italiana in cui cercavo un articolo su Giuseppe Rensi. Filosoficamente, mi pare che Capitini cominci in effetti dove finisce Rensi. Il filosofo genovese giunge al dramma del contrasto tra la nostra urgenza morale e l’evidenza di un mondo che non è che atomi e vuoto; di qui la semplice constatazione del suo Testamento filosofico (“Atomi e vuoto e il Divino in me”), ma anche l’ipotesi azzardata della Morale come pazzia: se c’è qualcosa là fuori oltre agli atomi e al vuoto, allora la mia urgenza morale non sarà stata follia. Una conclusione che mi sembrò – e mi sembra – un passo indietro rispetto alla posizione, atea eppure spirituale, delle Lettere spirituali: posizione di attraversamento dell’ego, che è la costante del pensiero di Rensi. Capitini risolve quel contrasto nell’orizzonte di una filosofia pratica. Non è tutto atomi e vuoto. C’è dell’altro: c’è la compresenza, un mondo in cui ogni vita resta, in eterna, affratellata ad ogni altra vita. Ma – è qui l’originalità di Capitini, ma anche ciò che l’ha condannato all’incomprensione – questo mondo propriamente non esiste. Non è tra le cose verificabili, semplicemente presenti; non è una realtà metafisica, un mondo al di sopra del nostro in cui credere; e non è nemmeno una dimensione futura, un Regno che certamente si realizzerà. È il mondo al quale qui e ora apparteniamo con la scelta morale di non uccidere, anzi con l’atto rivoluzionario di ribellarci alla logica stessa del reale, che è quella della distruzione universale.

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La miseria di essere Sua Santità

La bizzarra – no: disgustosa – uscita del Dalai Lama, che chiede a un bambino di succhiargli la lingua dopo averlo baciato, può apparire come l’evidente manifestazione del decadimento mentale di un uomo in età particolarmente avanzata o la dimostrazione che una certa corruzione morale esiste anche nel buddhismo, che da noi, chissà perché, gode di buona stampa. Non così per i fedeli italiani, che essendo dei convertiti hanno, dei convertiti, lo zelo e il fanatismo (ah, Papini!). Uno di questi spiegava su un social che il Dalai Lama, bontà sua, è come un bambino, e quel gesto va dunque considerato nulla più che un gioco infantile. Infantile: e dunque innocente. Forse perfino poetico.

M’è tornato in mente, leggendo questa libera interpretazione, un passo del Vangelo di Sri Ramakrishna:

I segni di chi ha visto Dio sono questi: Il suo comportamento è come quello di un bambino. A volte appare come uno spirito impuro. (Il Vangelo di Sri Ramakrishna, Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 122.)

Il nostro Dalai Lama, benché privo di Dio, non sarà per caso uno di questi santi folli, di questi uomini che, avendo oltrepassato l’io, si sono lasciati alle spalle la distinzione tra il bene e il male? Può essere. Ma a farne le spese è stato un bambino, e questo, per noi che siamo al di qua, è un male.

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L’educazione finanziaria

Su MicroMega Emilio Carnevali, docente di economia alla Northumbria University, ha avviato una discussione sulla necessità di introdurre in tutte le scuole superiori italiane l’insegnamento di Lineamenti di economia e finanza quale strumento indispensabile per esercitare una vera cittadinanza democratica. Carlo Scognamiglio è intervenuto presentando alcune perplessità. Sostenendo pienamente la proposta di Carnevali, io invece ho ragionato un po’ sulle resistenza verso una simile proposta, che va ricondotta, mi pare, a tre limiti culturali della scuola italiana: l’opposizione tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico; la contrapposizione ulteriore, legata alla prima, tra saperi disinteressati e saperi pratici, in quanto tali inferiori; e la contrapposizione, quasi religiosa, tra la scuola e il mondo. Questi tre pregiudizi rendono improbabile una apertura della scuola italiana a un campo del sapere che appare al tempo stesso tecnico-scientifico, pratico e mondano.