Carissimi,
come per molti della mia generazione, il 1989 fu per me un anno di profonda sofferenza: quella sofferenza che prelude al cambiamento. Le mie inquietudini adolescenziali avevano trovato un punto di equilibrio nel comunismo. Come era giusto che fosse: ero un ragazzino proletario, osservavo la società dal basso (letteralmente: vivevo in un basso), e avevo un bel po’ di rabbia. Ora scoprivo che l’alternativa comunista era fragile, anzi peggio: violenta. Avrei potuto, dovuto capirlo prima, ma ero un ragazzino di provincia, che appena allora si affacciava al mondo; ed altri, del resto, quella consapevolezza non l’hanno ancora raggiunta, a distanza di decenni.
Cosa c’è dopo il comunismo? Quale strada prendere? È stata la mia domanda pressante degli anni dell’Università. Cui ho dato due risposte. La prima era, ed è, l’anarchismo. Che non vuol dire buttare giù lo Stato o crogiolarsi in un ribellismo adolescenziale, ma essere consapevoli che nessun cambiamento sociale reale può giungere dai partiti e che bisogna lavorare nella società stessa, a livello di microfisica del potere, per dirla con Foucault: agire sulle relazioni di classe, ma anche su quelle interpersonali, di genere, generazionali. Cercare ovunque di passare dall’asimmetria del dominio alla pratica dell’uguaglianza. L’altra risposta era la nonviolenza. Che per me all’anarchismo era ed è intimamente legata. Se la società che abbiamo è violenta, contestarla, contrastarla, cercare una alternativa vuol dire rifiutare la violenza, cosa che implica anche il rigetto del mito di una soluzione violenta delle contraddizioni sociali.
Con queste idee è maturata la mia scelta dell’obiezione di coscienza. Ho letto Capitini, Gandhi, Lanza del Vasto, Danilo Dolci. Poi sono passato dalla semplice lettura allo studio sistematico. Ho pubblicato qualche libro: e sono cresciute in me le domande. Studiando Gandhi, ho cercato di mostrare il fondo magico del suo pensiero, il modo irrazionale in cui affronta il nodo centrale della nonviolenza, quello dell’efficacia. E come alternativa ho proposto – per lo più a me stesso – una nonviolenza disincantata, senza miti, individualistica e laica.
Tra le cose che ho imparato, in questi anni, è che non è bene affezionarsi troppo ai sistemi di idee. Cominciamo a riflettere perché abbiamo domande e problemi da risolvere. Nell’ansia di rispondere aderiamo a un sistema: diventiamo comunisti, anarchici, nonviolenti, o altro. Costruiamo la nostra identità all’interno di questi sistemi di idee. E alla fine la sola idea di abbandonarli ci provoca angoscia. Quei sistemi di idee, che erano un mezzo per rispondere ad alcune domande, diventano un fine. Vanno difesi di per sé, ad ogni costo. Difendendoli, difendiamo noi stessi, il nostro bisogno di essere qualcosa o qualcuno.
Ecco, in questo 2022 credo che dovrò liberarmi dell’abito della nonviolenza, come nel 1989 mi liberai di quello del comunismo. Continuerò a leggere e ad amare Gandhi, Danilo Dolci, e soprattutto Capitini, senza considerarmi nonviolento o amico della nonviolenza, esattamente come leggo ed amo Gramsci senza considerarmi comunista.
Ho letto, in questi giorni così difficili, molti slogan. Nel testo della vostra campagna Obiezione di coscienza alla guerra, ad esempio, leggo: “Per fermare la guerra bisogna non farla. Per cessare il fuoco bisogna non sparare”. È una uscita che offende l’intelligenza, come tante altre che è toccato leggere; e il fatto che a scrivere simili idiozie siano spesso persone di cui apprezzo da sempre l’intelligenza e la cultura è per me un segno chiaro del fatto che ci si aggrappa disperatamente a un sistema di idee, anche a costo di sacrificare la propria intelligenza e il senso critico.
C’è uno slogan che invece mi pare di non aver letto, in questi giorni. È qualcosa di più di uno slogan, a dire il vero. Mi pare l’essenza stessa della nonviolenza. Dice che “la pace è frutto della giustizia”. Opus iustitiae pax. L’origine è Isaia, 32, 17 (וְהָיָה מַעֲשֵׂה הַצְּדָקָה, שָׁלוֹם), dove però il verbo è al futuro: sarà la giustizia a fare la pace.
Io non so davvero quale idea di giustizia abbiate voi. A me pare evidente che il primo di tutti i diritti sia, per dirla con Victor Jara, quello di vivere in pace. Ed derecho de vivir en paz. Jara è stato vittima, insieme a Salvador Allende e a innumerevoli altri cileni, dell’imperialismo americano. Schifoso, schifosissimo. Come schifoso, schifosissimo è oggi l’imperialismo di Putin. La base della nonviolenza italiana è l’antifascismo. Come è possibile non accorgersi, oggi, che Putin è fascista? Come è possibile essere così distratti, da non vedere quello che è scritto nero su bianco, ad esempio nei libri di Dugin? Nel putinismo tornano a galla tutti gli elementi del nazifascismo che credevamo di aver espulso dalla storia: il rigetto del mondo moderno di Julius Evola, il tradizionalismo religioso e l’esaltazione del Medioevo, il principio di gerarchia e il culto della violenza; e ai deliri esoterici del nazismo corrispondono i deliri della nuova cronologia di Fomenko.
Sarei felice se gli ucraini scegliessero la via della nonviolenza. Non posso avere però la certezza che questa scelta consentirebbe al Paese di mantenere la propria libertà ed indipendenza. Non credo in Dio, non ho la fede nella Provvidenza; anche se fossi credente, del resto, rifletterei sul silenzio di Dio ad Auschwitz. Né credo che esistano leggi della storia. Nella storia può succedere di tutto, compreso il ritorno del nazismo. Soprattutto, non ho alcun diritto di criticare la resistenza armata degli ucraini. Perché non ci sono io, sotto le bombe, né la mia famiglia, né mio figlio; e so con assoluta certezza che per difendere la vita di mio figlio potrei uccidere. Il diritto di difendersi quando si è aggrediti è un diritto naturale che nemmeno Gandhi si è mai sognato di negare. Proponeva l’alternativa nonviolenta, ma preferiva di gran lunga un popolo che resiste in armi a un popolo che accetta l’oppressione senza reagire.
La questione centrale, oggi come ieri, è quella dell’efficacia. Che è anche la questione che separa e distingue il pacifismo dalla nonviolenza. Il pacifismo afferma il valore della pace e condanna la guerra. La nonviolenza va oltre: cerca mezzi efficaci per perseguire obiettivi politici. Ora, è evidente che non esistono, al momento, alternative efficaci alla resistenza armata in Ucraina. Mi spiace dirvelo, ma il vostro comunicato con il quale annunciate “due iniziative concrete” quali la citata campagna di obiezione alla guerra e “la presenza domenicale all’Angelus in Piazza San Pietro a Roma”, concludendo poi, soddisfatti, con un becero “fatti, non parole”, mi ha strappato un sorriso amaro. Mi è tornata in mente una citazione di Günther Anders che trovai in un libro di Christoph Türcke letto negli anni Novanta. Türcke contestava la convinzione che marciare per la pace significhi davvero fare qualcosa per la pace: “atteggiamento che ha dato occasione a Günther Anders di rilevare come, per quel che lo riguarda, stare in silenzio o mangiare ininterrottamente panini al prosciutto sia in sostanza la stessa cosa” (Violenza e tabù, Garzanti, Milano 1991, pp. 28-9). Non ero d’accordo, allora, né lo sono ora, ma davvero iniziative concrete come assistere all’Angelus non mi sembrano troppo diverse dal mangiare panini. (Peraltro, e per inciso, la scelta di far portare la croce ad una donna ucraina e ad una donna russa durante la Via Crucis rivela una strana concezione della riconciliazione. Che è cosa complessa e difficile, e richiede, intanto, che il conflitto sia terminato e che l’aggressore abbia ammesso le sue colpe e chieda perdono all’aggredito. Riconciliare simbolicamente aggressore ed aggredito mentre l’aggressione è ancora in corso è un insulto alla vittima.)
Non sono d’accordo con Türcke perché mi pare che trascuri una cosa che era invece chiara già a Tolstoj: il potere dell’opinione pubblica. Che è un potere esposto ad ogni manipolazione, e tuttavia resta un potere reale. Non è un caso che Putin investa molto, e da tanti anni, nella disinformazione e nella diffusione di fake news, così come non è un caso che la Cina operi nella direzione del soft power. So che un vasto movimento di opinione può non fermare la guerra, ma di certo ostacola i piani dell’aggressore.
Sono consapevole che non si può chiedere al piccolo Movimento Nonviolento italiano di risolvere la crisi ucraina. Ma questo potrebbe farlo: andare in piazza a dire che ci sono un aggressore e un aggredito e che l’aggressore deve cessare la sua violenza. Senza nessuna ambiguità. Basterebbe questo, davvero. Che è quello che i nonviolenti hanno fatto ieri, quando l’aggressore erano gli USA. Oggi che ad aggredire è la Russia, si invoca una complessità che è in realtà la desolante semplificazione di chi legge la storia del secondo decennio del terzo millennio con le categorie geopolitiche degli anni Novanta del secolo scorso. Basterebbe esprimere la propria condanna morale dell’aggressore, invece di una generica condanna della guerra, che mette vergognosamente sullo stesso piano l’occupazione, il massacro di civili, gli stupri e la disperata difesa degli ucraini.
Non invidio le granitiche certezze ostentate in questi giorni dagli amici nonviolenti (o dagli amici della nonviolenza). Satyagraha, lo sappiamo, è forza della Verità. Ma il termine agraha (आग्रह) in sanscrito ha diverse sfumature: indica una forte adesione a qualcosa, la fermezza, la determinazione, ma anche l’ostinazione ottusa. La nonviolenza è esposta a questo rischio: essere la fanatica adesione a una costellazione di valori e di idee che si considerano come Verità, con la maiuscola, e che in quanto tali sono sottratti a qualsiasi discussione critica. Con il risultato che quella complessità che si invoca nella considerazione di un fatto storico viene poi rigettata con sdegno quando riguarda la nonviolenza stessa e la sua storia (non è complessa anche la storia della liberazione dell’India dal dominio inglese?). Un movimento che si ritiene detentore della Verità e che è incapace di qualsiasi autocritica, un movimento che non può essere messo in crisi da nulla, non è un movimento politico: è religione. E non sono sicuro che ci sia bisogno di aggiungere alle tante religioni prodotte dalla bizzarra fantasia umana anche la religione della nonviolenza.