Siena e i fronteggiamenti

Non ho mai amato andare dal barbiere. Vuol dire stare davanti a uno specchio per molto tempo, e per me gli specchi sono una tortura. Da ragazzino attenuavo l’ansia andando da Franco, il barbiere all’angolo, che era quasi uno di famiglia. E quasi uno di famiglia era Adolfo, il suo garzone di bottega. Abitava proprio di fronte a casa mia ed eravamo cresciuti insieme.

Adolfo è morto a vent’anni. La sua fidanzatina gli riferì un giorno che un tale l’aveva infastidita. Lui fissò un appuntamento con il tale e, come chiedeva la cultura del luogo, si presero a botte. Fu colpito da un pugno in un occhio. Perse i sensi. Morì qualche ora dopo in ospedale. Per quello che ne so sua madre – sono passati decenni – veste ancora di nero.

A Siena una sentenza che i giornali definiscono storica ha assolto ventisette contradaioli per la rissa in piazza alla fine del Palio di agosto del 2015; altri tre contradaioli sono stati condannati a multe dai seicento euro in giù. Non è possibile conoscere la motivazione della sentenza, che sarà depositata tra novanta giorni. Ma intanto i senesi – o meglio: i contradaioli – esultano. Sicuri che quella sentenza avalli il loro teorema: quelle in piazza durante il palio non sono volgari risse, ma nobilissimi fronteggiamenti, che fanno parte della cultura e dell’identità senese, e che come tali sono incensurabili; e processare dei contradaioli che si picchiano vuol dire, pertanto, attaccare Siena.

Ora, che un tale teorema non stia in piedi non occorre troppo acume per dimostrarlo. I pretesi fronteggiamenti non sono scazzottate alla Bud Spencer, alla fine delle quali tutti si rialzano freschi come una rosa. Non sono scontri ritualizzati, messi in scena secondo qualche antica ed innocua arte marziale. Sono botte. Botte a causa delle quali qualcuno potrebbe un giorno non rialzarsi da terra. Ritenere che queste botte facciano parte dell’identità di Siena e siano parte integrante, ineliminabile, del Palio, vuol dire offendere Siena, il Palio e le contrade, che hanno valori ben più alti da mostrare al mondo. Ed è del tutto evidente, poi, che riconoscere una attenuante culturale in un caso di rissa o di violenza – se di questo si è trattato: ma bisogna leggere le motivazioni della sentenza – significherebbe introdurre un precedente pericolosissimo. Perché non riconoscere, ad esempio, una simile attenuante anche nel caso delle violenze negli stadi? Non potrebbero i tifosi di una squadra di calcio richiamarsi in modo simile alla tradizione, alla cultura, alla passione calcistica?

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org