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Raimon Panikkar |
Per Panikkar, l’essere è quello che è, e non c’è nulla da dire. Non esiste un altro essere, in base al quale criticare questo essere. “Ciò che deve essere è, dunque, subordinato a ciò che è” (1). Questo essere che è come deve essere è qualcosa che trascende le distinzioni ordinarie di bene e male. E tuttavia fonda la pace. Pace è “un benessere (star bene) nell’Essere” (2).
Per Capitini vale l’esatto contrario. L’essere non è bene, perché è attraversato dalla violenza. L’essere può e dev’essere giudicato. In base a cosa? Il base a questo-ente-qui ed all’amore che provo per lui. L’essere è ciò che travolge i singoli enti; ma l’amore mi dice che questo-ente-qui, che amo, ha un valore assoluto. Dunque l’essere distrugge il valore: e come tale è male. Il bene non sta dalla parte dell’essere, ma in un altro essere, in un contro-essere (e contro-Dio): la compresenza.
In Panikkar abbiamo una fondazione metafisica dell’etica (e della politica): la percezione dell’essere precede la prassi. In Capitini abbiamo una fondazione etica (e politica) della metafisica: la prassi apre e rende possibile una diversa percezione dell’essere.
Panikkar considera violenta una concezione escatologica:
Un Dio unicamente trascendente, un Dio situato solo alla fine della storia, del tempo o dell’universo, è stato, per lo più, il Dio belligerante di molte religioni, nonostante le proteste dei mistici e le sottigliezze dei filosofi. Questo Dio escatologico, che accoglie solo i pochi vincitori che sono giunti alla meta, non è un Dio di pace, ma di guerra. (3)
Per Capitini, l’escatologia è aspetto irrinunciabile di una metafisica pratica della nonviolenza. L’essere, che è violento, sarà vinto e piegato dal bene; il bene è più forte dell’essere, e giungerà a trasfigurarlo. Ma questo momento finale non sarà il momento in cui pochi si salvano. Per Capitini la salvezza sarà di tutti, o non sarà autentica salvezza: ed è questo uno dei punti fondamentali della sua critica alla Chiesa cattolica.
Panikkar e Capitini sono concordi nella critica alla trascendenza. Per Panikkar Dio “non è solo alla fine né solo al principio, ma in tutti i in ciascuno dei momenti del fluire temporale” ed è “immanente a tutto e a tutto trascendente” (4). Per Capitini, Dio è assolutamente immanente. Egli sta nell’intimo, ma in un’intimo che si apre: è lì dove io amo infinitamente (e Dio è in questo avverbio) un tu – che può essere un altro essere umano, un animale o una pianta. Pensare Dio come trascendente è la via per fondare tutte le autorità terrene: è la via del potere, non dell’amore.
Panikkar e Capitini parlano un linguaggio comune quando si tratta di prassi politica. Per Capitini ogni tu (anche il nemico) va amato di amore infinito, ma un’attenzione particolare va agli esclusi, agli emarginati, ai malati, ai folli: a tutti coloro che sono al margine della vita (e, infine, a coloro che ne sono esclusi: i morti). Per Panikkar c’è una opzione fondamentale per i poveri, per i sofferenti e gli oppressi, che giustifica come una protesta contro una cosmologia evoluzionista, che comporta una certa selezione naturale, lasciando indietro i più deboli. Ma questa opzione, che ha anche “un significato cosmico-storico”, non è solo alternativa ad una interpretazione politico-filosofica dell’essere e della sua vicenda: “L’opzione per i poveri equivale alla ribellione dell’uomo di fronte a tutte le forze cieche della natura e della storia” (5). Capitini avrebbe sottoscritto ogni parola. Ma: le forze cieche non fanno parte dell’essere? Non sono essere? In base a cosa giudicare cieche, dal punto di vista di Panikkar, le forze della natura se, come dice, noi non conosciamo che questa natura? Parlare di forze cieche della natura non vuol dire contrapporre un dover essere all’essere?
(1) R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, tr. it., Rizzoli, Milano 2003, p. 36.
(2) Ivi, p. 119.
(3) Ivi, p. 139.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 141.