Quel che resta della nonviolenza

Su MicroMega intervengo ancora sulle posizioni della nonviolenza italiana di fronte alla guerra in Ucraina. E mi chiedo intanto che fare della nonviolenza. Che fare, cioè, di oltre vent’anni di studi e, forse, di passione.

La mia porta d’accesso a ciò che chiamiamo nonviolenza è stato Aldo Capitini. Era l’inizio degli anni Novanta. Trovai per la prima volta il suo nome in un numero di una rivista dedicato agli irregolari della filosofia italiana in cui cercavo un articolo su Giuseppe Rensi. Filosoficamente, mi pare che Capitini cominci in effetti dove finisce Rensi. Il filosofo genovese giunge al dramma del contrasto tra la nostra urgenza morale e l’evidenza di un mondo che non è che atomi e vuoto; di qui la semplice constatazione del suo Testamento filosofico (“Atomi e vuoto e il Divino in me”), ma anche l’ipotesi azzardata della Morale come pazzia: se c’è qualcosa là fuori oltre agli atomi e al vuoto, allora la mia urgenza morale non sarà stata follia. Una conclusione che mi sembrò – e mi sembra – un passo indietro rispetto alla posizione, atea eppure spirituale, delle Lettere spirituali: posizione di attraversamento dell’ego, che è la costante del pensiero di Rensi. Capitini risolve quel contrasto nell’orizzonte di una filosofia pratica. Non è tutto atomi e vuoto. C’è dell’altro: c’è la compresenza, un mondo in cui ogni vita resta, in eterna, affratellata ad ogni altra vita. Ma – è qui l’originalità di Capitini, ma anche ciò che l’ha condannato all’incomprensione – questo mondo propriamente non esiste. Non è tra le cose verificabili, semplicemente presenti; non è una realtà metafisica, un mondo al di sopra del nostro in cui credere; e non è nemmeno una dimensione futura, un Regno che certamente si realizzerà. È il mondo al quale qui e ora apparteniamo con la scelta morale di non uccidere, anzi con l’atto rivoluzionario di ribellarci alla logica stessa del reale, che è quella della distruzione universale.

C’è insomma in Capitini una ribellione contro la realtà che è anche ribellione contro Dio, se con Dio intendiamo l’origine di questo mondo. Capitini e Ferdinando Tartaglia compiono il gesto anarchico di pensare Dio dall’altra parte: non dall’origine, ma dalla fine; non come ciò da cui scaturisce il mondo, ma come ciò in cui esso si dissolve.

Vi sono questi temi filosofici, di ieri e di oggi, nel mio stare nella nonviolenza. C’è il no alla realtà. C’è il disgusto per la vitalità degli squartamenti. Su un piano più concretamente politico, in Capitini ho trovato una risposta importante a quella crisi della democrazia italiana che negli anni Novanta era già evidentissima. Risposta che era nell’idea dell’omnicrazia, ma soprattutto nella pratica del dialogo. C’è democrazia se c’è potere diffuso. E c’è potere diffuso solo in una società dialogante.

Negli ultimi decenni la crisi della democrazia italiana è diventata sempre più evidente. La prima Repubblica ha lasciato il posto alla seconda, ma le dinamiche politiche e sociali hanno continuato a dare il potere a soggetti di cui è difficile dire qualsiasi cosa senza incorrere nel reato di diffamazione – ma parlano, almeno in parte, le sentenze dei giudici. Ma non sono solo ulteriormente degenerati i partiti. Anche la vita sociale s’è ulteriormente incancrenita, e lo spostamento di buona parte del confronto interpersonale sui social network ha fatto il resto. Dovrei dire, dunque, che Capitini è stato sconfitto. Che resta davvero poco della sua idea di una democrazia come pratica del dialogo. Non posso ammetterlo, tuttavia. Perché ammetterlo quello vuol dire smettere di avere qualsiasi fiducia nella democrazia. Non c’è democrazia senza dialogo. Se il dialogo è difficile, occorre lavorare perché sia meno difficile. Ricominciando sempre da capo.

Per me che insegno, è questo il lavoro politico da fare nella scuole. E questa è una delle cose che restano della nonviolenza: il lavoro per una scuola dialogica, per la costruzione di uno spazio pubblico in cui si possano formare le persone alla democrazia autentica. Un lavoro che si scontra quotidianamente con la struttura ancora autoritaria, gerarchica e trasmissiva della scuola italiana.

L’altra cosa che resta è il lavoro culturale. La violenza ha diverse dimensioni. Vi sono la violenza fisica, verbale, psicologica. C’è la più sottile violenza strutturale. E c’è la violenza culturale, che mi pare essere la dimensione decisiva. È questa la dimensione che fa sì, per usare il noto esperimento mentale di Mencio, che di fronte a un bambino che sta per cadere in un pozzo non ci limitiamo a restare impassibili, ma esultiamo. Esultiamo se quel bambino è un nemico. E la costruzione del nemico è sempre il risultato di una visione culturale.

Questo mi sembra dunque urgente. Capire le cause culturali della violenza. Lo sto facendo, ad esempio, lavorando ad un libro, che spero di riuscire a concludere prima o poi, sul Diavolo, in cui sostengo che è stata appunto la creazione di questo Nemico assoluto ad aver fatto del cristianesimo una religione violenta: perché un essere umano, una volta associato al Diavolo, non è più un essere umano. La demonizzazione dell’altro è dietro tutte le violenze del cristianesimo, ma è ancora pienamente operante – nella Russia di Putin e Kirill, ma non solo.

Questo lavoro, per quel poco che può valere, si pone per me in continuità con quello di Capitini. Che è stato un critico rigoroso del cristianesimo e della Chiesa cattolica, compresa la Chiesa del Concilio (Severità religiosa per il Concilio, 1966), benché questo aspetto sia scomparso del tutto nel Movimento Nonviolento di Mao Valpiana. Operazione che naturalmente consente al Movimento Nonviolento l’abbraccio fraterno del mondo cattolico, ma che smarrisce uno degli aspetti più rilevanti e politicamente significativi dell’azione del suo fondatore.

Foto di Sunguk Kim su Unsplash

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org