Peppe Sini, la nonviolenza e l’anello debole

Peppe Sini replica al mio La nonviolenza si è fermata, su “MicroMega”, protestando. Nel mio articolo ho scritto che lui, Sini, nell’intervento che ho preso in esame e da cui sono partito per ragionare della nonviolenza italiana, “evita accuratamente di parlare di Putin”. No, protesta Sini, questo non è vero. Perché già nella terza riga ha scritto che occorre “continuare a denunciare la criminale follia di chi la guerra ha scatenato”. Il problema è, appunto, che parla di chi la guerra ha scatenato, ma non fa il nome di Putin. Come se solo nominarlo fosse difficile. Mentre poco dopo dice:

Con l’azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di mettere il veto ad ogni iniziativa della Nato, l’organizzazione terrorista e stragista di cui i nostri paesi tragicamente fanno parte: paralizzare immediatamente i criminali della Nato occorre, e successivamente procedere allo scioglimento della scellerata organizzazione.

La Nato dunque è scellerata, terrorista e stragista. Perché mai un lettore non dovrebbe pensare che è questa organizzazione criminale, nell’analisi di Sini, ad aver scatenato la guerra?

Continue reading “Peppe Sini, la nonviolenza e l’anello debole”

Un anno di guerra

Un anno dopo l’inizio della guerra in Ucraina sono evidenti la catastrofe della Russia e la bancarotta del pacifismo.

Un anno di guerra contro l’Ucraina. Trecentosessantacinque giorni di stragi, distruzioni, sequestri di bambini ed altre atrocità. Un anno insanguinato per l’Europa e il mondo. Più di un secolo indietro per la Russia. Perché il danno che criminali come Putin e Kirill stanno facendo alla Russia è di gran lunga maggiore del danno che stanno facendo all’Ucraina.

Più di cento anni indietro. L’impressione è che la Russia, non riuscendo a fare i conti con il suo passato comunista, abbia deciso semplicemente di rimuoverlo. E di tornare, dunque, a quello che c’era prima. Seguendo il dibattito attuale in Russia – che ha, soprattutto nelle televisioni, tratti di vera e propria follia di massa – l’impressione è di ritrovarsi catapultati nella Russia di Dostoevskij. E di sentir parlare il suo idiota, quel principe Myskin che affermava: ’Bisogna che il nostro Cristo risplenda a difesa contro l’Occidente, un Cristo che noi abbiamo conservato e che loro non conoscono!” Il Cristianesimo ortodosso, la santità e la purezza della Russia contrapposti spiritualmente alla corruzione che viene dall’Occidente. Una spiritualità che naturalmente è destinata a degenerare nella più atroce violenza. Continue reading “Un anno di guerra”

Perché Noam Chomsky si sbaglia sull’Ucraina

Perché l’Ucraina (Ponte alle Grazie, Milano 2022) raccoglie sette interviste a Noam Chomsky, che vanno da 2018 a questi ultimi giorni; una raccolta utile per chiarire il punto di vista sulla crisi di quello che è forse il più autorevole rappresentante della sinistra radicale mondiale. La cui posizione si può racchiudere in due punti: le cause della crisi vanno ricercate nella politica di espansione nell’est Europa della Nato; l’uscita è da cercare in una neutralità dell’Ucraina sul modello dell’Austria con “un certo grado di autonomia per la regione del Donbass”. Poiché Chomsky non è un Orsini qualsiasi, conviene approfondire questa posizione ed evidenziarne i limiti e le contraddizioni. Il filosofo statunitense parte dai tempi della riunificazione della Germania. Allora Bush padre e Gorbačëv si accordarono: il leader russo avrebbe acconsentito, se la Nato si fosse impegnata a non espandersi più ad est della Germania. Chomsky sa bene che si è trattato di nulla più di un accordo verbale, ma questo accordo verbale è un pezzo fondamentale del suo puzzle interpretativo. Un altro pezzo è il fatto che nel 2008 gli USA abbianp invitato l’Ucraina ad aderire alla Nato, “stuzzicando l’orso che dorme”. L’orso, naturalmente, è la Russia. Ma “Germania e Francia opposero il loro veto”, precisa Chomsky. Ora, dal momento che Germania e Francia sono Nato non meno degli USA, affermare che la Nato abbia stuzzicato la Russia è sbagliato: la proposta di includere l’Ucraina è stata respinta proprio per non provocare la Russia. Il terzo pezzo del puzzle di Chomsky è che dietro la rivoluzione arancione ci sono gli USA:

Cercare di far uscire l’Ucraina dalla sfera d’influenza russa – obiettivo dichiarato di quanti si sono entusiasmati per le “rivoluzioni colorate” – è stata una sciocchezza, e anche pericolosa.

A dire il vero qui Chomsky non sta dicendo che l‘Euromaidan è stato manovrato dagli statunitensi; si tiene alla larga dalla sciocchezza del colpo di Stato di un Luciano Canfora. Dice che gli occidentali avrebbero dovuto invece considerare con ostilità lo spostamento degli ucraini al di fuori della sfera d’influenza russa. Dice, cioè, due cose. La prima è che le grandi potenze hanno diritto alle loro sfere d’influenza. Gli Stati Uniti hanno avuto ed hanno le loro, perché mai negare alla Russia la sua? La seconda è che i popoli farebbero bene a quietarsi, accettare questa logica, sottomettersi alla Realpolitik per la pace e il bene di tutti. Che non è proprio il discorso che ti aspetti da un pensatore radicale.

Ma l’ingresso dell’Ucraina nella Nato è poi una prospettiva realistica? Qui Chomsky si contraddice in modo incredibile. L’ingresso dell’Ucraina nella Nato, scrive, “non è un’opzione concreta”. E aggiunge, citando l’analista Anatol Lieven: “L’intera questione dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, in realtà, è puramente teorica, quindi in un certo senso tutta l’argomentazione si fonda sul nulla”. Ora, Chomsky non si accorge che a fondarsi sul nulla è la sua argomentazione. Ritenere che la Russia abbia realmente invaso l’Ucraina per la questione dell’ingresso nella Nato, e ammettere al tempo stesso che l’ingresso nella Nato è sempre stato fuori discussione, significa ammettere che Putin non ha alcuna ragione per invadere l’Ucraina. Oppure riconoscere che quello dell’ingresso della Nato è un evidente pretesto, e che le ragioni sono altre, ascrivibili esclusivamente alla politica di potenza – alla politica fascista – di Putin.

In una intervista più recente, il filosofo si sofferma un documento “che ha avuto scarsa copertura mediatica”: il Joint Statement on the U.S.-Ukraine Strategic Partnership del 1 settembre 2021, che evidentemente gli era sfuggito prima. Documento nel quale, afferma, “si dichiara con forza che le porte dell’adesione dell’Ucraina alla Nato sono aperte”. “Questa dichiarazione – scrive – è l’ennesimo atto mirato per colpire l’orso in piena faccia”. Ennesimo. Non si accorge, e la cosa è davvero singolare in un intellettuale così attento, del richiamo nel preambolo a un documento fondamentale, che sembra ignorare del tutto: il Memorandum di Budapest del 1994. Con il quale la Russia, insieme alla Gran Bretagna, all’Irlanda del Nord e agli Stati Uniti, si è impegnata a non aggredire l’Ucraina, a rispettarne i confini, l’indipendenza e la sovranità, a non esercitare alcuna forma di controllo economico e a convocare immediatamente il Consiglio di sicurezza dell’ONU nel caso in cui l’Ucraina fosse minacciata di aggressione nucleare. Non un accordo verbale. Un impegno messo nero su bianco, che la Russia non ha rispettato. L’orso russo ha preso tutte le armi nucleari all’Ucraina, impegnandosi non solo a non aggredirla, ma anche a difenderla in caso di aggressione. E impegnandosi ad evitare qualunque coercizione economica ha negato esplicitamente qualunque diritto ad una sfera d’influenza.

Ritenere, come fa Chomsky, che sia stata questa Dichiarazione congiunta a spingere Putin ad ammassare le truppe sul confine ucraino e quindi ad invaderlo significa confondere la causa con l’effetto. La politica aggressiva e intimidatoria della Russia nei confronti dell’Ucraina è la premessa e la giustificazione geopolitica di quel documento; esattamente come oggi è la premessa della richiesta di ingresso nella Nato della Finlandia e Svezia, due paesi che, se non minacciati, mai avrebbero avanzato una richiesta simile.

Alla luce del mancato rispetto del Memorandum di Budapest si può anche valutare la praticabilità della proposta di un’Ucraina neutrale. Al di là del fatto che spetta agli ucraini decidere se vogliono essere neutrali – così come spetta loro decidere se vogliono far parte della Nato –, c’è da chiedersi quanto sia garantita la sicurezza di un paese neutrale con un vicino aggressivo, potente, guidato da un leader fascista, che ha dimostrato di non rispettare gli impegni internazionali.

Chomsky ha ben chiare le gravi responsabilità di Putin:

…l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra, al pari dell’invasione statunitense dell’Iraq e di quella di Hitler-Stalin della Polonia nel settembre del 1939, giusto per fare due esempi emblematici. È sempre opportuno ricercare delle spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.

Meglio sarebbe stato se si fosse fermato qui. L’invasione dell’Ucraina è un atto criminale. E non ci sono giustificazioni. E invece finisce per cercare giustificazioni e attenuanti. Tutto l’impianto argomentativo di Chomsky è emblematico della crisi degli intellettuali di sinistra di fronte a un imperialismo di nuovo genere. Dopo aver condannato per anni, e giustamente, la politica di potenza degli Stati Uniti, ora Chomsky ricorre a quella stessa politica di potenza per aggiungere una costellazione di se e ma alla sua condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, finendo per considerare più le ragioni presunte dell’orso che quelle della vittima dell’orso, che nella sua analisi semplicemente scompare: perché gli pare scontato che l’Ucraina e gli ucraini siano solo pedine di un gioco che li trascende e non soggetti storici con il diritto di autodeterminazione. E questo, in un pensatore radicale, è un cedimento piuttosto grave.

Non c’è pace senza giustizia. Lettera aperta al Movimento Nonviolento

Carissimi,

come per molti della mia generazione, il 1989 fu per me un anno di profonda sofferenza: quella sofferenza che prelude al cambiamento. Le mie inquietudini adolescenziali avevano trovato un punto di equilibrio nel comunismo. Come era giusto che fosse: ero un ragazzino proletario, osservavo la società dal basso (letteralmente: vivevo in un basso), e avevo un bel po’ di rabbia. Ora scoprivo che l’alternativa comunista era fragile, anzi peggio: violenta. Avrei potuto, dovuto capirlo prima, ma ero un ragazzino di provincia, che appena allora si affacciava al mondo; ed altri, del resto, quella consapevolezza non l’hanno ancora raggiunta, a distanza di decenni.

Cosa c’è dopo il comunismo? Quale strada prendere? È stata la mia domanda pressante degli anni dell’Università. Cui ho dato due risposte. La prima era, ed è, l’anarchismo. Che non vuol dire buttare giù lo Stato o crogiolarsi in un ribellismo adolescenziale, ma essere consapevoli che nessun cambiamento sociale reale può giungere dai partiti e che bisogna lavorare nella società stessa, a livello di microfisica del potere, per dirla con Foucault: agire sulle relazioni di classe, ma anche su quelle interpersonali, di genere, generazionali. Cercare ovunque di passare dall’asimmetria del dominio alla pratica dell’uguaglianza. L’altra risposta era la nonviolenza. Che per me all’anarchismo era ed è intimamente legata. Se la società che abbiamo è violenta, contestarla, contrastarla, cercare una alternativa vuol dire rifiutare la violenza, cosa che implica anche il rigetto del mito di una soluzione violenta delle contraddizioni sociali.

Con queste idee è maturata la mia scelta dell’obiezione di coscienza. Ho letto Capitini, Gandhi, Lanza del Vasto, Danilo Dolci. Poi sono passato dalla semplice lettura allo studio sistematico. Ho pubblicato qualche libro: e sono cresciute in me le domande. Studiando Gandhi, ho cercato di mostrare il fondo magico del suo pensiero, il modo irrazionale in cui affronta il nodo centrale della nonviolenza, quello dell’efficacia. E come alternativa ho proposto – per lo più a me stesso – una nonviolenza disincantata, senza miti, individualistica e laica.

Tra le cose che ho imparato, in questi anni, è che non è bene affezionarsi troppo ai sistemi di idee. Cominciamo a riflettere perché abbiamo domande e problemi da risolvere. Nell’ansia di rispondere aderiamo a un sistema: diventiamo comunisti, anarchici, nonviolenti, o altro. Costruiamo la nostra identità all’interno di questi sistemi di idee. E alla fine la sola idea di abbandonarli ci provoca angoscia. Quei sistemi di idee, che erano un mezzo per rispondere ad alcune domande, diventano un fine. Vanno difesi di per sé, ad ogni costo. Difendendoli, difendiamo noi stessi, il nostro bisogno di essere qualcosa o qualcuno.

Ecco, in questo 2022 credo che dovrò liberarmi dell’abito della nonviolenza, come nel 1989 mi liberai di quello del comunismo. Continuerò a leggere e ad amare Gandhi, Danilo Dolci, e soprattutto Capitini, senza considerarmi nonviolento o amico della nonviolenza, esattamente come leggo ed amo Gramsci senza considerarmi comunista.

Ho letto, in questi giorni così difficili, molti slogan. Nel testo della vostra campagna Obiezione di coscienza alla guerra, ad esempio, leggo: “Per fermare la guerra bisogna non farla. Per cessare il fuoco bisogna non sparare”. È una uscita che offende l’intelligenza, come tante altre che è toccato leggere; e il fatto che a scrivere simili idiozie siano spesso persone di cui apprezzo da sempre l’intelligenza e la cultura è per me un segno chiaro del fatto che ci si aggrappa disperatamente a un sistema di idee, anche a costo di sacrificare la propria intelligenza e il senso critico.

C’è uno slogan che invece mi pare di non aver letto, in questi giorni. È qualcosa di più di uno slogan, a dire il vero. Mi pare l’essenza stessa della nonviolenza. Dice che “la pace è frutto della giustizia”. Opus iustitiae pax. L’origine è Isaia, 32, 17 (וְהָיָה מַעֲשֵׂה הַצְּדָקָה, שָׁלוֹם), dove però il verbo è al futuro: sarà la giustizia a fare la pace.

Io non so davvero quale idea di giustizia abbiate voi. A me pare evidente che il primo di tutti i diritti sia, per dirla con Victor Jara, quello di vivere in pace. Ed derecho de vivir en paz. Jara è stato vittima, insieme a Salvador Allende e a innumerevoli altri cileni, dell’imperialismo americano. Schifoso, schifosissimo. Come schifoso, schifosissimo è oggi l’imperialismo di Putin. La base della nonviolenza italiana è l’antifascismo. Come è possibile non accorgersi, oggi, che Putin è fascista? Come è possibile essere così distratti, da non vedere quello che è scritto nero su bianco, ad esempio nei libri di Dugin? Nel putinismo tornano a galla tutti gli elementi del nazifascismo che credevamo di aver espulso dalla storia: il rigetto del mondo moderno di Julius Evola, il tradizionalismo religioso e l’esaltazione del Medioevo, il principio di gerarchia e il culto della violenza; e ai deliri esoterici del nazismo corrispondono i deliri della nuova cronologia di Fomenko.

Sarei felice se gli ucraini scegliessero la via della nonviolenza. Non posso avere però la certezza che questa scelta consentirebbe al Paese di mantenere la propria libertà ed indipendenza. Non credo in Dio, non ho la fede nella Provvidenza; anche se fossi credente, del resto, rifletterei sul silenzio di Dio ad Auschwitz. Né credo che esistano leggi della storia. Nella storia può succedere di tutto, compreso il ritorno del nazismo. Soprattutto, non ho alcun diritto di criticare la resistenza armata degli ucraini. Perché non ci sono io, sotto le bombe, né la mia famiglia, né mio figlio; e so con assoluta certezza che per difendere la vita di mio figlio potrei uccidere. Il diritto di difendersi quando si è aggrediti è un diritto naturale che nemmeno Gandhi si è mai sognato di negare. Proponeva l’alternativa nonviolenta, ma preferiva di gran lunga un popolo che resiste in armi a un popolo che accetta l’oppressione senza reagire.

La questione centrale, oggi come ieri, è quella dell’efficacia. Che è anche la questione che separa e distingue il pacifismo dalla nonviolenza. Il pacifismo afferma il valore della pace e condanna la guerra. La nonviolenza va oltre: cerca mezzi efficaci per perseguire obiettivi politici. Ora, è evidente che non esistono, al momento, alternative efficaci alla resistenza armata in Ucraina. Mi spiace dirvelo, ma il vostro comunicato con il quale annunciate “due iniziative concrete” quali la citata campagna di obiezione alla guerra e “la presenza domenicale all’Angelus in Piazza San Pietro a Roma”, concludendo poi, soddisfatti, con un becero “fatti, non parole”, mi ha strappato un sorriso amaro. Mi è tornata in mente una citazione di Günther Anders che trovai in un libro di Christoph Türcke letto negli anni Novanta. Türcke contestava la convinzione che marciare per la pace significhi davvero fare qualcosa per la pace: “atteggiamento che ha dato occasione a Günther Anders di rilevare come, per quel che lo riguarda, stare in silenzio o mangiare ininterrottamente panini al prosciutto sia in sostanza la stessa cosa” (Violenza e tabù, Garzanti, Milano 1991, pp. 28-9). Non ero d’accordo, allora, né lo sono ora, ma davvero iniziative concrete come assistere all’Angelus non mi sembrano troppo diverse dal mangiare panini. (Peraltro, e per inciso, la scelta di far portare la croce ad una donna ucraina e ad una donna russa durante la Via Crucis rivela una strana concezione della riconciliazione. Che è cosa complessa e difficile, e richiede, intanto, che il conflitto sia terminato e che l’aggressore abbia ammesso le sue colpe e chieda perdono all’aggredito. Riconciliare simbolicamente aggressore ed aggredito mentre l’aggressione è ancora in corso è un insulto alla vittima.)

Non sono d’accordo con Türcke perché mi pare che trascuri una cosa che era invece chiara già a Tolstoj: il potere dell’opinione pubblica. Che è un potere esposto ad ogni manipolazione, e tuttavia resta un potere reale. Non è un caso che Putin investa molto, e da tanti anni, nella disinformazione e nella diffusione di fake news, così come non è un caso che la Cina operi nella direzione del soft power. So che un vasto movimento di opinione può non fermare la guerra, ma di certo ostacola i piani dell’aggressore.

Sono consapevole che non si può chiedere al piccolo Movimento Nonviolento italiano di risolvere la crisi ucraina. Ma questo potrebbe farlo: andare in piazza a dire che ci sono un aggressore e un aggredito e che l’aggressore deve cessare la sua violenza. Senza nessuna ambiguità. Basterebbe questo, davvero. Che è quello che i nonviolenti hanno fatto ieri, quando l’aggressore erano gli USA. Oggi che ad aggredire è la Russia, si invoca una complessità che è in realtà la desolante semplificazione di chi legge la storia del secondo decennio del terzo millennio con le categorie geopolitiche degli anni Novanta del secolo scorso. Basterebbe esprimere la propria condanna morale dell’aggressore, invece di una generica condanna della guerra, che mette vergognosamente sullo stesso piano l’occupazione, il massacro di civili, gli stupri e la disperata difesa degli ucraini.

Non invidio le granitiche certezze ostentate in questi giorni dagli amici nonviolenti (o dagli amici della nonviolenza). Satyagraha, lo sappiamo, è forza della Verità. Ma il termine agraha (आग्रह) in sanscrito ha diverse sfumature: indica una forte adesione a qualcosa, la fermezza, la determinazione, ma anche l’ostinazione ottusa. La nonviolenza è esposta a questo rischio: essere la fanatica adesione a una costellazione di valori e di idee che si considerano come Verità, con la maiuscola, e che in quanto tali sono sottratti a qualsiasi discussione critica. Con il risultato che quella complessità che si invoca nella considerazione di un fatto storico viene poi rigettata con sdegno quando riguarda la nonviolenza stessa e la sua storia (non è complessa anche la storia della liberazione dell’India dal dominio inglese?). Un movimento che si ritiene detentore della Verità e che è incapace di qualsiasi autocritica, un movimento che non può essere messo in crisi da nulla, non è un movimento politico: è religione. E non sono sicuro che ci sia bisogno di aggiungere alle tante religioni prodotte dalla bizzarra fantasia umana anche la religione della nonviolenza.

La prassi che manca

La nonviolenza è prassi. Non è una teoria o un insieme di considerazioni edificanti sulla bellezza della pace, dell’amore, dell’armonia. È una via alternativa alla guerra per combattere l’ingiustizia e la sopraffazione. Questo vuol dire che, come la guerra, la sua validità va considerata concretamente: o è efficace, almeno in qualche misura, o non è. Una semplice rivendicazione dei valori della pace, senza alcuna indicazione concreta dei modi per ottenerla, è pacifismo, non nonviolenza.

Ho letto in questi giorni tutto, credo, ciò che hanno scritto sulla guerra in Ucraina i protagonisti della nonviolenza italiana. Alcuni di loro li considero compagni di strada, persone dalle quali ho imparato e imparo molto ogni giorno. In questo caso, ho però l’impressione di una crisi profonda, che non si ha il coraggio di confessare nemmeno a sé stessi. Perché leggo e rileggo, ma non trovo la cosa fondamentale: la prassi. O meglio: una prassi credibile. Trovo invece pratiche ipotetiche per soggetti evanescenti.

Ieri è comparso sul Fatto Quotidiano un articolo di Pasquale Pugliese, del Movimento Nonviolento, e Giorgio Beretta, della Rete Italiana Pace Disarmo, il cui titolo lascia ben sperare: Ucraina, etica della responsabilità e nonviolenza: ecco cosa fare di fronte alla crisi. E invece è emblematico della crisi di cui dicevo. Dopo aver stigmatizzato il pacifismo, che protesta contro la guerre “senza la costruzione per tempo di alternative credibili e praticabili”, gli autori spiegano che la nonviolenza è, appunto, la ricerca di queste alternative. E tuttavia, incredibilmente, alla questione concreta di cosa fare in Ucraina dedicano una decina di righe in conclusione. Nulla più. Una decina di righe nelle quali avanzano due proposte. La prima è: “sostenere attivamente tutti coloro che – all’interno dei due fronti contrapposti – si muovono con l’etica della responsabilità e la forza della nonviolenza: gli obiettori di coscienza, i disertori, i resistenti alla guerra e i dissidenti alla logica bellica i quali stanno pagando in prima persona e a caro prezzo le loro azioni”. La seconda è “imparare da questi errori e intraprendere già da oggi la strada del disarmo e della nonviolenza anziché una nuova folle corsa agli armamenti”. Partiamo da questo secondo punto. Non si tratta, è chiaro, di una proposta per aiutare l’Ucraina. Ma soprattutto, chi considerasse quello che sta accadendo ne trarrebbe le conclusioni esattamente opposte. L’Ucraina ha consegnato nel ‘94 tutto il suo arsenale di armi atomiche alla Russia, ottenendone in cambio l’impegno di non aggressione. Non aiutare oggi l’Ucraina significa una cosa precisa: che ogni Paese, se non vuole condividerne la sorte, farà bene a dotarsi si armi nucleari, in modo da dissuadere eventuali aggressioni; e che il disarmo nucleare è una ingenuità che viene pagata cara.

Quanto alla prima proposta, è da discutere in primo luogo l’equiparazione dei disertori dei due schieramenti. Siamo cresciuti con la retorica del disertore, che aveva qualche senso perché nel nostro immaginario il disertore era chi rifiuta una guerra di aggressore. Abbiamo cantato tutti Le déserteur di Boris Vian, nella versione di Ivano Fossati. “E a tutti griderò / di non partire più / e di non obbedire / per andare a morire / per non importa chi.” Al tempo stesso, cantavamo Bella ciao ed esaltavamo la lotta partigiana. A molti non piace che si paragoni la resistenza ucraina a quella italiana. A me sfugge la ragione, ma non è questo il punto. Di fatto, mettendo insieme i disertori ucraini e quelli russi Pugliese e Beretta stanno dicendo che le due cose, l’aggressione e la resistenza, sono la stessa cosa. E questo è falso, e direi anche eticamente inaccettabile. No, non sono la stessa cosa.

Ma consideriamo i soli obiettori di coscienza e disertori ucraini. Pugliese e Beretta sanno bene, immagino, quale sia la situazione dell’obiezione di coscienza in Russia. Il rapporto 2021 dell’European Bureau for Conscientious Objection, uscito proprio in questi giorni, denuncia la repressione di organizzazioni come Citizen Army Law, accusata di essere agente straniero, e Soldiers’ Mothers, soppressa 1; è appena il caso di ricordare la chiusura da parte di Putin di Memorial, la più importante organizzazione russa per i diritti umani. Sarebbe molto bello se vi fosse in Russia un rifiuto di massa del servizio militare, anche considerate le terribili condizioni dei militari sovietici, documentate da Anna Politkovskaja in La Russia di Putin (Adelphi); ma questo movimento non c’è. Allo stato attuale, non c’è nessuna speranza che il movimento degli obiettori russi, gravemente perseguitato, possa essere efficace per far cessare la guerra o anche solo per ostacolarla.

Che fare, dunque? Rispondere onestamente a questa domanda non vuol dire immaginare una prassi ipotetica. Se Zelensky ordinasse di arrendersi e avviasse una campagna di resistenza nonviolenta e di disobbedienza civile, forse nel lungo periodo la Russia sarebbe costretta a riconoscere nuovamente la libertà e l’autonomia dell’Ucraina. Forse. Ma può anche essere che questa stessa resistenza sia repressa nel sangue, o che si logori con il tempo. La storia è il campo della complessità, e usare il paradigma della resistenza gandhiana agli inglesi, considerandolo valido per ogni contesto e per ogni epoca, è una semplificazione. Soprattutto, quel se è null’altro che fantasticheria. Chiedersi cosa fare in Ucraina significa indicare soggetti e prassi concrete. A me pare che manchino sia i primi che le seconde. Sarei molto felice se qualcuno mi dimostrasse che non così.

[1]  European Bureau for Conscientious Objection, Annual Report Conscientious Objection to Military Service in Europe 2021, Brussels, 21 march 2022, pp. 52-54.

Chi vuole (davvero) la terza guerra mondiale

Bisogna comprendere le ragioni dell’altro, nel caso specifico di quell’altro così poco edificante che è Putin, e uscire da una visione unilaterale del conflitto. Non farlo, assicurano, significa restare in una logica binaria che ci condurrà dritti alla terza guerra mondiale. Occorre, dicono, considerare la complessità dei fenomeni, e dunque anche dei fatti storici.

Complessità è la parola chiave con cui a sinistra – nella sinistra ex comunista, pacifista e nonviolenta, femminista – molti ragionano di conflitto in Ucraina. E cosa vuol dire leggere il conflitto in modo complesso? Vuol dire considerare il ruolo della Nato. Che ha provocato la Russia con la sua espansione nell’Europa dell’est, fino a giungere al punto di rottura. Tutto qui. Che la Nato sia il potere da contestare, gli esportatori di democrazia che di fatto la democrazia l’hanno sempre uccisa, l’abbiamo detto, gridato nelle piazze per anni. Era vero? In parte: se è vero che qualsiasi realtà è complessa, anche quella realtà era più complessa di così. Ma soprattutto tornare oggi, nel 2022, in un mondo completamente diverso, a quella narrazione, vuol dire realmente semplificare, o peggio: travisare la realtà.

Vogliamo considerare la questione ucraina nella sua complessità? Bene. Consideriamo l’holodomor, il genocidio causato da Stalin in Ucraina negli anni Trenta del secolo scorso. Consideriamo i rapporti tra mafia russa e mafia ucraina (lo ha fatto Saviano). Consideriamo i rapporti tra oligarchi russi e oligarchi ucraini. Consideriamo il tentativo interno, in Ucraina, di porre un argine al potere degli oligarchi. Consideriamo la lotta tra Zelensky e il potentissimo oligarca Akhmetov, ma anche i suoi rapporti con Igor Kolomoisky. Consideriamo il fondamentalismo cristiano del patriarca Kirill e la sua influenza su Putin. Consideriamo il fascismo di Alexandr Dugin e il suo rapporto con Putin. Consideriamo tutto questo e decine di altre cose. Resta un popolo sotto le bombe. L’evidenza di un Paese che ne aggredisce un altro non cambia di un millimetro. Come non cambia l’urgenza di aiutarlo.

Ma prendiamo sul serio l’interpretazione. Ammettiamo che la Nato abbia fatto l’errore di provocare la Russia, non rispettando le reciproce sfere di influenza e minacciandola con il suo avvicinamento ai suoi confini. E chiediamoci: che c’entra l’Ucraina? Se le colpe sono della Nato, perché sotto le bombe c’è un Paese che non fa parte della Nato? Aver semplicemente chiesto di entrare nella Nato può essere una ragione sufficiente per bombardare un Paese? La domanda è retorica, e spero che sia considerata tale da tutti i lettori.

Se la colpa è della Nato, la Russia non deve prendersela con l’Ucraina, ma con la Nato. E d’altra parte se la colpa è della Nato, se è stata la Nato a spingere nel baratro l’Ucraina, allora la Nato da parte sua ha il dovere di intervenire, aiutando un Paese di cui ha causato la rovina. Dire che la colpa è della Nato – mi pare che anche questo non sia chiaro – non significa affermare che, come sempre, è tutta colpa degli Stati Uniti. Perché Nato siamo anche noi. E dunque è colpa anche nostra. Putin, a conti fatti, farebbe meglio a prendersela con noi. Del resto il suo ideologo, quell’Alexandr Dugin così caro alla destra italiana, afferma che la guerra è tra la superiore civiltà russa, evidentemente così libera da qualsiasi corruzione, così pura, così spirituale, e la corrotta civiltà occidentale. E il patriarca Kirill la pensa allo stesso modo, anche se temo che non gli piacciano troppo le riflessioni del filosofo sul “sesso degli angeli” e il carattere androgino del suo bizzarro soggetto rivoluzionario.

Se la complessità del conflitto non risiede nell’intreccio di odi, interessi e ideologia che da decenni – e in realtà da secoli – oppone i popoli ucraino e russo, ma nella lotta tra la Nato, rappresentante del neoliberismo occidentale, e la Russia, allora si tratta davvero di uno scontro di civiltà. E, poiché non si tratta propriamente di quel confronto tra visioni del mondo filosofiche che Nietzsche auspicava in quella che chiamava “epoca del paragone”, ma di uno scambio a suon di bombe, il conflitto tra civiltà sarà una guerra mondiale.

Che ne siano consapevoli o meno, quelli che invocano la complessità ricorrono allo stesso schema binario che condannano. Poiché sembra troppo semplice che ci siano un aggressore e un aggredito, un torto e una ragione, contrappongono a un aggressore un Terzo, che in realtà diventa il Secondo. L’Ucraina è fuori scena. Dietro di lei c’è la Nato, dunque l’Occidente. Una simile visione è perfettamente complementare a quella di Putin. Persone come Donatella Di Cesare si figurano le relazioni internazionali come un salotto nel quale si discute amabilmente dei torti e delle ragioni sorseggiando un tè, non prima di aver frequentato un corso intensivo sulla soluzione nonviolenta dei conflitti. Purtroppo il luogo del confronto internazionale è, invece, un ring. E c’è da chiedersi quale sarà, una volta messo su questo ring geopolitico – metafisico, direbbe il patriarca Kirill – il loro ruolo: il ruolo della sinistra ex comunista, pacifista, nonviolenta, femminista. Dalla parte della Nato evidentemente no. Perché la Nato è gli Stati Uniti, è l’Occidente. E l’Occidente è il capitalismo, il neoliberismo. Il male. Staranno con Putin? Qualcuno anche, magari; ma pochi, immagino e spero. Più probabilmente, non staranno da nessuna parte. Diranno che la boxe è una cosa incivile, e chissà chi ce li ha chiamati, questi due, sul ring.

Quale alternativa nonviolenta?

Luigi Manconi, che solo qualche settimana fa era a sinistra l’alternativa etica alla oscena candidatura di Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica, è ora al centro delle polemiche per aver sostenuto su Repubblica (Perché la resistenza armata è etica, 8 marzo 2021) il diritto di resistenza del popolo ucraino, per giunta evocando la resistenza italiana. A stretto giro di posta è arrivata la reazione di Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento, e di Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi.

Valpiana comincia il suo intervento citando Gandhi: “la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che si deve pagare per la sua vittoria è la completa distruzione di coloro che devono godere della libertà”. Da studioso di Gandhi, non cito mai un testo senza la precisa indicazione della fonte. Questo perché quella gandhiana è una riflessione in situazione, che si sviluppa in costante rapporto con gli eventi storici, dai quali non può essere astratta. Ma si tratta anche di una riflessione che prende le mosse da alcuni principi di base, ben chiari e piuttosto stabili nel tempo. Uno dei quali è che occorre lottare contro l’oppressione. Senza questo principio la nonviolenza gandhiana semplicemente non sarebbe nata. Gandhi avrebbe accettato in Sudafrica la condizione cui erano ridotti gli indiani e in India la sottomissione agli inglesi. Il passo citato da Valpiana sembra dire il contrario. Sembra dire che è meglio sottomettersi, arrendersi, accettare l’oppressione, pur di salvare vite umane. Non è questo il pensiero gandhiano. È chiaro che possono esserci situazioni nelle quali il prezzo da pagare per la libertà è troppo alto. Ma è una cosa che occorre valutare caso per caso; e per questo sono fondamentali il contesto storico e il preciso riferimento di quella affermazione.

Continue reading “Quale alternativa nonviolenta?”

Predicare la nonviolenza a chi sta sotto le bombe

“Non è assolutamente accettabile la guerra per conquistare né la libertà né la pace”, ha affermato ieri a Piazzapulita la filosofa Donatella Di Cesare. Lo ha detto a una ragazza Ucraina. Che le ha replicato che “è facile parlare della pace quando è a casa sua”, e che la lezione sulla pace bisognerebbe farla a Putin. E lei, serafica: “La pace vuol dire anche interrogarsi sulle ragioni dell’altro e pensare di poter avere torto”.

Poiché Di Cesare è una filosofa, è bene ricordarle la distinzione, fondamentale in filosofia morale, tra azioni e inazioni necessarie e azioni e inazioni supererogatorie. Le prime sono le cose che è doveroso per tutti fare o non fare. Soccorrere qualcuno che sia in pericolo o abbia avuto un malore è una azione necessaria e doverosa, così come ci si aspetta da tutti che – almeno in condizioni normali – seguano i precetti di non rubate o non uccidere. Le azioni o inazioni supererogatorie sono moralmente appezzabili, ma non doverose. Se è doveroso soccorrere chi sta male, non lo è salvare qualcuno al prezzo della nostra stessa vita. Se qualcuno lo fa, lo apprezziamo, lo consideriamo in qualche modo un eroe morale, proprio perché ha fatto più di quello che è ragionevole chiedere a qualcuno. L’etica evangelica della nonviolenza – il porgere l’altra guancia, la non resistenza al male – è interamente supererogatoria. Ci si può chiedere se diventi obbligatoria per chi si dichiara cristiano, o se ci si possa legittimamente dichiarare cristiani senza posizionarsi a quel livello morale, ma è indubbio che non si può chiedere a chiunque di porgere l’altra guancia.

Continue reading “Predicare la nonviolenza a chi sta sotto le bombe”